Comunione e connessione

 Essere “in rete” è un modo di abitare il mondo e di organizzarlo.
La sfida della Chiesa non deve essere quella di come “usare” bene la rete, come spesso si crede, ma come “vivere” bene al tempo della rete.
Internet è una realtà destinata a essere sempre più trasparente e integrata rispetto alla vita, diciamo così, “reale”.
Questa è la vera sfida:  imparare a essere wired, connessi, in maniera fluida, naturale, etica e perfino spirituale; a vivere la rete come uno degli ambienti di vita.
È evidente, dunque, come la rete con tutte le sue “innovazioni dalle radici antiche” ponga alla Chiesa una serie di questioni rilevanti di ordine educativo e pastorale.
Tuttavia vi sono alcuni punti critici che riguardano la stessa comprensione della fede e della Chiesa.
La logica del web ha un impatto sulla logica teologica? Certamente internet comincia a porre delle sfide alla comprensione stessa del cristianesimo.
Quali sono i punti di maggiore contatto dialettico tra la fede e la rete? Proverò quindi a individuare questi punti critici per avviare una loro discussione alla luce anche di palesi connaturalità come anche di evidenti incompatibilità.
La “navigazione”, in generale, è oggi una via ordinaria per la conoscenza.
Capita sempre più spesso che, quando si necessita di una informazione, si interroghi la rete per avere la risposta da motori di ricerca quali “Google”, “Bing” o altri ancora.
Internet sembra essere il luogo delle risposte.
Esse però raramente sono univoche:  la risposta è un insieme di link che rinviano a testi, immagini e video.
Ogni ricerca può implicare un’esplorazione di territori differenti e complessi dando persino l’impressione di una certa esaustività.
Digitando in un motore di ricerca la parola God oppure anche religion, spirituality, otteniamo liste di centinaia di milioni di pagine.
Nella rete si avverte una crescita di bisogni religiosi che la “tradizione” religiosa soddisfa a fatica.
L’uomo alla ricerca di Dio oggi avvia una navigazione.
Quali sono le conseguenze? Si può cadere nell’illusione che il sacro e il religioso siano a portata di mouse.
La rete, proprio grazie al fatto che è in grado di contenere tutto, può essere facilmente paragonata a una sorta di grande supermarket del religioso.
Ci si illude dunque che il sacro resti “a disposizione” di un “consumatore” nel momento del bisogno.
In questo contesto occorre però considerare qualcosa di estremamente interessante:  il possibile cambiamento radicale nella percezione della domanda religiosa.
Una volta l’uomo era saldamente attratto dal religioso come da una fonte di senso fondamentale.
L’uomo era una bussola, e la bussola implica un riferimento unico e preciso:  il Nord.
Poi l’uomo ha sostituito nella propria esistenza la bussola con il radar che implica un’apertura indiscriminata anche al più blando segnale e questo, a volte, non senza la percezione di “girare a vuoto”.
L’uomo però era inteso comunque come un “uditore della parola”, alla ricerca di un messaggio del quale sentiva il bisogno profondo.
Oggi queste immagini, sebbene sempre vive e vere, “reggono” meno.
L’uomo da bussola prima e radar poi, si sta trasformando in un decoder, cioè in un sistema di decodificazione delle domande sulla base delle molteplici risposte che lo raggiungono.
Viviamo bombardati dai messaggi, subiamo una sovrainformazione, la cosiddetta information overload.
Si può evitare, certo, ma occorre ormai molta “buona educazione”, capacità di selezione che non è per nulla scontata.
Il problema oggi non è più quello di reperire il messaggio di senso ma di decodificarlo, di riconoscerlo sulla base delle molteplici risposte che si ricevono.
La grande parola da riscoprire, allora, è una vecchia conoscenza del vocabolario cristiano:  il “discernimento”.
Le domande radicali non mancheranno mai, ma oggi sono mediate dalle risposte che si ricevono e che richiedono il filtro del riconoscimento.
La risposta è il luogo di emersione della domanda.
Tocca all’uomo d’oggi, dunque, e soprattutto al formatore, all’educatore, dedurre e riconoscere le domande religiose vere a partire dalle molte risposte che lui si vede offrire continuamente.
È un lavoro complesso, che richiede una grande preparazione e una grande sensibilità spirituale.
È dunque necessario oggi educare le persone al fatto che ci sono realtà e domande che sfuggono sempre e comunque alla logica del “motore di ricerca”, e che la “googlizzazione” della fede è impossibile perché falsa.
È certamente da privilegiare invece la logica propria dei motori semantici verso i quali ci stiamo muovendo e che aiutano l’uomo a porre domande.
È il caso di Wolfram|Alpha, un “motore computazionale di conoscenza”, cioè un motore che interpreta le parole della domanda, e propone direttamente una sola risposta.
Visto che, al momento, l’unica lingua che comprende è l’inglese, è interessante notare che la risposta alla domanda Does God exist? (Dio esiste?) sia:  “Mi dispiace, ma un povero motore computazionale di conoscenza, non importa quanto potente possa essere, non è in grado di fornire una risposta semplice a questa domanda”.
Lì dove “Google” va a colpo sicuro fornendo centinaia di migliaia di risposte indirette, Wolfram|Alpha fa un passo indietro.
Ovviamente la sua è una risposta scritta da una persona, che avrebbe potuto scrivere anche semplicemente “sì” o “no”.
Qual è il migliore, dunque? Difficile da dire.
Forse una via di mezzo.
La differenza chiara però è che un motore “sintattico”, quale è “Google”, analizza le parole al di fuori del contesto nel quale vengono utilizzate.
La ricerca semantica tenta invece di interpretare il significato logico delle frasi, analizzando il contesto.
Il modo in cui si pone la domanda può influenzare l’efficacia della risposta, e dunque essa deve essere ben posta.
La ricerca di Dio è sempre semantica e il suo significato nasce e dipende sempre da un contesto.
Cominciamo a comprendere come la rete “sfidi” la fede nella sua comprensione grazie a una “logica” che sempre di più segna il modo di pensare degli uomini.
Esploriamo alcuni territori facendo alcuni esempi.
Il primo potrebbe essere quello dell’Ecclesiologia, visto che la rete crea communities.
Non è possibile immaginare una vita ecclesiale essenzialmente di rete:  una “Chiesa di rete” in sé e per sé è una comunità priva di qualunque riferimento territoriale e di concreto riferimento reale di vita.
L'”appartenenza” ecclesiale rischierebbe di essere considerata il frutto di un “consenso”, e dunque “prodotto” della comunicazione.
In questo contesto i passi dell’iniziazione cristiana rischiano di risolversi in una sorta di “procedura di accesso” (login) all’informazione, forse anche sulla base di un “contratto”, che permette anche una rapida disconnessione (logoff).
Il primo ordine di interrogativi nasce dal fatto che internet permette il collegamento diretto col centro delle informazioni, saltando ogni forma di mediazione visibile.
Qualcuno, per fare un esempio concreto, potrebbe chiedersi:  perché devo leggere la lettera del parroco se posso realizzare la mia formazione attingendo materiali direttamente dal sito della Santa Sede? Molti, del resto già, grazie alla televisione, ben conoscono il volto del Santo Padre, ma non riconoscerebbero il vescovo della propria diocesi.
Ma esiste una problematica più profonda di questa, legata al riconoscimento dell’autorità “gerarchica”.
La rete, di sua natura, è fondata sui link, cioè sui collegamenti reticolari, orizzontali, L’unica gerarchia è data dalla popolarità del page rank.
La Chiesa vive di un’altra logica, differente da questa, e cioè quella di un messaggio donato, cioè ricevuto, che “buca” la dimensione orizzontale.
Non solo:  una volta bucata la dimensione orizzontale, essa vive di testimonianza autorevole, di tradizione, di Magistero:  sono tutte parole queste che sembrano fare a pugni con una logica di rete.
In fondo potremmo dire che sembra prevalere nel web la logica dell’algoritmo page rank di “Google”.
Sebbene in fase di superamento, esso ancora oggi determina per molti l’accesso alla conoscenza.
Esso si fonda sulla popolarità:  in “Google” è più accessibile ciò che è maggiormente linkato, quindi le pagine web sulle quali c’è più accordo.
Il suo fondamento è nel fatto che le conoscenze sono, dunque, modi concordati di vedere le cose.
Questa a molti sembra la logica migliore per affrontare la complessità.
Ma la Chiesa non può sposare questa logica, che nei suoi ultimi risultati, è esposta al dominio di chi sa manipolare l’opinione pubblica.
L’autorità non è sparita in rete, e anzi rischia di essere ancora più occulta.
E infatti la ricerca oggi si sta muovendo nella direzione di trovare altre metriche per i motori di ricerca, che siano più di “qualità” che di “popolarità”.
Ma il terzo e più decisivo e generale momento critico di questa orizzontalità è l’abitudine a fare a meno di una trascendenza.
Il punto di riferimento delle dinamiche simboliche dello spazio digitale non è più un’alterità trascendente, ma sono io.
Io sono al centro del mio mondo virtuale che diventa l’unico spazio di realtà, pur non essendo in grado di soddisfare la mia ricerca di verità.
Tuttavia, nonostante i tre ordini di problemi qui illustrati, esiste anche un aspetto importante sul quale riflettere, e che appare oggi di grande importanza:  la società digitale non è pensabile e comprensibile solamente attraverso i contenuti trasmessi, ma soprattutto attraverso le relazioni:  lo scambio dei contenuti avviene all’interno delle relazioni.
È necessario dunque non confondere “nuova complessità” con “disordine”, e “aggregazione spontanea” con “anarchia”.
La Chiesa è chiamata ad approfondire maggiormente l’esercizio dell’autorità in un contesto fondamentalmente reticolare e dunque orizzontale.
Appare chiaro che la carta da giocare è la testimonianza autorevole.
Oggi l’uomo della rete si fida delle opinioni in forma di testimonianza.
Facciamo un esempio:  se oggi voglio comprare un libro o farmi un’opinione sulla sua validità vado su un social network come aNobii o visito una libreria on line come Amazon o Internetbookshop e leggo le opinioni di altri lettori.
Questi pareri hanno più il taglio delle testimonianze che delle classiche recensioni:  spesso fanno appello al personale processo di lettura e alle reazioni che ha suscitate.
E lo stesso accade se voglio comprare una applicazione o un brano musicale su iTunes.
Esistono anche testimonianze sulla affidabilità delle persone nel caso in cui esse sono venditrici di oggetti su eBay.
Ma gli esempi si possono moltiplicare:  si tratta sempre e comunque di quegli user generated content che hanno fatto la “fortuna” e il significato dei social network.
La “testimonianza” è da considerare dunque, all’interno della logica delle reti partecipative, un “contenuto generato dall’utente”.
La Chiesa in rete è chiamata dunque non solamente a una “emittenza” di contenuti, ma soprattutto a una “testimonianza” in un contesto di relazioni ampie composto da credenti di ogni religione, non credenti e persone di ogni cultura.
È chiamata dunque – scrive Benedetto XVI – a “tener conto anche di quanti non credono, sono sfiduciati ed hanno nel cuore desideri di assoluto e di verità non caduche”.
È su questo terreno che si impone l’autorità della testimonianza.
Non si può più scindere il messaggio dalle relazioni “virtuose” che esso è in grado di creare.
Si comprende bene che uno dei punti critici della nostra riflessione è in realtà il concetto di “dono”, di un fondamento esterno.
La rete per la Chiesa è sempre e comunque “bucata”:  la Rivelazione è un dono indeducibile e l’agire ecclesiale ha in questo dono il suo fondamento e la sua origine.
Ma è il concetto stesso di “dono” che oggi sta mutando.
La rete è il luogo del dono, infatti.
Concetti come file sharing, freeware, open source, creative commons, user generated content, social network hanno tutti al loro interno, anche se in maniera differente, il concetto di “dono”, di abbattimento dell’idea di “profitto”.
(©L’Osservatore Romano – 25 aprile 2010)  Dal 22 al 24 aprile a Roma la Conferenza episcopale italiana ha organizzato un convegno sul tema “Testimoni digitali.
Volti e linguaggi nell’era crossmediale”.
Pubblichiamo uno stralcio dell’intervento di uno dei relatori.
L’avvento di internet è stato, certo, una rivoluzione.
E tuttavia è necessario subito sfatare un mito:  che la rete sia un’assoluta novità del tempo moderno.
Essa è una rivoluzione, certo, ma che potremmo definire “antica”, cioè con salde radici nel passato.
Internet replica antiche forme di trasmissione del sapere e del vivere comune, ostenta nostalgie, dà forma a desideri e valori antichi quanto l’essere umano.
Quando si guarda alla rete occorre non solo vedere le prospettive di futuro che offre, ma anche i desideri e le attese che l’uomo ha sempre avuto e alle quali prova a rispondere, e cioè:  connessione, relazione, comunicazione e conoscenza.
Sappiamo bene come da sempre la Chiesa abbia nell’annuncio di un messaggio e nelle relazioni di comunione due pilastri fondanti del suo essere.
Internet non è, come spesso si legge, un semplice “strumento” di comunicazione che si può usare o meno, ma un “ambiente” culturale, che determina uno stile di pensiero e contribuisce a definire anche un modo nuovo di stringere le relazioni.
E la Chiesa è naturalmente presente lì dove l’uomo sviluppa la sua capacità di conoscenza e di relazione.

Cardinale Angelo Sodano: Con la Chiesa a fianco del Papa

Intervista al cardinale Angelo Sodano, a cura di Giampaolo Mattei “È ormai un contrasto culturale: il Papa incarna verità morali che non sono accettate e così le mancanze e gli errori di sacerdoti sono usate come armi contro la Chiesa”.
Alza la voce il cardinale Angelo Sodano, decano del collegio cardinalizio, che all’inizio della messa del giorno di Pasqua ha espresso a Benedetto XVI l’affetto e la fedeltà di tutti i cattolici.
“Dietro gli ingiusti attacchi al Papa – sottolinea nell’intervista rilasciata al nostro giornale – ci sono visioni della famiglia e della vita contrarie al Vangelo.
Ora contro la Chiesa viene brandita l’accusa della pedofilia.
Prima ci sono state le battaglie del modernismo contro Pio X, poi l’offensiva contro Pio XII per il suo comportamento durante l’ultimo conflitto mondiale e infine quella contro Paolo VI per l’Humanae vitae”.
Il suo intervento, la mattina di Pasqua, si può leggere come una reazione alla campagna diffamatoria contro il Papa, intensificata in questi giorni dalle accuse pretestuose di non aver parlato, durante i riti pasquali, delle vittime degli abusi sessuali? Davanti a questi ingiusti attacchi ci viene detto che sbagliamo strategia, che dovremmo reagire diversamente.
La Chiesa ha il suo stile e non adotta i metodi che oggi sono usati contro il Papa.
L’unica strategia che abbiamo ci viene dal Vangelo.
La comunità cristiana come vive, secondo lei, questa prova? Si sente giustamente ferita quando si tenta di coinvolgerla in blocco nelle vicende tanto gravi quanto dolorose di qualche sacerdote, trasformando colpe e responsabilità individuali in colpa collettiva con una forzatura veramente incomprensibile.
Nel mio intervento non ho fatto altro che dare voce al popolo di Dio: al collegio cardinalizio, anzitutto, che è tutt’uno con il Romano Pontefice; ma anche ai vescovi e a tutti i quattrocentomila sacerdoti.
Sì, ho voluto espressamente parlare dei pastori che spendono la loro vita a servizio di Dio e della Chiesa.
Se qualche ministro è stato infedele non si può e non si deve generalizzare.
Certo, ne soffriamo, e Benedetto XVI ha chiesto scusa più volte.
Ma non è colpa di Cristo se Giuda ha tradito.
Non è colpa di un vescovo se un suo sacerdote si è macchiato di colpe gravi.
E certo non è responsabile il Pontefice.
Tutta la Chiesa è con il Papa: è stato questo il messaggio? Le mie parole erano inserite nella liturgia di Pasqua.
È logico che nelle feste più significative dell’anno una famiglia si stringa intorno al proprio padre.
Ho quindi ritenuto che questa fosse un’occasione adatta per riaffermare i profondi vincoli di unità che stringono tutti i membri della Chiesa intorno a colui che lo Spirito Santo ha posto a guidare la comunità dei credenti.
Da parte mia, come decano del collegio cardinalizio, ho ritenuto doveroso fare quell’intervento.
Come ogni cardinale, ho la missione di stare sempre a fianco del Papa e di servire la Chiesa usque ad effusionem sanguinis.
Sento un dovere di riconoscenza a Benedetto XVI per la dedizione apostolica con cui presta il suo quotidiano servizio alla Chiesa.
Quelle parole sono nate anche da un’esigenza personale, dall’affetto profondo che porto al Vicario di Cristo.
Come ha pensato il suo intervento? Oltre a una testimonianza di vicinanza al Papa, il mio è stato un invito alla serenità.
È l’appello che il Papa stesso, per primo e continuamente, rivolge alla Chiesa e al mondo, sulla scia dei suoi grandi predecessori sulla cattedra di Pietro.
Non meravigliamoci delle persecuzioni perché Gesù già aveva detto ai suoi apostoli che “un servo non è più grande del suo padrone.
Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra”, come si legge nel Vangelo secondo Giovanni.
in “L’Osservatore Romano” del 7 aprile 2010

Competenza e imprenditorialità

Della definizione di competenza viene approfondito l’intervento sulla realtà, cioè il passaggio da una teoria, che sta resistendo alla falsificazione, all’azione umana di modificazione della realtà.
Di questo passaggio vengono esplicitati i punti seguenti: è creativo, imprenditoriale e in miglioramento continuo.
Successivamente vengono svolte alcune riflessioni, coerenti con l’impostazione proposta, relative all’attività didattica e alla definizione dei profili e dei piani di studio personalizzati sia nelle scuole che nelle università e nei corsi di formazione, per concludere con un rilievo sull’ambiente formativo.
I due termini in questione, competenza e imprenditorialità, vanno precisati.
Sulla definizione di competenza e su alcune implicazioni di essa mi sono soffermato varie volte (1) e mi sembra che resti sempre aperta a ulteriori risultati la proposta di svilupparla all’interno di una teoria generale della conoscenza umana limitata, fallibile e sempre perfettibile, lasciandoci alle spalle il paradigma illuminista che va dall’estremo di tralasciare la realtà per la conoscenza (nella visione idealistica) o la conoscenza per la realtà (nella visione marxista): in entrambi questi casi, tuttavia, è la conoscenza della realtà che fa la realtà.
Cogliendo la competenza come un processo — il processo conoscitivo umano integralmente inteso — che parte dalla realtà, nella quale ogni persona umana, che conosce, è immersa, e perviene alla realtà dopo lo sviluppo della dimensione logica-astratta, si può immediatamente comprendere che anche l’intervento sulla realtà è conoscenza e che l’azione umana non è semplicemente intervento sulla realtà esterna all’uomo, ma comprende intuizione di attese e bisogni, poiché avviene all’interno di un vissuto; intuisce problemi, sviluppa teorie, deducendone sempre nuove conseguenze e controllandole e falsificandole; e, infine, ritorna alla realtà con progetti e decisioni motivate per trasformarla in risposta, sempre perfettibile, alle attese e ai bisogni in continua evoluzione.
Per lo scopo che mi prefiggo ora, in questa definizione sono da sottolineare due aspetti: anzitutto […] come capacità di attivazione del processo, la competenza — il processo competente — è unica; possono venire distinte varie competenze in base alla diversità delle metodiche di falsificazione approntate (fisica, storia, sociologia, biologia, geologia, ermeneutica, traduzione, chimica, e così via) e alle prestazioni effettuate.
[…] La differenza tra una prestazione medica e la fabbrica di un’automobile non consiste nel processo competente, che è il medesimo, ma nelle metodiche di controllo e, conseguentemente, nelle prestazioni.
Una prestazione, poi, non può non essere «sociale».
Il controllo del processo competente non può non essere insieme e di base e trasversale.
Per poter pervenire a una comprensione del processo competente è necessario procedere da una teoria dell’azione umana, che, oltre a possedere sempre una dimensione economica, è competente quando comprende una prestazione quale risultato di un processo conoscitivo umano integrale.
(2) In secondo luogo […] il processo conoscitivo umano integrale è un metodo che procede per tentativi ed errori, ed è il medesimo procedimento del circolo ermeneutico, «detto in due linguaggi differenti»: (3) dalle attese e dai bisogni, colti in forma limitata, fallibile e sempre perfettibile, intuiamo problemi, elaboriamo teorie esplicative, le falsifichiamo controllandole in forma limitata, fallibile e sempre perfettibile, e perveniamo a interventi di trasformazione della realtà limitati, fallibili e sempre perfettibili per un miglioramento continuo.
E, come «chi si mette a interpretare un testo, attua sempre un progetto», (4) così il processo conoscitivo umano integrale, cioè competente, consiste in un progetto che viene effettivamente portato ad attuazione e valutato in vista di un miglioramento continuo: è un intervento sulla realtà limitato, fallibile, ma sempre perfettibile.
La realizzazione medesima dell’intervento competente, trasformativo della realtà, modifica a sua volta i bisogni e le attese e il circolo procede all’infinito.
(5) La descrizione proposta del processo competente è logica; effettivamente (psicologicamente) i processi si realizzano in infinite modalità diverse; tuttavia un processo conoscitivo umano completo deve sviluppare tutte le dimensioni specificate.
Nel processo competente sono da individuare i seguenti passaggi: • dalle attese e dai bisogni (vissuto) all’intuizione di un problema (a livello logico); • dai problemi, alla teorie e alla deduzione delle conseguenze di esse, che sono infinite (livello logico); • la falsificazione delle teorie (livello logico e sperimentale); • con l’intervento sulla realtà, in continuo miglioramento, in risposta alle attese e ai bisogni in altrettanto continua evoluzione.
In questa sede mi soffermerò sull’intervento sulla realtà, cioè nel passaggio da una teoria, che sta resistendo alla falsificazione, all’azione umana di modificazione della realtà.
Di questo passaggio vorrei esplicitare i punti seguenti: • è creativo; • è imprenditoriale; • è in miglioramento continuo; • è imprenditoriale nel miglioramento continuo.
Una definizione di imprenditorialità verrà proposta quando ne descriverò il punto specifico.
In un secondo tempo presenterò alcune riflessioni sull’attività didattica e sulla definizione dei profili e dei piani di studio personalizzati sia nelle scuole che nelle università e nei corsi di formazione, per concludere con un rilievo sull’ambiente formativo.
1.
Competenza 1.
1.
Dalla teoria all’azione Se, da una parte Hegel sostiene che la dialettica è la legge del pensiero e, dall’altra, Marx che è la legge della realtà, noi ci troviamo di fronte due posizioni contrapposte, ma non contraddittorie, perché anche Marx non può fare a meno della conoscenza e del pensiero per affermare che la dialettica è la legge della realtà: non si può abolire la conoscenza o ridurla a ideologia.
Infatti, che la dialettica sia legge della realtà è un’affermazione logica, astratta, senza una qualche forma di falsificazione.
Tra le posizioni di Hegel e di Marx, che unicamente all’interno di una visione idealista, teorica, astratta possiamo affermare che sono contraddittorie, vi è una serie infinita di altre posizioni intermedie, le quali, tuttavia, o enfatizzano la conoscenza e il pensiero logico astratto, oppure cercano di negarlo in nome della realtà.
Se però approfondiamo il discorso, ci accorgiamo che tutte le posizioni possibili risultano essere anzitutto giudizi logici, astratti, frutto del pensiero umano; e che qualunque forma di falsificazione avviene — o almeno dovrebbe avvenire — sotto il controllo metacognitivo umano limitato, fallibile e sempre perfettibile, con un’asimmetrica logica tra falsificazione e conferma.
L’azione umana, se appunto umana, avviene attraverso il controllo metacognitivo ed è conoscenza che, a sua volta, viene ulteriormente sviluppata sia a livello logico che pratico in un miglioramento continuo: «Tutti i nostri concetti hanno una forza euristica; essi sono anche pronti a identificare nuove esperienze, modificandosi in modo da poterle comprendere.
La pratica di un’abilità è sempre inventiva; concentrandoci sul raggiungimento di un successo, facciamo sorgere in noi nuove capacità».(6) Nessuno di noi può uscire dalla conoscenza e pervenire alla realtà: alla realtà perveniamo attraverso la conoscenza! Noi non siamo in possesso di un criterio di verità, come ci ha fatto comprendere Alfred Tarski.
(7) L’intervento sulla realtà ci mette di fronte alla complessità della realtà, di ogni situazione o contesto, cosicché essi non potranno mai essere pienamente controllati da una mente umana e, tanto meno, dalle forze umane.
Ilya Prigogine ci ha indicato la freccia del tempo e l’irreversibilità di ogni fenomeno.
(8) Il passaggio dalla teoria all’azione è complesso, non lineare.
Inoltre […] la nostra teoria giunge alla conclusione che non soltanto la mente nel suo complesso, ma persino tutti i singoli processi mentali devono eternamente rimanere per noi fenomeni di tipo speciale, che non riusciremo mai a spiegare completamente in termini di leggi fisiche, per quanto essi siano prodotti dagli stessi principî che sappiamo operare nel mondo fisico.
Se si preferisce, si può anche esprimere questo concetto affermando che i fenomeni mentali fondamentalmente non sono «null’altro che» processi fisici; tuttavia, questo non cambia il fatto che nella trattazione dei processi mentali noi non potremo mai evitare l’impiego di termini mentali, e che dovremo sempre rimanere entro i limiti di un dualismo pratico, un dualismo che non si fonda su una qualsiasi asserzione riguardo a una differenza oggettiva tra le due classi di eventi, bensì sulle dimostrabili limitazioni dei poteri della nostra mente rispetto alla piena comprensione dell’ordine unitario a cui essi appartengono.
(9) In conclusione: […] la possibilità di completare il compito della scienza così da poter spiegare dettagliatamente il modo in cui il nostro quadro sensoriale del mondo esterno rappresenta le relazioni esistenti fra le parti di quel mondo implicherebbe che questa riproduzione del mondo includesse una riproduzione di quella riproduzione (o un modello del rapporto modello-oggetto), la quale, a sua volta dovrebbe includere una riproduzione di quella riproduzione, e così via ad infinitum.
Pertanto, l’impossibilità di spiegare interamente qualunque rappresentazione del mondo esterno elaborata dalla mente comporta anche l’impossibilità di spiegare interamente il mondo «fenomenico» esterno.
La concezione di un simile completamento del compito della scienza è una vera e propria contraddizione in termini.
La ricerca che la scienza si propone rappresenta, per la sua stessa natura, un compito che non ha mai fine, in cui ogni passo avanti apre necessariamente nuovi problemi.
(10) Ma bisogna tener conto del «libero arbitrio»: Si può osservare di passaggio che queste considerazioni hanno alcuni riflessi anche sulla controversia di vecchia data in merito al «libero arbitrio».
Anche se potessimo conoscere il principio generale da cui tutta l’attività umana è determinata in modo causale mediante processi fisici, questo non significherebbe che potremo mai riconoscere una particolare azione umana come il risultato necessario di un particolare complesso di circostanze fisiche.
Le decisioni umane ci appariranno sempre come il risultato di un’intera personalità umana — vale a dire di tutta la mente di una persona — la quale, come si è visto, non può essere ridotta a qualcosa d’altro.
(11) Nel passaggio dalla dimensione teorica del processo conoscitivo umano all’intervento sulla realtà noi non conosciamo mai pienamente: • né il punto di partenza, cioè i nostri processi mentali e le nostre conoscenze, né un linguaggio della scienza unificata; (12) • né le conseguenze delle nostre teorie, che sono infinite; • né la realtà, sulla quale dobbiamo intervenire: ogni situazione possiede infinite variabili ed è in continua evoluzione; • né la nostra azione, la quale ha effetti intenzionali e infiniti effetti inintenzionali; • né, quindi, il risultato delle nostre azioni; • né il rapporto tra le nostre conoscenze e la realtà.
Le azioni umane strutturalmente «sono caratterizzate dall’incertezza rispetto al futuro», sicché a esse sono «connessi dei rischi che ne fanno della vere e proprie speculazioni».(13) Indipendentemente dal fatto che «l’azione sia originata da motivi altruistici o egoistici, da una disposizione nobile o bassa; se è diretta verso il raggiungimento di fini materiali o ideali; se scaturisce da un riflessione esauriente e scrupolosa o se segue impulsi passeggeri o passioni», essa ha sempre una dimensione sociale o di scambio.
«Le leggi della scienza catallattica spiegate dall’economia sono valide per ogni scambio, a prescindere dal fatto che coloro che ne sono coinvolti agiscano saggiamente o meno o che siano spinti da motivi economici o non».(14) Questo non significa che le persone non siano responsabili, non debbano essere educate ai valori.
Infine «non esiste competenza che non sia socialmente legittimata, in funzione anche della responsabilità verso terzi.
In caso contrario dovremmo arrestarci a nozioni pure oppure a contenuti psicologici».(15) Una formazione, che si limiti alla gestione di conoscenze teoriche, ritenendo l’intervento sulla realtà come qualcosa di aggiuntivo o di applicativo, non solamente non educa, ma diseduca; non forma ma allontana dall’azione.
1.
2.
Creatività del processo competente Ho affrontato brevemente il discorso del passaggio dalla teoria all’azione nel processo umano competente.
Dall’approfondimento svolto risulta logicamente che tale percorso non è né lineare né deterministico con riferimento alle conoscenze possedute, ma può (e deve) essere progettato.
La riuscita di un intervento sulla realtà è frutto di creatività: è, radicalmente parlando, intuizione.
Precisando, una conseguenza logica delle considerazioni proposte precedentemente è la seguente: il passaggio dalla teoria all’azione è sempre frutto di intuizione creativa nella lettura della situazione reale sulla quale si interviene: sia perché la situazione è sempre aperta e complessa sia perché l’azione umana è, pure, sempre aperta e complessa e ha conseguenze intenzionali e infinite conseguenze inintenzionali.
(16) Le azioni umane sono realtà complesse e aperte e, pertanto, il rapporto tra pensiero e realtà non è mai un’«applicazione», come pretendevano i razionalisti illuministi.
Per agire c’è bisogno di intuire, attraverso il sapere di sfondo e l’occhio clinico, (17) la situazione nella quale si interviene, mai conoscibile integralmente e definitivamente, perché, tra l’altro, in continua evoluzione.
L’intuizione è favorita dal vissuto della persona competente, dalle sue attese e dai bisogni espliciti e impliciti; ma è sempre qualcosa di nuovo, frutto di creatività; non esiste una via logica che porti alla realizzazione di un intervento sulla realtà.(18) Ora l’intervento sulla realtà, tramite l’azione umana, mentre è effettiva conoscenza, che può essere elaborata teoricamente, richiede un progetto, che è, a sua volta, frutto di creatività, limitato, fallibile e sempre perfettibile, in miglioramento continuo; non essendo possibile, per principio, alcuna pianificazione.
(19) Per questo la trasformazione della realtà, prestazione di ogni processo umano competente, non è mai garantita e, soprattutto, non lo è mai in modo ottimale.
Una formazione che non abbia progettato di creare le condizioni per lo sviluppo della creatività per l’intervento sulla realtà, e si limiti alla dimensione teorica del processo conoscitivo umano oppure pervenga solamente a forme di simulazione non è mai completa, proprio dal punto di vista della conoscenza, oltre che senza il risultato competente atteso, e rischia di diseducare.
1.
3.
Imprenditorialità nel processo competente La creatività nel passaggio dalla dimensione teorica del processo competente all’intervento sulla realtà, se ben considerata, ci permette di coglierne un significato profondo: può essere vera e propria imprenditorialità, quando è sviluppata a livello umano competente.
L’intervento sulla realtà, frutto di creatività, poiché non esiste una via logica alla realizzazione di esso — anche se, appunto perché azione umana, dipende da una decisione razionalmente motivata e progettata — va colto e approfondito, nel processo conoscitivo umano competente, quale dimensione di esso e autentica conoscenza, quando viene sviluppato, appunto, a livello umano.
Ci troviamo all’interno dell’azione umana, complessa, sempre aperta, «strutturalmente caratterizzata dall’incertezza», che comporta sempre non solamente scambio — e quindi le dimensioni etica e di comunicazione — ma anche innovazione e investimento.
In sintesi: «Il metodo individualistico (20) concentra la propria attenzione sull’azione umana.
L’uomo agisce perché si trova in una situazione di disequilibrio.
La sua azione produce conseguenze intenzionali e inintenzionali; e ciò significa che l’agire — che è economico, perché i mezzi a nostra disposizione sono scarsi — si svolge attraverso l’utilizzo di una conoscenza che è sempre parziale e fallibile, che rende quindi difficile il superamento di quel disequilibrio».
(21) Mentre la creatività indica formalmente la scoperta di qualcosa di nuovo e viene riferita al primo che vi arriva, l’imprenditorialità, sempre formalmente, denota la capacità di investire la scoperta, di coglierne e sfruttarne i possibili sviluppi produttivi ai vari livelli, compresi, evidentemente, quelli economici, perché l’agire umano è economico.
Kirzner ha deciso di vedere, nella prontezza [alertness] a scoprire nuovi obiettivi, che probabilmente si riveleranno valevoli e nuove risorse probabilmente disponibili, l’elemento imprenditoriale del processo decisionale dell’uomo.
È questo elemento imprenditoriale che è fonte della nostra visione dell’azione umana come attiva, creativa e umana, invece, che passiva, automatica e meccanica.
(22) Il processo di scoperta dell’imprenditore viene così liberato da forme di riduzione all’azione di economizzazione passiva, automatica e meccanica.
La scoperta di nuovi obiettivi e di nuove risorse, appunto perché azione umana, ha bisogno della capacità di identificare problemi, di elaborare teorie esplicative e di falsificarle.
Ma lo specifico imprenditoriale sta nell’arrivarvi prontamente e nello sfruttarle prima di altri, sapendo prendere le decisioni di economizzazione.
La caratteristica dell’imprenditorialità, nella nozione più generale di competenza, è rappresentata, formalmente, dalla prontezza, cioè dal fatto di riuscire a perseguire i nuovi obiettivi e a investirvi le risorse per primi, o comunque in tempi utili: è la dimensione dell’investimento nell’azione umana competente In sintesi, la competenza, come processo conoscitivo umano, in una descrizione logica, è possesso di conoscenze, gestione di conoscenze, prestazione, controllo metacognitivo, comunicazione e deontologia professionale, poiché è azione a livello umano e sempre complessa.
Ora l’investimento delle competenze è frutto di imprenditorialità quale prontezza nell’approfittare e investire le competenze.
Il problema, però, va approfondito, poiché le competenze — in quanto capitale umano, come vedremo — possono sì essere investite da terzi, che ne approfittano con prontezza, ma vi è una metaimprenditorialità (in analogia con la metacognizione) che consiste nella prontezza necessaria per approfittare delle proprie competenze e investirle.
Ritengo che questa forma di metaimprenditorialità risulti essere una componente della competenza.
La metaimprenditorialità, così intesa, ha riferimento pure al miglioramento continuo delle proprie competenze in risposta all’evoluzione delle attese e dei bisogni di una società o nel prevenirli.
Una formazione che non preveda la predisposzione dell’habitat per l’emersione della prontezza imprenditoriale in risposta alle attese in continua evoluzione e in concorrenza con il mercato, non solamente non è formazione, ma rischia proprio di togliere energie alla crescita e al miglioramento.
1.
4.
Miglioramento continuo nel processo competente Le norme ISO 9001:2000 (8.5.4) discorrono di «miglioramento continuo dell’organizzazione» così spiegato: «Per contribuire ad assicurare il futuro dell’organizzazione e la soddisfazione delle parti interessate, la direzione dovrebbe creare una cultura che coinvolga il personale nelle ricerca di opportunità per migliorare le prestazioni dei processi, delle attività e dei prodotti.
Per coinvolgere il personale, l’alta direzione dovrebbe creare un ambiente in cui l’autorità sia delegata, in modo che il personale abbia i poteri e sia investito della responsabilità per individuare dove esistono delle opportunità, per l’organizzazione, di migliorare le sue prestazioni».
Nella definizione di competenza proposta l’apertura al miglioramento continuo è strutturalmente presente, tra l’altro, nel passaggio dalla teoria all’azione.
Infatti, se da una parte questo passaggio è frutto di creatività, perché ogni situazione è unica e in continua evoluzione, ne consegue che il processo competente non potrà mai consistere in un esercizio o in un addestramento, ma in un miglioramento continuo per elevare incessantemente la performance delle prestazioni e degli interventi trasformativi della realtà in risposta alle attese e ai bisogni in continua evoluzione.
Il miglioramento continuo può pervenire fino al mutamento di «paradigma», se così posso esprimermi, sia in risposta ai bisogni e alle attese che nel prevenirli.
Dall’altra parte, però, una competenza, per il medesimo ordine di motivazioni, non è mai compiutamente posseduta, perché, appunto, ogni situazione è nuova, unica, irriproducibile, in continua evoluzione.
La conseguenza è evidente: il miglioramento continuo per sviluppare il livello di performance ed essere in grado di intervenire in risposta all’intuizione, all’interpretazione e alla soddisfazione di un’attesa o di un bisogno sempre in continua evoluzione Una formazione, che si limiti alla realizzazione di qualche prestazione, senza sviluppare un vero e proprio apprendistato delle competenze con l’esercizio del miglioramento continuo, documentato, non è formazione, ma rischia unicamente di addestrare.
1.
5.
Imprenditorialità nel miglioramento continuo del processo competente L’imprenditorialità, quale prontezza (alertness) necessaria per approfittare delle conoscenze e investirle, nel passaggio al processo competente, quale processo conoscitivo umano integrale, diviene la prontezza nell’approfittare e investire le competenze; nello specifico della metaimprenditorialità, è la prontezza nell’approfittare e investire le proprie competenze.
Se la metaimprenditorialità ha riferimento pure al miglioramento continuo delle proprie competenze in risposta all’evoluzione delle attese e dei bisogni di una società (o nel prevenirli), e, logicamente il possesso di una competenza non può essere statico, pure l’imprenditorialità e la metaimprenditorialità, in quanto prontezza, non possono essere statiche, ma in continua evoluzione in risposta alle attese e ai bisogni, sempre in continua evoluzione; anzi, appunto perché prontezza, nel prevenirli e nell’anticipare i tempi.
Una formazione che non educhi alla metaimprenditorialità, non solamente non è formazione, ma rischia proprio di bloccare.
2.
Per la formazione Gli sviluppi proposti, conseguenti alla definizione di competenza dalla quale sono partito, hanno riferimento, tra l’altro, alla didattica, alla definizione dei profili e dei piani di studio personalizzati sia nelle scuole che nelle università e nei corsi di formazione.
2.
1.
Per la mediazione didattica Poiché la conoscenza è un’azione umana, che comprende l’intero processo conoscitivo, incluso l’intervento sulla realtà, riteniamo che nessun apprendimento, se avviene a livello umano, possa esserne in qualche modo monco, come farebbe supporre il paradigma illuminista (francese).
Accompagnare il discente a gestire una prestazione di intervento sulla realtà è un’attività conoscitiva e di apprendimento, non solamente per ciò che comporta l’operar con mano, ma per l’acquisizione, a livello umano (per libero convincimento interiore e con decisioni liberamente motivate e responsabili), di ogni conoscenza: è un apprendistato, non un addestramento.
(23) Ed è un discorso che è pienamente coerente con la personalizzazione dei processi di insegnamento e di apprendimento.
Infatti, dal punto di vista psicologico, il processo competente segue le attitudini e le capacità di ogni persona e avviene nelle forme più disparate.
Nella definizione ho presentato necessariamente una descrizione logica, ma nella realtà non si realizza un procedimento logico: si può partire da qualunque dimensione o momento, che ho descritto logicamente, del processo competente; e ci si può muovere a causa di motivazioni diversissime e all’interno di situazioni le più disparate, persino in una classe.
Ho presentato una procedura sia per le Unità di Apprendimento.
(24) che per i crediti universitari (ECTS).
(25) Tali procedure possono divenire anche questionari per una rilevazione sia qualitativa che quantitativa delle azioni di insegnamento e di apprendimento.
(26) Per lo sviluppo di un apprendimento, che sia un vero e proprio apprendistato, ritengo importante, tra l’altro, una descrizione metacognitiva del proprio apprendimento, come è indicato nelle procedure proposte, certificabili ai sensi delle norme ISO 2000:9001.
Nel trattare del passaggio Dalla scuola all’università, affermavo che […] il percorso formativo dovrebbe prevedere: • lo sviluppo graduale della metacognizione dall’età della preadolescenza; • la collaborazione progressiva con i docenti nella redazione delle UA (almeno dopo il biennio superiore di scuola); • la redazione degli ECTS, con la collaborazione e il controllo dei docenti, da parte degli studenti universitari: è, chiaramente, un’azione di tutoring.
È una modalità di attivare la continuità tra scuola e università.
(27) 2.
2.
Per i Profili Anzitutto i Profili vanno strutturati per competenze.
Una domanda emerge immediatamente: le competenze dei Profili devono essere professionalmente qualificate oppure devono fare riferimento ai compiti dello sviluppo? La risposta che propongo è la seguente: i compiti dello sviluppo prevedono la maturazione delle varie dimensioni della persona a livello pienamente umano, non ancora, però, professionalmente qualificato.
Le competenze del profilo, coerentemente, saranno definite dai compiti dell’età evolutiva fino a una maturazione pienamente umana e responsabilmente umana, prevista, per legge, a 18 anni.
Non prevediamo ancora [nella scuola] alcuna qualifica professionale per l’inserimento nel mondo del lavoro, poiché essa richiederebbe la specificazione di competenze legate all’esercizio di una professione determinata e socialmente riconosciuta.
Riteniamo che questa specificazione debba essere attribuita ai percorsi di istruzione e formazione professionale e universitari.
(28) Un secondo problema nasce dall’epistemologia proposta del processo competente: è unico, ma si diversifica solamente per le metodiche di falsificazione e per le prestazioni, in risposta a situazioni sempre diverse.
Una soluzione coerente è la seguente: i compiti dell’età evolutiva riguardano le varie dimensioni del processo umano competente, compreso nella sua visione integrale e, quindi, con le prestazioni, che sono conoscenza, se realizzate a livello umano.
Ne consegue che la distinzione di competenze nei profili da noi considerati [al termine del Primo e del Secondo Ciclo] riguarda le varie dimensioni della maturazione umana di ogni persona, e, quindi, necessariamente, essendo il processo competente fondamentalmente unico, le cosiddette “competenze”del profilo pongono l’attenzione e precisano vari momenti del processo competente, legati, nell’età scolare, allo sviluppo integrale della persona.
Ecco perché usiamo l’espressione: “dimensioni del processo competente”.
Analogamente riteniamo si debba procedere per la specificazione delle “competenze” di una determinata professione (29) e, quindi, anche nei Profili al termine dei corsi di Laurea universitari e dell’Istruzione e Formazione Professionale.
Il Profilo rappresenta il capitale umano (HC), atteso al termine dei corsi di studio o di formazione, «definibile come l’incremento di conoscenze e attitudine al lavoro dovuto a istruzione, formazione, miglioramento delle condizioni di salute e psicofisiche (Mincer, 1958; Mincer, 1970; Becker, 1962; Becker, 1964).
Ciò premesso tale concetto può essere preso in considerazione in senso stretto, facendo riferimento alle definizione presente in letteratura o in senso lato come “capitale umano potenziale” inteso come capacità di primo inserimento nel mercato del lavoro grazie agli studi universitari (Cammelli, 2003)» (Giorgio Vittadini).
VEDERE CON BORDIGNON.
Il capitale umano, senza il riferimento all’investimento, e, quindi, all’imprenditorialità e alla metaimprenditorialità, risulta mancante.
Non abbiamo altra modalità che l’investimento di fatto delle competenze del Profilo per valutare il capitale umano, poiché l’imprenditorialità non è unicamente di terzi, ma pure dello studente stesso.
Se non si realizza, la causa (siamo all’interno della complessità) non è mai solamente del mercato del lavoro e delle professioni, ma anche dello studente, che non è riuscito a essere imprenditore di se stesso.
E questo si può documentare per mezzo di un confronto con gli studenti, che, invece, sono riusciti a investire le proprie competenze.
2.
3.
Per i Piani di Studio Personalizzati Ho definito il Piano di Studi Personalizzato (PSP) «come il percorso di apprendimento che gli studenti compiono, con l’apporto di tutti i processi di insegnamento (relativi a discipline di studio, attività, laboratori, tirocini), al fine di realizzare il Profilo educativo, culturale e professionale».
(30) Il PSP nella scuola è documentato dalla descrizione procedurale delle Unità di Apprendimento e nell’Università degli ECTS.
Lavorando su questa documentazione, i vari consigli di classe o di corso — oppure organi con analoghe competenze — possono, da una parte, seguire il percorso effettivamente compiuto da ogni studente; e dall’altra, procedere verso un miglioramento continuo secondo le prospettive indicate.
(31) Il PSP obbliga a sviluppare l’orientamento effettivo dello studente (spendibilità, implementazione, integrazione degli apprendimenti), il quale deve elaborare e iniziare a realizzare un progetto personale di apprendimento lifelong learning, un progetto professionale e vocazionale personale, per un progetto personale di vita, con l’inserimento nella società civile e nella comunità ecclesiale tramite prestazioni concrete di competenze acquisite in continuo miglioramento.
Ritengo che questo modo di procedere porti in modo efficace alla personalizzazione dell’apprendimento.
3.
L’ambiente formativo L’imprenditorialità — o metaimprenditorialità — di una persona si rivela proprio nella strutturazione e realizzazione di un progetto personale di apprendimento lifelong learning, di un progetto professionale e vocazionale personale, per un progetto personale di vita, evidentemente in continua evoluzione e arricchimento.
L’ambiente formativo, sia nelle dimensioni simmetriche che asimmetriche, dovrà sviluppare competenze intese nel significato di un processo conoscitivo umano integrale.
L’interazione tra studenti dovrà favorire lo sviluppo delle attitudini e capacità di ciascuno in vista dell’acquisizione di competenze spendibili effettivamente e di fatto investite in rapporto con l’ambiente del lavoro e delle professioni.
L’interazione studenti-formatori comporta, da una parte, nel formatore la ricerca della realizzazione di ognuno degli studenti, secondo i progetti propri di ciascun allievo, senza mai imporre le proprie vedute o prospettive, solamente impedendo ciò che è negativo; dall’altra che lo studente, conscio e impegnato nella realizzazione dei propri progetti, percepisca il formatore come uno che ne cerca effettivamente il bene, cioè la realizzazione.
L’ambiente formativo deve divenire un luogo attivo nel quale le competenze vengono acquisite, investite nel miglior modo possibile in interazione con l’ambiente circostante, che non è semplicemente luogo di impiego, ma anche di acquisizione e sviluppo delle competenze.
Sono caratteristiche di un ambiente formativo (scuola, università, istruzione e formazione professionale) non solamente l’acquisizione di conoscenze o di «pratiche», ma lo sviluppo di imprenditorialità e di investimento delle competenze, in un miglioramento continuo, nell’interazione con la domanda, in concorrenza con l’offerta, prevenendo, se possibile, la prima e, certamente, la seconda.
Scuola e ambiente di lavoro (impresa) devono essere collegati e interagenti: acquisizione di conoscenze, progettazione e realizzazione con riprogettazione per un miglioramento continuo è il processo di un apprendimento, che è un apprendistato.
La visione sia di competenza che di apprendimento prospettate «ci permette di dire che non esiste competenza che non sia socialmente legittimata, in funzione anche della responsabilità verso terzi.
In caso contrario dovremmo arrestarci a nozioni oppure a contenuti psicologici».
L’introduzione delle competenze nelle scuole, nelle università e nella formazione […] permette di superarne alcuni gravi limiti: • la perdita di contatto con l’esperienza, che è all’origine dell’insegnamento quale proposta di contenuti da apprendere (visione illuminista dell’insegnamento); • l’incapacità di attingere alla trasformazione progettuale della realtà attraverso i processi di insegnamento e di apprendimento; • e, infine, il lasciare i giovani inattivi per anni e anni, lontani dal contatto con i problemi e impediti di un loro apporto di collaborazione sociale».
(32) La personalizzazione dell’apprendimento, accolta anche nell’ambiente anglosassone, (33) porta coerentemente a sviluppare le attitudini e capacità degli studenti verso l’acquisizione delle competenze, che comportano non solamente l’intervento sulla realtà, ma anche un investimento imprenditoriale di esse.
Gli ambienti formativi non devono arrestarsi alla simulazione del processo competenze- conoscenze-progettazione-realizzazione, ma devono condurre gli studenti e gli allievi fino all’investimento imprenditoriale delle competenze acquisite, in un miglioramento continuo, in risposta alla domanda e in concorrenza con l’offerta.
L’apprendimento, che è un apprendistato, non si ferma alle soglie della struttura scolastica, universitaria o di formazione, ma la sorpassa ed entra nel territorio per rispondere alla domanda e in concorrenza con l’offerta.
Il che significa che scuole, università, strutture formative saranno all’altezza della loro missione solamente nell’interazione continua con le imprese e con il mercato del lavoro e delle professioni, non tanto per offrire alle persone in formazione un mero posto di lavoro (che non è da disprezzare!), ma per rendere le persone in formazione imprenditori e in grado di investire le competenze acquisite.
NOTE 1.  Si vedano soprattutto i primi due capitoli di B.
Bordignon, Certificazione delle competenze.
Premesse teoriche, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2006: Cos’è competenza? (pp.
11-39); Quando una persona possiede un competenza (pp.
41-65).
Ora anche in: http://books.google.com/books?id=QQd4yz6SfNMC&dq=Bruno+Bordignon&printsec=frontco ver&source=bl&ots=–l3E_25iH&sig=_Rsrx_xJQ6m6RQ7BdYBT9eoG3n8&hl=it&ei=wXQvS r7EGoPE_Qadn_jHCg&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum=4 2.  B.
Bordignon, Certificazione delle competenze.
Premesse teoriche, op.
cit., pp.
11; 14-15.
3.  D.
Antiseri, Teoria unificata del metodo, Torino, Utet Libreria, 2001, nuova edizione, p.
129.
Dario Antiseri si era introdotto: «Qua giunti, una domanda sorge spontanea: c’è davvero qualche differenza fra la teoria ermeneutica di H.-G.
Gadamer e la teoria epistemologica di K.
R.
Popper? Il circolo ermeneutico descrive (e prescrive) un procedimento diverso da quello descritto (e prescritto) dal metodo risolventesi nei tre passaggi problemi-teorie-critiche? In breve: esistono differenze tra l’ermeneutica e l’espistemologia?» (pp.
129-130).
4.  H.-G.
Gadamer, Verità e metodo, Milano, Fabbri, 1972, pp.
313-314: «Chi si mette a interpretare un testo, attua sempre un progetto.
Sulla base del più immediato senso che il testo gli esibisce, egli abbozza preliminarmente un significato del tutto.
E anche il senso più immediato il testo lo esibisce solo in quanto lo si legge con certe attese determinate.
La comprensione di ciò che si dà da comprendere consiste tutta nella elaborazione di questo progetto preliminare, che ovviamente viene continuamente riveduto in base a ciò che risulta dall’ulteriore penetrazione del testo».
5.  B.
Bordignon, Personalizzazione dei processi di apprendimento, «Orientamenti Pedagogici», n.1, 2008, pp.
90-91.
6.  M.
Polanyi, La conoscenza personale.
Verso una filosofia post-critica, a cura di E.
Riverso, Milano, Rusconi, 1990, p.
241.
7.  Per una breve presentazione di questa problematica in Tarski si può vedere: D.
Antiseri, Manuale di Metodologia delle Scienze Sociali, Torino, Utet Libreria, 1996, p.
196 (Alfred Tarski risponde alla domanda di Pilato).
8.  Vedi, ad esempio: I.
Prigogine, Le leggi del caos, Roma-Bari, Laterza, 2006².
9.  F.A.
von Hayek, L’ordine sensoriale.
I fondamenti della psicologia teorica, introduzione di H.
Klüver, edizione italiana a cura di F.
Marucci e A.M.
Petroni, Milano, Rusconi, 1990, p.
271.
10.  F.A.
von Hayek, op.
cit., pp.
275-276.
Il titolo originale dell’opera: The Sensory Order.
An Inquiry into the Foundation of Theoretical Psycology, London, Routledge, 1952.
Ma, come dice Hayek nella Prefazione, «le origini di questo libro […] risalgono ad un approccio al problema in voga una generazione fa […] Trent’anni dopo, esaminando la letteratura psicologica, ho scoperto con grande sorpresa che il problema specifico a cui mi ero interessato era rimasto per lo più nello stesso stato in cui versava quando me ne ero occupato per la prima volta» (pp.
6-7).
11.  F.A.
von Hayek, op.
cit., p.
274.
In nota Hayek scrive : «per una discussione più approfondita su questo punto si veda F.A.
Hayek, 1942, pp.
290 e ss.» e cioè Scientism and the Study of Society, «Economica», n.
9, 1942, pp.
267-291; n.
10, 1943, pp.
34-63; n.
11, 1944, pp.
27-39, rist.
in The Counter-Revolution of Science, Glencoe, Free Press, 1952; trad.
it.
L’abuso della ragione, Firenze, Vallecchi, 1967.
12.  «È chiaro che questa tesi di un unico linguaggio universale della scienza unificata, è strettamente legata a quella dell’eliminazione della metafisica […].
Ora, la cosa strana di questa tesi di un unico linguaggio universale è che, prima che fosse pubblicata (il 30 dicembre del 1932), essa era stata confutata da uno dei colleghi di Carnap nel Circolo di Vienna.
Gödel infatti, con i suoi due famosi teoremi di incompletezza, aveva dimostrato che un linguaggio unificato non risulterebbe abbastanza universale neppure ai fini della teoria elementare dei numeri: anche se è possibile costruire un linguaggio in cui vengano espresse tutte le asserzioni di questa teoria, esso tuttavia non consente di formalizzare tutte le dimostrazioni delle asserzioni che (in qualche altro linguaggio) possono essere dimostrate.
Sarebbe stato meglio, pertanto, scartare senz’altro questa dottrina di un unico linguaggio universale di un’unica scienza universale (particolarmente in considerazione del secondo teorema di Gödel, il quale mostrava che era inutile cercare di discutere della coerenza di un linguaggio in quello stesso linguaggio).
Ma da allora è emerso ancora dell’altro a dimostrazione dell’insostenibilità della tesi del linguaggio universale, e mi riferisco principalmente alla dimostrazione di Tarski secondo cui ogni linguaggio universale è paradossale (tesi pubblicata per la prima volta in polacco nel 1933, e in tedesco nel 1935)» (K.R.
Popper, La demarcazione tra scienza e metafisica.
In Congetture e confutazioni.
Lo sviluppo della conoscenza scientifica, Bologna, il Mulino, 1972, pp.
457-458.
L’edizione originale è del 1969: Conjectures and Refutation, London, Routledge and Kegan Paul).
13.  L.
von Mises, Socialismo, trad.
it., Milano, Rusconi, 1990, p.
239.
Si veda la Prefazione di L.
Infantino a Burocrazia di prossima edizione per Rubbettino.
14.  L.
von Mises, Problemi epistemologici dell’economia, Roma, Armando Editore, 1988, p.
57.
15.  B.
Bordignon, Certificazione delle competenze.
Premesse teoriche, op.
cit., pp.
64-65.
16.  L’analisi delle quali è, poi, il compito, come precisa Dario Antiseri, delle Scienze sociali teoriche: «Le scienze sociali hanno come loro (principale ovvero) esclusivo compito quello di analizzare le conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali» (Trattato di Metodologia delle Scienze Sociali, Torino, UTET Libreria, 1996, p.
470.
Ma si veda tutto il Capitolo venticinquesimo, pp.
467-487).
17.  Ho sviluppato questi argomenti in Certificazione delle competenze.
Premesse teoriche, op.
cit., pp.
42-57: Problema ed esercizio (pp.
42-45); Competenza e abilità (pp.
45-46); Un esempio classico: l’«occhio clinico» (pp.
46-50); Apprendimento e addestramento (pp.
50-54); Competenza e transfer degli apprendimenti (pp.
54-55).
18.  Per questo, anche se da tempo sostengo che, nell’insegnamento delle materie scientifiche, è necessaria la Storia della scienza e delle scoperte, non riesco a «comprendere» il tentativo di Alberto Corsero-Lecca di pervenire a «un approccio sistemico per l’educazione creativa alla scoperta scientifica» (L’apprendimento delle scienze inteso come evoluzione di un sistema complesso: un progetto di ricerca.
In Complessità dinamica dei processi educativi.
Aspetti teorici e pratici, a cura di F.
Abbona, G.
del Re, G.
Monaco, Milano, FrancoAngeli, 2008, pp.
86-105).
Probabilmente è da distinguere meglio ciò che è preparazione dell’humus culturale, che può favorire la scoperta e la creatività della scoperta medesima, mai frutto di causazione lineare, poiché non esiste una «via logica alla scoperta scientifica».
Sull’argomento si veda di Dario Antiseri, La creazione delle ipotesi (pp.
10-17).
In Teoria unificata del metodo, Torino, UTET Libreria, 2001, nuova edizione.
19.  Per la tesi sull’impossibilità della pianificazione F.A.
von Hayek ha vinto il premio Nobel nel 1974.
Si può leggere nella edizione italiana (Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, Traduzione di G.
Minotti a cura di E.
Coccia, Roma, Armando Editore, 1988, pp.
32-44) con il titolo La presunzione di conoscere, il discorso pronunciato a Stoccolma l’11 dicembre 1974, in occasione del conferimento dei Premi Nobel, e ristampato da Les prix Nobel en 1974, Stoccolma 1975.
20.  Poiché sono un individualista metodologico, ritengo che esistano unicamente le persone umane e le azioni che queste mettono in atto: le organizzazioni sono uno «stenogramma», come lo definisce Lorenzo Infantino, per intendere un intreccio, congegnato in infinite forme, di persone e di azioni umane.
Di Infantino si veda per esempio, L’ordine senza piano.
Le ragioni dell’individualismo metodologico, Roma, Armando Editore, 2008 (nuova edizione, p.
14): «Il problema non sta quindi nel se, ma nel come usare i concetti collettivi.
Abbiamo bisogno di essi, perché sono degli stenogrammi che ci consentono di comunicare con grande immediatezza e risparmio di tempo.
Non sono però delle entità dotate di una vita separata, autonoma o, come diceva Salvemini, “sdoppiata dagli avvenimenti e creatrice degli avvenimenti stessi”».
Infantino aggiunge in nota: «In tal caso, come Böhm-Bawerk […] ha posto in evidenza, si cade in un”flagrante errore di duplicazione” della realtà».
Per una prima presentazione dell’individualismo metodologico si può leggere il capitolo XXIV L’individualismo metodologico: i suoi problemi e i suoi teorici, di D.
Antiseri, Trattato di metodologia delle Scienze Sociali, Torino, UTET Libreria, 1996, pp.
440-466.
21.  L.
Infantino, Prefazione all’edizione italiana di I.M.
Kirzner, Concorrenza e imprenditorialità, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 1997, p.
10.
22.  È la tesi di I.M.
Kirzner, Concorrenza e imprenditorialità, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 1997.
23.  B.
Bordignon, L’apprendimento è un apprendistato, «Orientamenti Pedagogici», n.
5, 2008, p.
768.
24.  B.
Bordignon, La struttura dell’Unità di Apprendimento.
Una sperimentazione delle Scuole Salesiane, «Orientamenti Pedagogici», n.
4, 2007, pp.
635-664.
25.  B.
Bordignon e R.
Caputi, Certificazione delle competenze.
Una sperimentazione delle Scuole Salesiane, Roma, Armando, 2009, pp.
543-593.
26.  B.
Bordignon, Unità di Apprendimento (UA) e Nuova Ricerca Didattica (NRD).
Una sperimentazione delle Scuole Salesiane, «Orientamenti Pedagogici», n.1, 2009, pp.
91-104.
27.  B.
Bordignon e R.
Caputi, Certificazione delle competenze.
Una sperimentazione delle Scuole Salesiane, op.
cit., p.
194.
28.  B.
Bordignon e R.
Caputi, ibidem, p.
437.
29.  B.
Bordignon e R.
Caputi, ibidem, p.
437-438.
In questo volume sono riportati due esempi di Profilo (al termine del primo anno della scuola secondaria di primo grado e al termine del terzo anno della scuola secondaria di secondo grado), alle pp.
439-464.
30.  B.
Bordignon, Personalizzazione dei processi di apprendimento, «Orientamenti Pedagogici», n.
1, 2008, p.
102.
31.  Per una esemplificazione relativa a una Terza Liceo Scientifico si può vedere Avvio alla strutturazione di Piani di Studio Personalizzati (PSP).
In B.
Bordignon e R.
Caputi, Certificazione delle competenze.
Una sperimentazione delle Scuole Salesiane, op.
cit., pp.
101-161.
32.  B.
Bordignon, Certificazione delle competenze.
Premesse teoriche, op.
cit., pp.
64-65.
33.  Si veda CERI-OCSE, Personalizzare l’insegnamento, Bologna, il Mulino, 2008.
L’edizione originale: Personalising Education / Personaliser l’education, Paris, Organization for Economic Cooperation and Development (OECD), 2006.
Orientamenti Pedagogici Vol.
56, n.
6, novembre-dicembre 2009 (pp.
xx)

Lettera ai nostri fratelli preti per la settimana santa 2010

Settimana Santa 2010 Cari amici preti, il Giovedì Santo, giorno in cui si celebra l’istituzione dell’eucarestia, è tradizionalmente la “festa dei preti”, la vostra festa.
Alcuni giorni prima, siete stati riuniti dal vostro vescovo per la messa crismale.
Per ognuno di voi, quell’incontro è un momento di ritorno alle fonti, una sorta di festa di famiglia, in cui si rinnova, in Cristo, il vostro impegno per il servizio del popolo di Dio.
Ma quest’anno le rivelazioni sugli scandali di pedofilia rendono cupa l’atmosfera.
Come provare la gioia di essere prete quando dei sospetti pesano su “i preti”, facendo di questa espressione generalizzata una minaccia permanente e insopportabile? E, in senso più ampio, come provare la gioia di essere “cattolico” davanti ad un tale disastro? Potremmo fare silenzio, aspettare che si calmino i nostri oscuri sentimenti di vergogna, di umiliazione e di collera.
Ma sentiamo risuonare la parola di Cristo: “Questo è il mio Corpo”, e sentiamo che siamo tutti membra di questo Corpo.
Quando anche un solo membro soffre, tutto il corpo soffre.
Ci rendiamo conto che la sofferenza che proviamo con voi ha le sue radici anche nella nostra responsabilità di fronte a ciò che succede.
Il silenzio che viene rimproverato alla “Chiesa” è anche il nostro silenzio.
Neanche noi abbiamo saputo vedere, né voluto sentire, né osato parlare.
Così, ci prendiamo la nostra parte, e condividiamo il peso di ciò che succede.
Se ciascuno di noi “è la Chiesa”, che sia nella buona e nella cattiva sorte.
Insieme bisognerà capire che, se il crimine è stato di alcuni, il silenzio è stato di tutto un “sistema” a causa del quale i misfatti sono stati sottovalutati e si è preferito difendere la struttura dell’istituzione a scapito delle vittime.
Dolorosamente educati da questi avvenimenti, bisognerà che voi, preti, e noi, fedeli di Cristo, ricostruiamo la comunione ecclesiale sulla trasparenza, l’umiltà e la saggezza, perché la nostra Chiesa possa annunciare il Vangelo, e anche perché sia semplicemente più “umana”.
Ma prima di tutto, oggi, in occasione del Giovedì Santo, vogliamo ripetervi la nostra salda e calorosa amicizia.
La rivelazione di crimini isolati che riguardano delle personalità perverse non intacca in alcun modo la stima e la fiducia che abbiamo nei vostri confronti.
Noi battezzati cattolici rendiamo grazie a causa di voi, che avete scelto di servire il corpo di Cristo nel sacerdozio presbiterale, e vi ringraziamo di essere, in mezzo a noi, segni particolari della presenza di Cristo.
Siete i nostri preti e i nostri amici, siate certi che ci troverete al vostro fianco sia nei momenti di gioia che nelle prove, nella fraternità fondata su Cristo.
Buone feste pasquali, cari amici e cari fratelli.
in “www.conferencedesbaptisesdefrance.fr”del 30 marzo 2010 (traduzione: www.finesettimana.
org)

Gli ultimi giorni Gesù

La religione di Obama di Massimo Faggioli in “Europa” del 21 agosto 2010 L’ultimo sondaggio del centro di ricerca del Pew Forum on Religion & Public Life riporta che solo un terzo degli americani sa che il presidente degli Stati Uniti è di fede cristiana, mentre un americano su cinque crede – sbagliando – che Barack Obama sia musulmano.
A poco serve notare che un analogo 20 per cento degli americani crede alle cose più incredibili, in ambito scientifico, storico, economico, medico.
Il vero problema è che, dall’inizio del suo mandato, è cresciuta significativamente, tra i repubblicani ma non solo, la percentuale di americani che credono che il presidente sia musulmano: ma non si può soltanto additare la martellante campagna mediatica di Fox News e della blogosfera per comprendere la crescente confusione dell’americano medio sulla fede religiosa di Obama, in una specie di democratizzazione di una leggenda metropolitana dai molti risvolti politici.
Il primo fattore è una biografia eccezionale, tanto atipica che per parte dell’America profonda rappresenta un passato anormale, quasi da sanare.
Nonostante i tentativi di Obama di accreditarsi una radice familiare materna in Kansas (diventato quasi un luogo dello spirito, dopo il successo del libro What’s the Matter with Kansas?, che prendeva questo stato del Midwest come esempio della roccaforte conservatrice, evangelicale e repubblicana), l’infanzia di Barack tra Hawaii e Indonesia rappresenta un unicum assoluto nelle biografie dei presidenti americani.
Forse più dell’esotica e ai più sconosciuta Indonesia, il più popoloso paese musulmano, sono le Hawaii a rappresentare il paradiso perduto dell’America interreligiosa, dove chiese cristiane di vario tipo convivono, nei piccoli villaggi, con scuole di sciamanesimo e religioni tradizionali, nella consapevolezza che il cristianesimo rappresenta per le Hawaii una importazione recente, come tanti altri ospiti delle isole, arrivata solo nei primi decenni del secolo XIX.
Diventato il cinquantesimo stato degli Usa nel 1959, solo due anni prima della nascita di Obama, le Hawaii erano e rimangono l’avamposto degli Stati Uniti nel Pacifico: in questo scenario ogni tentativo di strumentalizzare le origini etniche e religiose a fini nazionalistici si scontra con la testimonianza dei cimiteri delle vittime della guerra nel Pacifico, in cui nomi anglosassoni, filippini e portoghesi si mescolano a quelli dei soldati di origine giapponese caduti in uniforme americana.
Nei capitoli della sua autobiografia dedicati agli anni trascorsi nel Pacifico, Obama non ha mai nascosto le visioni religiose del padre e della madre, quanto mai diverse dalle varie anime spirituali e confessionali delle elite americane del secondo Novecento: musulmano modernizzante ma fedele alla cultura africana il primo, universalista e refrattaria ad ogni religiosità bigotta la seconda.
Il secondo fattore problematico per la traduzione della biografia religiosa di Obama agli americani è rappresentato da una presidenza animata da un sincero afflato ecumenico, risultato indigesto all’America profonda nella quale il Dio giudeo-cristiano, la patria americana e il fucile sono spesso una cosa sola.
Obama ha tentato di costruire, dal punto di vista del discorso religioso, un magistero presidenziale di sconfessione dello “scontro di civiltà”, ma ha sempre nuotato contro una corrente di montante intolleranza contro l’Islam identificato tout court con gli attacchi dell’11 settembre 2001.
Alle voci sul criptoislamismo di Obama alimentate durante la campagna elettorale del 2008 il presidente ha risposto con atti come il discorso del Cairo del giugno 2009 e la presa di posizione sulla costruzione del Centro islamico a Manhattan, cioè evitando di ripararsi nel rifugio di una religione cristiana professata pubblicamente dal sommo sacerdote della religione civile americana, come era accaduto per tutti i presidenti da Jimmy Carter in poi.
In questo senso il passaggio dalla campagna elettorale alla presidenza ha rappresentato una sorta di privatizzazione incompleta del discorso religioso in Obama.
Questo terzo fattore è quello in cui le scelte di stile della presidenza sono state le più personali, le più coerenti con la biografia dell’Obama prepolitico, e quindi le più rischiose.
Dopo i discorsi a sfondo religioso della campagna elettorale (a Philadelphia del marzo 2008 e l’intervista col pastore Rick Warren dell’estate 2008), dopo l’elezione, nel febbraio 2009, la scelta di creare presso la Casa Bianca un ufficio per le iniziative miste pubbliche-private basate su affiliazioni religiosa (Office of Faith-Based and Neighborood Partnerships), in continuità con le amministrazioni precedenti, si è accompagnato alla decisione di Obama di non scegliere una chiesa per la first family a Washington e di relegare la vita religiosa del presidente alla sfera privata, intenzionalmente sottratta allo scrutinio dell’opinione pubblica.
Questa scelta si è rivelata in parte obbligata (visti i problemi creati durante la campagna elettorale dalla passata affiliazione col pastore Wright di Chicago), ma sicuramente in controtendenza, se si ricordano le pubbliche sfilate della domenica mattina in chiesa di G.W.
Bush e dei Clinton.
Da questo punto di vista, il parallelo tra le campagne elettorali di Kennedy del 1960 e di Obama del 2008, in cui entrambi i candidati si trovarono a dover giustificare una professione religiosa accusata di antiamericanismo, ha portato a due esiti simili e paralleli: una privatizzazione della religione nel nome del diritto alla libertà religiosa.
Questo esito funzionò benissimo per Kennedy, che in campagna elettorale si era trovato a competere con Nixon, un quacchero per nulla dedito al pacifismo della fede quacchera.
La privatizzazione della religione rappresenta invece per Obama un problema politico: non solo nei confronti della destra religiosa che lo accusa di infedeltà al Dio del giudeo-cristianesimo, ma anche della “sinistra di professione” che non apprezza la sensibilità del presidente verso il discorso religioso.
È dura la vita del presidente teologo.
Nell’allegato  è possibile consultare contributo.

Il dialogo ecumenico

La Parola di Dio è il terreno comune sul quale si innesta il dialogo ecumenico.
È proprio intorno alla mensa della Parola che si svolge la visita di Benedetto XVI alla comunità evangelica luterana di Roma, nel pomeriggio di domenica 14 marzo.
Il Papa partecipa al culto nella Christuskirche di via Sicilia, pronunciando un’omelia sui versetti 20-26 del capitolo dodicesimo del Vangelo di Giovanni, mentre il pastore Jens-Martin Kruse predica sui versetti 3-7 del primo capitolo della seconda Lettera di san Paolo ai Corinzi.  L’incontro si svolge nel giorno in cui la Chiesa cattolica e la comunità luterana celebrano la liturgia della domenica Laetare.
Nel periodo della Quaresima, questa domenica è pervasa dalla letizia, perché nel cammino verso Gerusalemme si intravede la gioia che raggiungerà la sua pienezza nella mattina di Pasqua.
Il nome deriva dalle prime parole dell’antifona d’ingresso in latino:  Laetare cum Hierusalem, et exultate in ea, omnes qui diligitis eam.
Lo svolgimento del culto si inserisce in questa atmosfera di gioia.
Il Papa viene accolto al suo arrivo dal pastore Kruse e dagli otto membri del consiglio.
Fa il suo ingresso processionalmente nella chiesa, raggiunge l’altare della celebrazione, accompagnato dal canto Jubilate Deo di Wolfgang Amadeus Mozart, e ascolta il breve saluto della presidente della comunità Doris Esch.
Seguono l’inno Liebster Jesu, wir sind hier, il salmo 84, il Kyrie eleison e il saluto liturgico da parte del pastore.
Dopo la lettura del brano della seconda Lettera di san Paolo ai Corinzi, Kruse tiene l’omelia, al termine della quale il coro intona Befiehl du deine Wege di Johann Sebastian Bach.
Dopo la proclamazione del Vangelo di Giovanni, Benedetto XVI pronuncia l’omelia.
Il coro poi intona Verleih uns Frieden gnädiglich di Felix Mendelssohn Bartholdy.
Il Papa invita l’assemblea alla professione del Credo niceno-costantinopolitano.
Vengono lette le preghiere dei fedeli, al termine delle quali il Pontefice guida la recita del Padre Nostro e impartisce la benedizione finale.
In questo incontro ecumenico, il Pontefice è accompagnato dai cardinali William Joseph Levada, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, Agostino Vallini, vicario di sua Santità per la diocesi di Roma.
Da parte luterana sono presenti, tra gli altri, il decano in Italia pastore Holger Milkau e il pastore Michael Riedel-Schneider, responsabile della comunità evangelica tedesca per l’Europa del sud.
Non è la prima volta che Benedetto XVI visita il tempio luterano.
Il 19 ottobre 1998, quando era cardinale e prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, vi si recò per partecipare a un dibattito ecumenico sul tema “Prospettive personali.
Esperienze, posizioni ed aspettative ecumeniche” con il vescovo luterano di Berlino Wolfgang Huber.
L’invito al Vescovo di Roma da parte della comunità luterana risale al 2008 e nacque dal desiderio di ricordare il XXV anniversario della storica visita che Giovanni Paolo ii compì l’11 dicembre 1983 alla Christuskirche di via Sicilia, in occasione dei cinquecento anni della nascita di Martin Lutero.
È stata la prima volta che un Papa ha predicato in un luogo di culto luterano dall’inizio della Riforma.
Le origini della comunità luterana di Roma risalgono all’autunno del 1817.
Le prime celebrazioni liturgiche si svolsero nel palazzo della legazione prussiana sul Campidoglio.
A poco a poco, si formò una piccola comunità di lingua tedesca, composta soprattutto da artisti che si ritrovavano nel Caffè Greco.
I legati prussiani a Roma fecero richiesta al re Federico Guglielmo iii di Prussia di inviare un pastore evangelico.
Il primo pastore giunse nel 1819.
Da quell’anno si celebrò il culto protestante nella città eterna.
Tra il 1911 e il 1915, per volere di Guglielmo ii, venne costruita su un terreno intorno ai giardini di Villa Ludovisi la Christuskirche, secondo il progetto dell’architetto Schwechten.
La chiesa venne inaugurata il 5 novembre 1922.
L’edificio ha tre campanili, il più alto dei quali ha tre campane fuse nel 1914, dette “di Lutero” perché riproducono il suono originale delle campane della cappella palatina di Wittenberg distrutte nel corso della prima guerra mondiale.
Dal 1992 la comunità evangelica luterana di Roma, che attualmente conta circa 350 fedeli, celebra nella Christuskirche la liturgia della domenica e delle grandi festività.
(nicola gori) (©L’Osservatore Romano – 14 marzo 2010)

la visita del Papa in sinagoga di Roma

“Mi aspetto che con questa visita i rapporti con gli ebrei migliorino, visti i problemi che ci sono qui in Italia a causa di una particolare sensibilità, e spero che sia un segno che il dialogo avanza”.
Il cardinale Walter Kasper, presidente della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, ha incontrato ieri alcuni giornalisti in occasione della visita del Papa alla sinagoga di Roma, domenica.
Teologo autorevole e pastore credibile, il prelato tedesco, che è anche il titolare del dicastero vaticano sull’ecumenismo, in questi anni ha costruito con il mondo ebraico un solido rapporto personale.
Due anni fa fu lui a scrivere sull’Osservatore Romano un chiarimento sul significato della preghiera pro Iudaeis del messale romano del 1962, quello in latino liberalizzato da Benedetto XVI, in cui escludeva ogni intento di proselitismo.
In effetti, la memoria delle conversioni forzate è ancora viva tra gli ebrei che su questo punto sono molto guardinghi.
Kasper ritiene che l’incontro dei prossimi giorni possa rinsaldare i rapporti.
“C’è un’atmosfera nuova, di confidenza reciproca, anche se non mancano le difficoltà, vista la lunga storia che abbiamo alle spalle”.
Questa è la seconda visita di un Papa nella sinagoga di Roma dopo quella di Giovanni Paolo II, il 13 aprile 1986, che passò alla storia per la sua definizione degli ebrei come “fratelli maggiori”.
“Benedetto XVI ne aveva visitata già una a Colonia – ricorda il cardinale – in occasione della Giornata mondiale della gioventù del 2005, e un’altra a New York in occasione del suo viaggio negli Stati Uniti, nel 2008.
Questo incontro vuole confermare i rapporti maturati negli ultimi decenni.
Non si parlerà tanto delle differenze tra cristianesimo ed ebraismo – si sa che ci sono e sono fondamentali – ma di ciò che abbiamo in comune: la fede in un unico Dio.
In un mondo secolarizzato questa vuol dire testimoniare i comandamenti, onorare il nome di Dio e santificare il sabato, cose ormai non più tanto normali.
Ma anche sulla seconda tavola del Decalogo, nelle opere di giustizia sociale e di pace, possiamo dare una testimonianza comune”.
In effetti, la sensazione è che i rapporti cattolici-ebrei abbiano preso una piega molto pragmatica.
“Nei primi anni abbiamo parlato molto del passato, della Shoah e di tutto il resto, poi siamo passati ai problemi concreti, a come possiamo affrontarli insieme.
C’è una forte collaborazione su progetti caritativi ed educativi.
Certo, restano aperti dei problemi, ma credo che lo saranno fino alla fine dei tempi”.
Il nodo teologico fondamentale riguarda ovviamente la figura di Gesù di Nazaret.
Kasper riconosce che “molti ebrei, soprattutto i più ortodossi, su questo punto non vogliono dialogare.
Noi però non nascondiamo le nostre idee.
Il dialogo non è solo uno scambio intellettuale ma è anche cooperazione e testimonianza.
E comunque dialogo non significa sincretismo.
Sui nostri fondamenti siamo chiari.
C’è anche da tener presente che l’ebraismo è plurale.
Noi abbiamo rapporti con ebrei ortodossi e liberal, certo non con i fondamentalisti che si vedono per le strade di Gerusalemme”.
Ma non ci vogliono gli haredim per inciampare in un nome che divide e irrigidisce: Pio XII.
“Eppure ha salvato migliaia di ebrei – ribatte Kasper – ha agito fattivamente, e questo gli è stato riconosciuto da personalità come Golda Meir.
Se avesse parlato troppo forte avrebbe fatto più danni.
Comunque credo che le opinioni del mondo ebraico su Pio XII stiano lentamente cambiando”.
Poco tempo fa, nel bel libro autobiografico “Al cuore della fede.
Le tappe di una vita” (Edizioni Paoline), il cardinale era stato più drastico: “L’opinione pubblica ebraica è ancora molto lontana da un giudizio storico corretto nei confronti di questo grande Papa e del suo impegno in difesa degli ebrei per quel che allora era possibile”.
In effetti, in questi giorni alcuni esponenti delle comunità ebraiche hanno detto chiaro e tondo che il dossier Pio XII resta una pregiudiziale nel rapporto con i cattolici.
Kasper cerca di stemperare i toni, ma ribadisce che la beatificazione di Papa Pacelli “è una questione interna alla chiesa” e che non è possibile alcun “veto”.
E non è nemmeno d’accordo con chi ritiene che con il pontificato di Benedetto XVI ci sia stata una brusca inversione di tendenza dopo l’idillio dell’era Wojtyla.
“I rapporti sono tuttora buoni, puntiamo soprattutto alla cooperazione su progetti concreti”.
E’ un po’ paradossale che un teologo di razza come Kasper insista tanto su aspetti organizzativi, ma certo il ruolo che ha rivestito in questi anni nella curia romana lo obbliga a una continua mediazione politica (non diplomatica, però, visto che l’annosa questione dell’accordo fondamentale tra Santa Sede e stato d’Israele non è di sua competenza).
Abbiamo comunque provato a chiedergli se la difficoltà nel dialogo con gli ebrei non sia più profonda.
Se, cioè, non abbia ragione un suo illustre collega, Elmar Salmann, il quale sostiene che il Novecento è stato dominato dal pensiero ebraico in tutti i campi del sapere, da Freud a Kafka, da Einstein a Derrida.
Un pensiero, sostiene il teologo benedettino in un recente saggio (“Passi e passaggi nel cristianesimo”, Cittadella Editrice), “che determina il nostro inconscio, ci determina in modo totalmente naturale nella nostra visione dei valori del mondo”.
Questo pensiero postmoderno – frammentario, democratico, multipolare – con la sua “impossibilità di un centro della storia” rende ardua la prospettiva di una sola verità (Gesù Cristo) che è ancora la pretesa dei cristiani.
Le vittime dello sterminio sono i vincitori sul piano delle idee e questo il cattolicesimo non può ignorarlo.
Kasper non si scompone: “Abbiamo una verità comune: la fede nell’unico Dio creatore del cielo e della terra.
Possiamo dire che il cristianesimo ha universalizzato la fede ebraica nel solo Dio.
Certo, è vero che grandi pensatori del Novecento erano ebrei, ma costoro hanno avuto grande influsso sulla teologia cristiana.
Basta pensare a Buber o a Lévinas con la loro filosofia dialogica.
D’altra parte gli studiosi ebrei ci hanno aiutato a entrare nella Bibbia e la stessa ricerca su Gesù è cambiata grazie a loro; quando io studiavo teologia il problema era l’ellenizzazione del cristianesimo, Bultmann, oggi si parla del contesto ebraico della Scrittura.
D’altra parte anche gli ebrei hanno subito l’influsso cristiano, basta pensare alla liturgia: la sinagoga di Roma somiglia a una chiesa.
Perciò non vedrei la cosa in termini di competizione”.
Kasper lo dice anche nell’autobiografia: “I cristiani ricordano agli ebrei che l’Alleanza di Dio con Abramo si rivolge a tutti i popoli, che non possiamo chiuderci in un ghetto, ma dobbiamo allargare il monoteismo ebraico a tutto il mondo e testimoniare il Dio unico all’umanità, come ha fatto la missione cristiana… Nel libro del profeta Zaccaria c’è una bella immagine per la relazione tra ebrei e cristiani, a cui anche la ‘Nostra aetate’ fa riferimento: quando il messia arriverà noi saremo spalla a spalla.
Dunque, non uno contro l’altro, ma, per quanto distinti, spalla a spalla, l’uno accanto all’altro solidali nel servizio comune alla pace e alla salvezza del mondo”.
Sarà, ma qualche volta i fratelli fanno a spallate.
in “il Foglio” del 14 gennaio 2010

Così San Francesco inventò il Presepio

Il simbolo più popolare del Natale è il presepe, cioè quella rappresentazione visiva di quanto si legge nel Vangelo di San Luca al capitolo secondo: la nascita di Gesù che “viene adagiato in una mangiatoia perché non vi era posto per loro nell’albergo”, ma gli angeli trasformano la notte in una festa meravigliosa, invitando i pastori a rendere omaggio a quel bambino.
In questi giorni, il presepe è presente in milioni e milioni di famiglie in tutto il mondo, non solo cattoliche.
Si tratta di una tradizione che affonda le sue radici in uno specifico fatto storico della vita di San Francesco.
Fu lui, il poverello d’Assisi, a dar vita per la prima volta a un presepe, e lo fece a Greccio, in Umbria, il 25 dicembre 1223.
Ne abbiamo parlato con un frate francescano, che si chiama Padre Francesco Rossi e che per vent’anni è vissuto a Greccio, addetto ad accompagnare i pellegrini sul luogo dove avvenne il primo presepe e spiegare loro la storia e quali significati profondi volle dare ad essa il Santo di Assisi.
L’intervista Ci ha detto Padre Rossi <<Nel 1220, Francesco era riuscito a realizzare un grande desiderio, andare a visitare i luoghi della vita terrena di Gesù.
Fu anche a Betlemme e si fermò a lungo a pregare e meditare sul luogo dove il Salvatore nacque.
Tornato in Italia, continuava a ripensare a quel viaggio.
E la sua mente era affascinata soprattutto dall’evento della nascita di Gesù.
Dio che si fa uomo.
Dio che diventa bambino, umile, fragile, indigente.
Francesco si commuoveva fino a piangere facendo queste considerazioni.
E nel Natale del 1223, decise di organizzare una “rappresentazione viva” della nascita di Gesù, convinto che, potendo “vedere” con i suoi occhi, avrebbe avuto modo di comprendere ancora più a fondo>>.
Perché scelse Greccio per quella rappresentazione e non Assisi, sua città natale, dove abitualmente viveva? << Probabilmente perché Greccio gli richiamava alla mente il paesaggio di Betlemme, che aveva visitato tre anni prima Conosceva Greccio.
La sua prima visita a quei luoghi risale al 1208.
Allora si era stabilito, con alcuni suoi compagni, sulla montagna.
Ma in seguito, gli abitanti che stavano giù a valle lo pregarono di andare a vivere vicino a loro.
E Francesco scese dalla montagna e si stabilì in alcune grotte nei pressi del borgo.
Greccio era un piccolo agglomerato di povere abitazioni intorno al castello.
Forse contava un centinaio circa di abitanti.
La zona era paludosa, malsana, e anche per questo poco abitata.
Ma aveva quell’aspetto di povertà assoluta, di silenzio, di sofferenza anche fisica della natura, che a Francesco piacevano, perché lo aiutavano a meditare, a sentirsi umile, povero.
Tornando dai suoi viaggi in giro per l’Italia, amava sostare a Greccio.
E quando pensò di “rivivere” la nascita di Gesù, volle che questo avvenisse a Greccio>>.
Ci sono documenti storici di quell’evento? <<I primi biografi, contemporanei a Francesco, quindi testimoni diretti, in particolare Tommaso da Celano e San Bonaventura, ne fanno un resoconto dettagliato.
<<Tommaso da Celano, nella sua “Vita prima di San Francesco d’Assisi”, al capitolo XXX, dedicato appunto al racconto del Presepio di Greccio, dice che il Santo pensava continuamente alla vita di Gesù e soprattutto “all’umiltà dell’Incarnazione e alla carità della Passione”.
Cioè, ai due aspetti più umani e anche più sconvolgenti della vita terrena del Cristo.
<<Francesco ha fama, tra la gente, di essere un santo romantico, un poeta, l’autore del “Cantico delle creature”, l’amante degli animali, della natura, insomma un santo in un certo senso un po’astratto, immerso in una realtà mistica lontana dalla concretezza della vita.
Immagine completamente sbagliata.
<<San Francesco era sì un tipo romantico, un vero poeta e un autentico mistico, ma con una “concretezza” granitica.
La sua imitazione del Cristo era “alla lettera”, senza sbavature.
Gesù ha insegnato che siamo tutti fratelli, figli dello stesso Padre e che egli si nasconde nei più miseri, negli ammalati, nei carcerati.
E Francesco, per “vivere” alla lettera questo insegnamento, andava a visitare i carcerati, abbracciava e serviva i lebbrosi.
Gesù era povero, non aveva niente, e Francesco, che apparteneva a una famiglia ricca, volle rinunciare a tutto, perfino ai vestiti che indossava.
L’Incarnazione, la nascita e la morte di Gesù erano, come scrisse il Celano, argomenti fissi delle meditazioni di Francesco voleva assimilarne il significato più profondo, immedesimandosi in essi fino a “viverli”.
E per riuscire in questo, si ritirava sui monti, in luoghi deserti, in modo che la sua meditazione fosse profonda.
Nel 1223 era tutto concentrato sulla nascita di Gesù e volle celebrare il Natale di quell’anno con una “rappresentazione realistica” di quell’evento.
L’anno successivo, 1224, andrà sul monte Verna per meditare sulla passione e morte di Gesù e avrà l’impressione delle stigmate di Cristo sul proprio corpo>>.
Come si svolse quella “rappresentazione” del Natale? <<Francesco la preparò con meticolosità.
Chiese aiuto a un amico, un certo Giovanni da Greccio, signore della zona, che il santo stimava molto perché, come scrive il Celano, “pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne”.
All’amico disse di voler organizzare, per la notte di Natale, una “rappresentazione” della nascita di Gesù.
Non, però, uno “spettacolo” da far vedere ai curiosi.
Ma una “ricostruzione visiva e vera”.
Tommaso da Celano riporta le parole esatte che Francesco disse a Giovanni: “Vorrei rappresentare il bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia, e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”.
Francesco aborriva lo spettacolo.
Lo riteneva irrispettoso nei confronti del grande mistero religioso.
E temeva che la sua iniziativa venisse male interpretata.
Per questo, come informa San Bonaventura, (anche lui contemporaneo di Francesco e quindi testimone diretto), prima di mettere in atto quel suo progetto chiese il permesso al Papa>>.
Cosa accadde nel corso di quella notte? <<Giovanni di Greccio organizzò ogni cosa come Francesco aveva chiesto.
La notizia era stata diffusa e la gente del luogo si radunò presso la grotta dove Francesco e i frati andavano a pregare.
Arrivarono pellegrini anche da altri borghi.
Scrisse il Celano: “Arrivarono uomini, donne festanti, portando ciascuno, secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte”.
<<Alla fine arrivò anche Francesco e, vedendo che tutto era predisposto secondo il suo desiderio, era raggiante di letizia.
Il Celano precisa che, a quel punto, “si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello”.
Da questa annotazione si comprende chiaramente che Francesco vuole ricostruire la scena della nascita di Gesù, ma non vuole dare spettacolo.
Infatti, nessuno dei presenti prende il posto della Madonna, di San Giuseppe, del bambino.
Se così si fosse fatto, sarebbe stato spettacolo.
No, Francesco vuole vedere la scena reale su cui pensare e riflettere nel corso della Messa che sarebbe stata celebrata, perché la Messa avrebbe richiamato la presenza reale di Gesù in quel luogo.
<<E’ questo un dettaglio importantissimo.
La liturgia eucaristica richiama sull’altare la presenza “vera, reale e sostanziale” di Gesù.
Francesco voleva rivivere la nascita di Gesù in forma reale nel contesto della Messa.
Quando parlava dei sacerdoti, li paragonava alla Vergine Maria, perché nella Messa i sacerdoti fanno rinascere sull’altare Gesù.
E diceva anche che i fedeli, quando fanno la Comunione, sono come Maria che ha portato Gesù dentro di sé.
Quindi, la Liturgia eucaristica di quella notte di Natale avrebbe portato Gesù in quel luogo allestito come la capanna di Betlemme>>.
Francesco era diacono: partecipò alla Messa? <<Certamente.
Indossò i paramenti solenni e lesse il Vangelo, tenendo poi una predica.
Il Celano dice che quando pronunciava le parole “Bambino di Betlemme” la sua voce tremava di tenerezza e di commozione.
Il Celano aggiunge che, nel corso della celebrazione eucaristica, si manifestarono “in abbondanza i doni dell’Onnipotente”, cioè fatti prodigiosi.
E riporta la testimonianza, che viene riferita anche da San Bonaventura, di ciò che vide Giovanni da Greccio.
“Egli affermò”, scrisse San Bonaventura “di aver veduto, dentro la mangiatoia, un bellissimo fanciullo addormentato, che il beato Francesco, stringendolo con ambedue le braccia, sembrava destare dal sonno”.
E una chiara indicazione di ciò che potrebbe essere accaduto e che la tradizione ha sempre tramandato: Gesù si fece realmente vivo “apparendo” nelle sembianze di un bambino sul fieno di quella mangiatoia>>.

Andate e battezzate.

Due giorni fa Benedetto XVI ha ricevuto le presidenti dell’Argentina, Cristina Fernández de Kirchner, e del Cile, Michelle Bachelet, arrivate con le rispettive delegazioni a ringraziare la Santa Sede per la soluzione pacifica data venticinque anni fa dalla diplomazia vaticana alla controversia territoriale tra i due paesi circa la sovranità sulle isole a sud del canale di Beagle.
L’Argentina e il Cile, assieme alla Colombia, sono le nazioni dell’America meridionale in cui la Chiesa cattolica è più saldamente impiantata.
Ma sono anche quelle in cui è più incalzante la sfida della secolarizzazione: nella mentalità, nel costume e nelle norme giuridiche.
Il 13 novembre un giudice di Buenos Aires ha autorizzato un “matrimonio” tra persone dello stesso sesso, dichiarando incostituzionali gli articoli del codice civile che lo vietano.
Il capo del governo di Buenos Aires ha preso le parti del giudice.
E ciò ha provocato la vigorosa reazione dell’arcivescovo della città, il cardinale Jorge Bergoglio, che è anche presidente della conferenza episcopale argentina, persona molto amata e stimata.
La risposta della Chiesa alla sfida della secolarizzazione è un test decisivo per verificare la riuscita o meno delle indicazioni pastorali elaborate per il subcontinente dalla conferenza degli episcopati latinoamericani tenuta nel 2007 ad Aparecida.
La secolarizzazione, infatti, erode quello che è un carattere tipico della Chiesa cattolica in questi paesi: quello di essere Chiesa di popolo, con la famiglia come struttura portante e con il battesimo dei bambini come pratica generale.
In alcune regioni d’Europa battezzare un bambino è già divenuto un atto di minoranza, che per essere compiuto esige una decisione controcorrente.
Ma ora anche in Argentina cresce il numero di bambini, ragazzi, giovani, adulti che non sono battezzati.
Questo calo della pratica del battesimo consegue a un indebolimento dei legami familiari e a un allontanamento dalla Chiesa.
Tra il clero c’è chi ne ha tratto questa conseguenza: là dove vede spegnersi i segni della fede, ritiene giusto neppure amministrare i sacramenti.
In Argentina, oggi le autorità della Chiesa si muovono invece in direzione opposta.
Già nel 2002 l’arcidiocesi di Buenos Aires e le diocesi del circondario avevano pubblicato un’istruzione che raccomandava vivamente di battezzare sia i bambini che gli adulti e spiegava come superare le resistenze alla celebrazione del rito.
Ma ora i vescovi della regione sono tornati alla carica con un libretto dal titolo “El bautismo en clave misionera”, che riproduce l’istruzione del 2002 e la integra con altre indicazioni orientative per i parroci.
Così da quest’anno i parroci più solerti indicono periodicamente delle “giornate del battesimo”, nelle quali amministrano il sacramento a bambini e ad adulti in situazioni di povertà o con famiglie divise, aiutati a superare le diffidenze proprie e del vicinato.
Il senso di tutto ciò il cardinale Bergoglio l’ha spiegato in una intervista alla rivista internazionale “30 Giorni”: “Il bambino non ha alcuna responsabilità dello stato del matrimonio dei suoi genitori.
Il battesimo dei bambini può anzi diventare per i genitori un nuovo inizio.
Io stesso qualche tempo fa ho battezzato sette figli di una donna sola, una povera vedova, che fa la donna di servizio e li aveva avuti da due uomini differenti.
L’avevo incontrata alla festa di San Cayetano.
Mi aveva detto: padre, sono in peccato mortale, ho sette figli e non li ho mai fatti battezzare, non ho i soldi per i padrini e per la festa…
Ci siamo rivisti e dopo una piccola catechesi li ho battezzati nella cappella dell’arcivescovado.
La donna mi ha detto: padre, non posso crederci, lei mi fa sentire importante.
Le ho risposto: ma signora, che c’entro io?, è Gesù che la fa importante”.
A Bergoglio preme non far spegnere una tradizione tipica delle aree più remote dell’Argentina, in quei paesi e villaggi dove il prete arriva solo poche volte all’anno: “Lì la pietà popolare sente che i bambini devono essere battezzati il prima possibile, e allora c’è un uomo o una donna conosciuti da tutti come ‘bautizadores’ che battezzano i bambini quando nascono, in attesa che giunga il prete.
E quando questo arriva, gli portano i bambini perché lui li segni con l’olio santo, terminando il rito.
Quando ci penso, mi viene in mente la storia di quelle comunità cristiane del Giappone che erano rimaste senza sacerdoti per più di duecento anni.
Quando i missionari tornarono, li trovarono tutti battezzati e tutti sacramentalmente sposati”.
Dice ancora il cardinale: “La conferenza di Aparecida ci ha incitati ad annunciare il Vangelo andando a trovare la gente, non rimanendo ad aspettare che la gente venga da noi.
Il fervore missionario non richiede eventi straordinari.
È nella vita ordinaria che si fa missione.
E il battesimo, in questo, è paradigmatico.
I sacramenti sono per la vita degli uomini e delle donne così come sono.
I quali magari non fanno tanti discorsi, eppure il loro ‘sensus fidei’ coglie la realtà dei sacramenti con più chiarezza di quanto succede a tanti specialisti”.
Riaffiora qui l’antica e mai risolta disputa tra Chiesa di élite e Chiesa di popolo, tra Chiesa pura, di minoranza, e Chiesa di massa, popolata quest’ultima anche da quell’immensa marea umana per la quale il cristianesimo è fatto di poche cose elementari.
In Italia, ad esempio, la disputa si è riproposta in occasione dell’ultimo grande convegno nazionale della Chiesa, tenuto a Verona nell’ottobre del 2006.
In quell’occasione, una tesi sostenuta dai “rigoristi” era proprio quella di rifiutare il battesimo e altri sacramenti ai richiedenti ritenuti non idonei perché non praticanti.
È un dilemma che lo stesso Joseph Ratzinger visse da giovane in prima persona, e infine risolse nella stessa direzione indicata dal cardinale Bergoglio.
Questo è ciò che, da papa, lo stesso Ratzinger ha detto rispondendo alla domanda di un sacerdote di Bressanone, in un pubblico botta e risposta con il clero di quella diocesi, il 6 agosto del 2008.
Il sacerdote, di nome Paolo Rizzi, parroco e docente di teologia, chiese in quell’occasione a Benedetto XVI, a proposito di battesimi, cresime e prime comunioni: “Santo Padre, trenta-trentacinque anni fa io pensavo che ci stessimo avviando ad essere un piccolo gregge, una comunità di minoranza più o meno in tutta l’Europa.
Che si dovesse quindi donare i sacramenti solo a chi si impegna veramente nella vita cristiana.
Poi, anche per lo stile del pontificato di Giovanni Paolo II, ho riconsiderato le cose.
Se è possibile fare previsioni per il futuro, lei cosa pensa? Quali atteggiamenti pastorali ci può indicare?”.
Rispose papa Ratzinger: “Devo dire che io ho percorso una strada simile alla sua.
Quando ero più giovane ero piuttosto severo.
Dicevo: i sacramenti sono i sacramenti della fede, e quindi dove la fede non c’è, dove non c’è prassi di fede, anche il sacramento non può essere conferito.
E poi ho sempre discusso quando ero arcivescovo di Monaco con i miei parroci: anche qui vi erano due fazioni, una severa e una larga.
E anch’io nel corso dei tempi ho capito che dobbiamo seguire piuttosto l’esempio del Signore, che era molto aperto anche con le persone ai margini dell’Israele di quel tempo, era un Signore della misericordia, troppo aperto – secondo molte autorità ufficiali – con i peccatori, accogliendoli o lasciandosi accogliere da loro nelle loro cene, attraendoli a sé nella sua comunione.
“Quindi io direi sostanzialmente che i sacramenti sono naturalmente sacramenti della fede: dove non ci fosse nessun elemento di fede, dove la prima comunione fosse soltanto una festa con un grande pranzo, bei vestiti, bei doni, allora non sarebbe più un sacramento della fede.
Ma, dall’altra parte, se possiamo vedere ancora una piccola fiamma di desiderio della comunione nella Chiesa, un desiderio anche di questi bambini che vogliono entrare in comunione con Gesù, mi sembra che sia giusto essere piuttosto larghi.
“Naturalmente, certo, deve essere un aspetto della nostra catechesi far capire che la comunione, la prima comunione, non è un fatto ‘puntuale’, ma esige una continuità di amicizia con Gesù, un cammino con Gesù.
Io so che i bambini spesso avrebbero intenzione e desiderio di andare la domenica a Messa, ma i genitori non rendono possibile questo desiderio.
Se vediamo che i bambini lo vogliono, che hanno il desiderio di andare, mi sembra sia quasi un sacramento di desiderio, il ‘voto’ di una partecipazione alla messa domenicale.
In questo senso dovremmo naturalmente fare il possibile nel contesto della preparazione ai sacramenti, per arrivare anche ai genitori e – diciamo – così svegliare anche in loro la sensibilità per il cammino che fanno i bambini.
Dovrebbero aiutare i loro bambini a seguire il proprio desiderio di entrare in amicizia con Gesù, che è forma della vita, del futuro.
Se i genitori hanno il desiderio che i loro bambini possano fare la prima comunione, questo loro desiderio piuttosto sociale dovrebbe allargarsi in un desiderio religioso, per rendere possibile un cammino con Gesù.
“Direi quindi che, nel contesto della catechesi dei bambini, sempre il lavoro con i genitori è molto importante.
E proprio questa è una delle occasioni di incontrarsi con i genitori, rendendo presente la vita della fede anche agli adulti, perché dai bambini – mi sembra – possono reimparare loro stessi la fede e capire che questa grande solennità ha senso soltanto, ed è vera ed autentica soltanto, se si realizza nel contesto di un cammino con Gesù, nel contesto di una vita di fede.
Quindi convincere un po’, tramite i bambini, i genitori della necessità di un cammino preparatorio, che si mostra nella partecipazione ai misteri e comincia a far amare questi misteri.
“Direi che questa è certamente una risposta abbastanza insufficiente, ma la pedagogia della fede è sempre un cammino e noi dobbiamo accettare le situazioni di oggi, ma anche aprirle a un di più, perché non rimanga alla fine solo qualche ricordo esteriore di cose, ma sia veramente toccato il cuore.
Nel momento nel quale veniamo convinti, nel quale il cuore è toccato, ha sentito un po’ l’amore di Gesù, ha provato un po’ il desiderio di muoversi in questa linea e in questa direzione, in quel momento, mi sembra, possiamo dire di aver fatto una vera catechesi.
Il senso proprio della catechesi, infatti, dovrebbe essere questo: portare la fiamma dell’amore di Gesù, anche se piccola, ai cuori dei bambini e tramite i bambini ai loro genitori, aprendo così di nuovo i luoghi della fede nel nostro tempo”.