Dietro i bersaglieri che irrompono sulla breccia di Porta Pia, un carretto pieno di Bibbie fa il suo ingresso simbolico nella città dei Papi.
Da pochi mesi, in quel 1870, Pio IX ha firmato un´enciclica ai vescovi italiani per invitarli a impegnarsi «a ciò che le pecorelle fedeli aborrano dalla pestifera lettura della Bibbia tradotta».
Si libera una capitale e si libera anche la Sacra Scrittura dai veti confessionali.
Dopo centoquarant´anni da allora, la Bibbia entra nei licei pubblici italiani come libro di testo.
Probabilmente una svolta per rimediare l´enorme ignoranza italica, segnalata anche dalle indagini vaticane, di questo codice primordiale dell´umanità.
Un protocollo d´intesa tra il ministero dell´Istruzione e l´associazione “Biblia” ha sbloccato un programma di percorsi didattici sulla Bibbia all´interno delle singole materie.
L´approccio vuol essere interdisciplinare, culturale e a-confessionale.
Una sfida non facile, per un sistema ancora pesantemente condizionato dalle preoccupazioni della Chiesa cattolica per l´interpretazione ortodossa del testo fondamentale della Rivelazione giudaica-cristiana.
La partita si decide in gran parte sull´approccio laico alla Bibbia, in una società secolare e multireligiosa.
Di questo si è discusso nel convegno alla Sapienza tra esponenti laici e cattolici, promosso da “Biblia” e dal ministero dell´Istruzione, per motivare dei percorsi didattici accessibili a credenti e a non credenti, come a giovani di diversa tradizione religiosa e culturale: una Bibbia «capace di parlare anche a una società plurale» dice Agnese Cini, che ha condotto questa battaglia per anni alla testa di “Biblia”.
«Abbiamo questa grande biblioteca dell´umanità, ci può essere preziosa per reagire all´inverno dello spirito.
È un modo per far scendere dai pulpiti la Bibbia, metterla in circolazione come fermento democratico, patrimonio laico riconoscibile della cultura comune».
Era stato Amos Luzzatto, presidente della Fondazione Primo Levi, ad auspicare, insieme ad altri esponenti della cultura, come Umberto Eco e Claudio Magris, che la lettura della Bibbia non fosse confiscata in chiave confessionale, non essendo riducibile a libro religioso.
In un appello essi avevano proposto che lo studio della Bibbia non fosse programmato dentro l´ora di religione nelle scuole pubbliche, ma nel quadro dei normali percorsi didattici ( letteratura, arte, storia ecc.) come patrimonio culturale comune, interessante anche per chi non si ritiene o non è credente.
Il ritardo culturale da colmare è enorme.
Secondo un´indagine condotta da GFK Eurisko su un campione di 13mila interviste in alcuni paesi (tra i quali Usa, Russia, Francia, Germania, Spagna e Italia), patrocinata dalla Federazione Biblica Cattolica e resa pubblica in Vaticano nell´aprile 2008, solamente 30 cattolici ogni 100 nel mondo leggono la Bibbia, contro oltre 70 protestanti su 100.
La Bibbia è il libro più diffuso e stampato del mondo, tradotto in 2454 lingue differenti (sulle 6.700 parlate nel mondo), ma resta ancora poco letto e persino sconosciuto alla maggior parte delle persone.
Risulta che 86 italiani su 100 ignorano le Sacre Scritture e appena 1 su 4 ha letto una pagina biblica in modo personale, al di fuori delle celebrazioni liturgiche.
Questa è, secondo la maggior parte degli osservatori, la causa principale della puerilità culturale che continua ad affliggere la religione degli italiani.
Il fatto è che la Chiesa non è senza responsabilità in questa disfatta.
Alcuni papi come Pio IV nel 1564 e Benedetto XIV nel 1757 risposero alla Bibbia tedesca di Lutero condannando ogni traduzione in volgare della Bibbia.
Nemmeno il Concilio Vaticano II che ha rimesso al centro della Chiesa la Scrittura è riuscito a contrastare con la dovuta efficacia questa indifferenza.
Ma è difficile in breve volger di anni invertire un deficit di secoli.
Troppo a lungo la Bibbia è stata trattata da libro proibito.
Uno sforzo per la rieducazione biblica dei cattolici è stato affrontato da Benedetto XVI che ha pubblicato da poche settimane l´Istruzione “Verbum Domini” a coronamento del Sinodo del 2008 sulla Bibbia.
Significativi gli elementi novativi del testo: raccomandata l´adozione dei metodi storico-critici di indagine (a suo tempo condannati da Pio X nella furia dell´antimodernismo), demolita la pretesa del fondamentalismo biblico, che tratta il testo biblico come se fosse stato dettato alla lettera dallo Spirito, incoraggiate le traduzioni( a suo tempo vietate), accolto uno statuto non fossile ma dinamico della Tradizione.
Soprattutto il Papa esorta a un approccio razionale come chiave di lettura del testo.
Con la sola riserva su una «ermeneutica secolarizzata» che sembra difficile da conciliare con l´incoraggiamento contestuale dei metodi scientifici.
Un ulteriore elemento di incertezza nell´analisi del personaggio Ratzinger e del suo governo.
in “la Repubblica” del 17 dicembre 2010
Categoria: Linguaggio
Tormenti creativi di un giovane rocker
“Ho visto il futuro del rock’n roll e il suo nome è Bruce Springsteen”.
Quando il 22 maggio del 1974, dopo aver assistito a un concerto a Cambridge, in Massachusetts, scrive questa frase, una delle più celebri della storia del giornalismo musicale, Jon Landau è il critico più influente d’America.
Sa che la casa discografica che ha prodotto i primi due dischi del giovane rocker non è soddisfatta, ma lui coglie in quel ragazzo un potenziale che non può andare perduto.
E non si sbaglia.
Springsteen riesce a realizzare Born to Run, che si rivela un successo imprevisto e clamoroso; “Time” e “Newsweek” gli dedicano la copertina la stessa settimana.
È l’inizio di una carriera incredibile e non ancora giunta al capolinea.
Chiunque, poco più che ventenne, avrebbe cavalcato l’onda, continuando sulla stessa strada.
Springsteen no.
Complice una disputa legale con il precedente produttore, che non gli permette di entrare in uno studio di registrazione per tre anni, il cantautore ha il tempo di riflettere sulla sua musica.
E di pensarne una nuova – chiuso nella sua casa di Freehold, New Jersey, assieme alla storica E-Street Band – segnando una svolta nel suo stile.
Nasce così uno degli album più importanti della storia del rock, Darkness on the Edge of Town.
A quell’indimenticabile esperienza creativa il regista Thom Zimny ha dedicato un docufilm intitolato The Promise: The Making of Darkness on the Edge of Town, presentato in concorso nella sezione “L’Altro Cinema Extra” al Festival internazionale del film di Roma, proiezione diventata uno degli eventi della rassegna grazie anche all’inattesa e acclamata presenza in sala di Springsteen.
Ed è stato lo stesso Boss a spiegare il senso di questa operazione: “Darkness è il disco che mi ha fatto capire esattamente quale sarebbe stato il mio posto nella musica, quello che ancora più di Born to Run ha avviato il mio dialogo con il pubblico”.
Un dialogo molto personale. “In molti miei dischi – ha aggiunto – racconto la ricerca di un’identità.
Ancora oggi non so chi sono.
Quando registrammo Darkness avevo 27 anni ed ero completamente identificato con la musica che facevo e questo è il motivo per il quale abbiamo lavorato così a lungo.
Le domande essenziali che mi ponevo erano: da dove vengo? Cosa vuol dire essere figlio? Cosa vuol dire essere americano? Oggi mi domanderei cosa vuol dire essere padre.
Sono domande essenziali.
Poi si trattava di trovare delle storie e spesso sono le storie che scelgono te”.
Nel disco si riflette la necessità di capire, di andare a vedere come stavano le cose.
Una necessità ora più forte dell’istinto di fuga contenuto nel precedente lavoro.
Ma non è facile, perché lo stesso cantautore sembra impaurito da quanto gli sta accadendo.
Teme che il successo possa minare la sua identità.
Sente di essere un provinciale, tuttavia non vede in questo un limite.
Semmai un di più.
Con duemila dollari compra un’auto e con un membro della band va in giro per il Southwest a vedere l’America.
Per raccontarla dal vivo.
Già all’anteprima mondiale a Toronto Springsteen aveva chiarito il perché di questa svolta.
“In studio per Darkness realizzammo più di settanta pezzi e fu difficile scegliere.
Molti dimenticano che in quegli anni c’era stato il punk, e l’America stava attraversando un periodo drammatico: la guerra del Vietnam era finita da qualche anno ed era come se il Paese avesse perso l’innocenza.
Io ero un ragazzo ambizioso, volevo essere la voce di tutto questo.
Quindi tolsi tutte le canzoni più allegre e lasciai le dieci più toste.
Ne uscì un disco arrabbiato”.
Raccogliendo le testimonianze di tutti coloro che parteciparono a quella stagione irripetibile, attraverso le immagini in uno sgranato bianco e nero in cui Springsteen appare come un adolescente instancabile alle soglie di un’impresa straordinaria, il film racconta con rara efficacia il lavoro creativo di un artista e la genesi di un’opera d’arte: la quasi maniacale ricerca di un linguaggio narrativo e musicale nuovo, il desiderio di ricreare in studio il sound dei concerti, la profonda aspirazione estetica ed esistenziale, e le urgenze sociali che lo muovevano.
E in questo passaggio l’artista trova una voce adulta, comprendendo che cosa vuole realmente scrivere, quali sono le persone di cui gli importa e chi vuole essere: “I miei amici e la mia famiglia lottavano per condurre una vita decente e produttiva, e in questo vedevo una specie di eroismo quotidiano”.
Operazione riuscita, se oggi, sessantenne, può affermare che il risultato “è proprio quello che speravo a ventisette anni: di avere scritto qualcosa che avrebbe continuato a riempirmi di obiettivi e di significati negli anni a venire, che avrebbe continuato ad avere valore sia per me che per voi.
Devo alle scelte che abbiamo fatto allora, e a quel giovane, il dovuto rispetto”.
Questo eccezionale documento – testimonianza di quanto bisogno ci sia di musica di qualità, merce sempre più rara oggi, tanto da dover attingere di continuo a un più solido passato – fa parte di un cofanetto dal titolo The Promise: the Darkness on the Edge of Town Story, che la Sony ha messo in commercio martedì, con oltre 6 ore di filmati e riprese video inedite, e due ore di musica realizzate nel periodo 1976-1978.
La confezione contiene tre cd – uno con la versione rimasterizzata del disco e due con 21 canzoni per lo più inedite – e tre dvd con il docufilm, altre immagini inedite di Springsteen e la E-Street Band, nonché un video in alta definizione con l’esecuzione dell’album nella sua interezza, registrato appositamente nel 2009 al Paramount Theather di Asbury Park, senza pubblico per ricreare l’atmosfera del disco originale ma suonato con la stessa grinta di un concerto.
Tuttavia la vera chicca per i fan è la riproduzione del block notes sul quale Springsteen annotava i testi delle canzoni, modificandoli di continuo, aggiungendo annotazioni, alla ricerca del mix perfetto di parole e musica.
In parallelo viene pubblicato anche un doppio cd intitolato The Promise contenente solo i 21 inediti, tra cui Because the Night scritta con Patti Smith.
Un nuovo album, in realtà, con atmosfere meno cupe, che Jon Landau, ormai storico produttore del Boss, ha definito il disco di raccordo tra Born to Run e Darkness.
Che l’attenzione su Springsteen sia particolarmente alta in questo momento è testimoniato anche in Italia dalla recente pubblicazione di due interessanti libri, che vanno ad aggiungersi alla già lunga lista di volumi dedicata al rocker.
Marina Petrillo, autrice di Nativo Americano.
La voce folk di Bruce Springsteen (Milano, Feltrinelli, 2010, pagine 296, euro 16), analizza l’impatto sulla cultura statunitense di un cantautore che ha influenzato generazioni di giovani, venduto milioni di dischi e respinto definizioni ed etichette.
Accanto alla fama di animale da palcoscenico, Spingsteen ha maturato una sempre più consapevole identità acustica, divenendo lui – il Boss del rock’n roll – il custode di un’antica tradizione popolare che affonda le radici nel folk.
Una scoperta, questa, che non lo ha sorpreso, ma che gli ha imposto un tono, una scelta.
Non meraviglia, quindi, che i personaggi delle sue canzoni, veri e propri racconti brevi, siano operai, disoccupati, migranti, banditi, reduci di guerra, ex galeotti, attratti e disillusi dal sogno americano: tutti idealmente figli di Tom Joad, il protagonista di Furore, tutti in fuga dalle terre cattive (Badlands) e alla ricerca della terra promessa (The Promise Land).
Lasciandosi condurre da quella “voce folk”, capace di rievocare i personaggi di Steinbeck, i paesaggi di Faulkner, le ballate di Woody Guthrie senza dimenticare le suggestioni del blues, del gospel e dello spiritual, Marina Petrillo ripercorre l’itinerario umano e artistico di Springsteen.
Per sottolineare che – dai boschi stregati di Nebraska alle esperienze con la Seeger Sessions Band fino all’impegno politico – in quella voce si materializza l’indole di un vero narratore, dalla quale emerge una forte passione civile sfociata in quel Working on a dream divenuto la colonna sonora della campagna elettorale di Barack Obama.
“Attingendo alle radici più antiche dell’America – si legge – e tornando sempre alla scelta di campo che gli hanno imposto le sue origini proletarie, oggi Springsteen si trova in quel pensiero che non si volge a un’idea autodifensiva di comunità, ma piuttosto a una fede nel funzionamento di una sobria vita comune con la sua intrinseca fertilità”.
L’altro volume, Runaway Dream.
Born to Run e la visione americana di Bruce Springsteen, di Louis Masur (Roma, Arcana, 2010, pagine 223, euro 17,50), celebra in particolare i 35 anni dell’uscita dell’album.
A metà degli anni Settanta fu il disco manifesto degli States, di una società dinamica che temeva di vedersi sfuggire di mano il tanto decantato sogno americano.
Attraverso i personaggi che si muovono in quelle storie il giovane cantautore dava voce a quanti avevano poco da perdere, nati per correre, pronti a fuggire verso un futuro migliore, verso una visione diversa di mondo, capace di restituire speranza e una possibilità di redenzione.
Per questo, come sottolinea Masur, Born to Run è molto più di un semplice album rock: è un’esplosione poetica, un grido di strada che esprime al contempo frustrazione e ansia di libertà.
Runaway Dream racconta la gestazione dell’opera che lanciò Bruce Springsteen nel firmamento della musica mondiale e ne analizza l’impatto sulla cultura statunitense, dimostrando come le immagini della sterminata provincia in essa contenute abbiano sfidato il tempo e siano ancora oggi vivide e potenti, anche se il sogno americano si è infranto.
Spazzato dall’ennesima crisi economica che ha forse riportato quella stessa atmosfera cupa che si coglie nell’album.
(©L’Osservatore Romano – 18 novembre 2010)
Verbum Domini
Una “cattedrale” della Parola di Dio, con meravigliose vetrate aperte sul mondo; un trattato complesso ma fruibile da tutti, che si muove seguendo il filo d’oro di quel capolavoro teologico e letterario che è il prologo del Vangelo di Giovanni.
È l’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini di Benedetto XVI, presentata questa mattina, giovedì 11 novembre, nella Sala Stampa della Santa Sede.
Frutto dei lavori della dodicesima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi – svoltasi dal 5 al 26 ottobre 2008 sul tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa” – il documento è diviso in tre parti: Verbum Dei, Verbum in Ecclesia, Verbum mundo, racchiuse da una Introduzione che ne indica gli scopi e una Conclusione che ne sintetizza le idee portanti.
Invitati a descriverne il contenuto il cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi e relatore generale di quel Sinodo, che l’ha riletta soprattutto alla luce del “paradigma mariano della rivelazione”; l’arcivescovo Nikola Eterovic, segretario generale del Sinodo dei vescovi, che ne ha sintetizzato la struttura e i contenuti; il sotto-segretario dello stesso dicastero, monsignor Fortunato Frezza, che ne ha evidenziato gli aspetti connessi alla liturgia; e l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura e presidente della commissione per il messaggio a quello stesso Sinodo, che ne ha offerto una chiave di lettura indicando i tre orizzonti verso i quali orientarsi: l’ermeneutica, la casa o meglio la chiesa nella quale si comunica la Parola, e la strada, cioè il mondo nel quale la Parola si diffonde.
Il documento – ha fatto notare Ravasi – “inizia e termina con la parola gioia.
Un chiaro invito a riscoprire questo sentimento in un periodo come il nostro dominato dalla caduta dell’etica”.
Verbum Domini Conferenza Stampa di presentazione dell’Esortazione Apostolica postsinodale di Sua Santità Benedetto XVI (©L’Osservatore Romano – 12 novembre 2010)
La sfida della Spagna dai due volti
Il viaggio di Benedetto XVI in Spagna sembrava una combinazione occasionale tra due inviti.
Invece è stato un messaggio unitario: la visita alle due Spagne (quella cattolica e quella moderna e laica).
Santiago rappresenta la prima.
Barcellona, città europea in sviluppo e di grande turismo, esprime la Spagna laica.
Le due Spagne si fronteggiano sulla visione del futuro, sulla famiglia, sulla religione.
Dietro di loro sta la memoria della guerra civile.
Nel sistema politico spagnolo o vince l’una o l’altra.
La sfida è irriducibile e più profonda della politica.
In aereo, il Papa ha definito la Spagna come «Paese originario del cristianesimo».
Ma ha aggiunto correttamente: «In Spagna è nata anche una laicità, un secolarismo, forte e aggressivo, come abbiamo visto negli anni Trenta».
Il Papa non si è gettato nel conflitto.
Non ha nemmeno adattato irenicamente il suo messaggio.
Ha confermato però il passo lieve, non incerto, con cui venne a Valencia nel 2006, quando Zapatero era quasi agli inizi.
Si è presentato con ingenuità sapiente.
Sa che «questo scontro tra fede e modernità, ambedue molto vivaci, si realizza anche oggi di nuovo in Spagna».
Eppure gli europei — come diceva Benedetto Croce — non possono non dirsi cristiani; ma sono anche figli di una storia «laica».
Per Benedetto XVI la tragedia europea è «la convinzione che Dio è l’antagonista dell’uomo e il nemico della libertà», ha detto.
Di questo antagonismo il Papa misura tutta la profondità culturale, antropologica e politica.
Con ingenuità, non da antagonista, ha parlato della bellezza del cristianesimo.
Lo ha fatto con un modo che sfugge all’ autoreferenzialità di tanti discorsi ecclesiastici in Europa, incapaci di superare le soglie delle chiese.
Proprio nella moderna Barcellona, la città spagnola più lanciatasi dopo il franchismo nella sfida della crescita, è venuto in aiuto al Papa il genio laico e credente di Antoni Gaudí.
Il grande architetto catalano ha gettato le basi del più importante monumento religioso dell’Europa contemporanea, la Sagrada Familia.
Morto nel 1926, ha lasciato alle generazioni successive l’impegno di completare una chiesa che, a un pensiero utilitaristico, appariva interminabile e grandiosa.
Fortunatamente la passione catalana ha perseverato nella costruzione.
Benedetto XVI ha individuato nell’opera «carismatica» di Gaudí il superamento della «scissione tra coscienza umana e coscienza cristiana… tra la bellezza delle cose e Dio come Bellezza».
La basilica parla della Sacra Famiglia, tema caro ai cattolici per la difesa della famiglia, ma anche emblematico per esprimere i legami nella comunità nazionale e tra i popoli.
Benedetto XVI ha invitato a difendere famiglia, vita, natalità.
Ha chiesto «che in questa terra catalana si moltiplichino e consolidino nuovi testimoni di santità».
Anche all’autonoma Catalogna ha additato un futuro cristiano.
Benedetto XVI non vuole adattare la Chiesa all’agenda della modernità.
Ma non ci si può solo combattere.
In qualche modo bisogna varcare le frontiere e compenetrarsi.
Non è storia di un giorno o un accordo politico.
Il «grande disegno» di papa Ratzinger sembra come la Sagrada Familia, iniziata nel 1883: non solo per i tempi lunghi della costruzione, ma per la convinzione che la bellezza sia decisiva nel cristianesimo.
L’idea di bellezza parla di una Chiesa non minimalista e alla rincorsa dei tempi, ma nemmeno arcigna e antagonista.
Nel quadro solenne della consacrazione della chiesa, Benedetto XVI è stato chiaro: «Questo è il grande compito, mostrare a tutti che Dio è Dio di pace e non di violenza, di libertà e non di costrizione, di concordia e non di discordia».
La Chiesa dev’essere bella, come la Sagrada Familia, «in un’epoca in cui — ha detto — l’uomo pretende di edificare la sua vita alle spalle di Dio, come se non avesse più niente da dirgli».
C’è un messaggio al mondo, ma ce n’è un altro esigente per la Chiesa: che sia «icona della bellezza divina».
Sono due sfide in una Spagna divisa in due, per un Papa tenace.
in “Corriere della Sera” dell’8 novembre 2010
Intervista a Dionigi Tettamanzi: L´immoralità è dilagante, a tutti i livelli della società.
L’intervista «L´Italia di oggi è malata, come lo era Milano ai tempi di San Carlo e della peste.
Ogni giorno leggendo i giornali si è portati a pensare che si stia sprofondando sempre più in basso.
L´immoralità è dilagante, a tutti i livelli della società.
Purtroppo, è diffusa l´idea che la vita debba essere per forza spensierata e allegra e talvolta si finisce per stordirsi sino all´ebbrezza.
L´opinione pubblica sembra distratta da frivolezze, non avvertendo la gravità del momento.
Ho però la speranza che prima o poi la nostra società trovi la forza di reagire e di rinnovarsi».
Non si preoccupa di celare l´amarezza, il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, alla vigilia della messa in Duomo nella solennità di San Carlo Borromeo, in occasione della quale leggerà una lettera di papa Benedetto XVI.
Ed è proprio pensando a quelle che definisce le «miserie dell´attualità» che il porporato decide di sottolineare l´attualità dell´esempio di San Carlo, il grande teorico del rigore nella società e moralizzatore dei costumi.
Eminenza, che cosa pensa di quel che si legge in questi giorni sulle vicende private del presidente del Consiglio? «Il problema non è quello che provo io, in questo clima di insipienza diffusa.
Il problema più grave lo vivono i genitori che devono spiegare che cosa sta succedendo ai propri figli, alle figlie che hanno la stessa età di quelle che si vedono in foto sui quotidiani in questi giorni.
Di fronte a questo scadimento dei costumi bisognerebbe occuparsi di quel che filtra nel quotidiano delle persone, bisognerebbe dare voce al grave disagio che vive una società bombardata da messaggi distraenti e edonistici, in cui tutto si misura solo sulla base del divertimento, dello scherzo greve.
Panem et circenses, si diceva ai tempi dei Romani».
Che cosa pensa che recepisca la gente? «Si parla tanto di valori, si brandisce questa parola come un programma e uno scudo.
Ma poi ci si comporta ispirandosi a principi molto diversi, si contribuisce a diffondere modelli educativi vuoti e pericolosi, soprattutto per le nuove generazioni».
Allude a chi in pubblico parla del valore della famiglia e poi in privato ha altre priorità? «Non si deve scindere mai l´aspetto privato da quello pubblico.
Soprattutto quando si hanno particolari responsabilità, in ogni ambito, il privato e il pubblico coincidono.
E bisogna comportarsi in modo coerente con quel che si dice.
Spesso alcuni mi dicono che mi dovrei interessare solo delle anime, ma sono convinto che devo occuparmi della persona nella sua integralità: anima e corpo insieme.
E che quando si parla di valori, bisogna anche impegnarsi a creare le condizioni necessarie per realizzarli, altrimenti il discorso è inutile se non controproducente».
In questa situazione lei pubblica un libro dedicato a San Carlo («Dalla tua mano», Rizzoli).
Non le sembra una figura “inattuale” da proporre alla società di oggi? «Me lo sono chiesto anch´io.
Penso però che San Carlo sia quanto mai attuale, non solo perché proponeva uno stile di vita fortemente evangelico e umanizzante, ma perché la sua figura oggi ci inquieta, ci chiede di non accontentarci di quel che appare di facile conquista, di quel che viene comunemente accettato dalla società.
Lui ci sprona ad essere presi dall´ansia del bene e del vero, per contagiare anche gli altri».
Lei ha parlato «dell´immoralità e disonestà che lacera la vicenda umana».
«La convivenza civile è minata dalla ricerca del successo a tutti i costi, è manipolata per strapparne il consenso, è tradita quando non è aiutata a cercare il bene comune.
Bisogna amare instancabilmente, perdonando, donando tutto di sé, preferendo i poveri e gli ultimi.
Il Borromeo attraversava la città ferita dalla peste, stava in mezzo alla gente, specie se povera e provata, non per essere populista, per guadagnare consenso e plauso, ma per vivere relazioni autentiche».
La Chiesa dà voce al disagio per la situazione politica italiana.
Ma il vostro allarme non viene recepito.
Lei stesso è stato spesso attaccato per le sue posizioni.
Non si sente isolato? «L´unico criterio per me è il Vangelo e la fedeltà ad esso.
Anche quando è scomodo, anche quando impone un prezzo da pagare, anche quando la fedeltà relega a posizioni di minoranza o porta ad incomprensioni o irrisioni.
Anche San Carlo diceva cose “inattuali” al suo tempo.
Oggi viviamo una frazione di storia nella quale ci pare di essere al colmo del male, dove il bene non si vede e non riesce a crescere, a contagiare, a rinnovare.
Ma penso che avere uno sguardo più ampio e profondo possa esserci di grande aiuto.
Quel che ora non fruttifica domani può germogliare».
in “la Repubblica” del 4 novembre 2010
Islam e cristiani un dialogo è possibile
Dalle folcloristiche provocazioni del colonnello Gheddafi riguardo all'”ineludibile” conversione dell’Europa all’Islam, alle continue, deliranti dichiarazioni di al-Qaeda, fino agli eventi legati alle commemorazioni dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, si è parlato molto di Islam e Cristianesimo in queste settimane.
Il Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente, che si è concluso ieri in Vaticano, ne ha fatto oggetto di una necessaria riflessione, focalizzando l’attenzione piuttosto sul rapporto concreto fra le due fedi e i credenti che vi si riconoscono.
Il dibattito sulle politiche di integrazione, accesosi dopo le dichiarazioni della cancelliera Merkel, ha poi mostrato come non si tratti di discussioni accademiche, ma di problemi che ci riguardano tutti.
C’è chi fa previsioni apocalittiche di prossimi e sempre più duri “scontri di civiltà”, c’è chi sembra rassegnato a un preteso, inevitabile “declino” della cultura segnata dal Cristianesimo di fronte all’avanzata numerica del mondo musulmano, che non conosce la denatalità propria delle società economicamente avanzate.
E c’è chi, come i padri sinodali, fa riferimento al laboratorio vivente dei luoghi in cui – spesso da quattordici secoli – cristiani e musulmani convivono, fra amicizia e intolleranza, convivenza pacifica e sfida dell’integralismo.
La molteplicità degli approcci alla questione mostra da sé come essa non sia né semplice, né scontata nei risultati.
Ciò che soprattutto differenzia le società islamiche dalla cultura europea è il forte senso dell’appartenenza, aspetto qualificante dell’Islam: la “umma” – comunità, nazione, etnia – è il grembo materno della vita di chi riconosce in Maometto il profeta del Dio unico (non a caso la radice del termine è la stessa della parola “umm”, madre).
Alla ritualità della “umma” il musulmano partecipa con naturalezza, dai momenti di preghiera quotidiana pubblica alla celebrazione del “ramadan”, il mese del digiuno diurno, al pellegrinaggio alla Mecca.
Il senso di massificazione” che alcuni di questi rituali danno a una sensibilità plasmata dalla cultura occidentale del soggetto, è del tutto estraneo alle culture dei paesi musulmani.
Al di là della facile critica dell’illuminista di turno, che vede in queste forme una semplice abdicazione alla libertà e all’originalità della coscienza individuale, c’è un fascino dell’appartenenza forte che non va banalizzato (si pensi solo ai fenomeni di massa così determinanti nella storia del nostro Novecento e alla geniale analisi ad essi dedicata da Elias Canetti in Massa e potere).
Proprio alla luce di questa complessità, l’approccio dei padri sinodali mi appare illuminante: in primo luogo, esso si rifà alle indicazioni del Concilio vaticano II, secondo cui «la Chiesa guarda con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini.
Essi cercano anche di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti nascosti di Dio, come si è sottomesso Abramo, al quale la fede islamica volentieri si riferisce…
Così pure essi hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno» (dichiarazione Nostra Aetate, n.
3).
Diverse voci al Sinodo non hanno, tuttavia, nascosto le difficoltà reali che incontra la minoranza cristiana nei paesi islamici: costrizioni, limiti alla libertà di coscienza e di esercizio della propria fede in Cristo, atti di violenza e di intimidazione.
«A partire dagli anni Settanta, constatiamo l’avanzata dell’Islam politico, che comprende diverse correnti religiose.
Esso colpisce la situazione dei cristiani, soprattutto nel mondo arabo.
Vuole imporre un modello di vita islamico a tutti i cittadini, a volte con la violenza.
Costituisce dunque una minaccia per tutti, e noi dobbiamo, insieme, affrontare queste correnti estremiste» (patriarca copto di Alessandria d’Egitto, Antonios Naguib, Relatio post disceptationem al Sinodo).
Innegabili sono le distanze fra alcune conquiste della civiltà europea e l’esistenza quotidiana nelle società a maggioranza islamica: esse riguardano l’identità dell’uomo, la condizione femminile, la giustizia, i valori della vita sociale dignitosa e la reciprocità, concetto tanto centrale, quanto complesso nelle applicazioni.
Di fronte a queste sfide la linea d’azione proposta al Sinodo è anzitutto quella del dialogo della vita, «che offre l’esempio di una testimonianza silenziosa eloquente e che è talvolta l’unico mezzo per proclamare il Regno di Dio…
Nel dialogo sono importanti l’incontro, l’accoglienza della differenza altrui, la gratuità, la fiducia, la comprensione reciproca, la riconciliazione, la pace e l’amore…
Il dialogo è la strada della non violenza.
L’amore è più necessario ed efficace delle discussioni.
Non bisogna discutere con i musulmani, ma amarli, sperando di suscitare nel loro cuore la reciprocità.
Prima di scontrarci su ciò che ci separa troviamoci su ciò che ci unisce soprattutto per quanto riguarda la dignità umana e la costruzione di un mondo migliore» (ib.).
Trasponendo queste indicazioni nel contesto della cultura occidentale, e in particolare europea, non si può far a meno di osservare come esse siano in sintonia con le sue grandi radici: da una parte i valori della democrazia, con l’attenzione fondante ad ascoltare le ragioni dell’altro, come mostra il ruolo del teatro e della tragedia nell’antica Atene, dall’altra le conquiste rappresentate dal diritto romano e dall’incommensurabil e patrimonio di civiltà connesso all’idea di persona e della sua dignità assoluta, maturata all’interno dell’eredità ebraico-cristiana.
Proprio questa sintonia fra scelta della via del dialogo e anima profonda della identità europea – nonostante tutte le smentite della storia – mostra come non sarà facile integrare l’idea islamica di appartenenza con la nostra civiltà.
E poiché l’apporto dato all’Europa dalla radice ebraica è innegabile, inseparabile com’è dall’influenza del “grande Codice” che è la Bibbia, si comprende come sia proprio il Medio Oriente la cartina da tornasole del futuro destino dell’incontro.
Costruire lì una giusta pace attraverso la via del dialogo, della giustizia e della riconciliazione, specie nel conflitto israelo-palestinese, vuol dire porre le basi per una convivenza pacifica per tutti nell’epoca del villaggio globale.
Anche così il nostro domani si costruisce nella città «dove tutti siamo nati» (Salmo 87): Gerusalemme.
in “Il Sole 24 Ore” del 24 ottobre 2010
I beati commedianti
Si sta svolgendo a Ravenna la iv edizione della Scuola estiva internazionale in studi danteschi promossa dall’università Cattolica del Sacro Cuore in collaborazione con il locale Centro dantesco dei frati minori conventuali.
Dalla relazione che chiuderà la Summer School pubblichiamo una sintesi curata dall’autore per il nostro giornale.
La terza cantica del poema dantesco e l’esperienza del “beato regno” che in essa viene rappresentata hanno uno statuto del tutto speciale, solo apparentemente simile a quanto sperimentato precedentemente dal personaggio e raccontato dal poeta nelle prime due cantiche.
Per questo, fin dal primo cielo, quello della Luna, si rende necessario svelare il segreto strutturale che giustifica l’esperienza paradisiaca di Dante e tutta la poesia della terza cantica.
Nel cielo della Luna appare a Dante un primo gruppo di anime beate (Paradiso, iii).
Una fra queste, Piccarda Donati, offre a Dante le prime ampie spiegazioni sulla nuova realtà paradisiaca e sulle sue leggi.
Piccarda allude all’esistenza di una gerarchia di differenti livelli di beatitudine pur nella indifferenziata gioia paradisiaca, un più e un meno, che sembra contrastare con la uniforme perfezione della vita beata.
Ma la beata spiega anche che il senso profondo di questa condizione è la piena adesione a Dio e alla sua volontà: i beati desiderano e amano esattamente ciò che corrisponde alla volontà di Dio e gioiscono per il conformarsi a questa volontà.
Tuttavia la beata insiste sulla gradualità del Paradiso (“beata sono in la spera più tarda”, v.
51; “questa sorte che par giù cotanto”, v.
55) ma segnala anche la corrispondenza fra la condizione dei beati e la loro vita terrena, indicando la causa della collocazione più bassa di questo primo gruppo di beati nell’essere venuti meno ai voti.
E Dante è subito colto da due dubbi, con la proposizione dei quali si apre il iv canto, deputato a svelare il principio strutturale che regola il regno paradisiaco.
Uno dei due dubbi riguarda il fatto che si possa esser beati pur avendo mancato a dei voti, e concerne dunque le anime appena incontrate, ma l’altro è più importante e pericoloso e riguarda la natura stessa del Paradiso.
Infatti Dante potrebbe pensare che, avendo incontrato queste anime nel cielo della Luna, questo sia il luogo assegnato loro per l’eternità.
In particolare Dante penserebbe di veder realizzato quanto proposto da Platone nel Timeo, cioè che le anime dimorano nelle stelle prima di essere assegnate a un corpo e scendere nella vita terrena, e infine fanno ritorno alla loro stella di origine dopo la morte.
Beatrice decide di affrontare per primo proprio quest’ultimo dubbio.
Quella che è apparsa a Dante, spiega subito Beatrice, non è la vera realtà del Paradiso.
Il vero Paradiso è l’Empireo: il cielo di luce puramente intellettuale posto “al di là” dei nove cieli corporei.
Le più alte creature angeliche e i sommi fra i beati hanno dunque la loro sede autentica nello stesso cielo in cui soggiornano anche gli spiriti che ora sono apparsi a Dante nel cielo della Luna e che pure nella gerarchia celeste occupano il grado più basso.
Le differenze nella beatitudine sono infatti puramente interiori, nella percezione, differente per ciascuno, e per alcuni maggiore per altri minore, dello Spirito Santo dentro di sé: “Ma tutti fanno bello il primo giro / e differentemente han dolce vita / per sentir più e men l’etterno spiro” (iv, 34-36).
Il Paradiso è dunque una realtà puramente spirituale, intelligibile.
L’Empireo, il decimo cielo, ma “il primo giro” dalla prospettiva celeste, è la sede autentica dei beati, degli angeli, di Dio: una realtà di luce non corporea ma spirituale, non sensibile ma intellettuale.
Dante giungerà, al termine dell’ascesa, dopo un itinerario di graduale conoscenza e progressivo accrescimento delle facoltà, a vedere questa realtà, e questo cielo sarà allora definito il “ciel ch’è pura luce: // luce intellettüal, piena d’amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogne dolzore” (xxx, 39-42).
Ma allora, se tutti i beati stanno nell’Empireo, e la sola differenza è questa puramente spirituale e interiore, perché Piccarda e gli altri spiriti sono apparsi nel cielo della Luna? Beatrice non formula questa domanda, ma è evidente che essa deve nascere nella mente del lettore, e così segue la spiegazione secondo cui i beati incontrati nel cielo della Luna si sono mostrati qui, non perché questo cielo sia destinato loro come sede, ma per indicare attraverso un segno sensibile la condizione celeste meno elevata: “Qui si mostraro, non perché sortita / sia questa spera lor, ma per far segno de la celestïal c’ha men salita” (iv, 37-39).
E la ragione di ciò, spiega Beatrice, è che è necessario comunicare così alla mente umana, in quanto solo a partire dalle percezioni dei sensi riceve gli elementi che poi costituiscono la base per la conoscenza intellettuale: “Così parlar conviensi al vostro ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d’intelletto degno” (iv, 40-42).
Per questo la realtà paradisiaca deve essere presentata a Dante in forma mediata, attraverso immagini: i beati, che soggiornano sempre nel cielo Empireo, scendono nei singoli cieli astronomici per accompagnare l’ascesa del pellegrino.
Si costituisce in questo modo un doppio movimento verticale: il divino e il paradisiaco vengono incontro all’uomo scendendo verso il basso, mentre l’umano muove verso il paradisiaco e il divino ascendendo verso l’alto.
La costruzione dell’avventura paradisiaca di Dante è dunque una grande immagine che ha la funzione di rendere almeno in parte comprensibile la realtà spirituale del Paradiso al viaggiatore celeste, che è un uomo vivente.
In tal modo anche l’ascesa paradisiaca si può realizzare e può essere raccontata come un viaggio suddiviso in diverse tappe, di cielo in cielo, interrotto da incontri e dialoghi con le anime.
Le immagini sono dunque necessarie, ma devono essere intese come un cammino da percorrere, non la meta alla quale fermarsi.
Così la verità del Paradiso dantesco sarà parziale e metaforica, un’autentica scala.
Solo al termine del percorso la verità potrà essere conosciuta pienamente dal pellegrino, che vi è giunto accettando umilmente di passare attraverso i gradi della conoscenza sensibile, percependo solo i segni della vera realtà.
Le affermazioni di Timeo nel dialogo platonico devono allora essere interpretate in un modo non strettamente letterale, ma sottoposte a una lettura allegorica, nella quale verrebbero a intendere che ai cieli deve essere attribuito il merito, positivo o negativo dell’influenza esercitata sugli individui, sui loro caratteri, sui loro talenti, sulle disposizioni a certe attività.
L’astrologia è un aspetto importante della cultura medievale ed è accolta pienamente anche da Dante, che pure rifiuta ogni determinismo astrologico, in nome del principio del libero arbitrio.
Ma il fatto di aver richiamato questo motivo qui in Paradiso, iv, nel quadro delle discussioni sulla struttura del Paradiso come si mostra a Dante, introduce implicitamente un principio che regge la rappresentazione dantesca del regno.
Le anime dei beati, che soggiornano sempre nell’Empireo, scendono e si mostrano a Dante personaggio nei cieli dei sette pianeti, ogni gruppo in un cielo diverso, per manifestare sensibilmente la loro diversa condizione nella realtà puramente spirituale e intelligibile della beatitudine.
E tale diversa condizione è dovuta alla diversità della loro condotta terrena: i beati si manifestano a Dante nel cielo che li ha maggiormente influenzati nella loro vita terrena, offrendo così una rappresentazione sensibile sia della loro condizione spirituale nel Paradiso, sia dei caratteri eminenti della loro condotta sulla terra.
In questo modo il Paradiso, che sarebbe irrappresentabile e indicibile alla lingua umana, nella sua pura intelligibilità, si adatta a presentarsi a Dante personaggio in modo significativo e comprensibile, e tale da offrire al poeta una materia varia e articolata, dotata di senso immediato, ma suscettibile di profonde interpretazioni spirituali.
E in questo modo la materia paradisiaca può essere esposta con modalità non troppo dissimili rispetto a quelle dell’Inferno e del Purgatorio: anche qui assisteremo a un viaggio suddiviso in tappe, di cielo in cielo; e anche qui in ogni singolo cielo incontreremo delle anime raggruppate secondo un criterio coerente, ancorato alle dottrine della filosofia e della teologia morale.
Insomma il Paradiso si snoda attraverso una struttura narrativa non troppo diversa da quella delle cantiche precedenti: il racconto di un viaggio attraverso i singoli cieli, come nell’Inferno attraverso i cerchi, i gironi, le bolge, e nel Purgatorio attraverso le cornici del monte.
E leggendo i primi 29 canti del Paradiso ci dimentichiamo, per la forza immaginativa della poesia, che Dante personaggio non sta visitando il vero Paradiso, ma una sorta di rappresentazione allegorica, di grande metafora, come un teatro celeste nel quale i beati scendono dal vero Paradiso per “fare segno”, in questi modi sensibili e perciò comprensibili a Dante e ai suoi lettori, di una realtà altrimenti inconcepibile e inimmaginabile.
di Giuseppe Ledda (©L’Osservatore Romano – 27 agosto 2010)
Il figliol prodigo all’altro: «Parlami!»
Nella sua predicazione Gesù è ricorso a racconti e narrazioni: le parabole, frutto della sua ricerca della volontà di Dio, della sua immaginazione, della sua osservazione contemplativa del cuore umano, della natura e delle storie personali e collettive.
Ma tra queste, ve n’è una che appare come «incompiuta», una parabola che sembra attendere altri eventi, quasi una parabola in atto di compiersi: è quella dei due figli, che abbiamo memorizzato come «la parabola del figliol prodigo».
Una parabola con il finale sospeso: il figlio perduto ritorna a casa, il padre lo abbraccia e gli usa piena misericordia senza chiedergli conto del male commesso, l’inizio della festa per questo figlio ritrovato…
Poi ecco apparire l’altro figlio, il maggiore, rimasto sempre a casa: risentito, non vuole partecipare alla gioia del padre e del fratello.
Allora il padre esce di casa anche per lui, pregandolo di entrare e unirsi alla festa…
La fine del racconto tace sulla reazione del figlio maggiore: è rimasto ostinatamente fuori? Cos’è successo dopo l’avvio della festa con la musica e il pranzo preparato? Una parabola incompiuta, appunto.
Suonerebbe poco riverente verso il Vangelo osare immaginare non un’altra fine, ma un seguito che renda la parabola compiuta? Significherebbe forse indicare un esito, far accadere ciò che non è stato narrato come accaduto…
Ma siccome tutte le volte che leggo questa parabola penso sempre all’esito che avrebbe potuto avere e mi ritrovo a ipotizzare sempre lo stesso finale, oso affidarlo ai lettori, certo della loro capacità di farne buon uso e di non confonderlo con il Vangelo stesso.
l figlio minore scappato di casa, dopo aver dilapidato tutta l’eredità pretesa dal padre, si era deciso a ritornare a casa: meglio essere un servo in casa di suo padre che vivere da salariato guardiano di porci! Non conosceva in profondità suo padre, infatti da lui si attendeva solo un po’ di pietà per colui che restava nonostante tutto suo figlio.
Il padre invece, da quando il figlio era fuggito, l’aveva sempre aspettato e il suo amore – che esprimeva anche l’amore della madre che non c’era più – non era mai venuto meno: aspettava, aspettava, sovente scrutando l’orizzonte dalla terrazza di casa, là dove la strada scompariva dietro le colline…
Così un giorno, scorgendo una sagoma in lontananza, comprese che era lui, suo figlio.
Allora gli corse incontro: era scalzo, vestito di cenci, barba e capelli incolti, avanzava come un relitto umano, emanava anche un tanfo insopportabile…
Quella corsa finì con un abbraccio, sfociò in un volto contro volto, occhi contro occhi, in un unico pianto di gioia.
Il padre non sentì le parole biascicate dal figlio, ma gli salì dal cuore una parola: «È vivo! Festa, allora!».
E festa sia: i garzoni vanno a macellare il vitello grasso, accendono il fuoco della cucina, mentre altri preparano il bagno, le vesti profumate e i calzari nuovi…
E il padre gli mette al dito l’anello di famiglia, custodito per lui, mentre i musicanti invitano alla festa.
Festa grande, festa per tutti! Ma l’altro figlio dov’è? A quest’ora avrebbe dovuto essere rientrato dai campi…
Dov’è? Il padre esce di nuovo, di corsa, per cercarlo e dargli la buona notizia del fratello tornato, non più perduto come un morto, ma vivo! Invece, il dramma: nell’ora in cui il padre ha riacquistato un figlio rischia di perdere l’altro.
Non appena il maggiore, infatti, vede il padre e sente la sua «buona notizia», ecco l’indignazione, la rivolta! La sua voce risuona dura, tagliente: «Come puoi chiedermi di essere contento e di far festa per questo tuo figlio che ha preso i suoi soldi prima che gli spettassero, che è andato a spenderli comprandosi amici interessati e amore di prostitute, che ha lasciato a noi la fatica e il lavoro, senza mai dare un cenno di vita? E io dovrei far festa?».
Ma il padre: «È mio figlio, certo, ma è anche tuo fratello! Io sono il padre di tutti e due: vi ho amati e vi amo, siete la mia vita! Tu sei rimasto qui accanto a me, è vero, lui se n’è andato lontano, ma io vi amo tutti e due, di tutti e due mi sento padre e non posso fare diversamente.
Se non vi sentite fratelli tra voi, è come se io non potessi essere vostro padre!».
Come aveva abbracciato il figlio fuggito, il padre ora supplicava l’altro figlio che non voleva partecipare alla festa.
Come aveva atteso il figlio perduto, ora era disposto ad aspettare che il primogenito entrasse in casa per la festa.
Fino a quando restò là a pregarlo? Fino al momento – che il padre non aveva osato sperare – in cui sopraggiunse il figlio minore, fino a quando il figlio rinato non accorse verso suo fratello! Questa volta non aveva preparato parole di circostanza, come prima di tornare a casa: avanzò semplicemente, gli occhi bassi colmi di contrizione, giunse davanti al fratello e, senza alzare lo sguardo, gli disse solo: «Fratello, rivolgimi una parola, anche di condanna, e saprò di essere rinato anche per te: allora sarò veramente rinato!».
Il primogenito rimase come paralizzato: non riusciva né aprire la bocca né ad allargare le braccia…
Si lasciò abbracciare, tenendo le braccia rigide, come legate al corpo.
Ma quando sentì il calore delle lacrime del fratello rigare il proprio volto, qualcosa in lui si schiuse, le labbra si aprirono per sussurrare semplicemente «Sì!».
Davvero tutto quello che era del padre era anche suo! Non solo la casa e i campi, non solo vitelli e capretti, ma anche l’amore per quell’uomo perduto e ritrovato, l’amore per un figlio ridiventato fratello.
Sì, l’amore del padre era amore anche suo, un amore condiviso.
E cominciarono a far festa, tutti insieme, una festa senza fine…
Non potremo mai sapere se questo era davvero il finale della parabola narrata da Gesù, né questa domanda è decisiva.
Possiamo e dobbiamo invece interrogarci proprio a partire dall’intero racconto e da quel fiato sospeso che lo conclude: chi è il figlio primogenito e chi è il minore, perduto? Chi dei due è autenticamente figlio e fratello? Quando lo diventa o lo ridiventa? E ciascuno di noi, dove si colloca? Decisivo in questa parabola familiare è che entrambi i fratelli sono stati ritrovati dal padre, il quale è nella gioia solo quando ha in casa tutti i suoi figli, capaci di perdonarsi e di fare festa insieme in “Avvenire” del 20 agosto 2010
Federalismo, razzismo e chiesa cattolica
Una Chiesa rigida con gli ultimi e disinvolta con i potenti Per molti anni, denuncia Sacco nel suo articolo “Il governo della paura”, il fenomeno leghista è cresciuto nel cuore delle comunità cristiane del nord, tra i sorrisi compiaciuti dei “benpensanti” e di “molti uomini di Chiesa” che, definendolo solo un fenomeno di folklore, hanno assecondato la strisciante affermazione di un “modello di arroganza, di forza, di furbizia, di semplificazione dei problemi”.
E al di là di alcune esternazioni a titolo personale, c’è “la sensazione” che proprio “la Chiesa ufficiale, nei fatti, non si sia schierata troppo a fianco della Caritas e a fianco degli ultimi”, nella battaglia, per esempio, contro il Pacchetto Sicurezza, il reato di clandestinità e i respingimenti.
Gli stessi vertici si sono invece dimostrati solerti nel saltare sul carro dei vincitori senza farsi troppi problemi “politici” o morali.
Lo ha dimostrato, ad esempio, mons.
Rino Fisichella, a poche ore dall’elezione di Roberto Cota alla presidenza della Regione Piemonte, quando ha pubblicamente sdoganato la Lega affermando che, riguardo ai problemi etici, “manifesta la piena condivisione con il pensiero della Chiesa” (v.
Adista n.
35/10).
La marea populista e anticostituzionalista investe l’Europa “Populismo etnofederalista, tradizionalista cattolico”: ecco la definizione corretta, secondo Sergio Paronetto (vicepresidente di Pax Christi Italia), di questa “nuova destra che ambisce a diventare il centro politico onnicomprensivo per superare la democrazia costituzionale”.
Un revival di populismo destrorso etnocentrico investe, scrive l’autore nell’articolo “Una religione politica”, non solo quelle regioni italiane “incattivite dalla globalizzazione”, ma anche altre comunità europee (Francia, Belgio, Austria, Danimarca, Norvegia, ecc).
Ad inserire a pieno titolo il leghismo nel solco del populismo europeo sarebbero la “reazione comunitarista alla globalizzazione” e la “reazione antipolitica alla casta” e ai poteri centrali.
Il problema è che il progetto populista leghista, in Italia, trova terreno fertile e potenzialità di governo: infatti “è gran parte del centro-destra a proporre un sistema basato sul popolo come comunità organica, sull’uso politico del cattolicesimo preconciliare, sull’Europa delle regioni ‘etniche’ identificate con le cosiddette ‘radici cristiane’”.
Priva di mediazioni, diretta ed esplicita, capace di conciliare in sé tutti i malesseri sociali – dal rifiuto della globalizzazione al rifiuto della casta politica – il movimento-partito leghista “realizza nel microcosmo padano il passaggio dalla democrazia costituzionale a una democrazia dell’incarnazione che intende rappresentare immediatamente il ‘popolocomunità’”.
Siamo di fronte, si chiede infine Paronetto, “a una variante illiberale o a una malattia cronica della democrazia? A una patologia transitoria della democrazia o al modello vincente della politica per i prossimi decenni?”.
Una religione pagana e antievangelica.
Ma la Chiesa non disdegna Se “il Vangelo di Cristo è accoglienza, solidarietà, amore per il prossimo, giustizia, uguaglianza, misericordia, compassione e fiducia”, la Lega – che organizza esibizioni mistico-religiose sulle sponde del Po – “nasce e si propaga predicando esclusione, diffidenza, separazione, condanna, razzismo, paura”.
Tutto questo, scrive Aldo Maria Valli (giornalista Rai) nell’articolo “Una proposta anticristiana”, stride pesantemente con la pretesa attuale della Lega di ergersi a “paladino di valori morali”, in linea con la dottrina della Chiesa.
In realtà, spiega Valli, il messaggio leghista, che ricorre allo stratagemma pagano del dio Po per la coesione della comunità territoriale, è quanto di più lontano “dalla rivoluzione cristiana che, al contrario, libera l’uomo dalle appartenenze terrene per trasformarlo in un cittadino (si ricordi la Lettera a Diogneto) che vive in questo mondo senza essere di questo mondo”.
In questa svolta in senso cristiano, la Lega non solo contesta la Chiesa, ma si propone, nota Valli, “come vera interprete del messaggio cristiano, contro una gerarchia romana che non ha legittimità in quanto corrotta proprio perché romana”.
Vedi le invettive contro l’arcivescovo di Milano, il card.
Dionigi Tettamanzi, per la sua pastorale dell’accoglienza e dell’integrazione, nonché le dure parole rivolte, nell’estate 2009, al segretario del Pontificio Consiglio dei Migranti, mons.
Agostino Marchetto, il quale ebbe a criticare il “peccato originale” del reato di clandestinità (v.
Adista n.
76/09).
Ne discende che “è quanto meno sbalorditivo che la Lega abbia sia elettori sia alleati cattolici.
Ma ancor più sbalorditivo è che tra le stesse gerarchie vaticane siano arrivate di recente formidabili aperture di credito nei confronti di Bossi e del suo movimento”.
Eppure, spiega Valli, conservare ottime relazioni conviene ad ambo le parti.
Da un lato la Lega “sta cercando di conquistare terreno nel rapporto con la Chiesa sottraendolo a Berlusconi, per accreditarsi ancora di più come forza fondamentale nella coalizione di centrodestra”.
Dall’altro, “le gerarchie sembrano cercare sponde politiche in grado di sostenere le richieste di sempre (legate a vita, scuola e famiglia) meglio di quanto abbia fatto Berlusconi.
È un cambio di cavallo politico”.
in “Adista” – Notizie n.
61 del 24 luglio 2010 Per interrogarsi in modo concreto e semplice – “popolare, come direbbero appunto i leghisti” – su un fenomeno che inquieta per la sua natura “culturale” oltre che politica ed elettorale, Mosaico di pace, nel numero di luglio 2010, dà ampio spazio ad un dossier dal titolo: “Un moderno tribalismo guerriero.
Federalismo, razzismo e Chiesa cattolica”, a cura di Rosa Siciliano e Renato Sacco.
Il dossier apre con la sollecitazione del vescovo di Alba, mons.
Sebastiano Dho, il quale ha così commentato l’ascesa impetuosa del partito di Umberto Bossi anche in Piemonte: “Tenendo conto della larga adesione anche nelle nostre terre a forze politiche e sociali ispirate a teorie razziste e xenofobe, credo che un serio esame di coscienza s’imponga urgentemente per le comunità cristiane, poiché qui si tratta di veri valori ‘non negoziabili’, la dignità della persona e la vita stessa!”.
Perché il potere ha perso sacralità
Il teologo interviene sulla laicità alle “Parole della politica” Qual è l’esperienza concreta da cui è sorto il concetto di laicità? Io credo che sia la consapevolezza della complessità del rapporto tra il proprio mondo mentale e quello di altri.
Intendo quindi per laicità il metodo che governa il rapporto tra dimensione interiore e dimensione esteriore della vita: la laicità è un metodo che si applica alla relazione tra il foro interiore delle convinzioni ideali e il foro esteriore della convivenza con chi è diverso da noi.
Questa precisazione è essenziale per capire come agire rispetto ai cosiddetti “principi non negoziabili” di cui parla spesso Benedetto XVI.
A mio avviso la non negoziabilità dei principi si dà a livello di foro interiore, nel senso che non si devono tradire i propri ideali, soprattutto quando si agisce in prima persona.
Ma la realtà di un mondo sempre più plurale fa sì che il foro interiore della prima persona singolare non sia mai perfettamente traducibile nel foro esteriore della prima persona plurale.
Perché si possa pronunciare un armonioso noi, ogni singolo io deve modulare la sua musica interiore con quella degli altri.
Solo a questa condizione si avrà una sinfonia e non la cacofonia del conflitto sociale.
Ne viene che a livello di foro esteriore non c’è nulla che non sia negoziabile, perché la negoziazione è l’anima del diritto e della politica nella misura in cui essi sono elaborati all’insegna della democrazia.
Quindi riassumo: nessuna negoziazione a livello interiore dove è in gioco l’anima e l’adesione alla verità; ma concrete negoziazioni a livello di foro esteriore dove è in gioco la relazione armoniosa della convivenza tra uomini sempre più diversi.
Riuscire a mediare queste due dimensioni significa praticare la laicità.
Quanto detto finora però non è sufficiente.
La modernità è stata l’epoca delle distinzioni: la spiritualità dalla religione, la religione dall’etica, l’etica dal diritto, il diritto dalla politica.
Occorreva farlo per fondare su basi razionali la convivenza sociale.
Alla fine però ne è risultata una politica separata dalla spiritualità, dall’etica e ora sempre più anche dal diritto.
Per questo io penso che occorra qualcosa di diverso.
Guardando alla nostra società, a me pare infatti che più laica di così, più priva di sacralità di così, la politica non potrebbe essere.
Separata dalla spiritualità e dall’etica, la politica oggi si ritrova del tutto priva di sacralità, completamente profana, anzi così profana da essere ormai profanata.
Aristotele scriveva che «il vero uomo politico è colui che vuole rendere i cittadini persone dabbene e sottomessi alle leggi» (EN, 135).
Quanti sono i politici così? È stato messo in piedi un meccanismo che esclude quasi automaticamente chi si vorrebbe avvicinare alla politica con questi ideali, una specie di selezione naturale al ribasso.
A mio parere il nostro tempo ha bisogno di un ritorno alla dimensione sacrale della politica.
Non sto certo auspicando il ritorno alle teocrazie, meno che mai collateralismi neoguelfi di sorta e presenze di cardinali a cene di uomini di potere.
So solo che le grandi civiltà del passato non conoscevano la rigida separazione tra Cesare e Dio e l’avrebbero trovata innaturale.
Sono certo che neppure Gesù l’avrebbe praticata se sulla moneta ci fosse stata l’effigie del re Davide e non quella di un re straniero.
E quando Roma perse la sua sacralità e si laicizzò al punto da risultare del tutto profana agli occhi dei cittadini, perse anche la sua forza politica e militare.
Scriveva Hegel due secoli fa: «Ci potrebbe venire l’idea di istituire un paragone con il tempo dell’Impero romano quando il razionale e necessario si rifugiava solo nella forma del diritto e del benessere privato, perché era scomparsa l’unità generale della religione e altrettanto era annullata la vita politica generale, e l’individuo, perplesso, inattivo e sfiduciato, si preoccupava solamente di se stesso…
Come Pilato domandò: “che cos’è la verità?”, così al giorno d’oggi si ricerca il benessere e il godimento privato.
È oggi corrente un punto di vista morale, un agire, opinioni e convinzioni assolutamente particolari, senza veridicità, senza verità oggettiva.
Ha valore il contrario: io riconosco solo ciò che è una mia opinione soggettiva».
Nella stessa prospettiva oggi Eugenio Scalfari parla dei contemporanei come di barbari: «I contemporanei sono i nostri barbari».
Al cospetto di una politica ormai priva di sacralità, io avverto il bisogno di un movimento contrario rispetto alla laicità come separazione: c’è bisogno di reciproca fecondazione tra dimensione spirituale e politica.
Se la politica vuol tornare a essere capace di toccare la mente e il cuore degli uomini (e non solo le loro tasche) deve ricollegarsi organicamente al diritto, all’etica, alla religione, alla spiritualità.
Come debba fare non so perché non sono un politico, ma credo che il vero problema da affrontare non siano le piccole rivendicazioni del neoguelfismo all’italiana.
Queste sono manovre di poco conto, a loro volta segno di decadenza.
Il vero problema è il nichilismo che dilaga nelle anime, il bisogno dell’uomo di sacralità e la politica che non sa più neppure cosa sia la sacralità.
L’anima della nostra civiltà è malata, intendendo con anima della civiltà ciò che tiene unite le persone al di là degli interessi immediati, quel senso ideale per cui il singolo percepisce di essere al cospetto di una realtà più importante di lui nella quale però si identifica e quindi serve con onestà.
Di fronte a questa situazione penso che ogni persona responsabile debba cercare di capire in che modo la propria area di appartenenza possa servire il paese con equità.
E al riguardo mi permetto di ritenere inadeguata l’impostazione della Chiesa cattolica.
Essa infatti pensa i cattolici come interessati solo ad alcuni aspetti della vita quali bioetica, scuole cattoliche, famiglia, e non invece all’insieme della società.
Che le questioni ricordate siano importanti è ovvio, ma esse non possono rappresentare l’unico punto di vista in base al quale giudicare la politica perché il cristiano deve essere fedele al mondo nella sua integralità e non crearsi un mondo a parte.
Dietro l’impostazione del Magistero c’è invece l’idea che i cattolici siano una realtà estranea rispetto al mondo e vi si rapportino solo per trarne più benefici possibili per il loro piccolo mondo particolare.
Questo però è teologicamente sbagliato perché significa trasformare i cattolici in una delle tante lobby del mondo e far perdere sapore al sale: «ma se il sale perde il sapore, a null’altro serve che a essere gettato via» (Mt 5,13).
in “la Repubblica”del 14 luglio 2010