Nella “giornata di riflessione e preghiera” che ha preceduto il concistoro di oggi, Benedetto XVI ha proposto ai cardinali cinque temi di discussione.
Uno di questi è stato “a risposta della Chiesa ai casi di abusi sessuali”.
Era la prima volta che se ne discuteva a un così alto livello, da parte di un collegio di cardinali rappresentativo della Chiesa universale, attorno al papa.
La discussione è stata introdotta dal cardinale William J.
Levada, prefetto della congregazione per la dottrina della fede, e si è protratta per circa un’ora, a porte rigorosamente chiuse.
La congregazione invierà presto una lettera circolare alle conferenze episcopali con indicazioni “per un programma coordinato ed efficace”.
Si sa però che la linea adottata in quest’ultimo decennio dalle massime autorità della Chiesa – con un crescendo di rigore culminato nel 2010 con le nuove “Norme sui delitti più gravi” – si presta a serie obiezioni e offre il fianco a vari rischi.
* Le obiezioni sono anzitutto di tipo giuridico.
Il 1 dicembre prossimo la facoltà di diritto canonico della Pontificia Università Urbaniana dedicherà un convegno di studio proprio alle nuove norme riguardanti i casi più gravi di abuso sessuale, in particolare con una relazione del professor John Paul Kimes del Pontificio Istituto Orientale.
Un elemento chiave delle innovazioni normative è stato, a partire dal 2001, l’assegnazione della competenza esclusiva sui delitti di pedofilia alla congregazione per la dottrina della fede.
In pratica, quando un vescovo si trova in presenza di un caso di pedofilia, dopo una prima verifica dell’attendibilità della denuncia deve rimettere la causa a Roma.
Questa centralizzazione è stata fermamente voluta da Joseph Ratzinger sia prima che dopo la sua nomina a papa.
E ha avuto il suo braccio esecutivo nel promotore di giustizia della congregazione per la dottrina delle fede, monsignor Charles J.
Scicluna.
La ragione principale che ha spinto in questa direzione è l’inaffidabilità di cui molte diocesi hanno dato prova nell’affrontare simili casi.
E in effetti, da quando la congregazione per la dottrina della fede ha assunto il pieno controllo della materia, l’opera di “pulizia” ha prodotto risultati.
Questa centralizzazione ha però un rischio.
Presta il fianco – retorico se non sostanziale – a chi vorrebbe trascinare in tribunale persino il papa, per delitti commessi da suoi “dipendenti”.
Negli Stati Uniti sono in corso processi nei quali l’accusa tratta la Chiesa alla pari di una “corporation” e pretende che a rispondere di ogni atto siano anche i suoi massimi titolari, dai quali si pretenderebbe anche il risarcimento in danaro delle vittime.
* Altre obiezioni, più fondate, riguardano non la centralizzazione delle cause di pedofilia, ma le modalità con cui sono affrontate.
Stando a quanto riferito da monsignor Scicluna, dei 3000 casi di sacerdoti e religiosi accusati di pedofilia trattati dalla congregazione per la dottrina della fede negli ultimi dieci anni, solo 20 su cento hanno avuto un processo canonico vero e proprio, giudiziario o amministrativo.
Tutti gli altri casi sono stati affrontati in via extraprocessuale.
Un caso clamoroso di procedura extraprocessuale ha riguardato, ad esempio, il fondatore dei Legionari di Cristo, padre Marcial Maciel.
La congregazione per la dottrina della fede semplicemente svolse un’investigazione per verificare le accuse.
Dopo di che, con l’approvazione esplicita del papa, il 19 maggio 2006 emise un comunicato per “invitare il padre a una vita riservata di preghiera e di penitenza, rinunciando a ogni ministero pubblico”.
“Facciamo così per una maggiore speditezza dell’iter”, ha detto monsignor Scicluna per giustificare questa rinuncia alla via processuale.
Ma per gli esperti di diritto, questo vantaggio pratico mette in pericolo principi cardine dell’ordinamento canonico della Chiesa e la stessa esigenza di un giusto processo.
Tra gli esperti di diritto vi sono anche illustri cardinali della curia romana: l’americano Raymond L.
Burke, prefetto del supremo tribunale della segnatura apostolica; lo spagnolo Julián Herranz, presidente emerito del pontificio consiglio per i testi legislativi; il polacco Zenon Grocholewski, prefetto della congragazione per l’educazione cattolica; l’italiano Velasio De Paolis, presidente della prefettura degli affari economici della Santa Sede e delegato papale per il “salvataggio” dei Legionari di Cristo.
Per questi e altri cultori del diritto, in curia e fuori, l’aggiramento del processo canonico limita seriamente le possibilità di difesa dell’imputato.
Non solo.
Anche quando un caso di pedofilia è sottoposto a processo canonico, la tendenza prevalente è sempre più quella di procedere non per via giudiziaria ma per via amministrativa.
Il diritto canonico prevede entrambe le vie.
Ma rispetto a quanto avviene negli ordinamenti di molti stati, il giudice canonico gode di maggiore discrezionalità, col rischio che questa si trasformi in arbitrio.
Compete al giudice canonico – cioè in definitiva al vescovo del luogo, salvi i casi, come quelli di pedofilia, in cui la competenza è della congregazione per la dottrina della fede – scegliere se avviare un processo giudiziale oppure amministrativo mediante decreto.
In questo secondo caso, e non per sua scelta, l’imputato si trova così ad essere giudicato dalla stessa persona che è anche il suo pubblico accusatore.
Ne esce quindi svuotato il suo diritto a un giudice “terzo”, cioè equidistante da accusa e difesa.
All’imputato sono comunicate le accuse mosse a suo carico, ma non le fonti e i nomi degli accusatori, che devono restare segreti.
Inoltre, a differenza del processo amministrativo in uso in molti stati, ove la pena è solo pecuniaria, il processo amministrativo canonico può concludersi con pene anche gravissime, come la dimissione dallo stato clericale, emesse con un semplice decreto.
Il ricorso in appello è consentito.
Ma nel processo amministrativo l’autorità a cui spetta il giudizio finale sarà ancora la stessa che in precedenza è stata sia accusatore che giudice.
Non solo.
Capita talvolta che a un sacerdote uscito assolto dall’accusa di pedofilia sia ugualmente comminata dal suo vescovo o dalla congregazione per la dottrina della fede una pubblica ammonizione, o una penitenza, o un’altra pena.
È ciò che consente il canone 1348 del codice di diritto canonico, secondo taluni canonisti “per la salvezza dell’individuo e il bene della comunità”.
Ma è anche qualcosa che fa a pugni con il rispetto della norma giuridica, con i diritti della persona e con la distinzione tra foro esterno ed interno.
Rispetto a tutti questi arbitrii, il processo giudiziario canonico è molto più rispettoso dei diritti dell’imputato.
Ma nei casi di pedofilia è raramente praticato.
Si procede quasi sempre per decreto o per sanzioni extraprocessuali.
* In un paese come gli Stati Uniti d’America si è passati da una fase di lassismo nel trattare il fenomeno pedofilia, sia in campo civile che in campo ecclesiastico, a una fase di “tolleranza zero” generalizzata, di impronta puritana.
Nella Chiesa è avvenuto qualcosa di simile.
Il fenomeno pedofilia è sempre più percepito come uno stato di emergenza.
Al quale si ritiene doveroso reagire con una normativa anch’essa di emergenza, la più rapida e sbrigativa possibile.
Una normativa di emergenza dovrebbe cessare una volta superata la fase critica.
Ma questo esito appare lontano, nel caso della pedofilia.
Insomma, era questo lo sfondo giuridico della discussione tra i cardinali e papa Benedetto su “la risposta della Chiesa ai casi di abusi sessuali”, ieri, venerdì 19 novembre, vigilia del terzo concistoro di questo pontificato.
C’è motivo di credere che questa discussione continuerà.
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Riscoprire lo spirito del Concilio
Si discute molto su come interpretare il Concilio Vaticano II.
Continuità o discontinuità con la tradizione? Ritengo che si tratti di una polemica sterile.
Non le pare che la vera chiave di lettura del Concilio Vaticano II, quasi cinquant’anni dopo, consista nel rileggere l’esperienza cristiana alla luce delle sue origini contenute nel Nuovo Testamento? (Antonio Meli, Messina) È vero! A ormai quasi cinquant’anni dalla celebrazione del Concilio Vaticano II si discute ancora sulla sua interpretazione.
Io sono d’accordo con lei che si tratta, almeno in parte, di una polemica sterile, ma anche un po’ inevitabile.
Ricordo bene quei giorni, perché, pur non essendo membro del Concilio, vivevo a Roma al Pontificio Istituto Biblico, dove risuonavano in vari modi gli echi suscitati dalle discussioni dei vescovi.
Si temeva che il Concilio promovesse alcune interpretazioni letterali o simboliche della Scrittura che sistematicamente respingevano ogni sorta di lettura storicocritica.
Alcuni sostenevano addirittura che i metodi critici portassero alla perdita della fede.
Di fatto molti esegeti sostenevano invece un’interpretazione dei testi che nutrisse la fede, ma fosse anche attenta agli studi storico-critici.
Fu grande quindi la loro gioia quando, dopo lunghe e accese discussioni, fu approvata la Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione.
Ma per molti c’era un motivo di gioia ancora più grande.
I documenti approvati dai Padri conciliari dimostravano nel loro insieme la volontà della Chiesa di entrare in contatto con tutti gli uomini di buona volontà e di porsi in atteggiamento di rispettoso ascolto delle voci e dei desideri di tutti.
Naturalmente non è in questo entusiasmo che troviamo lo spirito del Concilio.
Anche perché in quel periodo, in un’atmosfera di entusiasmo e anche con una certa ingenuità, circolavano tanti progetti per il futuro della Chiesa.
Cosa dunque appartiene o no allo spirito del Concilio? È opportuna la distinzione tra continuità e discontinuità della tradizione.
I sostenitori di un’interpretazione rigida, che guardano con sospetto ad ogni novità, non tengono ben presente che vi possono essere novità nella Chiesa.
Essa è un organismo vivente, che nasce piccolo ma nel tempo si sviluppa come un corpo umano che cresce così da apparire come qualcosa di nuovo.
Tale visione della storia della Chiesa fu sostenuta fin dal secolo V da San Vincenzo di Lerino.
Egli afferma che nella Chiesa vi saranno certamente nel corso degli anni progressi anche molto vistosi.
Non ci si deve spaventare di essi.
Solo quando un organismo si trasforma in un altro bisognerà parlare di cambiamenti e respingerli con forza.
Come scrive San Vincenzo di Lerino: «È necessario dunque che, con il progredire del tempo, crescano e progrediscano quanto più possibile la comprensione, la scienza e la sapienza, così nei singoli come di tutti, tanto di uno solo, quanto di tutta la Chiesa».
Il suggerimento del lettore che parla di «rileggere l’esperienza cristiana alla luce delle sue origini contenute nel Nuovo Testamento» mi pare conforme con quanto abbiamo detto parlando di quali novità possa esprimere la Chiesa nel corso dei secoli.
in “Corriere della Sera” del 21 ottobre 2010
“Diventare grandi insieme”
Diventare grandi significa essere capaci di amare Diventare grandi vuol dire trasformare la propria vita in “un dono agli altri”: in altre parole, essere capaci di amare.
Lo ha detto il Papa ai centomila tra ragazzi e giovanissimi dell’Azione cattolica italiana incontrati sabato mattina, 30 ottobre, in piazza San Pietro.
Domanda del ragazzo Acr: Santità, cosa significa diventare grandi? Cosa devo fare per crescere seguendo Gesù? Chi mi può aiutare? Cari amici dell’Azione Cattolica Italiana! Sono semplicemente felice di incontrarvi, così numerosi, su questa bella piazza e vi ringrazio di cuore per il vostro affetto! A tutti voi rivolgo il mio benvenuto.
In particolare, saluto il Presidente, Prof.
Franco Miano, e l’Assistente Generale, Mons.
Domenico Sigalini.
Saluto il Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, gli altri Vescovi, i sacerdoti, gli educatori e i genitori che hanno voluto accompagnarvi.
Allora, ho ascoltato la domanda del ragazzo dell’Acr.
La risposta più bella su che cosa significa diventare grandi la portate scritta voi tutti sulle vostre magliette, sui cappellini, sui cartelloni: “C’è di più”.
Questo vostro motto, che non conoscevo, mi fa riflettere.
Che cosa fa un bambino per vedere se diventa grande? Confronta la sua altezza con quella dei compagni; e immagina di diventare più alto, per sentirsi più grande.
Io, quando sono stato ragazzo, alla vostra età, nella mia classe ero uno dei più piccoli, e tanto più ho avuto il desiderio di essere un giorno molto grande; e non solo grande di misura, ma volevo fare qualcosa di grande, di più nella mia vita, anche se non conoscevo questa parola “c’è di più”.
Crescere in altezza implica questo “c’è di più”.
Ve lo dice il vostro cuore, che desidera avere tanti amici, che è contento quando si comporta bene, quando sa dare gioia al papà e alla mamma, ma soprattutto quando incontra un amico insuperabile, buonissimo e unico che è Gesù.
Voi sapete quanto Gesù voleva bene ai bambini e ai ragazzi! Un giorno tanti bambini come voi si avvicinarono a Gesù, perché si era stabilita una bella intesa, e nel suo sguardo coglievano il riflesso dell’amore di Dio; ma c’erano anche degli adulti che invece si sentivano disturbati da quei bambini.
Capita anche a voi che qualche volta, mentre giocate, vi divertite con gli amici, i grandi vi dicono di non disturbare…
Ebbene, Gesù rimprovera proprio quegli adulti e dice loro: Lasciate qui tutti questi ragazzi, perché hanno nel cuore il segreto del Regno di Dio.
Così Gesù ha insegnato agli adulti che anche voi siete “grandi” e che gli adulti devono custodire questa grandezza, che è quella di avere un cuore che vuole bene a Gesù.
Cari bambini, cari ragazzi: essere “grandi” vuol dire amare tanto Gesù, ascoltarlo e parlare con Lui nella preghiera, incontrarlo nei Sacramenti, nella Santa Messa, nella Confessione; vuole dire conoscerlo sempre di più e anche farlo conoscere agli altri, vuol dire stare con gli amici, anche i più poveri, gli ammalati, per crescere insieme.
E l’Acr è proprio parte di quel “di più”, perché non siete soli a voler bene a Gesù – siete in tanti, lo vediamo anche questa mattina! -, ma vi aiutate gli uni gli altri; perché non volete lasciare che nessun amico sia solo, ma a tutti volete dire forte che è bello avere Gesù come amico ed è bello essere amici di Gesù; ed è bello esserlo insieme, aiutati dai vostri genitori, sacerdoti, animatori! Così diventate grandi davvero, non solo perché la vostra altezza aumenta, ma perché il vostro cuore si apre alla gioia e all’amore che Gesù vi dona.
E così si apre alla vera grandezza, stare nel grande amore di Dio, che è anche sempre amore degli amici.
Speriamo e preghiamo di crescere in questo senso, di trovare il “di più” e di essere veramente persone con un cuore grande, con un Amico grande che dà la sua grandezza anche a noi.
Grazie.
Domanda della giovanissima: Santità, i nostri educatori dell’Azione Cattolica ci dicono che per diventare grandi occorre imparare ad amare, ma spesso noi ci perdiamo e soffriamo nelle nostre relazioni, nelle nostre amicizie, nei nostri primi amori.
Ma cosa significa amare fino in fondo? Come possiamo imparare ad amare davvero? Una grande questione.
È molto importante, direi fondamentale imparare ad amare, amare veramente, imparare l’arte del vero amore! Nell’adolescenza ci si ferma davanti allo specchio e ci si accorge che si sta cambiando.
Ma fino a quando si continua a guardare se stessi, non si diventa mai grandi! Diventate grandi quando non permettete più allo specchio di essere l’unica verità di voi stessi, ma quando la lasciate dire a quelli che vi sono amici.
Diventate grandi se siete capaci di fare della vostra vita un dono agli altri, non di cercare se stessi, ma di dare se stessi agli altri: questa è la scuola dell’amore.
Questo amore, però, deve portarsi dentro quel “di più” che oggi gridate a tutti.
“C’è di più”! Come vi ho già detto, anch’io nella mia giovinezza volevo qualcosa di più di quello che mi presentava la società e la mentalità del tempo.
Volevo respirare aria pura, soprattutto desideravo un mondo bello e buono, come lo aveva voluto per tutti il nostro Dio, il Padre di Gesù.
E ho capito sempre di più che il mondo diventa bello e diventa buono se si conosce questa volontà di Dio e se il mondo è in corrispondenza con questa volontà di Dio, che è la vera luce, la bellezza, l’amore che dà senso al mondo.
È proprio vero: voi non potete e non dovete adattarvi ad un amore ridotto a merce di scambio, da consumare senza rispetto per sé e per gli altri, incapace di castità e di purezza.
Questa non è libertà.
Molto “amore” proposto dai media, in internet, non è amore, ma è egoismo, chiusura, vi dà l’illusione di un momento, ma non vi rende felici, non vi fa grandi, vi lega come una catena che soffoca i pensieri e i sentimenti più belli, gli slanci veri del cuore, quella forza insopprimibile che è l’amore e che trova in Gesù la sua massima espressione e nello Spirito Santo la forza e il fuoco che incendia le vostre vite, i vostri pensieri, i vostri affetti.
Certo costa anche sacrificio vivere in modo vero l’amore – senza rinunce non si arriva a questa strada – ma sono sicuro che voi non avete paura della fatica di un amore impegnativo e autentico.
È l’unico che, in fin dei conti, dà la vera gioia! C’è una prova che vi dice se il vostro amore sta crescendo bene: se non escludete dalla vostra vita gli altri, soprattutto i vostri amici che soffrono e sono soli, le persone in difficoltà, e se aprite il vostro cuore al grande Amico che è Gesù.
Anche l’Azione Cattolica vi insegna le strade per imparare l’amore autentico: la partecipazione alla vita della Chiesa, della vostra comunità cristiana, il voler bene ai vostri amici del gruppo di ACR, di AC, la disponibilità verso i coetanei che incontrate a scuola, in parrocchia o in altri ambienti, la compagnia della Madre di Gesù, Maria, che sa custodire il vostro cuore e guidarvi nella via del bene.
Del resto, nell’Azione Cattolica, avete tanti esempi di amore genuino, bello, vero: il beato Pier Giorgio Frassati, il beato Alberto Marvelli; amore che arriva anche al sacrificio della vita, come la beata Pierina Morosini e la beata Antonia Mesina.
Giovanissimi di Azione Cattolica, aspirate a mete grandi, perché Dio ve ne dà la forza.
Il “di più” è essere ragazzi e giovanissimi che decidono di amare come Gesù, di essere protagonisti della propria vita, protagonisti nella Chiesa, testimoni della fede tra i vostri coetanei.
Il “di più” è la formazione umana e cristiana che sperimentate in AC, che unisce la vita spirituale, la fraternità, la testimonianza pubblica della fede, la comunione ecclesiale, l’amore per la Chiesa, la collaborazione con i Vescovi e i sacerdoti, l’amicizia spirituale.
“Diventare grandi insieme” dice l’importanza di far parte di un gruppo e di una comunità che vi aiutano a crescere, a scoprire la vostra vocazione e a imparare il vero amore.
Grazie.
Domanda dell’educatrice: Santità, cosa significa oggi essere educatori? Come affrontare le difficoltà che incontriamo nel nostro servizio? E come fare in modo che siano tutti a prendersi cura del presente e del futuro delle nuove generazioni? Grazie.
Una grande domanda.
Lo vediamo in questa situazione del problema dell’educazione.
Direi che essere educatori significa avere una gioia nel cuore e comunicarla a tutti per rendere bella e buona la vita; significa offrire ragioni e traguardi per il cammino della vita, offrire la bellezza della persona di Gesù e far innamorare di Lui, del suo stile di vita, della sua libertà, del suo grande amore pieno di fiducia in Dio Padre.
Significa soprattutto tenere sempre alta la meta di ogni esistenza verso quel “di più” che ci viene da Dio.
Questo esige una conoscenza personale di Gesù, un contatto personale, quotidiano, amorevole con Lui nella preghiera, nella meditazione sulla Parola di Dio, nella fedeltà ai Sacramenti, all’Eucaristia, alla Confessione; esige di comunicare la gioia di essere nella Chiesa, di avere amici con cui condividere non solo le difficoltà, ma anche le bellezze e le sorprese della vita di fede.
Voi sapete bene che non siete padroni dei ragazzi, ma servitori della loro gioia a nome di Gesù, guide verso di Lui.
Avete ricevuto il mandato dalla Chiesa per questo compito.
Quando aderite all’Azione Cattolica dite a voi stessi e a tutti che amate la Chiesa, che siete disposti ad essere corresponsabili con i Pastori della sua vita e della sua missione, in un’associazione che si spende per il bene delle persone, per i loro e vostri cammini di santità, per la vita delle comunità cristiane nella quotidianità della loro missione.
Voi siete dei buoni educatori se sapete coinvolgere tutti per il bene dei più giovani.
Non potete essere autosufficienti, ma dovete far sentire l’urgenza dell’educazione delle giovani generazioni a tutti i livelli.
Senza la presenza della famiglia, ad esempio, rischiate di costruire sulla sabbia; senza una collaborazione con la scuola non si forma un’intelligenza profonda della fede; senza un coinvolgimento dei vari operatori del tempo libero e della comunicazione la vostra opera paziente rischia di non essere efficace, di non incidere sulla vita quotidiana.
Io sono sicuro che l’Azione Cattolica è ben radicata nel territorio e ha il coraggio di essere sale e luce.
La vostra presenza qui, stamattina, dice non solo a me, ma a tutti che è possibile educare, che è faticoso ma bello dare entusiasmo ai ragazzi e ai giovanissimi.
Abbiate il coraggio, vorrei dire l’audacia di non lasciare nessun ambiente privo di Gesù, della sua tenerezza che fate sperimentare a tutti, anche ai più bisognosi e abbandonati, con la vostra missione di educatori.
Cari amici, alla fine vi ringrazio per aver partecipato a questo incontro.
Mi piacerebbe fermarmi ancora con voi, perché quando sono in mezzo a tanta gioia ed entusiasmo, anche io sono pieno di gioia, mi sento ringiovanito! Ma purtroppo il tempo passa veloce, mi aspettano altri.
Ma col cuore sono con voi e rimango con voi! E vi invito, cari amici, a continuare nel vostro cammino, ad essere fedeli all’identità e alla finalità dell’Azione Cattolica.
La forza dell’amore di Dio può compiere in voi grandi cose.
Vi assicuro che mi ricordo di tutti nella mia preghiera e vi affido alla materna intercessione della Vergine Maria, Madre della Chiesa, perché come lei possiate testimoniare che “c’è di più”, la gioia della vita piena della presenza del Signore.
Grazie a tutti voi di cuore! (©L’Osservatore Romano – 31 ottobre 2010) Zaino in spalla, felpe colorate, foulard al vento, libretto delle preghiere in mano: oltre centomila ragazzi e giovanissimi dell’Azione cattolica italiana hanno gremito piazza San Pietro stamane, sabato 30 ottobre, per il loro incontro nazionale e soprattutto per dialogare con Benedetto XVI e vivere una giornata di condivisione, di festa e di riflessione.
Accompagnati da genitori, educatori, sacerdoti e vescovi – una trentina – hanno gridato al mondo la loro voglia di “diventare grandi insieme”, come recita il tema della manifestazione; forti della consapevolezza che anche nelle loro giovani vite di bambini e di adolescenti “c’è di più”, per dirla ancora con lo slogan dell’avvenimento; e che quel “di più” si chiama Gesù Cristo.
E non è un caso che nel logo dell’iniziativa il “+” sia rappresentato da una croce stilizzata.
Sono il volto giovane della Chiesa.
Il volto sorridente e gioioso con cui hanno atteso l’arrivo del Pontefice tra cori e coreografie, musiche e canti.
Poi, guidati dall’assistente generale, il vescovo Domenico Sigalini, hanno pregato insieme.
Quindi hanno presentato l’annuale iniziativa di solidarietà che l’Azione cattolica ragazzi promuove per il mese della pace, a gennaio: il finanziamento di due progetti in Russia, uno a favore dei bambini di strada di San Pietroburgo e uno per gli orfani della Siberia, realtà gestite insieme da cattolici e ortodossi.
È seguito il momento delle testimonianze: quelle raccontate in piazza da quanti hanno portato aiuti alle popolazioni dell’Aquila devastata dal terremoto dell’aprile 2009; e quelle trasmesse sui maxischermi, con le videostorie di chi ha scelto di seguire Gesù ogni giorno, come la piccola Nennolina, il beato Pier Giorgio Frassati e Armida Barelli, figure di riferimento per tutta l’Azione cattolica, in particolare per le nuove generazioni.
Giunti da tutta Italia – soprattutto dalla Puglia, come si poteva leggere dagli striscioni visibili fino all’inizio di via della Conciliazione – hanno ascoltato i messaggi augurali fatti pervenire loro dal presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano, dal cardinale vicario di Roma Agostino Vallini e dal nunzio apostolico in Italia arcivescovo Giuseppe Bertello; e hanno applaudito le parole di incoraggiamento rivolte dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, che li ha salutati a nome di tutti i vescovi italiani.
“L’essere in questa piazza – ha detto – ci fa sentire parte di un grande popolo.
Siamo qui in attesa del Santo Padre, che guida la Chiesa indicando la strada per seguire Gesù.
Voi desiderate crescere nella sua amicizia; con lo slancio dei vostri anni volete correre verso di Lui e con Lui, perché Egli è la perla preziosa, il tesoro del campo, l’olio per le nostre ferite, il vino della speranza, il pane per la nostra fame d’amore”.
Quindi il porporato ha esortato i presenti a servire le parrocchie, pregando tutti i giorni e partecipando con fedeltà alla messa e alla confessione.
Allora – ha spiegato – “i vostri gruppi associativi diventeranno cenacoli di bontà intelligente e contagiosa, l’amicizia sarà più vera perché ognuno aiuterà l’altro a scoprire Cristo.
Solo così – ha continuato – non sarete timidi nel testimoniare il Signore nei vostri ambienti: dalla famiglia alla scuola, allo sport, al tempo libero”.
“Tra poco – ha concluso il cardinale Bagnasco – ascolteremo Benedetto XVI, guarderemo la sua figura bianca che ci rimanda al Cielo, a Dio”.
E quando il Pontefice è giunto sul sagrato della basilica Vaticana, dopo aver percorso in papamobile tutta la piazza tra gli applausi dei presenti, i centomila lo hanno accolto con un’ovazione da stadio.
A nome di tutti Francesco Poddo, undicenne dell’Acr di Nuoro, Anna Bulgarelli, sedicenne della sezione giovanissimi di Carpi, e Milena Marrocco, educatrice dell’arcidiocesi di Gaeta, hanno rivolto a Benedetto XVI tre domande sulle problematiche legate al diventare grandi, alle relazioni e alla vita affettiva e alla sfida di educare oggi.
Poi, in silenzio, hanno ascoltato le risposte del Papa, che dopo aver spiegato il suo punto di vista sulle varie tematiche, aggiungendo a braccio ricordi personali della sua infanzia, ha confidato loro: “Quando sono in mezzo a tanta gioia ed entusiasmo, anch’io sono pieno di gioia”.
In precedenza si erano rivolti al Papa il vescovo Sigalini e il presidente nazionale dell’Associazione Franco Miano.
Il vescovo ha sottolineato come non sia vero “che le chiese sono abbandonate dai giovani”.
Al contrario “quando essi percepiscono che c’è gente che vuole il loro bene e che nell’incontro con Gesù c’è una risposta alla loro esigenza di volere di più, ne siamo assediati”.
Perché i giovani – ha aggiunto – “non vogliono mediocrità o adattamenti, ma sogni e voli alti.
La misura che proponiamo è la santità, niente di meno.
Hanno possibilità di incontrarla nella storia dell’Azione cattolica e di vederla in quanti li hanno preceduti, nei preti, negli adulti e nei giovani educatori che si dedicano a loro”.
Il presidente, da parte sua, ha detto al Pontefice che tutta l’Azione cattolica vuole ringraziarlo “per la sua testimonianza di sostegno ai deboli e ai poveri della terra.
La sua parola – ha aggiunto – ci aiuta ad avere fiducia e a credere, anche nei momenti più difficili, che la speranza continua a essere l’orizzonte più degno dell’uomo”.
Dopo aver ricordato il precedente incontro del 4 maggio 2008, per i 140 anni dell’Associazione, Miano ha concluso ribadendo che “i ragazzi e i giovanissimi dell’Azione cattolica continuano a pensare che è possibile diventare grandi insieme: nell’Associazione, con la Chiesa, con le famiglie e gli educatori a tutti i livelli.
Mai da soli”.
Nel pomeriggio l’incontro nazionale è proseguito nelle strade del centro di Roma: i giovanissimi si sono dati appuntamento a Piazza del Popolo, i ragazzi nel parco di Villa Borghese.
(©L’Osservatore Romano – 31 ottobre 2010)
EDUCARE ALLA VITA BUONA DEL VANGELO
PRESENTAZIONE Gli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 intendono offrire alcune linee di fondo per una crescita concorde delle Chiese in Italia nell’arte delicata e sublime dell’educazione.
In essa noi Vescovi riconosciamo una sfida culturale e un segno dei tempi, ma prima ancora una dimensione costitutiva e permanente della nostra missione di rendere Dio presente in questo mondo e di far sì che ogni uomo possa incontrarlo, scoprendo la forza trasformante del suo amore e della sua verità, in una vita nuova caratterizzata da tutto ciò che è bello, buono e vero.
È questo un tema a cui più volte ci ha richiamato Papa Benedetto XVI, il cui magistero costituisce il riferimento sicuro per il nostro cammino ecclesiale e una fonte di ispirazione per la nostra proposta pastorale.
La scelta di dedicare un’attenzione specifica al campo educativo affonda le radici nel IV Convegno ecclesiale nazionale, celebrato a Verona nell’ottobre 2006, con il suo messaggio di speranza fondato sul “sì” di Dio all’uomo attraverso suo Figlio, morto e risorto perché noi avessimo la vita.
Educare alla vita buona del Vangelo significa, infatti, in primo luogo farci discepoli del Signore Gesù, il Maestro che non cessa di educare a una umanità nuova e piena.
Egli parla sempre all’intelligenza e scalda il cuore di coloro che si aprono a lui e accolgono la compagnia dei fratelli per fare esperienza della bellezza del Vangelo.
La Chiesa continua nel tempo la sua opera: la sua storia bimillenaria è un intreccio fecondo di evangelizzazione e di educazione.
Annunciare Cristo, vero Dio e vero uomo, significa portare a pienezza l’umanità e quindi seminare cultura e civiltà.
Non c’è nulla, nella nostra azione, che non abbia una significativa valenza educativa.
La scelta dell’Episcopato italiano per questo decennio è segno di una premura che nasce dalla paternità spirituale di cui siamo rivestiti per grazia e che condividiamo in primo luogo con i sacerdoti.
Siamo ben consapevoli, inoltre, delle energie profuse con tanta generosità nel campo dell’educazione da consacrati e laici, che testimoniano la passione educativa di Dio in ogni campo dell’esistenza umana.
A ciascuno consegniamo con fiducia questi orientamenti, con l’auspicio che le nostre comunità, parte viva del tessuto sociale del Paese, divengano sempre più luoghi fecondi di educazione integrale.
Maria, che accompagnò la crescita di Gesù in sapienza, età e grazia, ci aiuti a testimoniare la vicinanza amorosa della Chiesa a ogni persona, grazie al Vangelo, fermento di crescita e seme di felicità vera.
Roma, 4 ottobre 2010 Festa di San Francesco d’Assisi, Patrono d’Italia Angelo Card.
Bagnasco Presidente della Conferenza Episcopale Italiana CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA Orientamenti pastorali 2010.pdf;
Il nuovo “Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione”.
LETTERA APOSTOLICA in forma di MOTU PROPRIO UBICUMQUE ET SEMPER del Sommo Pontefice BENEDETTO XVI CON LA QUALE SI ISTITUISCE IL PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PROMOZIONE DELLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE La Chiesa ha il dovere di annunciare sempre e dovunque il Vangelo di Gesù Cristo.
Egli, il primo e supremo evangelizzatore, nel giorno della sua ascensione al Padre comandò agli Apostoli: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19-20).
Fedele a questo comando la Chiesa, popolo che Dio si è acquistato affinché proclami le sue ammirevoli opere (cfr 1Pt 2,9), dal giorno di Pentecoste in cui ha ricevuto in dono lo Spirito Santo (cfr At 2,14), non si è mai stancata di far conoscere al mondo intero la bellezza del Vangelo, annunciando Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, lo stesso “ieri, oggi e sempre” (Eb 13,8), che con la sua morte e risurrezione ha attuato la salvezza, portando a compimento la promessa antica.
Pertanto, la missione evangelizzatrice, continuazione dell’opera voluta dal Signore Gesù, è per la Chiesa necessaria ed insostituibile, espressione della sua stessa natura.
Tale missione ha assunto nella storia forme e modalità sempre nuove a seconda dei luoghi, delle situazioni e dei momenti storici.
Nel nostro tempo, uno dei suoi tratti singolari è stato il misurarsi con il fenomeno del distacco dalla fede, che si è progressivamente manifestato presso società e culture che da secoli apparivano impregnate dal Vangelo.
Le trasformazioni sociali alle quali abbiamo assistito negli ultimi decenni hanno cause complesse, che affondano le loro radici lontano nel tempo e hanno profondamente modificato la percezione del nostro mondo.
Si pensi ai giganteschi progressi della scienza e della tecnica, all’ampliarsi delle possibilità di vita e degli spazi di libertà individuale, ai profondi cambiamenti in campo economico, al processo di mescolamento di etnie e culture causato da massicci fenomeni migratori, alla crescente interdipendenza tra i popoli.
Tutto ciò non è stato senza conseguenze anche per la dimensione religiosa della vita dell’uomo.
E se da un lato l’umanità ha conosciuto innegabili benefici da tali trasformazioni e la Chiesa ha ricevuto ulteriori stimoli per rendere ragione della speranza che porta (cfr 1Pt 3,15), dall’altro si è verificata una preoccupante perdita del senso del sacro, giungendo persino a porre in questione quei fondamenti che apparivano indiscutibili, come la fede in un Dio creatore e provvidente, la rivelazione di Gesù Cristo unico salvatore, e la comune comprensione delle esperienze fondamentali dell’uomo quali il nascere, il morire, il vivere in una famiglia, il riferimento ad una legge morale naturale.
Se tutto ciò è stato salutato da alcuni come una liberazione, ben presto ci si è resi conto del deserto interiore che nasce là dove l’uomo, volendosi unico artefice della propria natura e del proprio destino, si trova privo di ciò che costituisce il fondamento di tutte le cose.
Già il Concilio Ecumenico Vaticano II assunse tra le tematiche centrali la questione della relazione tra la Chiesa e questo mondo contemporaneo.
Sulla scia dell’insegnamento conciliare, i miei Predecessori hanno poi ulteriormente riflettuto sulla necessità di trovare adeguate forme per consentire ai nostri contemporanei di udire ancora la Parola viva ed eterna del Signore.
Con lungimiranza il Servo di Dio Paolo VI osservava che l’impegno dell’evangelizzazione “si dimostra ugualmente sempre più necessario, a causa delle situazioni di scristianizzazione frequenti ai nostri giorni, per moltitudini di persone che hanno ricevuto il battesimo ma vivono completamente al di fuori della vita cristiana, per gente semplice che ha una certa fede ma ne conosce male i fondamenti, per intellettuali che sentono il bisogno di conoscere Gesù Cristo in una luce diversa dall’insegnamento ricevuto nella loro infanzia, e per molti altri” (Esort.
ap.
Evangelii nuntiandi, n.
52).
E, con il pensiero rivolto ai lontani dalla fede, aggiungeva che l’azione evangelizzatrice della Chiesa “deve cercare costantemente i mezzi e il linguaggio adeguati per proporre o riproporre loro la rivelazione di Dio e la fede in Gesù Cristo” (Ibid., n.
56).
Il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II fece di questo impegnativo compito uno dei cardini del suo vasto Magistero, sintetizzando nel concetto di “nuova evangelizzazione”, che egli approfondì sistematicamente in numerosi interventi, il compito che attende la Chiesa oggi, in particolare nelle regioni di antica cristianizzazione.
Un compito che, se riguarda direttamente il suo modo di relazionarsi verso l’esterno, presuppone però, prima di tutto, un costante rinnovamento al suo interno, un continuo passare, per così dire, da evangelizzata ad evangelizzatrice.
Basti ricordare ciò che si affermava nell’Esortazione postsinodale Christifideles Laici: “Interi paesi e nazioni, dove la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti e capaci di dar origine a comunità di fede viva e operosa, sono ora messi a dura prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal continuo diffondersi dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo.
Si tratta, in particolare, dei paesi e delle nazioni del cosiddetto Primo Mondo, nel quale il benessere economico e il consumismo, anche se frammisti a paurose situazioni di povertà e di miseria, ispirano e sostengono una vita vissuta «come se Dio non esistesse».
Ora l’indifferenza religiosa e la totale insignificanza pratica di Dio per i problemi anche gravi della vita non sono meno preoccupanti ed eversivi rispetto all’ateismo dichiarato.
E anche la fede cristiana, se pure sopravvive in alcune sue manifestazioni tradizionali e ritualistiche, tende ad essere sradicata dai momenti più significativi dell’esistenza, quali sono i momenti del nascere, del soffrire e del morire.
[…] In altre regioni o nazioni, invece, si conservano tuttora molto vive tradizioni di pietà e di religiosità popolare cristiana; ma questo patrimonio morale e spirituale rischia oggi d’essere disperso sotto l’impatto di molteplici processi, tra i quali emergono la secolarizzazione e la diffusione delle sette.
Solo una nuova evangelizzazione può assicurare la crescita di una fede limpida e profonda, capace di fare di queste tradizioni una forza di autentica libertà.
Certamente urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana.
Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi paesi e in queste nazioni” (n.
34).
Facendomi dunque carico della preoccupazione dei miei venerati Predecessori, ritengo opportuno offrire delle risposte adeguate perché la Chiesa intera, lasciandosi rigenerare dalla forza dello Spirito Santo, si presenti al mondo contemporaneo con uno slancio missionario in grado di promuovere una nuova evangelizzazione.
Essa fa riferimento soprattutto alle Chiese di antica fondazione, che pure vivono realtà assai differenziate, a cui corrispondono bisogni diversi, che attendono impulsi di evangelizzazione diversi: in alcuni territori, infatti, pur nel progredire del fenomeno della secolarizzazione, la pratica cristiana manifesta ancora una buona vitalità e un profondo radicamento nell’animo di intere popolazioni; in altre regioni, invece, si nota una più chiara presa di distanza della società nel suo insieme dalla fede, con un tessuto ecclesiale più debole, anche se non privo di elementi di vivacità, che lo Spirito Santo non manca di suscitare; conosciamo poi, purtroppo, delle zone che appaiono pressoché completamente scristianizzate, in cui la luce della fede è affidata alla testimonianza di piccole comunità: queste terre, che avrebbero bisogno di un rinnovato primo annuncio del Vangelo, appaiono essere particolarmente refrattarie a molti aspetti del messaggio cristiano.
La diversità delle situazioni esige un attento discernimento; parlare di “nuova evangelizzazione” non significa, infatti, dover elaborare un’unica formula uguale per tutte le circostanze.
E, tuttavia, non è difficile scorgere come ciò di cui hanno bisogno tutte le Chiese che vivono in territori tradizionalmente cristiani sia un rinnovato slancio missionario, espressione di una nuova generosa apertura al dono della grazia.
Infatti, non possiamo dimenticare che il primo compito sarà sempre quello di rendersi docili all’opera gratuita dello Spirito del Risorto, che accompagna quanti sono portatori del Vangelo e apre il cuore di coloro che ascoltano.
Per proclamare in modo fecondo la Parola del Vangelo, è richiesto anzitutto che si faccia profonda esperienza di Dio.
Come ho avuto modo di affermare nella mia prima Enciclica Deus caritas est: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (n.
1).
Similmente, alla radice di ogni evangelizzazione non vi è un progetto umano di espansione, bensì il desiderio di condividere l’inestimabile dono che Dio ha voluto farci, partecipandoci la sua stessa vita.
Pertanto, alla luce di queste riflessioni, dopo avere esaminato con cura ogni cosa e aver richiesto il parere di persone esperte, stabilisco e decreto quanto segue: Art.
1.
§ 1.
È costituito il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, quale Dicastero della Curia Romana, ai sensi della Costituzione apostolica Pastor bonus.
§ 2.
Il Consiglio persegue .la propria finalità sia stimolando la riflessione sui temi della nuova evangelizzazione, sia individuando e promuovendo le forme e gli strumenti atti a realizzarla.
Art.
2.
L’azione del Consiglio, che si svolge in collaborazione con gli altri Dicasteri ed Organismi della Curia Romana, nel rispetto delle relative competenze, è al servizio delle Chiese particolari, specialmente in quei territori di tradizione cristiana dove con maggiore evidenza si manifesta il fenomeno della secolarizzazione.
Art.
3.
Tra i compiti specifici del Consiglio si segnalano: 1°.
approfondire il significato teologico e pastorale della nuova evangelizzazione; 2°.
promuovere e favorire, in stretta collaborazione con le Conferenze Episcopali interessate, che potranno avere un organismo ad hoc, lo studio, la diffusione e l’attuazione del Magistero pontificio relativo alle tematiche connesse con la nuova evangelizzazione; 3°.
far conoscere e sostenere iniziative legate alla nuova evangelizzazione già in atto nelle diverse Chiese particolari e promuoverne la realizzazione di nuove, coinvolgendo attivamente anche le risorse presenti negli Istituti di Vita Consacrata e nelle Società di Vita Apostolica, come pure nelle aggregazioni di fedeli e nelle nuove comunità; 4°.
studiare e favorire l’utilizzo delle moderne forme di comunicazione, come strumenti per la nuova evangelizzazione; 5°.
promuovere l’uso del Catechismo della Chiesa Cattolica, quale formulazione essenziale e completa del contenuto della fede per gli uomini del nostro tempo.
Art.4 § 1.
Il Consiglio è retto da un Arcivescovo Presidente, coadiuvato da un Segretario, da un Sotto-Segretario e da un congruo numero di Officiali, secondo le norme stabilite dalla Costituzione apostolica Pastor bonus e dal Regolamento Generale della Curia Romana.
§ 2.
Il Consiglio ha propri Membri e può disporre di propri Consultori.
Tutto ciò che è stato deliberato con il presente Motu proprio, ordino che abbia pieno e stabile valore, nonostante qualsiasi cosa contraria, anche se degna di particolare menzione, e stabilisco che venga promulgato mediante la pubblicazione nel quotidiano “L’Osservatore Romano” e che entri in vigore il giorno della promulgazione.
Dato a Castel Gandolfo, il giorno 21 settembre 2010, Festa di san Matteo, Apostolo ed Evangelista, anno sesto di Pontificato.
BENEDICTUS PP.
XVI Un dicastero per la dottrina Ratzinger di Massimo Faggioli Papa Benedetto XVI ha pubblicato il motu proprio Ubicumque et semper che istituisce il nuovo “Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione”.
Il documento era atteso, e la sorpresa potrebbe riguardare la struttura data dal papa al nuovo organismo della Curia romana, che al momento prevede alla sua guida “un Arcivescovo Presidente” e non (come invece ci si attendeva per mons.
Fisichella) la porpora di un cardinale.
Il linguaggio usato dal motu proprio dice molto dell’impostazione data a questo nuovo strumento di evangelizzazione della Curia romana.
Benedetto XVI parla di “fenomeno del distacco della fede”, di “perdita del senso del sacro”, e coniuga al negativo (come liberazione dalla fede, dalla morale naturale, dalla rivelazione divina) il termine “liberazione” – un termine che nella storia della politica dottrinale di Ratzinger ricopre un ruolo preciso, specialmente negli anni Ottanta della repressione della teologia latinoamericana postconciliare.
Benedetto XVI fa un implicito accenno alla Gaudium et spes del Vaticano II “per la questione della relazione tra la Chiesa e questo mondo contemporaneo”, e ricostruisce la storia dell’idea di una “nuova evangelizzazione” tra i pontificati di Paolo VI e di Giovanni Paolo II.
Quanto all’ambito della missione di questo nuovo Pontificio Consiglio, il motu proprio del papa indica “le chiese di antica fondazione” e “che vivono in territori tradizionalmente cristiani”.
Il nuovo organismo è presieduto da un arcivescovo (e non da un cardinale, diversamente dalle altre Congregazioni e Consigli della Curia romana) e dovrà lavorare “in stretta collaborazione con le Conferenze Episcopali interessate”.
Non molte indicazioni in più sono venute da mons.
Fisichella, che ha presentato il motu proprio del papa rimarcando gli elementi dell’analisi della situazione della chiesa oggi in Occidente: distacco dalla fede, indifferenza religiosa, ateismo di fatto, relativismo, secolarismo, individualismo, soggettivismo.
In risposta a questa situazione, che coinvolge specialmente “soprattutto le chiese di antica tradizione” ma non solo, il nuovo Pontificio Consiglio dovrà “elaborare un pensiero forte in grado di sostenere un’azione pastorale corrispondente”, in particolare facendo ricorso ai “contenuti teologici e pastorali del magistero degli ultimi decenni” e al Catechismo della Chiesa Cattolica, definito “uno dei frutti più maturi delle indicazioni conciliari”.
Alcune domande rimangono per ora senza una chiara risposta.
La prima riguarda le coordinate geografiche di questo “nuovo slancio missionario”: solo le chiese d’Occidente (Europa, Americhe, Australia?), così da creare un contrappeso al ruolo storico della Congregazione di Propaganda Fide creata da Gregorio XV nel 1622? La struttura in dote al nuovo Pontificio Consiglio per ora non sembra paragonabile alla potenza di Propaganda Fide.
Una seconda questione riguarda il rapporto tra il nuovo organismo e le conferenze episcopali nazionali e i vescovi locali, dato che il magistero papale di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ha limitato drasticamente (specialmente dal motu proprio del 1998 Apostolos Suos in poi) la voce degli episcopati locali: sarà interessante vedere come questo nuovo organismo inciderà su episcopati (come quello degli Stati Uniti) teologicamente in linea con la lettura dell’Occidente data da Benedetto XVI, ma non sempre felici di vedere la propria autorità ulteriormente limitata da quella di Roma.
Indicativa è la citazione del 2012 non come il cinquantesimo anniversario del Vaticano II, ma il ventennale del Catechismo universale.
La proposta di un nuovo Catechismo era stata ignorata dal concilio, e ripresa da Giovanni Paolo II dopo il Sinodo straordinario del 1985, che contribuì ad elevare la “dottrina Ratzinger” a caposaldo della politica dottrinale della chiesa post-conciliare.
In attesa del nuovo libro-intervista di Benedetto XVI con Peter Seewald, per ora basti rileggere un passaggio di un articolo del teologo Ratzinger del 1975: “La mancanza di chiarezza circa il vero significato del Vaticano II è strettamente legata alla diagnosi del mondo moderno data dalla costituzione Gaudium et spes”.
Il motu proprio papale sottende questa lettura di Gaudium et spes e fa del Catechismo universale (per tramite del nuovo Pontificio Consiglio) la reazione contro “l’ingenuo ottimismo” che Ratzinger ha sempre rimproverato a Gaudium et spes.
Il giovane Karol Wojtyła fu uno dei più importanti autori di quel documento conciliare: da oggi hanno altra materia da romanzo i cultori del dibattito su cattolicesimo ed “ermeneutica della continuità/discontinuità in “Europa” del 13 ottobre 2010
Intervista a René Frydman: “La fecondazione in provetta è il simbolo di una grande trasgressione”
intervista a René Frydman, a cura di Catherine Vincent René Frydman, capo del servizio ostetrico-ginecologico dell’ospedale Antoine-Béclère (AP-HP) è, con il biologo Jacques Testart, il “padre” scientifico di Amandine, primo bebè in provetta francese nato nel 1982.
Come accoglie questo Nobel? Con grande soddisfazione.
Bob Edwards è sempre stato una persona calorosa, direi gioviale, soprattutto aveva uno spirito di apertura abbastanza sorprendente.
Pensare fin dal 1965 alla possibilità delle cellule staminali, non è da tutti! Era molto avanti sul piano scientifico, e ha sempre sostenuto i giovani ricercatori.
Quando sono andato da lui nel 1977, mi ha subito dato dei consigli per cominciare a lavorare.
È quindi tutto un cammino che viene riconosciuto con questo premio Nobel.
Un premio, che, a mio avviso, arriva un po’ tardi.
Perché così tardi? Perché la fecondazione in vitro, e tutte le tecniche che ne sono derivate, ha sempre suscitato molte reticenze.
Ancor oggi, gli sviluppi della procreazione medicalmente assistita, alcuni dei quali non sono del resto sempre giustificati, continuano ad avere odore di zolfo.
Ciò che era invisibile è divenuto visibile, ciò che era intoccabile è divenuto toccabile: in questo, la fecondazione in provetta costituisce il simbolo di una grande trasgressione umana.
Col passare dei decenni, secondo la propria religione o la propria filosofia, questa trasgressione è divenuta più o meno ammessa.
Ma resta tale.
Come spiega la pugnacità di cui Robert Edwards ha dato prova? Credo che fosse animato da una convinzione profonda: aiutare le coppie sterili, era quello che gli importava veramente.
Inoltre era affascinato dai meccanismi che cercava di dominare.
Quando tentava le sue prime fecondazioni in vitro con Patrick Steptoe, il ginecologo della banda, questi faceva i prelievi di ovuli in un ospedale che era a 50 km dal laboratorio.
Ora, all’epoca, le ovulazioni non erano stimolate da trattamento.
Potevano avvenire di giorno o di notte, e bisognava quindi, di giorno e di notte, correre all’ospedale a prelevare un ovulo, poi portarlo d’urgenza a Cambridge…
Era una vera saga! Nel 1978, lei era presente al convegno in cui è stata annunciata la nascita imminente di Louise Brown, primo bebè al mondo ad esser stato concepito in una provetta…
Era un grande convegno di gineco-ostetricia, e quando Bob Edwards ha fatto questa presentazione, nessuno riusciva a crederci! Mentre era l’inizio di una favolosa avventura! Quattro anni dopo, l’ho ritrovato ad un congresso sulla riproduzione umana, con un centinaio di partecipanti.
Ha lanciato allora l’idea di creare un’associazione europea di medici con il suo giornale, Human Reproduction, e l’ultimo congresso equivalente a quello del 1982 ha riunito circa 7000 partecipanti…
Tenuto conto delle legislazioni che inquadrano la ricerca sugli embrioni umani, i lavori che hanno portato alla nascita di Louise Brown e di Amandine sarebbero possibili oggi? Non credo.
All’epoca, ci bastava avere l’accordo del nostro capo-servizio, Emile Papiernik! Certo, lavoravamo contro venti e maree, dovevamo rispondere all’opposizione della Chiesa cattolica e a quella di alcuni scienziati, ma non c’erano divieti.
Oggi, non penso ci sia un sufficiente spirito di apertura e di innovazione perché tale progresso sia possibile.
La filosofia di Bob Edwards non è d’attualità.
in “Le Monde” del 6 ottobre 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il Papa in Inghilterra
Riportiamo dall’Osservatore Romano il resoconto e la traduzione dei discorsi: Nel discorso al Parlamento britannico il Papa sottolinea l’attualità di Tommaso Moro L’etica è la vera sfida per la democrazia Gli angeli sulla Nazione Al mondo politico, economico e culturale britannico il Papa richiama il primato della coscienza Ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra Nella Westminster Hall Il discorso più atteso Comunicato congiunto tra Governo britannico e Santa Sede Impegno condiviso per il bene comune Benedetto XVI con il premier Cameron Nella cattedrale di Westminster Benedetto XVI parla del mistero della Croce e ricorda le sofferenze delle vittime degli abusi Dal dolore e dalla vergogna alla purificazione della Chiesa La visita all’arcivescovo di Canterbury nel Lambeth Palace di Londra La Chiesa deve essere inclusiva ma non a scapito della verità Una concreta testimonianza ecumenica Il comunicato congiunto Annunciare insieme Cristo nel mondo contemporaneo La celebrazione ecumenica con il primate della comunione anglicana nella Westminster Abbey Ciò che condividiamo in Cristo è più grande di ciò che ci divide
Il cattolico post moderno e lo scarso peso in politica
A chi frequenta la realtà cattolica italiana desta un po’ di sconcerto la superficialità con cui di essa si parla e con essa si vuole dialogare.
La persistente diaspora elettorale, seguita alla fine della Dc, istiga qualcuno a tentativi di nuova unità o convergenza, magari di stampo minoritario; ma ne istiga molti di più a tentativi di appropriazione, di alleanze, di consonanze programmatiche e/o etiche nei confronti delle sue diverse componenti.
Tutti tentativi, però, che, al di là della loro reiterazione e del loro rifiuto, declinano verso una evidente confusione.
Per tentare di fare un passo in avanti occorre partire dalla considerazione che in ogni realtà complessa (e quella cattolica lo è più di quanto sembri) bisogna privilegiare una linea interpretativa che parta non dall’alto dei principi ideologici o di alleanze politiche, ma dal basso, cioè dalla fenomenologia quotidiana del popolo cattolico.
È qui, in questa fenomenologia quotidiana, che sta maturando un’evoluzione profonda e importante anche se ancora senza esiti di incisività sociopolitica.
È una maturazione che parte dalla tradizionale ma non scontata consistenza quantitativa del popolo cattolico, dalla sua diffusione capillare sul territorio, dal suo costante vivere in orizzontale senza coazioni di verticismo mediatico.
Chi lo frequenta e lo «conta» verifica ogni domenica che i partecipanti alle funzioni di quattro-cinque parrocchie dell’Umbria (regione non solo piccolissima, ma da sempre segnata da forte tradizione comunista e massonica) equivalgono ai numeri dei rumorosi cortei che in varie occasioni attraversano Roma; e coloro che in quelle funzioni «fanno la comunione» sono più numerosi dei partecipanti ai vari reclamizzati raduni che ogni tanto occupano le piazze romane.
Facendo la somma delle 25.000 parrocchie italiane, si riscontra una totale copertura del territorio e delle sue dinamiche; non c’è gara rispetto alle ambizioni di metter su circoli e squadre da parte di chi sente di non avere un suo quotidiano radicamento nel reale quotidiano.
Ma l’importanza sempre più centrale del popolo cattolico la si riscontra specialmente sul piano qualitativo, quasi socio-antropologico: per la sua eredità e testimonianza di fede, visto che «credere» in qualcosa è oggi cosa rara e forse essenziale; per la sua quotidiana capacità di vivere non facendosi prendere dalla bulimia di quell’edonismo banale e facile (per cui delle cose si gode anche senza averne avuto il desiderio); per la sua quotidiana capacità di vivere il territorio (la terra, l’ambiente, il paesaggio) come un valore aggiunto, rispetto alla pura localizzazione del vivere; per la sua quotidiana capacità di produrre significative relazioni interpersonali e una tendenziale vita comunitaria; per la sua quotidiana capacità di fare integrazione e coesione sociale (con gli anziani non meno che con i lavoratori stranieri, con gli emarginati non meno che con i depressi più o meno soli); per la sua capacità di fare cittadinanza attiva (nel volontariato, come nelle iniziative culturali, come nell’associazionismo di vario tipo).
Si tratta, in ultima analisi e interpretazione, della emergente capacità del popolo cattolico di essere post moderno, cioè post industriale, post urbano, post mediatico, anche post secolarizzato; peraltro senza cadere in tentazione di una regressione verso nostalgie del passato, modelli identitari consolidati, antiche prigionie archetipiche.
È quindi verosimile che si sia di fronte a una importanza del popolo cattolico più interessante di quanto pensano coloro che con esso vogliono far politica.
Ma perché tale sommersa importanza non riesce a esprimersi nella dialettica socio-politica? La risposta più immediata potrebbero essere quella che si tratta di un obiettivo che la maggior parte dei cattolici italiani non ritiene più meritevole d’impegno; ma sarebbe una risposta parziale.
La verità è che mancano al popolo cattolico i livelli intermedi prima di condensazione della propria forza poi di finalizzazione allo sviluppo collettivo del Paese.
Non è che manchino in proposito movimenti, associazioni, gruppi di aggregazione intermedia; ma si tratta di strutture dove il fondo identitario è più religioso e spirituale che d’impegno civile; e dove quindi si formano carismi «caldi» ma non spendibili sul piano sociopolitico.
E anche sul piano più tradizionalmente ecclesiastico non è che manchino diocesi capaci di guidare il cammino dei propri fedeli, ma in genere i loro vescovi restano incapaci (per propria carenza personale e/o perché abituati a «far fare» ai superiori gerarchici) di elaborare il collegamento delle dinamiche del loro popolo con le grandi tematiche del momento sociopolitico.
Non essendoci dunque un tessuto e una dinamica di tipo intermedio, si capisce come su tali tematiche gli orientamenti della base cattolica non arrivino affatto; o arrivino distorti dalle convinzioni di chi presume di parlare in suo nome; o arrivino sì corrette, ma quasi casuali e quindi senza adeguato seguito (si pensi all’ultima presa di posizione del Papa sul problema dell’immigrazione).
Chi voglia allora far partecipe il popolo cattolico dello sviluppo complessivo della nostra società deve lavorare sulla crescita del suo tessuto intermedio e delle sue dinamiche intermedie; vale per le gerarchie ecclesiastiche e per l’associazionismo ecclesiale, ma vale anche per chi vuole chiamarlo a responsabilità collettive, magari anche politiche.
Altrimenti rischiamo le chiacchiere inutili e confuse che oggi occupano titoli, articoli, dichiarazioni, annunci, siti e circuiti mediatici, verso cui il popolo cattolico si dimostra progressivamente indifferente.
in “Corriere della Sera” del 31 agosto 2010
Custodire il creato, per coltivare la pace
« Ogni volta che la comunità umana crea armonia, costruisce la pace e la salvaguarda.
Anzi rende più vero il creato».
Dal suo eremo di Mosciano, poco fuori Firenze, don Paolo Giannoni legge così la Giornata per la salvaguardia del creato promossa dalla Cei che la Chiesa italiana celebra oggi.
Il tema di quest’anno, Custodire il creato, per coltivare la pace , riprende il messaggio di Benedetto XVI per la Giornata mondiale della pace 2010.
Un tema che – secondo l’oblato camaldolese, teologo e docente per quaranta anni allo Studio teologico fiorentino – rimanda alla pace-shalom che «nella Bibbia non è assenza di violenza o di turbamenti, ma pienezza di vita.
Appare dunque chiaro che ogni volta che si costruisce la vita, la si risana».
La Giornata di oggi richiama alla teologia della creazione, inizio e fondamento di tutte le opere di Dio.
La creazione più che inizio è principio.
Infatti san Tommaso ricorda che Dio ha creato non le creature, ma la creazione.
Per questo la fede nella creazione non è un discorso sulle origini ma sul progetto intero che Dio ha voluto per una pienezza.
E il tema della pienezza porta in sé il desiderio: tutte le cose desiderano Dio.
Come l’uomo può farsi interprete del gemito della creazione? Prima di tutto vivendo il proprio infinito.
Nessuno potrà mai dire «ho amato abbastanza» e «sono stato amato abbastanza »; ci sarà sempre ancora da amare e da essere amati.
E lo stesso va detto della verità e della bellezza.
Invece dell’«ingiuria delle grandi verità» occorre vivere queste grandi verità facendole.
Ogni lavoro, anche quello casalingo, realizza la verità delle cose: quando un buon piatto rende più bella la creazione! E un computer è un capolavoro di perfezione sempre più perfezionata.
Inoltre una risposta grande e necessaria per interpretare il gemito della creazione è l’educazione.
E la liturgia? È una meravigliosa maniera di portare a compimento la creazione: nell’Eucaristia la materia diventa Cristo, nel Battesimo l’acqua dona la vita per la potenza dello Spirito.
Però l’armonia fra creato ed essere umano è stata infranta dal peccato.
Il peccato ci rimanda alla sua radice che non è la malizia del cuore (le mani di Dio non fanno mai una malizia e il cuore umano viene da lui), ma la limitatezza dell’essere.
Elredo di Rievaulx fa eco a Gesù dicendo che più che peccatori siamo dei grandi ignoranti.
Ogni peccato è un atto di idolatria perché, vedendo la bellezza di una creatura, ci si ferma a essa e non la si vede come segno e rimando alla bellezza piena che è Dio.
Così si falsifica l’universo e noi stessi.
Quindi la Giornata di oggi può essere letta anche come un invito alla purificazione? Certo.
L’ascesi non è una mortificazione, ma l’esercizio con il quale nella fede si fa armonia in noi, con gli altri, nel mondo.
L’armonia ci fa «ritornare» (è il verbo usato dai profeti) alla verità.
L’armonia è il metodo del «cambiamento dell’anima».
Si ritorna al Padre che ha ancora una veste, un anello e nuovi calzari.
Siamo riportati alla bellezza e alla verità.
E insieme abbiamo da essere fratelli e sorelle che cooperano all’armonia della vita e del creato dando loro veste, anello, calzari.
Anche così siamo figli del Padre.
Questo corrisponde al fatto che «Dio vide che era cosa buona ».
Come coltivare una spiritualità della salvaguardia del creato? La spiritualità (non una vita interiore, ma la vita che ci dà lo Spirito Santo) già in se stessa è salvaguardia del creato.
Uno spiritualismo falso dimentica la forma di incarnazione che è tutta la vita.
La falsificazione del Vangelo a codice di morale e la riduzione della Chiesa ad agenzia di morale (mentre è la comunità che rende attuale il mistero, l’evento di salvezza) impedisce di capire questa verità.
È essenziale giungere a una contemplazione che colga la bellezza delle cose, come frammenti che rifrangono l’immensa bellezza di Dio.
Quali vie seguire? Serve una cura che amplifica la perfezione delle creature e un grande rispetto, perché le riconosce come consorti dello stesso disegno di pienezza che coinvolge la nostra umanità.
Per questo l’ascesi è all’opposto dello scialo, del consumo, dell’offesa, della noncuranza.
L’ultima pennellata con la quale Dio termina il proprio autoritratto, ossia la Bibbia, è «rasciugare le lacrime».
Ogni volta che si rasciuga una lacrima o si costruisce una gioia che blocca la strada del pianto, possiamo cogliere quella luce che viene nell’impegno di salvaguardia che fa crescere la vita.
intervista a Paolo Giannoni a cura di Giacomo Gambassi in “Avvenire” del 1 settembre 2010
Educazione e catechesi: binomio inscindibile.
L’educazione è parte integrante della missione della Chiesa.
È con questa convinzione che si sono conclusi, giovedì 17 a Bologna, i lavori del 44° congresso dei direttori degli uffici catechistici diocesani promosso dalla Conferenza episcopale italiana (Cei).
Nella sua relazione di sintesi il direttore dell’Ufficio catechistico nazionale, don Guido Benzi, ha evocato un’immagine che ben riassume i lavori e le prospettive future scaturite dal convegno: la Chiesa come Mysterium Lunae.
Dopo aver richiamato il suo simbolismo, commentando un passo dell’Exaemeron di sant’Ambrogio, Benzi ha sottolineato i due aspetti che più legano la Chiesa alla sua attività di maestra e madre della fede: “La Chiesa, come la “Luna crescente” nel rinnovarsi della sua presenza, è soggetta, in forza della Grazia dello Spirito, a una vita sempre nuova, a un rigenerarsi, generando alla luce e alla vita del Cristo i cristiani.
E, infine, la Chiesa, come l'”astro rifulgente”, irraggia nel plenilunio pasquale, la luce del Cristo, e annuncia la verità del Vangelo della morte e risurrezione del Figlio di Dio”.
La Chiesa, oggi come ieri, riceve da Cristo – “colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Ebrei, 12, 2) – tutto ciò che le serve per poter, a sua volta, accompagnare altri nella crescita dell’esperienza di vita cristiana.
La sottolineatura che è stata data nei quattro giorni di convegno, in linea con le indicazioni progettuali della Cei, è stata quella relativa al tema dell’educazione.
Per questo motivo, il convegno si è dato dei momenti di ascolto delle molteplici declinazioni del tema educativo.
La prima è quella pedagogica, tema affrontato da Maria Teresa Moscato dell’Università di Bologna.
Dal suo versante, la Moscato ha ribadito l’importanza del legame intrinseco che esiste tra esperienza religiosa ed educazione, al punto che l’elisione della prima cancella anche la seconda: “E c’è ancora un elemento essenziale che confluisce nella sparizione dell’idea di educazione, ed è la progressiva riduzione dell’esperienza – e della pratica – religiosa nelle generazioni adulte: non sto dicendo che dal momento che è sparita l’idea di educazione non educhiamo più alla religiosità.
Sto dicendo che, al contrario, nella misura in cui non siamo più religiosi non riusciamo a percepire la necessità dell’educazione e la responsabilità comune verso di essa”.
Così come la fede è una salvaguardia per la retta ragione, altrettanto l’esperienza religiosa è custode dell’importanza dell’educazione complessiva delle nuove generazioni.
È questo una sorta di leit motiv che è risuonato anche in altre relazioni come, per esempio, nella sottolineatura posta da Paola Bignardi, membro del Comitato per il progetto culturale della Cei, sul ruolo e l’importanza della comunità ecclesiale come comunità educante, così come è stata pensata dal documento base Il rinnovamento della catechesi fino a oggi.
Da queste indicazioni, ha ricordato la Bignardi, deve scaturire un percorso di verifica e ripensamento: “Oggetto della verifica cui le nostre comunità sono chiamate è il volto attraente che esse sanno mostrare, facendo percepire il valore dell’invito di Papa Benedetto a Verona: far “emergere soprattutto quel grande “sì’ che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza””.
Particolarmente significativa è stata, infine, la tavola rotonda, condotta da don Carmelo Sciuto, dell’ufficio catechistico nazionale, che ha posto a tema la questione decisiva delle alleanze educative.
Originale ed efficace è stata la modalità scelta che ha visto, mediante l’utilizzo di video e interviste precedentemente preparate, il coinvolgimento dei diversi protagonisti dell’attività educativa ecclesiale, a cominciare dai direttori degli uffici competenti della Cei ma coinvolgendo anche le famiglie, i catecumeni, i parroci, i catechisti, gli insegnanti di religione, i capi scout, gli educatori dei ragazzi di Azione cattolica provenienti da varie realtà italiane.
Oltre all’importanza dei temi trattati, ciò che è emerso è la vera forza di cui dispone la compagine ecclesiale nel raccogliere le impegnative sfide dell’emergenza educativa.
(©L’Osservatore Romano – 20 giugno 2010)