Praticamente è un mini Sanremo per sommi poeti.
Senza principi, né fischi né orchestrali che lanciano spartiti.
Ma anche qui ci sono ex festivalieri, un tenore e qualche figlioccio dei talent show.
COMPILATION IN VERSI – Si chiama «Musica e Parole.
10 in Poesia» ed è una compilation di dieci pezzi forti della letteratura italiana in versi, trasferiti su melodie inedite e trasformati in altrettante canzoni incise su cd (ascolta).
Niente televoto.
Il tutto si fa a scopo didattico: l’iniziativa infatti è patrocinata dal Ministero per l’Istruzione.
Il cofanetto, che comprende un libretto con testo e note biografiche dell’autore, più una base musicale per esercitarsi come al karaoke, dal prossimo settembre verrà distribuito in 70.000 copie ai ragazzi delle scuole medie di sei regioni: Piemonte, Lombardia, Lazio, Abruzzo, Puglia e Sicilia.
Farà parte del programma di studio.
Con la speranza che appassioni alla poesia la generazione degli sms.
TOP TEN – Nella speciale top ten (tra parentesi gli interpreti) ci sono: Pianto antico di Giosuè Carducci (l’attore Danilo Brugia e Idaelena), X agosto di Giovanni Pascoli (Antonino ex di Amici), I pastori di Gabriele D’Annunzio (tenore Piero Mazzocchetti), L’infinito di Giacomo Leopardi (Rossana Casale), Meriggiare pallido e assorto di Eugenio Montale (Mario Venuti), Uomo del mio tempo di Salvatore Quasimodo (Mario Lavezzi), Città vecchia di Umberto Saba (Dennis Fantina, star di Saranno Famosi e Notti sul Ghiaccio), Gabbiani di Vincenzo Cardarelli (Ivana Spagna), La madre di Giuseppe Ungaretti (Iva Zanicchi) e A Zacinto di Ugo Foscolo (Elisa Rossi da X factor e Giuseppe Zeno della fiction «L’onore e il Rispetto»).
LA PAROLIERA DEL PREMIER – L’idea è venuta al produttore teatrale torinese Alfredo Orofino, in collaborazione con l’istituto professionale «Umberto Pomilio» di Chieti.
E le musiche sono di Loriana Lana, che dopo aver lavorato con Bacalov, Zero e Morricone, è diventata famosa come paroliera ufficiale del premier.
Con cui ha scritto a quattro mani Tempo di Rumba e altre hit del prossimo cd presidenziale in duo con il fido Apicella, in uscita a marzo.
«Il ministero ci ha dato un contributo di 60 mila euro, al resto penseranno gli sponsor», spiega Orofino, che dedica l’opera ad Alda Merini.
Entusiasta la Zanicchi: «Ho scelto io il brano di Ungaretti, l’ho conosciuto, ci siamo frequentati, ed è rimasto nel mio cuore.
Leggerlo mi commuove sempre profondamente, dopo mi sento più serena.
Spero che il cd piaccia anche ai ragazzi, ormai a scuola le poesie non si studiano più».
Categoria: Linguaggio
Quaresima 2010
Quaresima 2010 Un tempo per apprezzare l’essenziale Per la preghiera di ragazzi e giovani.
Pagine 96 a colori – euro 2,80 Il sussidio per la preghiera dei ragazzi e dei giovani nel tempo di Quaresima, per guidare il cammino verso la Pasqua.
Per ogni giorno, si può trovare: • un passo della prima lettura proposta dalla Liturgia del tempo di Quaresima; • una breve riflessione, che aiuta ad interiorizzare la Parola del Signore; • una preghiera, per rivolgersi a Dio con le parole della fede.
Il venerdì e la domenica, oltre al mercoledì delle ceneri, viene proposta soltanto una preghiera/riflessione.
Guarda qualche pagina…
Il tempo liturgico della Quaresima
In allegato un utile sussidio per inquadrare nell’anno liturgico e presentare le caratteristiche del tempo di Quaresima.
I desideri nel tempo della fretta
È stato Stephen Bertman a coniare i termini «cultura del momento» e «cultura della fretta» per definire il nostro modo di vivere in questa società.
Sono definizioni idonee e che risultano particolarmente comode ogni volta che cerchiamo di cogliere la natura della condizione umana liquido-moderna.
La mia tesi è che tale condizione si caratterizza principalmente per la sua tendenza (un caso fin qui unico) a rinegoziare il significato del tempo.
Il tempo, nell’era liquido-moderna della società dei consumatori, non è né ciclico né lineare, com’era normalmente per le altre società note della storia moderna o premoderna.
Direi che è invece puntinista, frantumato in una moltitudine di pezzetti distinti, ognuno ridotto a un punto che si avvicina sempre di più alla sua idealizzazione geometrica di non dimensionalità.
Come ricorderete sicuramente dalle lezioni di geometria a scuola, i punti non hanno lunghezza, larghezza o profondità: esistono, si sarebbe tentato di dire, prima dello spazio e del tempo; sia lo spazio che il tempo ancora non sono cominciati.
Ma come quell’unico punto che, secondo quanto ipotizzano le teorie cosmogoniche più avanzate, precedeva il big bang che diede inizio all’universo, ogni punto si presume contenga un infinito potenziale di espansione e un’infinità di possibilità che attendono di esplodere se adeguatamente innescate.
E ricordiamo che nel «prima» che precedette l’eruzione dell’universo non vi era nulla che potesse fornire la benché minima avvisaglia che stava avvicinandosi il momento del big bang.
I cosmogonisti ci dicono un mucchio di cose su quello che avvenne nelle prime frazioni di secondo dopo il big bang; ma conservano un odioso silenzio sui secondi, i minuti, le ore, i giorni, gli anni o i millenni prima.
Ogni punto-tempo (ma non c’è modo di sapere in anticipo quale) potrebbe – soltanto potrebbe – recare in sé la possibilità di un altro big bang, anche se questa volta su scala ben più modesta, da «universo individuale», e i punti successivi continuerebbero a essere visti come punti recanti tale possibilità, indipendentemente da ciò che sarebbe potuto succedere con i punti precedenti e nonostante l’esperienza accumulata dimostri che la maggior parte delle possibilità di solito è predetta in modo errato, trascurata o mancata, che la maggior parte dei punti si è rivelata infruttuosa e che la maggior parte dei sommovimenti è morta sul nascere.
Una mappa della vita puntinista, se mai venisse tracciata, assomiglierebbe a un camposanto di possibilità immaginarie o irrealizzate.
O, a seconda del punto di vista, come un cimitero di occasioni sprecate: in un universo puntinista, i tassi di mortalità infantile e di gravidanze abortite della speranza sono molto elevati.
È proprio per questa ragione che una vita «del momento» normalmente è una vita «della fretta».
La possibilità che potrebbe essere contenuta in ogni punto lo seguirà nella tomba: per quell’unica, particolare possibilità non ci sarà una «seconda possibilità».
Ogni punto può essere vissuto come un nuovo inizio, ma spesso e volentieri il traguardo arriverà poco dopo la partenza, e in mezzo sarà accaduto ben poco.
Solo una moltitudine, in inarrestabile espansione, di nuovi inizi può – semplicemente può – compensare la profusione di false partenze.
Solo le vaste distese di nuovi inizi che siamo convinti ci aspettino più avanti, solo una moltitudine sperata di punti le cui potenzialità da big bang ancora non sono state messe alla prova, e che perciò ancora non sono state screditate, possono salvare la speranza dalle macerie delle conclusioni premature e degli inizi abortiti.
Come ho detto prima, nella vita «adessista» dell’avido consumatore di nuove Erlebnisse (esperienze vissute), la ragione di affrettarsi non è acquisire e collezionare il più possibile, ma rottamare e sostituire più che si può.
C’è un messaggio latente dietro a ogni spot che promette una nuova opportunità inesplorata di beatitudine: non ha senso piangere sul latte versato.
O il big bang avviene proprio ora, in questo esatto momento e al primo tentativo, oppure attardarsi in quel particolare punto non ha più senso: è tempo di spostarsi su un altro punto.
Nella società dei produttori che ormai sta scomparendo dalla memoria (almeno nella nostra parte del pianeta), il consiglio, in un caso simile, sarebbe stato: «insisti».
Ma non nella società dei consumatori: qui, gli utensili inefficaci devono essere abbandonati, non affilati e rimessi alla prova con più competenza, più impegno e migliori risultati.
E si lascino perdere anche quegli elettrodomestici che non sono riusciti a fornire la «piena soddisfazione» promessa a quelle relazioni umane che hanno prodotto un «bang» meno «big» di quanto ci si aspettava.
La fretta dev’essere massima quando si tratta di correre da un punto (che ha deluso, che sta deludendo o che sta cominciando a deludere) a un altro (ancora non collaudato).
Si dovrebbe rammentare l’amara lezione del Faust di Christopher Marlowe: finire all’inferno per aver desiderato che il momento – solo perché piacevole – potesse durare per sempre.
Data l’infinità di opportunità promesse e presunte, a trasformare in «punti» sbriciolati la più attraente novità del tempo, una novità che si può star sicuri che verrebbe abbracciata avidamente ed esplorata con passione, è la doppia aspettativa o speranza di prevenire il futuro e neutralizzare il passato.
Riuscire a mettere a segno un doppio successo di questo tipo, dopo tutto, è l’ideale della libertà.
(…) Partiamo dalla straordinaria impresa della neutralizzazione del passato.
Essa si riduce a un unico cambiamento nella condizione umana, ma un cambiamento realmente miracoloso: la possibilità di «rinascere» con facilità.
D’ora in poi, non sono solo i gatti a poter avere nove vite.
Durante quel lasso di tempo terribilmente breve che trascorriamo sulla terra, deplorato non troppo tempo fa per la sua detestabile brevità e che da allora non si è prolungato più di tanto, gli esseri umani – come i proverbiali gatti – ora hanno la capacità di spremere molte vite, una serie infinita di «nuovi inizi».
Rinascere significa che la/e nascita/e precedente/i, insieme alle relative conseguenze, viene o vengono annullata/e: sembra l’avvento dell’onnipotenza di tipo divino, sempre sognata ma fino ad ora mai sperimentata.
Il potere di determinazione causale può venire disarmato, e il potere del passato di limitare le opzioni del presente può venire drasticamente contenuto, forse addirittura abolito del tutto.
Ciò che eri ieri non preclude più la possibilità di diventare qualcuno di totalmente diverso oggi.
Dal momento che ogni punto nel tempo, ricordiamolo, è pieno di potenziale, e che ogni potenziale è diverso e unico, si può essere diversi in modi realmente innumerevoli: è qualcosa che oscura perfino la sbalorditiva molteplicità di permutazioni e la strabiliante varietà di forme e sembianze che gli incontri casuali di geni sono riusciti finora e probabilmente continueranno a produrre in futuro nella specie umana.
Si avvicina a quella capacità di eternità che sgomenta, in cui, considerando la sua infinita durata, ogni cosa può/deve, prima o poi, succedere, e in ogni caso potrà essere/sarà, prima o poi, fatta.
Ora quella mirabile potenza dell’eternità sembra essere stata compressa nel tutt’altro che eterno intervallo di tempo di una singola vita umana.
Di conseguenza, l’impresa di disinnescare e neutralizzare la capacità del passato di limitare le scelte successive, e quindi di circoscrivere pesantemente le occasioni di «nuove nascite», deruba l’eternità della sua attrattiva più seducente.
Nel tempo puntinista della società liquido-moderna, l’eternità non è più un valore e un oggetto di desiderio, o per meglio dire, quello che era il suo valore e che la rendeva un oggetto di desiderio è stato espunto e trapiantato nel momento presente.
Di conseguenza, la «tirannia del momento» della tarda modernità, con il suo precetto del carpe diem, gradualmente ma costantemente, e forse inarrestabilmente, rimpiazza la tirannia premoderna dell’eternità, con il suo motto del memento mori.
Traduzione di Fabio Galimberti in “la Repubblica” del 15 febbraio 2010
Che cosa vuol dire morire
Chi dovesse leggere le sei interviste curate da Daniela Monti con il titolo Che cosa vuol dire morire (Einaudi Stile Libero, pagg.
120, euro 14) in prossimità di un telegiornale di questi ultimi giorni potrebbe essere colto da un leggero senso di vertigine.
Apprendere che la morte è sempre personale, che nel giro di un paio di generazioni sarà autogestita dall´uomo o che, addirittura, non è mai esistita, come sostengono alcuni dei filosofi intervistati, davanti alle immagini dei mucchi di morti in putrefazione nelle strade di Port-au-Prince non è boccone facile da ingoiare anche per palati molto sofisticati.
Ma ciò non vuol dire si tratti di discorsi inutili o astratti.
Al contrario, le riflessioni di Aldo Schiavone, Giovanni Reale, Remo Bodei, Roberta de Monticelli, Vito Mancuso ed Emanuele Severino, sollecitate dalle intelligenti domande della curatrice, rispondono ad un´esigenza fortemente sentita.
Che è quella di liberare la discussione sulla morte dai limiti specialistici del lessico medico o giuridico, situandola in un più ampio orizzonte di pensiero.
Vero è che fin dalla sua origine la filosofia, anche quando si è orientata sui problemi della vita, non ha mai smesso di riflettere su quella morte che ne costituisce non solo la pagina finale, ma anche la cornice inevitabile.
E tuttavia neanche questo ricchissimo patrimonio può bastare nel momento in cui il fenomeno della morte – come del resto quello della nascita – sperimenta una radicale mutazione dovuta alla straordinaria capacità della tecnica a penetrarne i confini prima ermeticamente sigillati.
Naturalmente tutto ciò, piuttosto che chiudere il problema, lo apre a una serie di domande e di conflitti di cui anche la cronaca recente, con i casi Welby ed Englaro, ha recato tragica testimonianza.
Come prima Nietzsche e poi Foucault avevano precocemente intuito, l ´oggetto centrale dello scontro, etico e politico, del nostro tempo è, e sempre più sarà, costituito precisamente dal corpo vivente, e morente, degli uomini.
Qual è la frontiera tra la vita e la morte e chi è deputato a fissarla? Come si incrociano, su di essa, libertà individuale e interesse collettivo, diritto e medicina, teologia e politica? La filosofia non poteva mancare di dire la sua – senza pretendere di risolvere questioni costitutivamente irresolubili, ma almeno cercando di fare chiarezza su di esse.
Naturalmente, come sempre avviene in questi casi, provocando altri interrogativi ed aprendo nuove contraddizioni.
Proverei a raggrupparle all´interno di tre bipolarità concettuali, seguendo il filo dei ragionamenti svolti nel libro.
La prima è costituita dal rapporto tra storia e destino, al centro degli interventi di Schiavone e Bodei.
Dire – come fanno entrambi – che il prodigioso sviluppo tecnologico spinge la vita, e dunque la morte, in un´orbita non più naturale, ma intensamente storica, perché aperta all ´intervento umano, vuol dire che una lunghissima epoca, iniziata con la comparsa dell´uomo sulla terra, si va concludendo.
Senza poter sapere cosa ci riserva il futuro, e senza sottovalutare i rischi che tale trasformazione comporta, per i due autori il percorso verso la liberazione della specie umana dai vincoli della natura è ormai segnato.
Nonostante il suo fascino, il problema di fondo che vedo in simile prospettiva non sta tanto nella perdita della dimensione naturale a favore di quella storica, quanto, piuttosto, in una concezione troppo fluida della stessa storia – e cioè in una possibile sottovalutazione dei traumi, o delle fughe di senso, che troppe volte l´hanno trascinata indietro quando si è illusa di fuggire verso il futuro, dimenticando la propria origine opaca.
Il secondo binomio che emerge dal libro è quello della relazione, altrettanto problematica, tra tecnica e fede.
Certo, i processi di secolarizzazione che caratterizzano il mondo occidentale tendono a spostare il loro confronto a favore della prima.
Le religioni perdono terreno, o si attestano sulla difensiva, davanti all´incalzare della conoscenza scientifica.
Dopo aver perso sia la battaglia con Galileo sia quella con Darwin, la Chiesa cattolica rischia di perdere la guerra.
La intangibilità della vita costituisce per essa l´ultima frontiera su cui attestarsi.
Proprio qui, tuttavia, si determina un singolare rovesciamento di campo.
Come osserva anche Reale, nell´uso di terapie sempre più aggressive volte a trattenere in vita corpi cerebralmente morti, è proprio la Chiesa a sostenere le ragioni della tecnica rispetto alla spontaneità dei processi naturali.
Ma, all´altro capo del binomio, come da tempo insegna Severino, la tecnica a sua volta è diventata una fede, nel senso che ha sostituito la credenza in Dio come argine nei confronti del nulla che ci circonda.
L´ultima coppia bipolare – al centro delle risposte della de Monticelli e di Mancuso – è la relazione tra persona e corpo.
Entrambi vedono nell´idea di persona ciò che riconduce il fenomeno della vita, nel suo rapporto con la morte, dal piano di una falda biologica indifferenziata a quello, individuale, del singolo essere vivente.
Che solo nell´esperienza irripetibile di ciascun uomo e di ciascuna donna la vita sperimenti il suo valore irrinunciabile è una verità indubitabile.
Così come il riferimento alla pari dignità di ogni essere umano.
Meno certo, mi pare, che ad affermarla possa essere proprio quel dispositivo, filosofico e giuridico, della persona che, dalla sua origine romana e cristiana, è sempre servito a dividere il genere umano, e lo stesso corpo vivente, in categorie fornite di diverso valore.
Come che sia, si tratta di sollecitazioni e di dubbi che attestano di per sé tutto l´interesse e il rilievo del libro.
di Roberto Esposito in “la Repubblica” del 26 gennaio 2010 DANIELA MONTI, Che cosa vuol dire morire, Einaudi Torino 2010, pp.
120, Euro 14 Finalmente, in questo libro, a parlare di morte non sono medici, politici, cardinali: ma filosofi.
La morte moderna, ospedalizzata e tecnologica, ci è stata sottratta.
L’esperienza della morte non appartiene più, come la percepivamo una volta, agli eventi naturali della vita.
E abbiamo bisogno allora di fermarci a pensare.
Nelle sei interviste di questo libro, la filosofia riprende la parola.
Aldo Schiavone descrive un futuro in cui si sceglierà come, quando e se morire, Giovanni Reale invoca la giusta misura dei Greci, Remo Bodei giunge ad ammettere eutanasia ed eugenetica, Roberta De Monticelli intreccia morte e libertà, Vito Mancuso traccia una terza via tra indisponibilità della vita e autodeterminazione dell’individuo, Emanuele Severino giunge alla vertigine di negare la negazione e ad affermare l’eternità dell’uomo.
Se non ritorneremo a concepire la morte, finiremo per dimenticarci di essere vivi.
La “generazione 20 parole”
Scorrendo la lista delle venti parole che costituiscono un terzo delle conversazioni online tra i giovani inglesi si trovano termini banali, come “yeah” (sì), “but” (ma) e “no”, ma anche vocaboli misteriosi come “chenzed”, che può significare “stanco” o “ubriaco”, oppure “spong”, traducibile in “stupido”.
E poi ovviamente ci sono le abbreviazioni tipiche dei dialoghi su internet, come “lol”, acronimo di “laugh out loud” (“rido a crepapelle”).
Applicando gli stessi criteri alle comunicazioni elettroniche tra ragazzi italiani emergerebbero verosimilmente gli ormai proverbiali “xke” al posto di “perché”, “tvb” per “ti voglio bene” o “cmq” invece di “comunque”.
Ma anche nuove forme di saluto, come “bella”, rivisitazione del vecchio “ciao”.
O slittamenti del significato, come nel caso di “pisciare”, ormai usato come sinonimo di “lasciare”, “abbandonare”.
Oppure “accollarsi”, sostituto di “mettersi in mezzo”, “dare fastidio”.
Termini che spesso nascono per esigenze di spazio, per rispettare gli angusti limiti degli sms o dei cinguettii su Twitter.
E che altre volte vengono scelti per marcare una distanza da chi guarda da fuori ed è abituato ad esprimersi in un altro modo.
Un gergo che dall’esterno può sembrare un codice misterioso e in qualche modo persino ostile, ma che secondo gli esperti non completa l’universo linguistico delle nuove generazioni.
E così, mentre il governo inglese si prepara a lanciare per l’anno prossimo una campagna nazionale per arricchire il linguaggio dei teenager, c’è chi ridimensiona gli allarmi e preferisce ricondurre tutto a un problema di gap generazionale: “Tanta gente non capisce come i giovani possano avere un vocabolario per parlare di hip-hop e non per discorrere di politica”, ha detto al Times il linguista David Crystal.
“Il fatto è che i ragazzi sviluppano un frasario articolato per parlare di ciò che piace a loro.
Ed è un vocabolario che gli studiosi non sono ancora riusciti a misurare”.
Repubblica 12 gennaio 2010 SI PUÒ comunicare con 20 parole? Sì, stando a una ricerca inglese che analizza il linguaggio dei ragazzi sul web e che ha fatto inorridire il governo di sua maestà: anche se i teenager hanno un vocabolario di 40 mila termini, quando parlano con i coetanei tramite Internet o il telefonino ne usano solo 800.
Ma non basta: in un terzo delle conversazioni le parole ricorrenti sarebbero appena venti.
Lo sostiene Tony McEnery, professore di Linguistica alla Lancaster University, la cui ricerca ha messo in allarme Jean Gross, appena nominata consulente del governo britannico per le politiche sulla comunicazione giovanile.
La Gross teme che l’abitudine a parlarsi attraverso il computer e i cellulari possa trasformarsi in un handicap insuperabile per il futuro dei teenager: “I ragazzi passano sempre più tempo comunicando attraverso gli sms e altri strumenti elettronici, con messaggi brevi e diretti”, ha detto.
“Ma devono capire che ottocento parole non sono sufficienti per conquistare un lavoro e avere successo nella vita”.
God Is Back
JOHN MICKLETHWAIT E ADRIAN WOOLDRIDGE, God Is Back: How the Global Revival of Faith Is Changing the World, Penguin Press, 2009, pp.
416.
Contrariamente a quello che si riteneva in Europa, Dio non è morto, anzi sta benissimo, e anche il capitalismo sta meglio di quello che pensavamo.
Infatti, dato che sarà il mercato globale a decidere dove Dio tornerà, e soprattutto quale Dio tornerà, sarà un Dio cristiano, occidentale e americano.
Questa è, in estrema sintesi, la tesi di fondo dell’ultimo libro di John Micklethwait e Adrian Wooldridge, God Is Back: How the Global Revival of Faith Is Changing the World (Penguin Press, 2009, 416 pagine).
Già autori di vari reportage, tra cui un volume sui vari volti della destra americana, la “right nation” (tradotto da Mondadori nel 2005, La destra giusta.
Storia e geografia dell’America che si sente giusta perché è di destra), i due giornalisti di punta dell’Economist dipingono un interessante panorama della “rivincita di Dio” in corso nel mondo post-11 settembre.
Di recente alcuni libri hanno annunciato una controffensiva in difesa di Dio da parte di una generazione di neo-apologisti (tra i più recenti usciti in America: Robert Wright, The Evolution of God; Karen Armstrong, The Case for God; Nicholas Wade, The Faith Instinct) che hanno lanciato una reazione al proselitismo antireligioso e populista della triade Dawkins-Harris-Hitchens.
L’appassionante God Is Back parte da una prospettiva di geopolitica delle fedi.
Micklethwait e Wooldridge non sono avvocati della tesi dello “scontro di civiltà” interpretato dai teocon americani, ma fanno propria la lezione di Samuel Huntington circa la necessità di comprendere la dimensione religiosa della politica internazionale e di elaborare una lettura politica (ed economica) delle relazioni interreligiose nel mondo globalizzato.
La prima parte del libro dipinge due vie alternative verso la modernità: la via europea e la via americana.
Di fronte ad un’Europa laicista in cui l’ateismo pubblico è la condizione richiesta ai personaggi pubblici, la storia degli Stati Uniti rappresenta l’esatto contrario, cioè una democrazia che si regge su un pilastro religioso e trascendente, cioè sulla religione, «e non mi importa quale essa sia» (per citare le parole del presidente Eisenhower).
La maggiore differenza rispetto all’Europa è che l’America si divide sull’interpretazione della religione nello spazio pubblico, più che sull’opportunità di dare alla religione uno spazio pubblico.
Ma lo scenario è in mutamento su entrambi i lati dell’Atlantico.
Se in America, dagli anni Ottanta in poi, il cristianesimo evangelical è passato da mera lobby culturale a forza politica organizzata, secondo gli autori anche in Europa si comincerà presto a sentire l’effettorimbalzo causato da una spinta migratoria in gran parte proveniente da paesi arabi e/o a maggioranza musulmana.
Ma tra Europa e America vi è ancora un evidente “God gap”, una fondamentale differenza nella percezione del ruolo della religione in politica: questa differenza è impersonata dal tentativo di alfabetizzazione teologica del neo-cattolico Tony Blair, un tentativo finora malriuscito e incompreso da entrambe le parti dell’Atlantico (il suo corso su “fede e globalizzazione” a Yale ha sollevato critiche per l’ignoranza dell’ex premier inglese circa concetti-base della “teologia pubblica” che avrebbe dovuto insegnare).
La storia recente degli Stati Uniti è testimone del gap.
La lunga campagna elettorale per le presidenziali del 2008 si era risolta a favore di Obama anche grazie alle sua capacità di “outgodding”, cioè di articolare meglio la questione religiosa rispetto agli altri candidati: meglio sia di Hillary Clinton (che tentò di usare in modo cinico il caso del reverendo Wright), sia di John McCain (che, intervistato, non era certo di sapere a quale chiesa appartenesse).
Però la vittoria di Obama non significa la fine delle “culture wars” attorno alla questione religiosa in America: ne è testimone il caso di Sarah Palin, «la più radicata nella subcultura evangelical di qualsiasi altro candidato alla Casa Bianca» (p.
124).
Quanto a “cultural warrior”, per gli autori di God Is Back «quello con la maggiore esperienza nel campo conservatore è la Chiesa cattolica (…) il cui appetito per la battaglia culturale è aumentato in modo visibile sotto Giovanni Paolo II» (p.
347).
Ma se la lotta all’aborto sembra essere il campo di battaglia preferito dei cattolici, il nuovo evangelicalismo americano (quello del pastore Rick Warren) si è aperto alle questioni della povertà, dell’immigrazione, della solidarietà internazionale, dell’ambientalismo.
Grazie alla formidabile spinta missionaria del cristianesimo di matrice evangelicale e pentecostale in tutti i continenti, il cristianesimo è in ripresa, e gli autori riconoscono l’esistenza di diverse aree di tensione politico-religiosa sull’atlante mondiale: l’Africa centrale, India e Pakistan, la Cina.
Tuttavia è tra Europa, America e islam che si deciderà la lotta.
Per i due autori è assai più verosimile che l’Europa si avvicini al modello americano piuttosto che una secolarizzazione della politica americana.
Tuttavia, è la maggiore capacità degli americani di gestire il “God business”, il marketing di Dio, che spinge Micklethwait e Wooldridge a vedere l’America come il mercato trainante nella concorrenza tra cristianesimo e islam: «L’America contribuisce al revival religioso globale da due lati: come maggior esportatore mondiale di religione e come maggior fornitore mondiale di quel capitalismo che aumenta la domanda di religione.
Gli americani stanno esportando oppio e allo stesso tempo stimolando la domanda di oppiacei» (p.
244).
Al contrario della cultura politica europea, l’Economist non ha dimenticato né la lunga durata della “politica di Dio” né la lezione di Marx sui rapporti tra economia, politica e religione.
Tocca agli europei decidere se è ragionevole lasciare che di “religione e politica” si occupino i chierici e i manager.
Il marketing delle religioni di Massimo Faggioli in “Europa” del 16 dicembre 2009
La libertà di pensare Dio sfidando la Chiesa
Alcune riflessioni sul convegno dedicato a “Dio oggi”: è necessario cambiare, non si possono più sostenere così come sono i dogmi e la morale sessuale Il cristianesimo continua a perdere di fascino e nel migliore dei casi consola.
L´attuale gerarchia ecclesiastica è in grado di aprirsi al rischio della libera intelligenza? Si apre oggi a Roma e durerà fino a sabato un convegno internazionale promosso dal Progetto Culturale della Cei con il patrocinio del Comune di Roma: “Dio oggi.
Con lui o senza di lui cambia tutto”.
Il programma prevede la partecipazione di scienziati, storici, filosofi, scrittori, giornalisti, teologi.
Condividendo l´urgenza dell´argomento, presento alcune considerazioni in forma necessariamente schematica che consegno alla pubblica riflessione.
Presento alcune considerazioni in forma necessariamente schematica che consegno alla pubblica riflessione.
1.
La sfida della postmodernità alla fede in Dio non è più l´ateismo materialista.
Tale era l´impresa della modernità, caratterizzata dal porre l´assoluto nello stato-partito o nel positivismo scientista, ma questi ideali sono crollati e oggi gli uomini sono sempre più lontani dall´ateismo teoreticamente impegnato.
Gli odierni alfieri dell´ateismo vogliono distruggere la religione proprio mentre si connota il presente come “rivincita di Dio”, anzi la vogliono distruggere proprio perché ne percepiscono il ritorno, ma i loro stessi libri anti-religiosi, trattando a piene mani di religione, finiscono per alimentare la rivincita di Dio.
2.
La questione epocale è piuttosto un´altra, cioè che tale rivincita non corrisponde per nulla a una rivincita del Dio cristiano. La postmodernità col suo crescente desiderio di spiritualità non intende per nulla tradursi nelle tradizionali forme cristiane.
Anzi, il cristianesimo continua a perdere fascino, annoia, nel migliore dei casi consola.
La questione diviene quindi quale forma di spiritualità sia concepibile per un ´epoca che vuole essere religiosa (persino mistica come prevedeva Malraux) ma non intende più essere cristiana nella forma tradizionale del termine.
Affrontare questa sfida è essenziale per la teologia cristiana.
3.
La teologia può tornare a far pensare gli uomini a Dio solo a due condizioni: radicale onestà intellettuale e primato della vita.
Ha scritto Nietzsche: “Nelle cose dello spirito si deve essere onesti fino alla durezza”.
È vero.
Se vuole tornare a essere significativa, la teologia deve configurarsi come radicale onestà intellettuale.
Vi sono stati pensatori che nel ‘900 hanno scritto di Dio in questo modo: penso a Florenskij, Bonhoeffer, Weil, Teilhard de Chardin.
Si tratta di continuare sulla loro strada.
Oggi la coscienza europea non è più disposta a dare credito a una teologia che dia il sospetto anche del minimo mercanteggiare.
4.
In questa prospettiva la teologia deve intraprendere una lotta all´interno della Chiesa e della sua dottrina, talora persino contro la Chiesa e la sua dottrina, senza timore di dare scandalo ai fedeli perché il vero scandalo è il tradimento della verità e l´ipocrisia.
Ha scritto nel 1990 il cardinal Ratzinger: “Nell´alfabeto della fede al posto d´onore è l´affermazione: In principio era il Logos.
La fede ci attesta che fondamento di tutte le cose è l´eterna Ragione”.
Parole sublimi, ma ecco il punto: proprio dall´esercizio della ragione all´interno della fede sorgono acute difficoltà logiche su non pochi asserti dottrinali.
Simone Weil rilevò il paradosso: “Nel cristianesimo, sin dall´inizio o quasi, c´è un disagio dell´intelligenza”.
Tale malaise de l´intelligence è attestato anche dal fatto che i principali teologi cattolici del ‘900 hanno avuto seri problemi con il magistero, penso a Teilhard de Chardin, Congar, de Lubac, Chenu, Rahner, Häring, Schillebeeckx, Dupuis, Panikkar, Küng, Molari.
E oggi le cose non sono migliorate, anzi.
5.
L´impostazione dominante rimane oggi la seguente: la teologia si esercita nella Chiesa e per la Chiesa e deve avere un esplicito controllo ecclesiale.
Nel documento La vocazione ecclesiale del teologo, firmato dal cardinal Ratzinger nel 1990, il nesso chiesa-magistero-teologia è strettissimo.
A mio avviso è precisamente questo nesso che oggi la teologia deve sottoporre a critica.
Perché il cristianesimo possa continuare a vivere in Europa, è necessario che la teologia liberi il pensiero di Dio dalla forma rigidamente ecclesiastica impostale lungo i secoli con la morsa degli anathema sit e faccia entrare l´aria pulita della libertà.
Non sto uspicando la scomparsa del magistero, ma il superamento della convinzione che la verità della fede si misuri sulla conformità a esso.
Ciò che auspico è l´introduzione di una concezione dinamico-evolutiva della verità (verità uguale bene) e non più statico-dottrinaria (verità uguale dottrina).
Ignazio di LoyolaUna teologia all´altezza dei tempi non può più configurarsi come obbedienza incondizionata al papa.
L´obbedienza deve essere prestata solo alla verità, il che impone di affrontare anche le ombre e le contraddizioni della dottrina.
6.
Ciò comporta il passaggio dal principio di autorità al principio di autenticità, ovvero il superamento dell´equazione “verità uguale dottrina” per porre invece “verità maggiore dottrina”.
È esattamente la prospettiva della Bibbia, per la quale la verità è qualcosa di vitale su cui appoggiarsi e camminare, pane da mangiare, acqua da bere.
In questo orizzonte l´esperienza spirituale ha più valore della dottrina, il primato non è della dogmatica ma della spiritualità, e i veri maestri della fede non sono i custodi dell´ortodossia ma i mistici e i santi (alcuni dei quali formalmente eterodossi come Meister Eckhart e Antonio Rosmini).
Ne viene che un´affermazione dottrinale non sarà vera perché corrisponde a qualche versetto biblico o a qualche dogma ecclesiastico, ma perché non contraddice la vita, la vita giusta e buona.
Si tratta di passare dal sistema chiuso e autoreferenziale che ragiona in base alla logica “ortodosso-eterodosso”, al sistema aperto e riferito alla vita che ragiona in base alla logica “vero-falso”, e ciò che determina la verità è la capacità di bene e di giustizia.
Così la teologia diviene autentico pensiero del Dio vivo, qui e ora.
7.
Concretizzando.
Non si può continuare insegnare che la morte è stata introdotta dal peccato dell ´uomo, mentre oggi si sa che la morte c´è da quando esiste la riproduzione sessuata, cioè milioni di anni prima della comparsa dell´uomo.
Né si possono più sostenere così come sono i dogmi sul peccato originale, sull´origine dell´anima, sull´eternità dell´inferno, sulla risurrezione della carne.
Occorre inoltre prendere atto dell´insufficiente risposta alla questione del male e del dolore innocente, la più antica e la più attuale sfida a ogni pensiero di Dio.
Per quanto riguarda poi la morale sessuale, le parole del card.
Poupard sul caso Galileo, cioè che la Chiesa di allora fu incapace di “dissociare la fede da una cosmologia millenaria”, devono portare a domandarsi se oggi non si è allo stesso modo incapaci di dissociare la fede da una biologia altrettanto millenaria e altrettanto sorpassata.
È necessario un immenso lavoro perché l´occidente torni a riconoscersi nella sua religione, e la condizione indispensabile è che il cantiere della teologia si apra alla libertà.
Infatti (per riprendere il sottotitolo del convegno romano) con o senza libertà cambia tutto.
Ma l´attuale gerarchia della Chiesa è spiritualmente grado di cogliere l´urgenza della situazione e di aprirsi al rischio della libera intelligenza? in “la Repubblica” del 10 dicembre 2009 Nell’articolo che segue l’autore riflette sul convegno dedicato a “Dio oggi”.
E’ necessario cambiare, non si possono più sostenere così come sono i dogmi e la morale sessuale.
Il cristianesimo continua a perdere di fascino e nel migliore dei casi consola. L´attuale gerarchia ecclesiastica è in grado di aprirsi al rischio della libera intelligenza? Ecco in forma schematica le considerazioni sviluppate dall’autore : 1.
La sfida della postmodernità alla fede in Dio non è più l´ateismo materialista.
2.
La questione epocale è che tale rivincita non corrisponde per nulla a una rivincita del Dio cristiano.
3.
La teologia può tornare a far pensare gli uomini a Dio solo a due condizioni: radicale onestà intellettuale e primato della vita.
4.
In questa prospettiva la teologia deve intraprendere una lotta all´interno della Chiesa e della sua dottrina 5.
L´impostazione dominante rimane: la teologia si esercita nella Chiesa e per la Chiesa e deve avere un esplicito controllo ecclesiale.
6.
Ciò comporta il passaggio dal principio di autorità al principio di autenticità, ovvero il superamento dell´equazione “verità uguale dottrina” per porre invece “verità maggiore dottrina”.
7.
Concretizzando.
Non si può continuare insegnare che la morte è stata introdotta dal peccato dell ´uomo, mentre oggi si sa che la morte c´è da quando esiste la riproduzione sessuata, cioè milioni di anni prima della comparsa dell´uomo.
Minareti: perché l´Occidente non deve averne paura
L´esito del referendum svoltosi in Svizzera la scorsa domenica circa la costruzione di nuovi minareti è il risultato eclatante della superficialità culturale con cui le nostre società stanno affrontando uno dei fenomeni più ingenti e sfidanti del nostro tempo.
Ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi – e le analisi sociologiche e i dati statistici, insieme alla cronaca quotidiana, ce ne danno evidente documentazione – è un profondo rimescolamento delle carte per quanto concerne la relazione e la coabitazione tra i popoli, le culture, le esperienze sociali, le religioni.
Un fatto che c´è sempre stato, ma che oggi assume dei connotati inediti e pervasivi, oltre che un ritmo accelerato.
Il disagio nell´affrontare questa sfida, molto concreta e oltremodo impegnativa, è comprensibile.
Ma non lo è l´assenza, a livello pubblico, di un approfondimento e di un dialogo serio e responsabile, capace di aiutarci ad andare al di là della reattività immediata e di leggere il significato profondo di quanto accade e ci interpella, al fine d´individuare strategie culturalmente attrezzate e operativamente praticabili.
L´esito e, prima ancora, la proposizione di un referendum come quello di domenica in Svizzera denuncia in modo grave e inequivocabile quest´assenza.
E c´è solo da augurarsi che provochi quello choc salutare capace d´innescare un processo ponderato di discernimento della vera questione che è in ballo.
L´esperienza di questo referendum ci dice infatti che cosa non dobbiamo e non possiamo fare, in virtù della tradizione culturale e giuridica su cui si regge la civiltà occidentale e in riferimento all ´inedito che bussa alla nostra porta e che chiede di dar nuova forma – senza rinnegare assolutamente il positivo delle acquisizioni con fatica sin qui raggiunte – alla convivenza civile e all´assetto giuridico delle nostre società.
Innanzi tutto, non è più possibile – pena il ritorno a un passato che è improponibile – legiferare impedendo la legittima espressione pubblica delle diverse fedi religiose.
Le quali non possono in nulla derogare dalle norme fondamentali e riconosciute della società in cui si esplicano, ma che altrettanto non possono esser relegate nella sfera del privato.
È questo un guadagno irrinunciabile della civiltà occidentale, cui non è estraneo l´apporto per molti versi decisivo della fede cristiana e della cultura che ad essa s´ispira.
C´è voluto tempo e si sono combattute aspre battaglie, con chiusure e resistenze su ambedue i fronti, ma alla fine il principio secondo cui occorre dare a Dio ciò che è di Dio e a Cesare ciò che è di Cesare è diventato, per lo Stato moderno e per la Chiesa, un principio almeno formalmente inderogabile.
Tanto che il Concilio Vaticano II ha emanato una dichiarazione sulla libertà civile e sociale in materia religiosa, la Dignitatis humanae.
Dichiarazione per nulla scontata, sino a quel momento, nello stesso ambito cristiano, e che proprio per questo – al dire di Paolo VI – «resterà senza dubbio uno dei più grandi documenti di questo Concilio».
Un´altra cosa che è non solo strategicamente sbagliata, ma culturalmente del tutto inadeguata oltre che controproducente, è contrapporre rozzamente Occidente e Islam, facendo loro vestire i panni di due civiltà inconciliabili.
Certo, le differenze non mancano e sono anche rilevanti: ma la contrapposizione escludente non favorisce mai l´evoluzione dei dati positivi presenti in un dato sistema culturale e sociale.
Senza dire che l´identità sana e matura non si promuove contro quella dell´altro, chiunque egli sia, ma nella fatica di stabilire con lui il giusto rapporto.
E senza sottovalutare il fatto che una presa di posizione come quella che si è espressa nel referendum sui minareti segnala un´insuperabile contraddizione: quella di chi vuol godere di tutti i benefici della globalizzazione a livello materiale, senza aprirsi al rischio ma anche al guadagno culturale che essa può produrre.
Detto questo, si può guardare con serenità e spirito costruttivo alla delicata questione di che cosa necessitino gli atteggiamenti fondanti della nostra cultura e le regole procedurali e sostanziali della nostra convivenza per farsi capaci di apparecchiare uno spazio pubblico condiviso e accogliente.
Insomma, se, per me che sono cristiano, il campanile e il suono delle campane fanno casa e nutrono il sentimento della mia identità, perché non debbo riconoscere che il minareto e l´invito alla preghiera del muezzin fanno altrettanto per gli amici musulmani? L´essenziale è che il suono della campana e l´invito del muezzin non siano assordanti e impositivi.
Del resto, non sono stati pochi né brevi i periodi della storia passata né a tutt´oggi sono del tutto spariti i luoghi ove sinagoghe, chiese e moschee convivono pacificamente e arricchiscono le rispettive identità del dono prezioso che viene dall´altro.
Dobbiamo senz´altro essere realisticamente consapevoli che tutto ciò non è scontato né facile.
Ma è questa la frontiera culturale che dobbiamo attraversare insieme.
Aiutandoci gli uni gli altri, con apertura e insieme con rigore, a disinnescare in radice ogni forma di tentazione fondamentalista e omologatrice.
Promuovendo, di concerto con coloro – e non sono pochi – che non aderiscono a nessuna tradizione religiosa, una laicità matura che si faccia spazio propizio di dialogo e incontro, nella cornice del rispetto della dignità e dei diritti/doveri inalienabili della persona.
Senza indulgere a quel falso irenismo che mettendo sullo stesso piano tutte le convinzioni, in realtà le rende indifferenti l´una verso l´altra inibendo quell´inesausta ricerca di bene, di verità e di pace che muove la coscienza e la libertà verso orizzonti sempre più ricchi e condivisibili.
Riuscire a convivere così, nei Paesi europei così come in quelli islamici, non è, per chi aderisce a una fede religiosa, abdicare alla propria identità né sognare idealisticamente un´utopia, ma testimoniare con coerenza e senza sconti la propria apertura verso Dio e la propria responsabilità verso l´altro.
in “la Repubblica” del 3 dicembre 2009
Nella periferia di Lione, cattolici e musulmani cercano le vie del dialogo
Da quando è stato intervistato alla TV locale per esprimere la sua passione per il calcio, Régis Charre, prete a Vaulx-en-Velin, viene regolarmente interpellato da dei giovani del quartiere.
“Dei giovani musulmani, che non avrebbero mai rivolto la parola a un prete, vengono a parlare con il tifoso!”, si rallegra questo cinquantenne convinto della necessità del dialogo tra le comunità dei quartieri popolari della periferia di Lione.
Impegnato in questi scambi nel quotidiano, questo prete energico partecipa agli incontri organizzati nel quadro della settimana cristiano-islamica.
Ha assistito, martedì 17 novembre, a Villeurbanne, ad una conferenza del cardinale Jean-Louis Tauran, responsabile del dialogo interreligioso in Vaticano, e si recherà sabato ad un incontro dove ci si aspetta la partecipazione di più di 100 preti ed imam.
A Lione, due uomini, il presidente del Consiglio regionale del culto musulmano, Azzedine Gaci e il cardinale Philippe Barbarin, hanno ridato vita al dialogo interreligioso.
“Quando si fa il prete in periferia non si può avere un atteggiamento di disprezzo nei confronti dell’islam”, dichiara Régis Charre, che vive da solo nell’imponente canonica di Vaulx-Village.
Questo ex disegnatore industriale “gestisce” quattro chiese, che riuniscono il 2% della popolazione, in un ambiente caratterizzato da una forte pratica dell’islam.
Come tutti i preti e imam militanti del dialogo interreligioso, difende l’importanza di questi momenti di scambio per la qualità del “vivere insieme” e per l’approfondimento della fede di ciascuno.
“Spiegandoci l’un l’altro come ci avviciniamo a Dio, ci arricchiamo”, testimonia come un’eco Faouzi Hamdi, il responsabile musulmano di Vaulx-en-Velin.
“Difficile coabitazione” I due uomini animano conferenze comuni su “Gesù nella Bibbia e nel Corano, l’elemosina e il digiuno nelle due religioni”, esempio meritorio di un inizio di dialogo teologico più che balbettante.
“Il lavoro sui testi permette di andare al di là del folklore attorno ad un cus-cus”, ritiene Hafid Zekhri, responsabile di una associazione multireligiosa.
“Durante il ramadan, io partecipo al termine del digiuno con una decina di parrocchiani”, si rallegra il prete di Vaulx-en-Velin.
“Per Natale, il responsabile musulmano ci ha augurato buona festa in chiesa; è stato applaudito”, testimonia anche Jacques Purpan, prete a Saint-Fons.
Convinto dell’importanza di “conoscere l’altro”, ha fatto visitare la moschea agli studenti del liceo privato…
e aspetta che quelli della scuola coranica vengano a vedere la chiesa…
“Siamo uniti anche nel sostegno agli immigrati in situazione irregolare”, aggiunge Régis Charre.
Invece, per l’azione sociale e caritativa, non c’è cooperazione.
Se le relazioni tra responsabili cattolici e musulmani sono, a parere di tutti, “buone e basate sulla fiducia”, ciascuno è ben cosciente delle reticenze che, da entrambe le parti, frenano l’incontro tra credenti.
“La concentrazione di maghrebini nei quartiei popolari non facilita gli incontri con i cattolici in generale”, dice padre Charre.
Questi ultimi non vedono di buon occhio i matrimoni misti nei quali l’islam si impone, soprattutto alla nascita dei figli.
“Negli ambienti popolari, si constata una difficile coabitazione”, riconosce il prete di Saint-Fons.
“Che non si possa più comperare del salame nelle macellerie del quartiere ha come risultato di indispettire i “Galli”, racconta l’ex prete operaio.
“È vero che i fedeli musulmani non sono dei militanti del dialogo interreligioso”, riconosce Kamel Kabtane, rettore della moschea di Lione.
“L’islam manca ancora di quadri per organizzarlo”, spiega Azzedine Gaci che ritiene che “molti musulmani, convinti di possedere la verità, non vedono l’interesse del dialogo”.
Una convinzione condivisa da certi cattolici: alla conferenza di monsignor Tauran, dei giovani integralisti hanno invitato alla “conversione” di tutti e fustigato il “relativismo” indotto secondo loro dal dialogo interreligioso.
in “Le Monde” del 20 novembre 2009 (traduzione: www.finesettimana.org)