Ratzinger ad Assisi venticinque anni dopo sulle orme di Wojtyla
Venticinque anni dopo il raduno interreligioso per la pace convocato nel 1986 ad Assisi da Giovanni Paolo II, oggi il suo successore ripete quel gesto. Benedetto XVI, insieme a circa 300 esponenti delle diverse tradizioni religiose, dai buddisti agli induisti, dai musulmani agli scintoisti giapponesi, salirà alle otto di questa mattina sul treno, un convoglio speciale che partirà dalla stazione del Vaticano, per raggiungere la città di San Francesco. La riedizione ratzingeriana dei meeting interreligiosi di Papa Wojtyla ha come titolo: «Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo» e presenta più di una novità. Quella più significativa è la presenza di alcuni atei, che hanno accettato l’invito del Pontefice.
Quando lo scorso gennaio, a sorpresa, Benedetto XVI annunciò di voler celebrare l’anniversario del primo raduno wojtyliano, non mancarono le critiche, anche dentro la Chiesa. Non s’inalberarono soltanto i tradizionalisti seguaci di Lefebvre, che considerano questo tipo di incontri un’umiliazione per la Chiesa cattolica. Anche tra i «ratzingeriani» ci fu chi fece notare al Papa che sarebbe uscito dai binari del suo stesso pontificato, temendo interpretazioni sincretistiche, con le religioni che finiscono per equivalersi.
Ad Assisi 1986 erano in primo piano la preghiera e i rappresentanti delle varie religioni vennero ospitati per celebrare i loro differenti culti in chiese cattoliche. Vi furono sbavature dovute all’organizzazione non impeccabile, che impensierirono Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e assente all’incontro. L’ultimo raduno interreligioso del pontificato di Giovanni Paolo II si tenne sempre ad Assisi nel gennaio 2002, subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle e allora il cardinale Ratzinger, invitato personalmente dal Pontefice, salì sul treno con i leader delle varie religioni. Al suo ritorno spiegò sul mensile «30Giorni» il significato di quel gesto: «Non si è trattato di un’autorappresentazione di religioni che sarebbero intercambiabili tra di loro. Non si è trattato di affermare una uguaglianza delle religioni, che non esiste. Assisi è stata piuttosto l’espressione di un cammino, di una ricerca, del pellegrinaggio per la pace che è tale solo se unita alla giustizia».
L’aspetto del pellegrinaggio comune, più che quello della preghiera, sarà enfatizzato nella giornata di oggi, proprio per evitare interpretazioni sincretistiche. I musulmani presenti saranno 48, più che nelle precedenti edizioni malgrado l’assenza dei rappresentanti dell’università di AlAzhar del Cairo, il principale centro intellettuale dell’islam sunnita, che o scorso gennaio ha interrotto i contatti con il Vaticano dopo che il Papa aveva invocato un intervento della comunità internazionale per proteggere i cristiani in Egitto. Assente – giustificato – il Dalai Lama. Mentre ci saranno il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I e una delegazione del patriarcato di Mosca.
La novità più importante e sorprendente è la presenza di alcuni non credenti. Una di loro, Julia Kristeva, interverrà davanti al Papa e agli altri leader religiosi affermando: «Per la prima volta, l’homo sapiens è in grado di distruggere la terra e se stesso in nome delle proprie credenze, religioni e ideologie». Mentre tra gli impegni sottoscritti nell’incontro conclusivo, c’è quello che sarà letto dal vescovo luterano di Terra Santa Mounib Younan: «Noi ci impegniamo a proclamare la nostra ferma convinzione che la violenza e il terrorismo contrastano con l’autentico spirito religioso e, nel condannare ogni ricorso alla violenza e alla guerra in nome di Dio o della religione, ci impegniamo a fare quanto è possibile per sradicare le cause del terrorismo».
di Andrea Tornielli
in “La Stampa” del 27 ottobre 2011
Religioni, il dialogo passa dal bene
di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 26 ottobre 2011
Nella giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo indetta da papa Benedetto XVI si possono scorgere, accanto a una sostanziale continuità con l’iniziativa di Giovanni Paolo II nel 1986, qualche accento di novità. A questa giornata, infatti, sono convocate anche personalità del mondo della cultura che non si professano religiose; inoltre, l’incontro è intitolato «Pellegrini della verità, pellegrini della pace», mettendo così in rilievo come la ricerca della verità sia essenziale perché vi possa essere una ricerca della pace.
Quanti presumono di conoscere Benedetto XVI e lo additano sovente come «correttore» dei suoi predecessori hanno gridato al tradimento e alcuni di loro si sono persino rivolti a lui con lettere che lo invitavano a cancellare questa iniziativa. I tradizionalisti scismatici esprimono la loro condanna, e lo stesso fanno anche alcuni cattolici che temono l’evento perché lo giudicano un incoraggiamento al sincretismo o al relativismo, secondo il quale tutte le religioni si equivalgono. Così ancora una volta nella nostra Chiesa, sempre più divisa e conflittuale, si profilano accuse e contrapposizioni che segnano con la diffidenza ogni iniziativa e la rendono occasione per una negazione di chi, lungi dall’avere un’altra fede, semplicemente appare con diversità di stile, di toni, di atteggiamenti pastorali, di modi di porsi ella storia e in mezzo agli uomini.
Al di là delle reazioni anche scomposte, la volontà di Benedetto XVI di fare proprio lo spirito di Assisi conferma il cammino di dialogo voluto dal Vaticano II e mostra come la Chiesa cattolica abbia la consapevolezza di una missione veramente universale: una missione, cioè, che riguarda tutti nel rispetto del cammino e delle vie religiose di ciascuno, nella convinzione che tutti gli uomini sono fratelli perché figli di un unico Padre e Creatore e che a nessuno di loro potrà mai essere estraneo il mistero pasquale di Gesù. Va anche detto che molti timori riposano su un fondamentale malinteso: si presume che il dialogo richieda di mettere da parte la propria fede e dimenticare la verità. In realtà, il dialogo implica un’autentica reciprocità, chiede di ascoltare l’altro e la sua fede con rispetto ma, nello stesso tempo, di parlare con parresía della propria fede. Il dialogo interreligioso esige che ciascuno dei due partner conosca la propria tradizione e le resti fedele, che sia un testimone della propria fede senza la pretesa di imporla all’altro. Il dialogo, se ben compreso, fa addirittura parte dell’evangelizzazione, perché è solo dialogando in modo autentico che si assume lo stile di Gesù, lo stile del Vangelo, quello dei discepoli inviati tra le genti.
Il cammino del dialogo è un percorso coerente con la grande tradizione della Chiesa. Fin dai primi secoli i padri della Chiesa, interrogandosi sulle diverse tradizioni religiose in mezzo alle quali i cristiani erano una realtà nuova e minoritaria, discernevano i semina Verbi, cioè la presenza di «semi della parola di Dio», di tracce dello Spirito Santo, di raggi di verità. In tutte le realtà, in tutta la storia ha sempre operato la parola di Dio e insieme a essa, mai da essa dissociato, lo Spirito di Dio; con l’incarnazione, poi, è Dio stesso che si è fatto uomo, carne, e ha abitato in mezzo a noi. La Parola ha sparso i suoi semi di vita nelle culture di tutte le genti, semi che inizialmente sono nascosti ma che poi si sviluppano e appaiono nella storia, nelle diverse culture. Detto altrimenti, Cristo è la verità unica, ma raggi della sua luce si trovano in ogni essere umano, creato da Dio a sua immagine e somiglianza. Verità, queste, mai smentite, che hanno condotto Paolo VI a constatare che «le religioni … hanno insegnato a pregare a intere generazioni», mentre Giovanni Paolo II attestava: «Noi possiamo ritenere che ogni preghiera autentica è suscitata dallo Spirito Santo che è misteriosamente presente nel cuore di tutti gli uomini».
Ma a quali condizioni è possibile convocare credenti di diversa fede e religione a pregare per la pace? Quando fu organizzato l’incontro del 1986, in risposta alle diverse contestazioni sollevate nei confronti dell’iniziativa papale si affermò con insistenza che il pellegrinaggio ad Assisi non era voluto per «pregare insieme», ma per «stare insieme per pregare». In tal modo si è ribadita l’impossibilità di una preghiera comune, perché questa è possibile solo tra cristiani di diverse confessioni, che riconoscono il Dio trinitario e confessano come unico salvatore Gesù Cristo. I cristiani non possono fare proprie le formulazioni di preghiera di altre religioni e, reciprocamente, gli altri non vorrebbero certo adottare le preghiere cristiane. La preghiera, eloquenza della propria fede, ci chiede di pregare insieme come cristiani che confessano la fede espressa nel Credo apostolico; ci chiede anche di pregare insieme tra ebrei e cristiani (almeno attraverso i salmi), figli gemelli dell’Antico Testamento che confessano lo stesso Dio e attendono da lui la piena redenzione.
Ci è però impedito di fare una preghiera comune e pubblica con credenti di altre religioni: l’unica cosa che è sempre possibile condividere con tutti è un silenzio adorante vissuto gli uni accanto agli altri, nella certezza che Dio vede, unisce, accoglie ciò che sale dal cuore umano come desiderio di bene e di salvezza. Dio conosce chi cerca il suo volto: lui certo vede e crea una comunione che noi non possiamo né misurare né riconoscere. Tuttavia, come ricordava Giovanni Paolo II nel discorso alla curia romana nel 1986, coscienza e fede ci dicono che «c’è un solo disegno divino per ogni essere umano che viene a questo mondo, un unico principio e fine», perché «le differenze sono un elemento meno importante rispetto all’unità che invece è radicale, basilare e determinante».
Noi cristiani crediamo che Gesù Cristo è l’unico salvatore, l’unico mediatore e l’unico Signore degli uomini, ed è proprio questa fede in lui che ci spinge verso gli uomini del mondo, delle diverse culture e religioni, con grande simpatia, con il desiderio di ascoltare ciò che brucia nel loro cuore, con il desiderio anche di imparare da loro, nel dialogo e nel confronto schietto, libero, capace di reciproca accoglienza. Non siamo degli ingenui ottimisti ma, anzi, è con fatica che cerchiamo di assumere i sentimenti, gli atteggiamenti e i pensieri di Gesù, lui che ha voluto incontrare tutti: sani e malati, giusti e peccatori, ricchi e poveri, ebrei e appartenenti alle genti, persone con la fede in Dio o che non conoscevano Dio. Gesù non ha mai giudicato né condannato nessuno, si è addirittura seduto alla tavola degli impuri, dei peccatori e dei maledetti: e come potremmo noi, suoi discepoli, rifiutarci di accogliere qualcuno dei nostri fratelli e sorelle in umanità?
Sì, noi uomini e donne siamo tutti ciechi in cerca di essere guariti, zoppi che faticano ad andare avanti, balbuzienti nel parlare a Dio, spesso sordi nell’ascoltarlo. Siamo pellegrini in cerca della verità, della giustizia e della pace: tutti invochiamo e attendiamo la salvezza, quella «salvezza [che] non sta nelle religioni in quanto tali, ma è collegata con esse, nella misura in cui portano l’uomo al Bene unico, alla ricerca di Dio, alla verità e all’amore».
Il testo è la lectio magistralis che Enzo Bianchi terrà oggi ad Assisi alla vigilia della preghiera per la pace con il Papa.
“Io, ateo, invitato dal Papa”
intervista a Andrés Beltramo Alvarez, a cura di La Stampa
in “La Stampa” del 27 ottobre 2011
Senza gli «atei» mancherebbe qualcosa nell’incontro ad Assisi. Parola del filosofo messicano Guillermo Hurtado, 48 anni, il membro più giovane della delegazione dei quattro non credenti che partecipa alla Preghiera per la Pace. Con lui i saranno Julia Kristeva, filosofa e psicoanalista francese; Remo Bodei, storico dell’Università di Pisa; e Walter Baier, economista austriaco membro del partito comunista. La riunione voluta dal Papa, per Hurtado, non è più «interreligiosa», perché per la prima volta coinvolge tutta l’umanità.
Cosa ci fa un agnostico in questo pellegrinaggio?
«Accompagna i credenti nella ricerca della verità e della pace, come ha detto Benedetto XVI. Si tratta di una ricerca condivisa dall’umanità, nella quale un agnostico, e anche un ateo, possono partecipare con fiducia e convinzione piena».
Questa sarà la prima volta per i «non credenti» negli incontri di Assisi. Come interpreta la novità?
«Come parte di una vocazione universale della Chiesa cattolica, perché un incontro di soli credenti, che lascia fuori quelli che non lo sono, non sarebbe un riflesso delle aspirazioni comuni dell’umanità. Dobbiamo promuovere il dialogo tra credenti e non credenti in questo momento della storia, nel quale siamo sommersi in una crisi molto grande, per trovare soluzioni comuni ai problemi comuni».
Ci sono molti tipi di «non credenti»: agnostici, atei e ostili. C’è posto per tutti ad Assisi?
«È un ventaglio, che va dagli atei belligeranti giacobini (che pretendono di cancellare la religione), fino agli agnostici aperti alle manifestazioni della religiosità che cercano risposte spirituali. Non è possibile mettere tutti i non credenti nella stessa categoria. Quello del Papa non può essere preso come un invito per tutti: lo considero come un invito individuale, per stabilire un dialogo con alcuni non credenti».
L’anglicano Williams: silenzio e povertà, in ascolto di Francesco
di Rowan Williams, arcivescovo di Canterbury
in “Avvenire” del 27 ottobre 2011
Per san Francesco d’Assisi, il presupposto di ogni dialogo era la povertà. Intendo riferirmi a tutto il ministero di Francesco. Non si può parlare di dialogo senza includere l’ascolto reciproco, e non si può prestare ascolto senza ammettere una qualche forma di povertà interiore, come la povertà del silenzio, che ci serve per ascoltare le parole dell’altro, e la povertà di riconoscere che l’altro può donarci qualcosa di cui abbiamo bisogno. Povertà di spirito vuol dire rimanere in silenzio affinché l’altro – che si tratti dell’ambiente fisico, del mondo animale, del credente di fede diversa o del non credente – possa essere ascoltato con sincerità. Non è certo il silenzio del dubbio o del relativismo.
È povertà fondata nella ferma convinzione dell’assoluta realtà di Dio rivelata dal Cristo incarnato e, come dimostra la vita stessa di Francesco, nelle piaghe di Gesù crocifisso. È fondata nel convincimento che l’amore per Dio è saldo e forte abbastanza da superare l’opposizione più intensa e ostinata, che il silenzio dell’amore sollecito fa emergere la verità, e che della verità non si deve aver paura. Negli incontri di Assisi dovremo ascoltare Francesco e chiedergli di pregare per noi. Nel nostro dialogo dobbiamo trovare il coraggio di stare in silenzio insieme: non già perché non abbiamo niente da dire o nessuna verità da condividere, ma in quanto consapevoli, e grati, che Cristo ci ha assicurato un posto nella sua vita e preparato per noi incontri in cui lo ritroveremo e riconosceremo in persone e situazioni diverse. Dobbiamo trovare il modo di parlarci e ascoltarci l’un l’altro in maniera tale da lasciar emergere il logos, quell’energia e interazione che sta alla base di tutto il creato e che sorregge egualmente la giustizia e la contemplazione.
Al passo di due Papi
intervista a Roger Etchegaray a cura di Angelo Scelzo
in “Avvenire” del 27 ottobre 2011
Di Assisi continua a dire che «è la più bella arca di pace che ci sia». Ma 25 anni dopo quell’evento che passò – e così a fondo – per le sue mani, il cardinale Roger Etchegaray tiene a dire anche qualcosa di sé, naturalmente a modo suo: «Non mi sento un combattente un po’ in disarmo di quel primo Assisi. Esiste sempre qualche buona battaglia da combattere, e quella che Papa Benedetto ci indica, con il ritorno nella città del Poverello, non è solo importante ma aiuta a guardare avanti, ai tempi forti che sono già in atto, e che ancor più si profilano per la Chiesa e il mondo. Penso ai 50 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II, al Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione».
Forse bisognerà parlare anche di uno ‘spirito Etchegaray’ visto che, quanto più gli anni avanzano, tanto più sembra dilatarsi lo sguardo al futuro del cardinale delle ‘missioni impossibili’, riconosciuto tessitore di pace ‘armato’ della forza dei mezzi poveri: la capacità di dialogo, il rispetto per l’altro, la chiarezza delle proprie ragioni. Sulle lunghe fasi della preparazione – oltre dieci mesi di incontri, contatti, passi avanti e battute d’arresto – la preoccupazione è di spostare il tiro da un protagonismo personale: «Di allora mi viene in mente soprattutto l’inusuale consuetudine di rapporti con il Santo Padre: per me è stata un’esperienza di personale evangelizzazione. E Assisi fu tutta sua, un’intuizione alla Wojtyla, testa e cuore: la pace come orizzonte ma anche fatica comune delle religioni. Aveva già tutto in mente, a partire dalle obiezioni, che gli si manifestarono subito, alla lettura della proposta – che pure prese in una certa considerazione – di un ‘Concilio mondiale della pace’ avanzata dal fisico tedesco Carl Friedrich von Weizsaecker, fratello dell’allora presidente tedesco. Le accuse di sincretismo non tardarono a manifestarsi, e bisogna dire che Giovanni Paolo II fece di tutto per sgombrare il terreno da equivoci. Ma è vero che si manifestarono anche perplessità di una certa parte del mondo cattolico, che si trovò di fronte a un cambio di passo che non si aspettava».
È per questo allora che nel venticinquennale si parla di una ‘nuova Assisi’ riveduta e corretta?
«Non direi. Nella sostanza non esiste niente di mutato. Un accento diverso si può trovare nel valore che Papa Benedetto assegna al dialogo intra-ecclesiale, che riguarda le singole religioni in rapporto a se stesse. Mi sembra un punto fondamentale nella visione del Santo Padre. Ciò spiega il momento della preghiera riservata a ciascuna delegazione, e la particolare importanza attribuita al pellegrinaggio, una strada comune lungo la quale il Papa chiede anche l’apporto degli atei, di coloro che sono in ricerca e che, non di rado, avvertono più di tutti la vicinanza di Dio. Ecco un tratto, già largamente presente in tutto il pontificato, che identifica come ‘tutto di Benedetto’ questo ritorno ad Assisi. L’incontro di 25 anni fa, in ogni sua fase, pose in evidenza le differenze e le convergenze tra l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, e contribuì a far compiere un salto in avanti senza precedenti verso le religioni non cristiane, considerate fino ad allora come di un altro pianeta, nonostante Paolo VI con la Ecclesiam suam e il Concilio con la Nostra aetate ».
Si può trarre ancora qualcosa di nuovo da Assisi 1986?
«Nessun grande evento finisce una volta per sempre. Non possiamo mettere il punto alla storia, e tantomeno a una storia come quella di Assisi che, peraltro, si è sviluppata per capitoli successivi con la convocazione della Giornata di preghiera per l’Europa nel gennaio del 1993 durante il conflitto nei Balcani, e il ritorno nel 2002. Quando la pace cerca un approdo la bussola è sempre orientata in direzione del monte Subasio. Assisi non è solo l’altro nome della pace, la sua novità è sempre in atto».
Da quei giorni del 1986 la traduzione ricorrente è quella dello ‘spirito di Assisi’, che per qualcuno equivale a una formula di successo, o poco più…
«Si è cominciato da allora a parlare e a prendere coscienza in maniera sempre più consapevole della ‘famiglia umana’ e delle responsabilità che a essa spettano, prima fra tutte la pace. Si potrebbe parlare anche in questo caso di una semplice formula. Ma il problema è la sostanza.
E se si ritorna ad Assisi, a distanza di 25 anni non è certo per fare semplice memoria di un evento passato. Non è questo l tempo per rivisitazioni più o meno celebrative. Anzi, credo sia giusto dare merito a chi nel corso di questo non breve arco di tempo ha fatto in modo che lo ‘spirito di Assisi’ continuasse a soffiare in ogni parte del mondo. Penso, in particolare, alle Giornate della Pace della Comunità di Sant’Egidio, l’ultima delle quali svolta in coincidenza con l’anniversario di Assisi a Monaco, nella città dell’episcopato di Papa Benedetto»,
Qual è allora il senso di questo nuovo incontro a distanza di un quarto di secolo?
«Ecco, l’ha detto: un quarto di secolo. Contare gli anni toglie spessore e, in un certo senso, mette in ombra il dato fondamentale: più che Assisi, è cambiato il mondo. E anche la Chiesa vive una sua stagione diversa e tutta nuova, guidata dalla sapienza di un uomo di Dio che s’è dato e ha affidato a tutti noi il compito essenziale di annunciare l’Essenziale: il Dio che salva, ma che pure lascia a noi la libertà di impastare la storia con le nostre mani. Venticinque anni fa il mondo era ancora diviso in blocchi: il muro spezzava Berlino e non solo; di globalizzazione non parlava ancora nessuno e Internet con le nuove tecnologie informatiche muoveva appena i primi passi. Anche la pace si divideva in campi ben delineati, e non ancora attraversati con l’irruenza che è venuta poi, da quelle nuove forme di sfruttamento e di ingiustizia ramificate, come erba cattiva, accanto a modelli di sviluppo avvelenati alla radice. Sono riapparsi ai nostri occhi scenari che pensavamo appartenessero solo ai fantasmi del passato: traffico di esseri umani, esodi e deportazioni; povertà declinate in tutte le peggiori forme di privazioni. Non solo pane si è arrivati a invocare, ma le più elementari forme di diritti, a cominciare dalla libertà. È spuntata così, con tutti i rischi ancora in atto, la ‘primavera araba’. Assisi di oggi e la Chiesa che vi si reca in pellegrinaggio si trovano a confrontarsi anche con tutte le più drammatiche appendici di guerre e conflitti, che, peraltro, continuano a imperversare. E non occorre certo ricordare che il nuovo millennio si è aperto con lo sfregio delle Torri Gemelle, un attentato così barbaro da macchiare di violenza il tempo nuovo che nasceva: il secondo millennio della nascita di Cristo, che la Chiesa ha celebrato, accompagnata alla soglia e per un breve tratto oltre il varco dalla santità e dalla sapienza di un grande Papa, il beato Giovanni Paolo II. Nel grande pellegrinaggio attraverso la storia, Assisi è solo un piccolo tratto. Ma su questa strada la prima verità è che non esistono passi perduti. Il punto centrale del ritorno ad Assisi mi sembra, in sostanza, proprio questo: la ricerca della verità è di per sé una strada che porta lontano. La prima sosta utile può essere all’angolo del bene comune. È forse arrivato il tempo di piazzarvi una tenda».
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