“La cultura di Internet e la comunicazione della Chiesa”

“Ogni contatto della Chiesa con Internet, come con qualsiasi altro strumento di comunicazione di ultima generazione, deve essere teologicamente informato.
Non siamo lì a vendere un messaggio qualunque ma ad annunciare, spiegare, approfondire la Parola di Cristo, che può ancora toccare i cuori di tutti e che ci invita continuamente a un cammino comune di fede e di servizio”.
Lo ha detto monsignor Paul Tighe, segretario del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali, intervenuto questa mattina alla riunione della Commissione episcopale europea per i media (Ceem) che si sta svolgendo in Vaticano.
Monsignor Tighe ha sottolineato l’importanza per qualsiasi persona anche di Chiesa di capire a fondo le capacità, ma anche i potenziali rischi delle nuove tecnologie prima di affidare ad esse il proprio messaggio.
“La sfida per noi uomini di Chiesa – ha spiegato il segretario del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali – è di pensare come possiamo essere presenti in questo mondo in maniera utile e intelligente.
Non è solo un problema tecnologico.
Occorre trovare una strategia, il linguaggio giusto per esprimere i contenuti del nostro ministero, della nostra missione, un linguaggio che non sia solo testuale ma anche visuale, che attragga il visitatore anche con le immagini”.
Tighe ha detto che la sfida più grande da vincere, oggi, è quella al relativismo, atteggiamento di pensiero che rischia di trovare sul web ampio sviluppo:  “Per vincere la sfida è fondamentale dare informazioni vere, corrette, inconfutabili, fornire risposte concrete alle domande più urgenti.
Anche nel mondo dell’interattività – ha ribadito – il relativismo si batte con la certezza, con la verità”.
L’assemblea plenaria della Ceem, che ha come tema “La cultura di Internet e la comunicazione della Chiesa”, aveva questa mattina in programma una tavola rotonda dal titolo “Chi fa la comunicazione oggi? Tra social network, social agent, social news e social encyclopaedia”.
Sono intervenuti Christian Hernandez Gallardo, di Facebook, Christophe Muller, direttore delle società di YouTube in sud ed est Europa, Medio Oriente e Africa, Delphine Ménard, di Wikimedia France, ed Evan Prodromou, di Status.net-identica.ca.
Hanno spiegato la filosofia, la metodologia, il funzionamento degli strumenti che fanno capo alle loro imprese, strumenti che si rivolgono universalmente a tutti.
E tutti, indistintamente, sono gli utenti.
In particolare Hernandez Gallardo ha sottolineato come, negli ultimi tempi, molte parrocchie e alcune diocesi abbiano cominciato ad essere presenti su Facebook e come alcuni utenti inseriscano tra le immagini dei loro “amici” anche le foto di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.
(giovanni zavatta) (©L’Osservatore Romano – 14 novembre 2009) Rafforzare la presenza cristiana su Internet: l’impegno dei vescovi europei riuniti in Vaticano sui nuovi media La Chiesa non può ignorare Internet: è quanto sta emergendo con forza alla Plenaria della Ceem, la Commissione episcopale europea per i media, in corso in Vaticano sul tema “La cultura di Internet e la comunicazione della Chiesa”.
In un messaggio indirizzato ai partecipanti all’incontro, Benedetto XVI invita i vescovi europei ad esaminare “questa nuova cultura e le sue implicazioni per la missione della Chiesa”.
Nel testo, a firma del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, il Papa sottolinea che la “proclamazione di Cristo richiede una profonda conoscenza della nuova cultura tecnologica”.
Stamani, la Plenaria si è incentrata sui social network.
E’ stata, inoltre, presentata l’attività del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali nel campo di Internet.
Ma torniamo ai discorsi principali della sessione d’apertura di ieri con il servizio di Alessandro Gisotti: “La Chiesa ha bisogno di Internet, perché ha una Buona Novella da comunicare”: ne è convinto il cardinale arcivescovo di Zagabria, Josip Bozanic, che nel suo intervento ha sottolineato che in Internet si sta costruendo “il modello antropologico di domani”.
Del resto, il porporato croato ha osservato che il peso crescente che la Rete sta assumendo nella vita delle persone e dei fedeli impone di annunciare il Vangelo anche nel mondo di Internet.
Ed ha sottolineato che Internet “non è solo un recipiente che raccoglie diverse culture.
Internet è cultura” e produce cultura.
Di fronte a questa realtà, ha detto il vicepresidente del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa, bisogna rammentare che la Chiesa ha sempre saputo “cogliere la bontà degli strumenti di comunicazione sociale per l’edificazione del genere umano”.
E, dunque, l’interesse per i media e per Internet nasce dalla natura stessa della Chiesa quale “comunità dialogante”.
Sulla necessità per la Chiesa di entrare nell’agorà di Internet, si è soffermato mons.
Jean-Michel di Falco Léandri, vescovo di Gap e di Embrun, presidente della Commissione episcopale europea per i media.
“Così come la croce ha il suo asse verticale e il suo asse orizzontale – ha detto il presule francese – così deve essere la nostra evangelizzazione nella Rete: orizzontale per la sua estensione, verticale per la sua profondità e la sua qualità”.
Mons.
di Falco Léandri non ha mancato di evidenziare ritardi e difficoltà che la Chiesa incontra nel relazionarsi con il fenomeno Internet.
Un sito web cristiano, ha detto il presule, “deve occuparsi del mondo e non tagliarsi fuori dal mondo.
Deve evitare il politichese, evitare di essere esso stesso un ideologo che cerca di imporre la propria verità”.
Piuttosto, ha soggiunto, “deve accontentarsi di proporre la verità di Cristo in maniera ferma” e “umile”.
Pensando in particolare ai giovani, mons.
di Falco ha quindi ribadito che non essere presenti in Internet “equivale a tagliare fuori una buona parte della vita delle persone”, auspicando quindi che la Chiesa promuova sempre più una presenza cristiana sul web.
All’evento, è intervenuto anche mons.
Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, che al microfono di Philippa Hitchen si sofferma sul tema della Plenaria: “Il Santo Padre ci ha dato un grande incarico, quello della diaconia della cultura.
C’è questo servizio che la Chiesa deve prestare in questa realtà così complessa e ricca che è la cultura digitale.
I vescovi europei si stanno interrogando su questo.
Il grande rischio, alle volte, è che ci si concentri troppo sui media, quindi su questi nuovi mezzi che diventano sempre più sofisticati e che offrono sempre più ampie possibilità di comunicazione, su questo non c’è dubbio.
Tuttavia, credo che la Chiesa debba sempre interrogarsi alla radice della sua azione su cosa sia veramente comunicazione”.
Intanto, oggi pomeriggio, nella Sala Marconi della nostra emittente, il presidente della Ceem, mons.
Jean-Michel Di Falco ha tenuto una conferenza stampa sul tema della Plenaria.
La Chiesa, ha detto mons.
Jean-Michel Di Falco, non può ignorare Internet, una rivoluzione simile all’invenzione della stampa.
Il presule francese ha sottolineato che la riunione in corso in Vaticano serve proprio per mettere a fuoco punti deboli e punti di forza della comunicazione ecclesiale nel web.
Nella parola religione, ha poi osservato, c’è la radice della parola legare, ovvero connettere, che è proprio quanto realizzano i nuovi media.
Ecco perché, ha detto mons.
Di Falco, sono stati invitati alla Plenaria operatori dei social network, di Wikipedia, Google e Youtube.
C’è bisogno di una formazione all’uso responsabile della Rete, ha quindi avvertito, serve un’educazione ed un accompagnamento che la Chiesa può sviluppare in modo positivo.
Anche se ci sono ritardi nell’utilizzo di Internet da parte della Chiesa, ha infine riconosciuto, le cose stanno cambiando in meglio come testimoniano le numerose iniziative prese al riguardo dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali.
Radio Vaticana La Chiesa cattolica “esce dai suoi ghetti” con internet di Stéphanie Le Bars in “Le Monde” del 13 novembre 2009 (traduzione: www.finesettimana.org) Papa Benedetto XVI aveva lasciato di sasso molti cattolici attribuendo la peggior stecca del suo pontificato ad un uso insufficiente di internet.
“Mi è stato detto che seguire con attenzione le informazioni a cui si può accedere su internet avrebbe permesso di avere rapidamente conoscenza del problema”, aveva scritto nel marzo 2009 ai vescovi, facendo riferimento alla revoca della scomunica di monsignor Williamson, prelato integralista e notoriamente negazionista.
Concepiti prima di quell’errore di comunicazione, i lavori che si aprono giovedì 12 novembre a Roma, in seno alla Commissione episcopale europea per i media (CEEM), potrebbero contribuire a colmare certe lacune.
Per quattro giorni, un centinaio di persone (vescovi, incaricati stampa delle diocesi) si immergeranno nella cultura della Rete, incontrando dei responsabili della rete sociale Facebook, del motore di ricerca Google, del microblogging (scambi di messaggi brevi) Identi.ca o dell’enciclopedia sociale Wikipedia.
Un hacker svizzero ed uno specialista di Interpol verranno a completare la presentazione delle possibilità esistenti sulla Tela.
“Dobbiamo avere la preoccupazione di continuare a essere là dove è la gente”, insiste monsignor Jean-Michel Di Falco Leandri, vescovo di Gap, presidente della CEEM.
È previsto che giovedì l’ex portavoce dei vescovi francesi faccia una riflessione molto chiara sull’incapacità della Chiesa a cogliere le risorse di internet, in particolare come “strumento di evangelizzazione”.
In filigrana, la sua analisi esprime una critica per una comunicazione troppo caratterizzata dall’organizzazione verticale della Chiesa cattolica.
“Internet ci fa scendere dalla nostra cattedra magistrale, ci fa uscire dai nostri ghetti, dalle nostre sacrestie”, secondo il vescovo francese.
Confrontati con la “web-generation”, i membri della CEEM dovrebbero interrogarsi “sulle conseguenze ecclesiologiche, sugli effetti sul governo stesso della Chiesa, sul posto della religione sul mercato di internet, sui modi di proclamarvi il Vangelo”.
Monsignor Di Falco Leandri sottolinea il vantaggio acquisito dai siti protestanti “evangelisti” in termini di audience.
“I siti cattolici sono centrati su se stessi.
Parlano la lingua degli iniziati ad uso esclusivo degli iniziati.
I siti ‘evangelisti’, al contrario, vogliono raggiungere gli internauti, utilizzando internet come vettore di evangelizzazione.” Certo, ogni diocesi possiede un sito più o meno nutrito, i blog di preti si moltiplicano, le preghiere e i ritiri “on line” si diffondono.
Il Vaticano, il cui sito internet è poco conviviale, ha lanciato in gennaio il proprio canale su Youtube.
Ma questa presenza non è fine a se stessa, insiste monsignor Di Falco Leandri: i siti “cristiani devono essere suscitatori di coscienza”.

Quel che è di Cesare

ROSY BINDI – GIOVANNA CASADIO, Quel che è di Cesare, Laterza, Bari, 2009,  pp.127,  € 10.00 “Quel che è di Cesare” è una lunga intervista di Giovanna Casadio a Rosy Bindi, in cui la vicepresidente della Camera, incalzata dalle domande della giornalista, riflette sul rapporto tra fede, politica e religione nel tentativo di superare quel reciproco pregiudizio tra credenti e non credenti che ruota intorno al valore della laicità.
«Un pregiudizio – dice Rosy Bindi – che è tempo di archiviare, originato dal conflitto tra potere temporale e potere spirituale, che la storia ha già superato e la cui permanenza, tutta ideologica, rende più difficile affrontare le sfide della modernità.
La contrapposizione tra laici e credenti nasce da qui: i credenti sono sempre sospettati della loro laicità e i non credenti sono sempre sospettati della loro eticità».
Nel libro, edito da Laterza, Rosy Bindi racconta il suo impegno di cattolica che ha scelto la politica e va al cuore del principio di laicità.
In un colloquio franco e diretto affronta le questioni cruciali della nostra democrazia.
Scommette sul dialogo tra credenti e non credenti per superare reciproche scomuniche e afferma l’attualità del cattolicesimo democratico.
Rilancia la dimensione etica della politica come servizio e ricerca del bene comune.
Rosy Bindi, la sciabola laica e il vizio del compromesso di Michele Ainis Rosy Bindi non è donna che le mandi a dire.
Lei cattolica, che da giovane fu sul punto d’entrare in monastero, non ha mai parlato la lingua velata e un po’ allusiva della Curia.
Lei giurista, allieva di Vittorio Bachelet, ha sempre rifiutato gli alambicchi lessicali così familiari a chi maneggia codici e pandette.
Lei politica di lungo corso, e adesso fresca di nomina come presidente del Partito democratico, non ha mai amato il linguaggio involuto dei politici.
La schiettezza è una virtù evangelica («Sia il vostro dire: Sì sì, no no; il di più viene dal maligno»: Matteo 5, 37).
Ma in Italia è anche scarsamente praticata, vuoi per l’impero del politically correct, vuoi per opportunismo, per non farsi nemici.
Eppure se non sei franco – con gli altri e con te stesso – ti sarà impossibile mettere a profitto le tue relazioni con il mondo.
Perché chi canta in falsetto rifiuta a ben vedere il dialogo, si rende muto e sordo.
E invece il dialogo è sempre necessario, probabilmente oggi più di ieri.
Nelle guerre di religione che divampano su e giù lungo la penisola, nella rinnovata sfida tra guelfi e ghibellini, ciò vale innanzitutto sul fronte della laicità.
E alla laicità Rosy Bindi, intervistata da Giovanna Casadio, ha appena dedicato un libro (Quel che è di Cesare, Laterza, pp.
127, euro 10).
Lo sfogli, e incontri giudizi taglienti come altrettante sciabolate.
La posizione dell’Osservatore Romano contro la morte cerebrale? Oscurantista.
I divieti papali sull’uso della contraccezione? Già da ministro del governo Prodi, Bindi confezionò uno slogan: «Se non usi la testa, usa almeno il preservativo».
La battaglia sui Dico, creatura poi abortita di Rosy Bindi e Barbara Pollastrini? Davanti alla prospettiva di riscattare le coppie di fatto dalla clandestinità giuridica, i vescovi risposero: «Non possumus».
E lei disse a sua volta che un ministro della Repubblica italiana non è tenuto a conoscere il latino.
L’opposizione del Vaticano alla proposta – formulata in un consesso delle Nazioni Unite – di depenalizzare l’omosessualità? Una pagina triste.
Il ruolo del cardinal Ruini? Un panettiere al lavoro su due forni, destra e sinistra, che professava la «cultura dello scambio».
Inalberando la bandiera d’una Chiesa giudicante, che assolve nel confessionale e spara veti in piazza.
Non che Bindi sia diventata all’improvviso un’accanita mangiapreti.
Se è per questo, difende l’ortodossia cattolica su molte altre questioni, dall’eutanasia alla fecondazione assistita, e più in generale all’indisponibilità della vita per ogni essere vivente.
Arriva perfino a spalleggiare le pretese più mondane delle gerarchie ecclesiastiche, dall’8 per mille (un sistema «trasparente») al finanziamento delle scuole private (benché una norma costituzionale lo precluda).
Anche in questi casi usa parole nette, senza infingimenti.
Nel merito, potremo senz’altro dissentire.
Non però nel metodo: dopo tutto fu proprio il nitore delle rispettive posizioni – come ricorda Bindi – a permettere l’incontro fra laici e cattolici in Assemblea costituente.
Un miracolo che non si è poi ripetuto, nella storia della Repubblica italiana.
Qui c’è il punto cruciale di questo volumetto, però c’è anche il suo punto critico.
Perché vi si teorizza che ogni idea debba sempre stemperarsi nell’idea dell’altro, sino a forgiare un «meticciato», una contaminazione sistematica tra fede e ragione.
Ma davvero il compromesso su ogni singola questione è la nostra via d’uscita? E davvero per siglarlo dobbiamo rinunziare alla cultura del conflitto? Tuttavia quest’ultima costituisce il sale dei sistemi liberali; non per nulla la nostra Carta regola l’istituto del conflitto tra i poteri dello Stato, affidando alla Consulta ogni giudizio sulle ragioni e i torti.
D’altra parte non sempre è possibile raggiungere un’intesa.
Per esempio sul crocifisso nelle scuole: o lo espongo o non lo espongo, non posso appenderlo al muro e poi coprirlo con un velo.
Il compromesso, casomai, deriva dall’insieme, dal fatto che non tutte le decisioni soddisfino il medesimo uditorio.
Esattamente come avvenne all’atto di redigere la Costituzione, dove s’incontrano disposizioni di matrice liberale (per esempio quella sulla libertà d’impresa) accanto ad altre di marca socialista (il veto ai latifondi).
E quando viceversa i nostri padri fondatori misero il diavolo insieme all’acqua santa – come nell’art.
7 sui Patti lateranensi, che Rosy Bindi indica a modello – timbrarono «un errore logico e uno scandalo giuridico», per usare le parole di Benedetto Croce.
Oggi come allora, meglio un bisticcio di un pasticcio.
in “La Stampa” del 12 novembre 2009

Cercando Poimandres

BRUNO DEL MEDICO, Cercando Poimandres. Sul viaggio di alcuni Teonauti e sulla loro iniziazione mistica al senso della vita, di: Edizioni Lampi di Stampa, 2009, pp.
356 , ISBN 978-88-488-0913-9, Prezzo: 18 euro Cercando Poimandres è un testo assolutamente particolare, non ascrivibile a nessuno dei filoni letterari classici.
Per questo l’autore ha scelto di inserirlo in un nuovo genere: la mistica fabulata.
La mistica è quella attività della mente umana, di tipo spirituale, che si occupa del mistero di Dio, quindi si supporrebbe che lo facesse in modo serioso.
Qui però l’autore tratta argomenti di alta spiritualità raccontandoli in una cornice fiabesca.
In questo modo, usando uno stile leggero ed un linguaggio fluente, rende la lettura piacevole nonostante la serietà degli argomenti.
Se all’inizio la narrazione può richiamare l’irrazionalità geniale di Calvino o anche, in alcuni tratti, l’umorismo sofisticato di Wodehouse, nel seguito acquista un tono del tutto originale: le vicende assurde di un viaggio iniziatico alla scoperta dei motivi dell’esistenza si dipanano in mondi irreali, o forse in universi altri, o forse negli spazi angusti della mente delirante del protagonista.

Le leggi razziali in Italia e il Vaticano

«Non comanderanno!» Udienza del conte Galeazzo Ciano, ministro degli esteri, a mons.
Borgongini Duca, nunzio apostolico in Italia Roma, 2 Agosto 1938 …A fianco della questione dei neri, si dovrà trattare anche quella degli ebrei, per due ragioni: 1°) perché essi sono espulsi da ogni parte, e non vogliamo che gli espulsi credano di potere venire in Italia come nella terra promessa; 2°) perché è loro dottrina, consacrata nel Talmud, che l’ebreo deve mischiarsi con le altre razze come l’olio con l’acqua, ossia rimanendo di sopra, cioè al potere.
E noi vogliamo impedire che gli Ebrei in Italia abbiano posti di comando.
Appunto della Segreteria di Stato su certificati di battesimo falsi rilasciati a ebrei 2 aprile 1941 Qualche giorno fa persona attendibile mi disse che era bene diffidare dei certificati di battesimo rilasciati a non ariani battezzati dall’ufficio parrocchiale della Basilica di S.
Pietro, perché la data del battesimo era falsificata.
È una dolorosa constatazione: non a torto le autorità civili dubitano della veridicità di attestazioni ecclesiastiche…
Credo sia opportuno richiamare chi di dovere a una scrupolosa e doverosa esattezza di registrazione.
Accordo tra la Santa Sede e Governo fascista 16 agosto 1938 Gli ebrei, in una parola, possono essere sicuri che non saranno sottoposti a trattamento peggiore di quello usato loro per secoli e secoli dai Papi che li ospitarono nella Città eterna e nelle terre del loro temporale dominio.
Ciò premesso, è vivo desiderio dell’On.
Capo del Governo che la stampa cattolica, i predicatori, i conferenzieri e via dicendo, si astengano dal trattare in pubblico di questo argomento; alla S.
Sede, allo stesso Sommo Pontefice non manca il modo d’intendersela direttamente in via privata con Mussolini e di proporgli quelle osservazioni che si credesse opportune per la migliore soluzione del delicato problema.
Il Vaticano e la frattura del 1938 di Emma Fattorini in “Il Sole 24 Ore” del 1° novembre 2009 La prossima settimana esce il nuovo libro dello storico gesuita Giovanni Sale, Le leggi razziali in Italia e il Vaticano (Jaca book, Milano, pagg.
320, € 28,00), con un’ampia raccolta di documenti inediti e un saggio introduttivo di Emma Fattorini, che qui in parte anticipiamo.
Le leggi razziali promulgate da Mussolini il 5 settembre del 1938 dividono in due il mondo cattolico.
L’antisemitismo, infatti, lungi dall’unificare i cattolici, diventa sempre di più un elemento di divisione all’interno della cattolicità.
I fedeli delle parrocchie come gli intellettuali e i sacerdoti esprimono giudizi e pratiche diverse nei confronti di quelli che solo molto tempo dopo saranno chiamati i loro “fratelli maggiori”.
I due principali quotidiani cattolici, ad esempio, «L’Italia» di Milano e «L’Avvenire d’Italia» di Bologna sono decisamente in polemica dura con le leggi razziali.
Del resto l’argomentazione “teologica” è anche alla base dell’offensiva fascista: ripetute saranno le accuse alla chiesa per non essere coerente con le sue posizioni antigiudaiche, per avere abbandonato troppo disinvoltamente la fortissima tradizione antisemita espressa da tante pagine della «Civiltà cattolica» alla quale Mussolini dirà di essersi ispirato: «C’è molto da imparare dai padri della Compagnia di Gesù.
(…) Il fascismo è inferiore, sia nei provvedimenti sia nella loro esecuzione, al rigore della Civiltà cattolica».
Alla rivista dei gesuiti sarà rimproverato, ad esempio, di non prendere sul serio il concetto di Volksgemeinschaft: essa rinnegherebbe l’importanza di tenere uniti comunità di razza, religione e nazione, non considererebbe la razza inscindibilmente legata all’italianità, di cui la religione dovrebbe farsi garante e custode.
La chiesa, insomma, viene accusata di abdicare alla sua funzione di custode delle radici spirituali della comunità nazionale, che verrebbe inquinata dal mescolamento razziale: il razzismo si presenta come «salvaguardia delle virtù tradizionali e intrinseche alla razza…
orbene questi sono principi eminentemente cattolici…
quella superiore eugenetica spirituale, che è rivolta alla salute e alla difesa delle anime umane».
Sbaglierebbe dunque in pieno la «Civiltà cattolica» quando distingue e contrappone nazione e razza.
A questo è dedicata la campagna della rivista «Difesa della razza» che, tra il novembre 1938 e il marzo del 1939, dedica ampio spazio ai rapporti tra «razza e cattolicesimo», dando voce a un liceale avanguardista che inneggia alla romanità pagana e al suo atto eroico contro la mollezza compassionevole dei cattolici.
Il cuore della polemica, come in tempi più recenti, diventa l’indispensabile contributo del cattolicesimo italiano all’identità nazionale.
L’intransigenza della chiesa cattolica a non discriminare ingiustamente chi appartiene a un’altra razza, paese, etnia ha dunque radici profonde, che sarebbe del tutto antistorico attribuire a un facile buonismo: rimanda a una fedeltà superiore a quella pur dovuta alla nazione, una idea di chiesa e di nazione, dei loro rapporti e delle reciproche responsabilità che già allora non trovava concordi tutti i cattolici italiani.
La propaganda fascista non prendeva di petto la questione, evitava le punte più odiose e cercava una complicità su temi ai quali la chiesa era particolarmente sensibile: i matrimoni misti rappresenterebbero un pericoloso «meticciato religioso» perché i figli, per quanto educati alla religione cattolica, sarebbero sempre stati degli «ebrei mascherati», dei «circoncisi dello spirito».
In più occasioni la propaganda fascista incita la chiesa a diffidare della conversione degli ebrei che farebbero professione di fede cattolica per evidente opportunismo: altro non sarebbero che degli infiltrati, in realtà «permanentemente e immutabilmente di razza ebraica».
È la antica e mai conclusa questione dei battesimi e delle conversioni fatte per convenienza.
Le risposte cattoliche sono imbarazzate riguardo alla autenticità delle crescenti conversioni e si concentrano sul dato giuridico-formale del valore probatorio del battesimo.
Ci si appella ancora una volta al Concordato, nella convinzione del tutto illusoria che quello strumento riesca a dirimere anche questioni di contenuto religioso così delicate e così intrecciate alle identità personali.
L’ultimo lavoro di Padre Sale, che arricchisce l’attuale panorama documentaristico con i materiali provenienti dall’archivio della «Civiltà cattolica», ci fa capire bene la persistente ambiguità degli ambienti curiali, in contrasto all’intransigenza di papa Ratti.
Lo storico gesuita conferma, attraverso questa nuova documentazione, le differenze tra le prudenti connivenze e la decisa contrarietà di Pio XI, dell’Azione cattolica e specialmente di Gian Battista Montini.
Il confronto con le leggi razziali diventa una cartina di tornasole che getta luce sulla difficile distinzione tra questione biologica e questione morale (quali sono – si chiedono molti cattolici – le differenze tra i concubinaggi con le popolazioni di colore e quelle con gli ebrei).
Ne risultano con chiarezza le ripetute ambiguità tra ragioni biologico-razziali e politico-religiose-morali.
Nel complesso, conclude Giovanni Sale, il piano giuridico prevalse sulla difesa del diritto naturale.
E ha ragione, il nodo reale non è tanto la percentuale di prudenza o il tasso di discrezione nel contrastare leggi odiose, ma l’avere tradito la difesa del diritto naturale.
Per questa difesa dovremo aspettare ancora molto tempo.

La Chiesa deve parlare forte

La Chiesa deve parlare forte intervista a Mons.
Giancarlo Maria Bregantini a cura di Ida Nucera Viviamo un tempo difficile, caratterizzato da un progressivo sfi lacciamento della morale, scalzata da narcisismo, corruzione e arroganza, in totale sprezzo del bene comune.
Anche la politica ha perduto l’anima, cioè l’etica.
I cattolici cercano con difficoltà alternative possibili.
Per il credente diventa sempre più faticoso “stare sulla stessa barca”, come più volte evidenziato dal dibattito aperto su queste stesse colonne.
Il momento sollecita un confronto franco con pastori aperti al dialogo.
Abbiamo dunque incontrato monsignor Giancarlo Maria Bregantini, trentino di Denno, dal 1994 vescovo di Locri, profondo conoscitore del Sud, con tutte le problematiche legate all’arretratezza e alla ‘ndrangheta, ma anche con le sue grandi potenzialità, per le quali si è sempre battuto affi nché potessero esprimersi in pienezza.
Dal 2007 è arcivescovo metropolita di Campobasso Bojano.
Monsignore, molti cristiani sono indignati perché ritengono la Chiesa poco profetica su temi cruciali.
Attendono una condanna chiara di certi atteggiamenti immorali, invocano parole certe su quanto lontana dal Vangelo sia la classe dirigente.
Possiamo continuare a far finta di nulla? Possiamo chiuderci in sacrestia e attendere che tutto passi? Riguardo alla situazione generale della Chiesa, oggi, mi piace rivisitare tre verbi che spesso ripeto ai preti della nostra diocesi.
Frutto di anni di fatica interiore e pastorale, di lacrime ma anche di tante speranze e di tante gioie, vissute con la gente.
Perché la Chiesa non è solo la gerarchia: è soprattutto quella parte del popolo di Dio che vive, spera e lotta tutti i giorni.
Compio ogni sforzo perché il mio cuore sia sempre più attaccato ad essa.
E la “gerarchia” stessa non è mai fi nalizzata a sé stessa, ma opera sempre per la gente, nel vissuto quotidiano e sofferto della storia, così come la disegna il Signore per noi, di pietra in pietra.
Dicevo che ho imparato tre verbi: mai vincere, ma sempre convincere; mai imporre, ma sempre proporre; mai giudicare, ma analizzare.
Un giorno un Provinciale di una Famiglia religiosa di consacrati mi disse, quasi scusandosi: «Ma la santità non si può imporre!».
È vero, risposi di getto, ma si deve proporre, sempre più.
La Chiesa oggi sente la sua pesantezza, ma guai se smette di proporre la santità come meta.
Se si lascia infiacchire dalla propria stanchezza.
Don Milani, con chiarezza, nel suo fiorito linguaggio fiorentino, amava dire: «Sfottere crudelmente non chi cammina in basso, ma chi mira in basso!».
Tutti siamo fragili, tutti peccatori.
Ma questo non ci deve per nulla esimere dal puntare in alto.
Anzi, proprio perché la fragilità è evidente, ancor più limpida deve essere la proposta e alta la meta.
Ecco allora la necessità di rifl ettere sul comportamento della Chiesa nel nostro tempo.
Ma siano analisi, e non giudizi.
Perché c’è una differenza grande.
E dove sta la differenza? Nel tono della voce.
In famiglia, in ufficio, in politica: tutto sta nel tono della voce.
Se esprimi un giudizio, il tuo tono sarà duro, aspro, diretto.
Se invece analizzi, vedi e individui subito ciò che non va, perché il tuo occhio è limpido, come il catino dell’acqua con cui Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli.
Il tono della tua voce si fa testimonianza, coinvolgimento, passo sofferto e condiviso.
Anche il male lo porti con te e non te ne tiri fuori, perché non sei diverso da loro.
Occorre sfuggire al soffuso ma comodo manicheismo che talvolta avvinghia certi preti bravi o certi cristiani impegnati.
La fatica di un vescovo è la fatica del pastore, che non ritma i suoi passi sul passo delle sue forze, ma sul passo fragile delle «pecore madri, che egli conduce pian piano e porta sul petto gli agnellini» (Isaia 40,11), cercando sempre la pecorella che si è smarrita.
E se la pone sulle spalle, condividendo la gioia con i suoi amici, in una comunità dove soprattutto il lontano si fa vicino, per il sangue di Gesù sulla croce.
Quella croce che ha fatto dei due un solo popolo nuovo.
Ripeto: solo chi non mira in alto va crudelmente sfottuto.
Ed è ciò che oggi si deve fare di fronte alla perdita del bene comune, alla mancanza di etica.
Solo con la chiarezza del profeta si può dire di «no», ad esempio, a un personaggio politico locale, che pretenda di fare da padrino nella cresima di un amico.
Con amarezza ma con chiarezza, perché egli non regola la sua vita politica con coerenza.
Non sarà giudizio, ma analisi lucida, poiché hai orientato la tua vita, prima di ogni altra, secondo ideali evangelici che cerchi di vivere con coerenza.
La Chiesa oggi deve parlare di più con voce profetica.
Troppo tace, troppo lascia correre.
Su certe questioni si dimostra inflessibile, mentre su altre è acquiescente.
Ma questa difficoltà nasce dalla carenza di proposta evangelica.
Questo è il problema.
E il nostro dolore diffuso.
A quali principi dovrebbero essere improntati i rapporti tra la gerarchia ecclesiastica e la politica? C’è sempre attenzione all’ultimo, al povero, alla giustizia? Noi vescovi della regione ecclesiastica Abruzzo-Molise abbiamo emesso un decalogo, evangelicamente ben inquadrato, che indica i sentieri del bene comune, con precisione e passione pastorale.
In sintesi richiama il potere al servizio orientato verso le categorie più deboli.
Vede la politica come crescita di responsabilità e democrazia, nel rispetto delle altrui posizioni e nella coerenza delle scelte.
Ribadisce il rifiuto e la denuncia di comportamenti immorali e disonesti e auspica l’impegno per favorire la cultura della legalità, la preparazione degli amministratori e una selezione della classe dirigente che premi il merito, la competenza e rifugga da simpatie, legami personali o familistici, ripicche o vendette.
Tutto questo si fonda sul Vangelo e sulla Bibbia.
Eppure, quando l’ho presentato, c’è stato chi mi ha accusato di fare politica.
Ciò accade spesso quando la Chiesa diviene chiara, profetica e incisiva.
Molti la vorrebbero invece muta e silenziosa, quasi complice di uno stile di vita che favorisce i ricchi e penalizza i poveri.
Ma che direbbe quel Gesù che afferma che ogni cosa fatta al più piccolo dei fratelli è fatta a lui stesso? Che rimprovera Erode per essere come una volpe? Che paga le tasse? Che contesta, con il suo silenzio, anche Pilato? È sempre lui la misura.
Oggi uno dei punti più dolenti è il respingimento degli stranieri, condannati a sevizie certe nei lager della Libia.
Molte persone, laici e cattolici impegnati nell’apostolato sociale, si sono dichiarate pronti alla disobbedienza civile di fronte a leggi che permettono tutto ciò.
Ritiene sia una scelta coerente con il Vangelo? Il respingimento degli stranieri è un peccato grave.
È uno dei più tristi segni della nostra acquiescente debolezza come cristiani.
E dico grazie alle voci ecclesiastiche (non molte, per la verità) che li hanno condannati con chiarezza.
Memori di un Gesù che disse: «Ero straniero e mi avete accolto» (Matteo 25,35).
È triste sentire certi politici che, ogni volta che la Chiesa dice la sua, la deridono con sciocchi pretesti.
Credo che chi matura forme di disobbedienza civile non faccia altro che seguire gli esempi dei grandi santi.
Come Tommaso Moro, patrono dei politici, che morendo, sul palco della sua decapitazione, affermò con luminosa chiarezza evangelica: «Ho sempre servito Dio e il re.
Ma ho servito Dio prima del re».
La testimonianza riguarda non solo il clero, ma anche il laicato cattolico.
La fedeltà a una scelta costa la fatica di una strada in salita, soprattutto in alcuni luoghi che lei ben conosce, e può presentare un conto salato se si disturbano i potenti e i prepotenti… La testimonianza è indispensabile.
Nasce da un modo di leggere la Parola e la storia.
Fedeli a Dio e alla gente.
Ai laici, chiedo un forte amore per la propria terra, dettato da un cuore materno.
È infatti soprattutto con un cuore femminile, anche nella vita consacrata, che si coltiva questo amore.
Solo così la terra diviene un giardino.
La devi amare, curare, e servire, con rispetto e dedizione, fino in fondo.
In fedeltà da sposo e non da amante.
«I piccoli “sì” preparano il cuore ai grandi “sì” cioè al bene; come i piccoli “no” al male allenano ai grandi “no” al male», diceva san Tommaso Moro.
È fondamentale la coerenza nelle piccole cose, la chiarezza interiore coltivata giorno per giorno, che fa leggere la vita con occhi trasparenti.
Altro elemento importante nella testimonianza è la gratuità.
Siamo amati gratuitamente da un Padre che ci dona il suo sole; e lo dona sia a chi è giusto sia agli ingiusti.
Lo stile gratuito rovescia il concetto meritocratico che diventa, sottilmente, la più falsa giustifi cazione della scala sociale iniqua.
Solo nella gratuità si diviene fratelli.
L’allontanamento di tanti dalla pratica religiosa, tra cui la confessione, dipende da molte cause.
Lei ha detto che la testimonianza è la prima forma di identità.
Testimoniare Cristo morto e risorto è come spandere un profumo, ma, a volte, questo si è come dissolto e non attrae più… La testimonianza resta il vero profumo, che la Chiesa nel giovedì santo immette nell’olio del Crisma, segno stesso del Cristo.
Crisma, Cristo, cristiano: stessa radice, stesso itinerario di speranza e di coerenza.
Ma qui tutti sentiamo di essere fragili.
Abbiamo bisogno di mete alte, di testimoni credibili.
E qui si gioca la fatica educativa con i nostri ragazzi, che restano il banco di prova della nostra coerenza.
Perché sono i primi ad accorgersi se in noi, preti o educatori, c’è realmente quel profumo di santità e di bellezza.
È dunque necessario che questa testimonianza sia resa ben visibile, con gesti credibili e alternativi.
Perché la Chiesa non deve essere né succube a questo sistema di potere né anarchica, ma alternativa.
Deve cioè avanzare proposte alte, con passo più avanzato, con presenze forti presso chi è escluso o è vittima della crisi che ci travolge.
Ma questa via alternativa non è praticabile, se non attuiamo prima una serie di strumenti di sostegno.
Mi riferisco in particolare a due: un gruppo biblico in ogni parrocchia e un circolo culturale in ogni quartiere.
Occorre costruire una fede che sa leggere dentro i fatti, che si avvalga del discernimento maturo dei laici e parroci che usano la Parola come luce che illumina i nostri passi.
Da soli non si può essere profeti.
E se è vero (come dicevo ai ragazzi della Locride) che tu solo puoi farcela, devi ricordarti però che non puoi farcela da solo.
Sempre più spesso al Sud il territorio diventa discarica di veleni, che incrementano l’incidenza tra la popolazione locale di alcuni tumori e alterazioni genetiche.
È possibile fermare questo obbrobrio? Su questo punto si gioca la verifica del nuovo rapporto con la terragiardino.
Ai ragazzi traduco così questo concetto: senza il cielo, la terra si fa fango; con il cielo, diviene giardino.
Come dicevo prima, tocca a noi far amare questa terra in forza della bellezza del cielo.
«Novissima considera, ut videas bona», dicevano i medioevali, cioè guarda lontano, per poter vedere bene qui, già da ora.
Questo è il compito attuale della Chiesa: additare questo cielo, che brilla già dentro di noi; farlo rilucere, intessendolo d’amore, in un intreccio sereno tra intelligenza e cuore.
Allora il Signore ci porrà alla sua destra, perché quel cielo ci avrà portato a servire con umiltà e gratuità i piccoli, i poveri, i soli, i disoccupati, gli stranieri, in un profumo di testimonianza luminosa e coinvolgente.
in “il nostro tempo” del 2 agosto 2009

Sugli approcci musulmano e cattolico alle ermeneutiche sacre

Sugli approcci musulmano e cattolico alle ermeneutiche sacre di Aref Ali Nayed Nel nome di Dio, il Compassionevole.
Sotto il titolo “Anche l’islam ha i suoi Lutero.
Ma una riforma è lontana” Sandro Magister scrive: “Al cuore della crisi attuale del mondo musulmano vi sono le differenti concezioni della tradizione e il rifiuto di leggere il Corano con metodi scientifici, oltre che teologici.
[…] La questione della tradizione […] appare ancor più bruciante per l’islam.
Essa è strettamente intrecciata con quella dell’interpretazione del Corano.
Le correnti fondamentaliste ispirate dai Fratelli Musulmani, ad esempio, idealizzano l’islam delle origini, lo assumono come unico modello e rifiutano di applicare al Corano criteri di lettura scientifici, oltre che teologici.
Sono rari e isolati i musulmani che leggono il Corano con metodi analoghi a quelli applicati alla Bibbia dall’esegesi cristiana.
I grandi centri della teologia islamica, come l’università al-Azhar del Cairo, sono molto diffidenti nei confronti delle metodologie moderne di analisi del testo sacro.
I frutti di una lettura critica del Corano provengono quasi esclusivamente da studiosi non musulmani”.
Magister offre quindi “la lezione di un grande islamologo, Michel Cuypers” presentando un suo testo sotto il titolo: “La tradizione vista dalla fede musulmana, ieri e oggi”.
Un testo che Magister vede in questa luce: “Nel finale, Cuypers mostra quanto sia importante che il mondo islamico si apra a una lettura critica del Corano”.
Lo spirito dell’introduzione di Magister e il modo in cui egli legge la parte conclusiva del testo di Cuypers riflettono la stessa attitudine che alcuni studiosi e dirigenti cattolici hanno manifestato in più occasioni, negli ultimi anni, riguardo al Corano e alle sue interpretazioni.
Essi parlano dallo stesso punto di vista, per loro indiscutibile, che nel recente passato ha prodotto la tesi infondata secondo cui il dialogo cattolico-musulmano è ostacolato dalla convinzione musulmana che il Corano è l’autentica parola di Dio (che esaltato Egli sia).
È importante sottolineare, ancora una volta, che tale tesi chiaramente soffre di un doppio blocco: primo, il fraintendimento e l’errata esposizione dell’insegnanento islamico riguardo al Corano; secondo, l’errata esposizione della dottrina cattolica sulle Sacre Scritture, falsamente messa in contrasto col primo.
Ora spiego come questo doppio blocco opera.
Il Corano è l’autentico parlare (kalam) del nostro supremo unico Dio (Allah), rivelato al profeta Maometto (che la pace sia su di lui) e fedelmente conservato attraverso un’ininterrotta trasmissione comunitaria (tawatur).
Il Corano è eterno (qadim) in essenza, in origine, e come essenziale prerogativa divina a parlare (kalamullh as kalam nafsi).
Ma esso è anche storico nel suo svelarsi, come atto di rivelazione (kalamullah as kalam lafzi), ed è stato rivelato al Profeta (che la pace sia su di lui) in profondo intreccio con le viventi circostanze e gli eventi storici della comunità musulmana (tanzil, tanjim).
Per saperne di più su questo si veda “Al-Insaf” dell’Imam Abu Bakr Al-Baqillani, morto nel 1013 dell’era cristiana.
Gli studiosi musulmani hanno sempre fondato le loro interpretazioni ed esegesi del Corano sulla base di varie scienze incluse le scienze delle “circostanze della rivelazione” (asbabulnuzul), sulle scienze della storia del Corano (tarkhulqur’an) e su un accurato studio delle forme linguistiche familiari agli arabi del tempo della rivelazione (ulumulugha).
Gli studiosi musulmani hanno sviluppato un apparato comprensivo delle metodologie storico-critico-linguistiche per la comprensione del Corano (ulumulqur’an).
Per saperne di più su questo si veda “Al-Itqan” dell’Imam Jalaloddin Al-Suyuti, 1445-1505 dell’era cristiana.
Gli studiosi musulmani sono stati sempre consapevoli del fatto che l’interpretazione, la comprensione e l’esegesi dell’eterno parlare di Dio sono forme dell’umano, strenuo sforzo (ijtihad) che deve essere obbligatoriamente rinnovato in ogni generazione credente.
La solenne fede nell’eternità e nella divina autorità del Corano non ha mai trattenuto gli studiosi musulmani dal trattare con esso storicamente e linguisticamente.
Al contrario, la fede nella verità rivelante del Corano è stata la vera motivazione di vite spese nel diretto studio professionale del parlare di Dio.
Per saperne di più su questo si veda “Kitab Al-Ilm” dell’Imam Ibn Abd Al-Barr.
Imponenti biblioteche di opere interpretative ed esegetiche, teologiche, giuridiche, etiche e spirituali sono state prodotte da successive generazioni di studiosi, dai tempi iniziali fino ad oggi.
È precisamente sulla base della loro fede solenne che il Corano è l’autentica parola di Dio che studiosi musulmani, nel corso dei secoli, hanno impegnato in un dialogo ebrei, cristiani, zoroastriani, indù, buddisti ed anche scettici e naturalisti.
Tutti i principali manuali di teologia musulmana, siano essi maturidi, ashariti, mutaziliti, jafariti, ismailiti o ibaditi, mostrano una notevole larghezza di vedute e chiamano a confronto attivamente le credenze di filosofi, ebrei, cristiani, zoroastriani, indù e buddisti.
In modo interessante, l’apparato storico-critico-linguistico dell’esegesi musulmana, in sintesi con le antiche metodologie ermeneutiche talmudiche di un Rabbi Hillel e di un Rabbi Ishmael, è stato trasmesso attraverso studiosi ebrei sefarditi come Hasdai ben Abrahan Crescas (1340-1410/1411) e Baruch Spinoza (1632-1677) fino ai primi maestri dell’ermeneutica protestante, come Johann August Ernesti (1707-1781).
Il “criticismo alto” e il “metodo storico-critico” che discendono dall’ermeneutica della riforma protestante sono stati direttamente influenzati dall’ermeneutica talmudica andalusa che risale a Spinoza, a sua volta imbevuta dell’ermeneutica coranica degli studiosi musulmani andalusi.
È anche interessante notare che le metodologie e le conclusioni del criticismo protestante sono state, per secoli, rifiutate dalla Chiesa cattolica.
Questo rifiuto è stato particolarmente sistematico ed esplicito nell’enciclica “Providentissimus Deus” di Leone XIII, del 1893, e nell’enciclica antimodernista “Pascendi dominico gregis” di Pio X, del 1907.
Sotto la forte pressione della scuola biblica protestante, alla fine la Chiesa cattolica, ma solo malvolentieri, parzialmente e a determinate condizioni, ha accettato alcuni aspetti del metodo storico-critico.
Papa Benedetto XV diede inizio a questo processo di accettazione condizionata nella “Spiritus Paraclitus” del 1920, ma  fu solo con la “Divino afflante Spiritus” di papa Pio XII, del 1943, che gli studiosi cattolici sono stati finalmente autorizzati a mettersi al passo con gli stadi avanzati degli studi biblici protestanti.
Per questo è abbastanza ironico che alcuni studiosi cattolici ora accusino i musulmani di un’immaginaria chiusura, che descrive invece molto meglio la chiusura pre-1943 del Vaticano alle metodologie storico-critiche.
Ciò che è ancor più ironico è il fatto che alcuni cattolici non solo inventano una simile chiusura musulmana, ma arrivano ad attribuirla alla fede musulmana nella divina autorità del Corano, cioè al fatto che il Corano è l’autentica parola di Dio.
Ciò è davvero strano, perché induce a pensare che chi crede nella divina autorità di un testo sacro non può essere un interlocutore di dialogo in materie teologiche! Nel sostenere questa strana tesi sul credo musulmano riguardo al Corano, alcuni cattolici sembrano dimenticare le posizioni dogmatiche cattoliche romane riguardo alle Sacre Scritture.
Almeno dal Concilio di Trento, il magistero della Chiesa cattolica romana ha ripetutamente affermato una dottrina molto netta, quasi impositiva, riguardo alla divina rivelazione, e ha sempre tenuto fermo che “la santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr.
Gv 20,31; 2 Tm 3,16); hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa” (Concilio Vaticano II, “Dei Verbum”, III).
La “Providentissimus Deus” di papa Leone XIII del 1893 mette in chiaro che una forte fede nella divina ispirazione delle Scritture cristiane è stata “sempre ritenuta e apertamente professata” dalla Chiesa: “Questa rivelazione soprannaturale, secondo la fede universale della Chiesa, è contenuta sia nelle tradizioni non scritte, sia anche nei libri scritti che vengono chiamati sacri e canonici, perché, essendo stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati affidati alla Chiesa.
Questo certamente, riguardo ai libri dell’uno e dell’altro Testamento sempre ha ritenuto e apertamente professato la Chiesa: ben noti sono gli importantissimi documenti antichi, nei quali si afferma che Dio, il quale parlò prima per mezzo dei profeti, poi egli stesso e quindi per bocca degli apostoli, è anche autore delle Scritture che sono chiamate canoniche, e che sono oracoli e locuzioni divine, una lettera inviata dal Padre celeste trasmessa per mezzo degli autori sacri al genere umano, peregrinante lontano dalla patria”.
È vero che la Chiesa cattolica dal 1943 e specialmente dal Vaticano II, alla luce delle acquisizioni dell’esegesi storico-critica, ha cominciato a dare rilievo al coinvolgimento degli autori umani delle Scritture.
Tuttavia, anche nella “Dei Verbum” l’ispirazione inerrante di Dio continua a essere affermata dalla Chiesa, come sempre.
Anche la “Divino afflante Spiritus” di papa Pio XII del 1943 riafferma lo stesso credo, ed espande invece che restringere le posizioni sulla Scrittura della “Providentissimus Deus” di papa Leone XIII del 1893.
Pertanto, posti i dogmi della Chiesa cattolica riguardo alla Scritture cristiane, è strano e davvero ironico che alcuni studiosi cattolici continuino a sostenere che affermare la divina ispirazione di un testo sacro sia un ostacolo al dialogo teologico! Se una simile fede nella divina ispirazione trattiene i suoi aderenti dal dialogo teologico, allora gli studiosi cattolici dovrebbero avere la stessa inibizione che alcuni di loro immaginano abbiano gli studiosi musulmani.
Inoltre, la tradizionale posizione sunnita su come accostarsi rispettosamente al Corano e alla tradizione non è così distante dalla posizione cattolica su come accostarsi rispettosamente alle Sacre Scritture e alla tradizione.
Lo stesso papa Benedetto XVI ha recentemente raccomandato la tipica cautela cattolica riguardo a un eccessivo entusiasmo per le metodologie storico-critiche: “Lo studio scientifico dei testi sacri è importante, ma non è da solo sufficiente perché rispetterebbe solo la dimensione umana.
Per rispettare la coerenza della fede della Chiesa l’esegeta cattolico deve essere attento a percepire la Parola di Dio in questi testi, all’interno della stessa fede della Chiesa.
In mancanza di questo imprescindibile punto di riferimento la ricerca esegetica resterebbe incompleta, perdendo di vista la sua finalità principale, con il pericolo di essere ridotta ad una lettura puramente letteraria, nella quale il vero Autore – Dio – non appare più” (Discorso alla pontificia commissione biblica, 23 aprile 2009).
È davvero ironico che alcuni cattolici consiglino ai musulmani di produrre dei “Lutero” e degli approcci di “stile luterano” al Corano.
Tali consiglieri dovrebbero ricordare piuttosto gli strenui sforzi fatti dalla Chiesa cattolica per arginare le conseguenze dell’affermazione del principio protestante della “Sola Scriptura”.
Sfortunatamente, alcune posizioni cattoliche riguardo agli approcci musulmani al Corano sembrano basate sull’infondata tavola dei contrasti “islam contro cristianesimo” sviluppata e sostenuta da taluni “esperti dell’islam”.
È essenziale, per amore di una mutua comprensione e per amore di Dio, fermare la costruzione di queste nocive false distinzioni, e smetterla di fare prediche all’islam circa la saggezza nell’uso del metodo storico-critico per studiare il Corano.
Dio sa cos’è il meglio! Il testo di fr.
Michel Cuypers al quale Nayed ha qui replicato: > Anche l’islam ha i suoi Lutero.
Ma una riforma è lontana
(7.9.2009) E un precedente servizio di www.chiesa con un’intervista di Cuypers a “Il Regno”, sull’applicazione al libro sacro dell’islam dei metodi di analisi letteraria già applicati alla Bibbia: > Per una rinnovata lettura del Corano: la lezione di un grande islamologo (4.6.2007) __________ La nota con cui Aref Ali Nayed criticò su www.chiesa la lezione di Benedetto XVI a Ratisbona: > Due studiosi musulmani commentano la lezione papale di Ratisbona (4.10.2006) E il successivo botta e risposta tra Nayed e il professor Alessandro Martinetti, che gli aveva replicato: > Chiesa e islam.
A Ratisbona è spuntato un virgulto di dialogo
(30.10.2006) La critica di Nayed a Benedetto XVI che aveva battezzato il convertito Magdi Allam, “un infelice episodio che riafferma la famigerata lezione di Ratisbona”: > Storia di un convertito dall’islam.
Battezzato dal papa in San Pietro
(28.3.2008) E la replica a Nayed del professor Pietro De Marco: > Per il Vaticano re Abdullah pesa più di 138 dotti musulmani (31.3.2008) __________ Il libro dell’islamologo Massimo Campanini citato in apertura del servizio: Massimo Campanini, “L’esegesi musulmana del Corano nel secolo ventesimo”, Morcelliana, Brescia, 2008.
__________ Il documento più aggiornato e più autorevole sull’esegesi cattolica delle Sacre Scritture, pubblicato nel 1993 dalla Pontificia Commissione Biblica per ordine di Giovanni Paolo II e con la prefazione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger: > L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa __________ Sulla corrente teologica asharita, alla quale Aref Ali Nayed dichiara di appartenere, sono uscite interessanti valutazioni sul numero 35-36 del 2008 di “Nuntium”, la rivista della Pontificia Università Lateranense, dedicato a “Le sfide di Ratisbona.
Fede, ragione, ricerca e dialogo”.
In particolare, tracciano profili differenziati della teologia asharita lo studioso musulmano Mustafa Abu Sway e gli islamologi François Zabbal, Adel Theodor Khoury (citato da Benedetto XVI nella lezione di Ratisbona) e Miguel Ángel Ayuso Guixot, preside del Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica di Roma.
Sandro Magister Nella sua udienza generale di mercoledì 14 ottobre Benedetto XVI ha portato ad esempio Pietro il Venerabile, il grande abate di Cluny che nel secolo XII, per “favorire la conoscenza” dell’islam, “provvide a far tradurre il Corano”.
Oggi, all’inizio del secolo XXI, accade qualcosa di più.
Un numero crescente di studiosi cristiani applica al Corano, per approfondirne la comprensione, i metodi di lettura già applicati alla Bibbia: fondati non solo sulla tradizione e sulla teologia, ma anche sull’analisi storico-critica e letteraria.
Questi ultimi metodi hanno faticato ad essere approvati dalla Chiesa cattolica, ma da molti decenni sono divenuti di uso comune.
Fanno parte di quelle “conquiste dell’illuminismo” accolte dalla Chiesa che Benedetto XVI – in un importante discorso del 22 dicembre 2006 – ha auspicato vengano accolte anche dal mondo islamico.
In effetti, l’esegesi musulmana del Corano ha conosciuto nell’ultimo secolo “un’intensa attività interpretativa non inferiore a quella medievale”, come ha documentato tra altri l’islamologo Massimo Campanini in un saggio pubblicato nel 2008 dalla Morcelliana col titolo: “L’esegesi musulmana del Corano nel secolo ventesimo”.
Ma l’esegesi musulmana contemporanea – mostra Campanini – si esplica soprattutto nell’applicare il Corano all’agire umano, ai comportamenti pratici; è eminentemente “un’ermeneutica della prassi”.
Per il resto, essa non innova in nulla rispetto ai metodi di esegesi tradizionali dell’islam.
*** Uno degli studiosi cattolici che applica al Corano gli strumenti della moderna esegesi, specie letteraria, è fr.
Michel Cuypers, che vive al Cairo.
Il suo ultimo libro, uscito due anni fa in Francia, è di grande suggestione.
È dedicato all’analisi di un capitolo del Corano: “Le festin: une lecture de la sourate al-Mâ’ida [Il banchetto: una lettura della sura al-Mâ’ida]”, e reca la prefazione dell’eminente studioso musulmano Mohamed-Ali Amir-Moezzi.
Di Cuypers www.chiesa ha rilanciato tempo fa un’ampia intervista e, più di recente, un articolo sul ruolo della tradizione nell’interpretazione islamica del Corano, pubblicato anche da “L’Osservatore Romano”.
In quest’ultimo articolo, nel descrivere gli ultimi sviluppi dell’interpretazione del Corano in campo musulmano, Cuypers ha mostrato come vi siano oggi dei “modernisti” che tendono a escludere il ricorso alla tradizione, con questa conseguenza: “Il Corano diventa dunque la sola fonte realmente normativa dell’islam.
Una ‘sola Scriptura’ che non è priva d’influssi da parte del modello protestante (alcuni modernisti sono volentieri chiamati i ‘Lutero dell’islam’).
Questa liberazione dalle maglie della tradizione permette d’ipotizzare una nuova esegesi del Corano, oggi richiesta da alcuni intellettuali musulmani.
Le ‘occasioni della rivelazione’, attinte agli hadîth, non sono più il metodo privilegiato d’esegesi, come nel passato.
Un’esegesi critica è ormai possibile.
“Questa posizione aperta ha tuttavia come contropartita il fatto di situare gli intellettuali musulmani modernisti ai margini della corrente generale dell’islam, che resta massicciamente legata alla sunna come norma di fede e legge, organicamente connessa al Corano.
Si comprende così che le differenti concezioni dei musulmani rispetto alla tradizione sono al cuore della crisi attuale dell’islam”.
*** Ebbene, a questo passaggio dell’articolo di Cuypers reagisce con veemenza – nella nota riprodotta più sotto – uno studioso musulmano che appartiene invece a una corrente dell’islam sunnita molto ortodossa e legata alla tradizione: la corrente asharita, il cui fondatore fu il teologo Abu ‘l-Hasan Al-Ashari (873-935) e il cui massimo esponente fu Abu Hamid Al-Ghazali (1058-1111), molto critico del suo contemporaneo Averroè, da lui accusato di razionalismo.
L’autore della nota è Aref Ali Nayed (nella foto), un nome familiare ai lettori di www.chiesa.
In questo sito egli pubblicò nel 2006 una doppia replica al memorabile discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, e due anni dopo un commento polemico alla conversione dall’islam al cristianesimo di Magdi Allam, battezzato da papa Joseph Ratzinger nella notte di Pasqua del 2008.
Nayed è una personalità di rilievo nel dialogo tra la Chiesa cattolica e l’islam.
Nato in Libia, ha studiato filosofia della scienza ed ermeneutica negli Stati Uniti e in Canada, ha seguito corsi alla Pontificia Università Gregoriana di Roma e ha tenuto lezioni al Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica.
È consulente all’Interfaith Program dell’università di Cambridge.
Ha diretto il Royal Islamic Strategic Studies Center di Amman, in Giordania.
Ha fondato quest’anno a Dubai un centro di studi islamici chiamato Kalam Reseasrch & Media.
Ma, soprattutto, Nayed è uno dei 138 saggi musulmani che hanno indirizzato a Benedetto XVI nel 2007 la celebre lettera “Una Parola comune”.
Anzi, ne è stato il principale estensore.
Ha fatto parte della delegazione di cinque rappresentanti musulmani che il 4 e 5 marzo 2008 hanno concordato col Vaticano i successivi forum interreligiosi di dialogo, al primo dei quali ha partecipato in posizione eminente.
Insomma, con queste credenziali viene naturale classificare Nayed tra le personalità musulmane più impegnate ed “aperte” nel dialogo con la Chiesa di Roma.
Ma a leggere i suoi interventi si ricava anche che nel suo dialogare Nayed non attenua affatto gli elementi di contrasto.
Anzi, sembra quasi che li esasperi.
La lezione di Ratisbona è per lui “infamous”.
Battezzando Magdi Allam il papa ha compiuto un atto “infelice”.
E così via.
Anche nel replicare a Cuypers, Nayed adotta toni battaglieri.
Ne elude completamente le ampie e fini argomentazioni, per appuntarsi su una sola frase.
E da questa prende spunto per rovesciare sulla Chiesa cattolica, in materia di esegesi biblica, le stesse accuse di oscurantismo tipiche della polemica laicista.
E, viceversa, per rivendicare all’islam la primogenitura di quei metodi storico-critici e di analisi letteraria divenuti poi appannaggio dell’esegesi ebraica, protestante, illuminista e infine cattolica.
La lettura di questo testo inviato da Nayed a www.chiesa è istruttiva, perché fotografa il reale livello a cui si trova oggi il dialogo intellettuale tra la Chiesa cattolica e l’islam.
Gli abbracci e le dichiarazioni di pace che si producono in tante cerimonie interreligiose non devono illudere.
Nayed è persona coltissima ed amabile.
Così come lo è Cuypers, piccolo fratello di Gesù.
Ma tra i due mondi culturali c’è un abisso.
Il servizio di www.chiesa col quale Nayed polemizza è il seguente: > Anche l’islam ha i suoi Lutero.
Ma una riforma è lontana
(7.9.2009)

Alle «Sources Chrétiennes» il Nobel cattolico

Il premio internazionale Paolo VI 2009, vero e proprio Nobel cattolico, andrà alle “Sources Chrétiennes”, la collana patristica più conosciuta del mondo; sarà lo stesso Benedetto XVI a presenziare alla cerimonia di consegna nel pomeriggio di domenica 8 novembre, data della sua visita a Brescia in occasione dell’inaugurazione della nuova sede dell’Istituto Paolo VI a Concesio, dove nacque Giovanni Battista Montini.
Il premio è stato indetto per la prima volta nel 1984 e assegnato a Hans Urs von Balthasar; il 23 giugno di quell’anno, nel corso di un’udienza speciale, il teologo lo ricevette dalle mani di Giovanni Paolo II.
Cinque anni più tardi, l’edizione del 1989 dedicata all’espressione musicale premiò il compositore francese Olivier Messiaen.
Negli anni successivi i vincitori sono stati Oscar Cullmann (1993), Jean Vanier (1997), fondatore della comunità Arca e di Foi et lumière, e il filosofo Paul Ricoeur (2003).
Comitato promotore del premio è l’Opera per l’educazione cristiana di Brescia, dove il giovane Montini venne educato e che lasciò dopo l’ordinazione sacerdotale.
Alla morte del Papa si avvertì la necessità di procedere a un’indagine archivistica e storiografica che favorisse lo studio di quello che certamente verrà giudicato un capitolo centrale della storia religiosa e culturale del XX secolo.
Una biblioteca specializzata raccoglie i libri personali del Papa e il maggior numero possibile di pubblicazioni che lo riguardano, anche in relazione al periodo storico in cui è vissuto, mentre un imponente archivio custodisce quasi mezzo milione di documenti editi e inediti, oltre a una abbondante documentazione fotografica e audiovisiva, mentre l’organizzazione di colloqui e giornate internazionali ha lo scopo di dare impulso allo studio scientifico dei temi che maggiormente hanno segnato gli anni di pontificato.
“Fondare biblioteche è un po’ come costruire ancora granai pubblici:  ammassare riserve contro l’inverno dello spirito” scriveva Marguerite Yourcenar riferendosi alla povertà culturale del Novecento, devastato da totalitarismi e ideologie anti-umane; tra i “costruttori di granai” più lungimiranti e appassionati, costretti dalle circostanze storiche a lavorare in tempo di carestia, morale e spirituale, ci sono proprio i fondatori della collana patristica edita dalle parigine Éditions du Cerf a partire dagli anni più bui della seconda guerra mondiale.
Nel 1942, nella Francia piegata dall’invasore nazista, venne pubblicato il primo volume delle “Sources Chrétiennes” grazie al lavoro di un eccezionale quartetto di gesuiti – Victor Fontoynont (1880-1958), Henri de Lubac (1896-1991), Jean Daniélou (1905-1974) e Claude Mondésert (1906-1990), il raffinato grecista che ne fu il principale direttore – con l’intento di tornare ad attingere, appunto, alle “fonti cristiane”.
Soprattutto – ma non solo – patristiche.
Accanto alle opere dei Padri greci e latini figurano infatti quelle di autori orientali, medievali, bizantini.
I primi numeri delle “Sources Chrétiennes” presentavano i testi solo in traduzione francese, ma presto i volumi furono corredati dagli originali a fronte, con introduzioni, annotazioni, commenti, apparati critici, tanto da divenire un riferimento obbligato per gli studiosi.
Nonostante le difficoltà che, già nel 1999, l’allora direttore Jean-Noël Guinot – il primo studioso laico a dirigere la collana – addebitava, in un’intervista rilasciata ad “Avvenire”, alla miope riduzione dei finanziamenti alla ricerca, l’impresa editoriale, che conta oggi più di 530 volumi, continua a “illuminare l’incontro fecondo realizzato tra il messaggio cristiano e la cultura antica” come si legge nella motivazione del premio; il prestigioso riconoscimento contribuirà (anche materialmente, con una cospicua somma di denaro) a promuovere l’attività di riscoperta e pubblicazione delle “fonti cristiane”, preziose anche per chi cristiano non è.
(©L’Osservatore Romano – 26-27 ottobre 2009)

Libri elettronici

Dopo aver lanciato uno dei primi negozi on line di ebook, Barnes&Noble ha attrezzato ognuno dei suoi negozi reali di una rete wireless alla quale qualsiasi cliente può collegarsi gratuitamente.
Il nuovo lettore di libri digitali, con schermo da sei pollici e tastiera virtuale, dovrebbe arrivare sugli scaffali statunitensi il prossimo mese, a un prezzo non ancora noto.
Attualmente il lettore più economico sul mercato è il Reader Pocket Edition di Sony, venduto a 199 dollari.
In settimana Amazon ha invece ridotto il prezzo del “Kindle due” di 40 dollari, a 259 dollari, dopo averlo portato da 359 a 299 dollari nel mese di luglio.
Secondo il sito Gizmodo – noto per i suoi scoop in campo tecnologico – il lettore di Barnes&Noble dovrebbe integrare il sistema operativo Android di Google.
Per il mercato statunitense dei libri digitali – rilanciato proprio da Amazon – è attesa un’impennata nella prossima stagione natalizia.
Per gli analisti di Forrester Research, nel 2009 le vendite di lettori digitali raggiungeranno i tre milioni di unità solo in America, con Amazon al 60 per cento di market share e Sony al 35 per cento.
Intanto il Kindle, il lettore digitale della Amazon, si prepara a sbarcare in oltre cento Paesi, tra cui in particolare la Cina e l’India.
Inoltre i vertici di Amazon stanno studiando metodi con cui allargare l’offerta di testi.
Le ripercussioni del successo di Kindle sul mondo dell’editoria potrebbero essere molto significative: i libri elettronici costano in media molto meno degli equivalenti cartacei.
Inoltre, Kindle permetterebbe di effettuare un abbonamento ai maggiori quotidiani a un prezzo molto ridotto.
Al momento – riferiscono fonti di stampa – le vendite di Kindle stanno andando molto bene, il che spiega anche perché il prezzo del lettore digitale possa essere regolarmente abbassato.
(©L’Osservatore Romano – 11 ottobre 2009) Il mercato del libro digitale si allarga a macchia d’olio.
Barnes&Noble, la prima catena di librerie degli Stati Uniti, si prepara ad entrare nel promettente mercato dei libri elettronici.
L’azienda sarebbe infatti pronta a competere con Amazon e Sony, due colossi del settore, lanciando un proprio lettore di ebook.
Lo rivela “The Wall Street Journal”, che cita fonti informate sul progetto.
La mossa – dicono gli esperti – punta a limitare un possibile monopolio in un settore all’avanguardia.

Velo islamico

II velo è simbolo di obbedienza a Dio, di modestia e pudore.
Alle donne sarebbe consentito mostrare soltanto il viso, le mani e i piedi considerati non sessualmente provocanti.
Ma è anche vero che in alcuni paesi musulmani, come I’Afghanistan, le donne sono nascoste sot­to tuniche che le rivestono completamente dalla testa ai piedi.
Dall’altro lato c’è chi invece ritiene che lo higab non abbia rnai costituito un dogma: il Corano non ne parla e le quattro grandi scuole giuridiche dell’islam, ufficialmente riconosciute come ortodosse (hanafita, malikita, shafi’ita, hanbalita) non hanno mai sostenuto una teoria sul velo.
Lo higab sarebbe entrato in scena solo successivamen­te per una questione di necessità, quando le contaminazioni del inondo esterno (già nel XIV secolo coll’invasione mongola) e i processi di modernizzazione (della secon­da metà del Novecento) richiesero una di­fesa strenua di un’identità in crisi.
Ciò che negli elementi più estremisti si traduce in una chiusura e in un’opposizione anti-oc­cidentale.
In questo senso, il velo diventa il simbolo di un’appartenenza che può, secondo il governo francese, intaccare la laicità dello stato.
Ed è così che, nel 2004, la Francia promulga la cosiddetta legge sulla laicità per ciui «nelle scuole, nei collegi e nei licei pubblici è proibito portare segni o abiti con i quali gli alunni manifestino ostenta­tamente un’appartenenza religiosa».
Ol­tre al velo islamico, le croci di una certa di­mensione, la kippah ebraica, il turbante sikh.
Questo provoca reazioni opposte non soltanto tra i musulmani, ma anche tra i cattolici.
Giovanni Paolo II ha condanna­to la laicità che si fa laicismo.
Sarnir Khalil Samir, gesuita e autorevole islamologo, ha invece salutato con favore la legge perché mette un freno al «desiderio separatista» dell’islam.
I musulmani si sono divisi tra chi, come Dalil BuBaker, presidente del Consiglio francese del culto musulmano (Cfcm), ritiene inammissibile un’ingeren­za del mondo islamico negli affari dello stato (ospitante) e afferma «siamo cittadini francesi e applichiamo la legge france­se», e chi, come l’Unione delle organizza­zioni islamiche di Francia, i Fratelli Mu­sulmani in Giordania, o l’Iran si è opposto alla legge perché attacca «la libertà reli­giosa».
Per Al Qaeda «si tratta di un altro segno dell’odiosa crociata scatenata dagli occidentali contro i musulmani».
Non è facile indicare con certezza quanti siano i veli islamici, diversi per cultura e tra­dizioni anche all’interno dello stesso pae­se.
Questi i più comuni: burqa, chador; ha’ik, higab, jalabiya, niqab.
Il burqa, diffuso in Af­ghanistan, è un velo integrale dai colori ge­neralmente accesi (arancione, verde, az­zurro) che copre completamente la don­na, dalla testa ai piedi, lasciando aperta so­lo una finestrella a rete davanti agli occhi per consentirle di vedere il mondo esterno.
Lo chador è nero e avvolge il corpo completamente, lasciando scoperto l’ovale del viso.
È usato soprattutto in Iran, dove è obbligatorio dalla rivoluzione del 1979 gui­data dall’ayatollah Khomeini.
L’ ha’ik è una stoffa tessuta in maniera tradizionale, di la­na (in Marocco) o seta (Algeria), che av­volge il capo e il corpo.
L’ higab è composto da due pezzi: un copricapo che nasconde la testa e un velo che, appoggiato sopra, scende sulle spalle ed è legalo sotto al men­to o appuntato con una spilla.
E utilizzato in Egitto, Siria, Giordania e Marocco.
Lo jalabiya è un lungo camice di tela, usato an­che dai più antichi coltivatori del Nord Africa, i fellahin dell’Egitto (coltivatori insediati lungo la valle e il Delta del Nilo).
Il niqab è un velo che copre la testa e il viso della donna lasciando scoperti gli occhi e può essere molto raffinato ed elegante o pesante e nero.
Sull’obbligo di indossare il velo (higab, in arabo) non c’è unicità di vedute nel mon­do islamico.
La discordanza deriva dall’in­terpretazione che si dà ai precetti del Cora­no, fonte primaria della fede e del diritto musulmani, ed esprime solitamente, rna non necessariamente, una contrapposizio­ne tra islam moderato e fondamentalista.
Semplificando, da un lato c’è chi sostiene che l’uso del velo non dovrebbe essere mes­so in discussione: il Corano si esprimereb­be esplicitamente in tal senso nelle sure XXIV, 31 e XXXIII, 59.