Egoisti e distratti nella grande casa del mondo

In un momento in cui tutto sembra spingerci a concentrare la nostra attenzione sui problemi interni del nostro Paese, vorrei puntare il riflettore sull’orizzonte della mondialità. Questa scelta non è dovuta solo al fatto che la crisi che attraversiamo ha radici globali, connessa com’è ai rapporti d’interdipendenza economica e politica che condizionano la vita del pianeta, ma anche e  soprattutto alla constatazione che il “rinnovamento etico” di cui ha parlato Benedetto XVI riferendosi all’Italia e di cui abbiamo immenso bisogno non potrà realizzarsi senza la consapevole  assunzione delle nostre responsabilità nei confronti della grande casa del mondo e di quanti in essa vivono spesso in condizioni di sub-umanità, per lo più dimenticati da tutti. Vorrei richiamare  tre profili essenziali della rilevanza etica e politica della mondialità: i stili di vita e il loro impatto sull’ambiente; il rilievo dell’Italia nel sistema politico ed economico mondiale; i nostri doveri  di solidarietà verso i più deboli del pianeta.
La riflessione sugli stili di vita merita un’attenzione prioritaria quando si parla di mondialità: la consapevolezza che una maggiore sobrietà nei consumi, un uso più attento delle risorse fondamentali e un’educazione alla responsabilità ecologica siano decisive per il futuro comune, è certamente cresciuta in questi anni. La rete delle comunicazioni e l’impatto psicologico di  disastri ambientali su vasta scala – dal petrolio nell’oceano alle contaminazioni radioattive di Chernobyl e Fukushima – ci hanno reso più vigili nella scelta delle mete su cui puntare in campo  energetico, delle prassi da seguire nell’organizzazione della nostra vita quotidiana e nella percezione della gravità dei ritardi e degli inceppamenti nella filiera dello smaltimento e del riutilizzo  dei rifiuti, che quotidianamente la nostra vita associata produce.
Meno evidente è il dovere di curarsi di tutte queste problematiche non solo egoisticamente per star noi meglio, ma anche per migliorare la casa comune di tutti, a livello locale come a livello planetario. Un’educazione all’ecologia ambientale e umana appare sempre più urgente, come risulta non meno importante una spiritualità ecologica, che attinga al dovere originario di custodire  il giardino affidato dal Creatore alla creatura la maturazione di pratiche virtuose personali e collettive nei riguardi dei consumi, della nutrizione, del rispetto della natura, della promozione della vita e della qualità della vita per ogni essere umano, in tutte le fasi del suo sviluppo.
Non meno alta occorre poi mantenere l’attenzione sul rilievo internazionale del nostro Paese. Va detto con onestà che se l’Italia piange in questo campo, l’Europa non ride: l’Unione europea ha risposto per lo più in ordine sparso, spesso in ritardo e senza slanci, alle emergenze che si sono profilate sulla vasta scena del mondo, incapace – come ha affermato il cardinale Bagnasco nella prolusione al Consiglio permanente dei Vescovi italiani il 26 settembre scorso – «di esprimere una visione comunitaria inclusiva dei doveri propri della reciprocità e della solidarietà». A loro  volta, le risposte del nostro Paese alle situazioni di crisi sono sembrate spesso improvvisate, nell’assenza di una vera sinergia con gli altri Paesi dell’Unione, com’è accaduto davanti all’emergenza dell’immigrazione via mare, o con tentennamenti che hanno portato a esiti discutibili, come si è visto nella drammatica vicenda bellica in Libia, dove uno spietato dittatore, prima osannato – perfino con effetti “teatrali” -dalla nostra classe politica, è stato poi indicato con vertiginosa evoluzione come nemico ingombrante e pericoloso. Occorre inoltre ammettere – come dimostrano alcune copertine di media internazionali o titoli di testate leader nei vari mondi linguistici – che «stili di vita difficilmente compatibili con la dignità delle persone e il decoro delle istituzioni e  della vita pubblica», praticati da alcuni nostri rappresentanti sulla scena internazionale, hanno avuto effetti fortemente negativi: come ha ancora affermato il cardinale Bagnasco, essi non solo «ammorbano l’aria e appesantiscono il cammino comune», ma fanno sì che «l’immagine del Paese all’esterno venga pericolosamente fiaccata”. Quanto avremmo bisogno di autorevolezza morale e politica e di credibilità internazionale! Quanto è urgente individuare persone affidabili che si gettino nella mischia per spirito di servizio e passione civile e non per proprio interesse e  vantaggio!
Ai doveri di solidarietà verso i più deboli del pianeta, infine, dovrebbero richiamarci le gravi emergenze in atto, fra le quali basti segnalare la fame nel Corno d’Africa. Nella sua antica esperienza, la Chiesa dedica in particolare il mese di ottobre a risvegliare l’attenzione e l’impegno per l’azione missionaria, che -proprio in quanto si pone al servizio della buona novella  dell’amore di Dio per tutto l’uomo e per ogni uomo – è spesso anzitutto impegno di promozione umana e di soccorso a chi versa in drammatiche situazioni di bisogno e di non umanità. Nei media, per  lo più, i riflettori vengono puntati sulla gravità delle urgenze solo in alcune fasi e per ragioni contingenti di cronaca o di interesse politico. Perfmo nelle maggiori testate giornalistiche è  difficile riscontrare un’attenzione costante a questi problemi, che funga da stimolo critico e da strumento di coscientizzazione ai doveri della solidarietà. A volte si ha la sensazione di.muoversi in orizzonti privi di colpi d’ala, segnati dall’indifferenza di fronte ai mali di chi ci è geograficamente lontano, e che spesso patisce le conseguenze negative di un ordine economico internazionale di cui al contrario noi beneficiamo. È utopia pensare a un’etica della comunicazione che responsabilizzi ai doveri della solidarietà internazionale, e ci faccia sentire cittadini del “villaggio globale”, tale non solo nella rete delle informazioni e degli interessi, ma anche nell’attenzione ai bisogni dei più deboli e agli interventi in loro favore? È ambizione vana sognare un Paese dove la  mondialità sia avvertita diffusamente come interrogativo sui nostri stili di vita e stimolo a una condivisione che raggiunga i più lontani bisogni della famiglia umana nell’unica grande casa del  mondo? Chi può farlo s’impegni a restituire al Paese una simile attenzione e contribuisca a mettere al servizio di tutti nel villaggio globale le potenzialità della nostra storia, della cultura e  dell’arte italiana, del patrimonio spirituale da cui veniamo, che ci caratterizza ben più profondamente degli squallidi comportamenti che hanno occupato le prime pagine lei giornali in queste settimane.

Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto

in “Il sole 24 Ore” del 2 ottobre 2011

L’ecumenismo secondo Benedetto XVI

Molte erano le aspettative dalla visita del papa in Germania sul capitolo dell’ecumenismo. In un luogo simbolico, il convento degli agostiniani di Erfurt, dove il giovane Martin Lutero fu monaco e
prete della Chiesa cattolica, e davanti alle autorità della potente chiesa evangelica tedesca, Benedetto XVI ha ridefinito a suo modo la posta in gioco del dialogo ecumenico.
Si possono leggere le grandi linee della sua posizione, che diverge in parte da quella del suopredecessore, nell’attacco inatteso contro altri cristiani.
Evocando «una forma nuova di cristianesimo, che si diffonde con immenso dinamismo missionario» – nel quale si possono riconoscere le correnti evangeliche pentecostali -, il papa opera una requisitoria feroce.
Questa corrente è tacciata di «cristianesimo di debole densità istituzionale, con poca consistenza razionale e ancor meno consistenza dogmatica e anche con poca stabilità». Ci metterebbe, afferma il papa, «nuovamente di fronte alla questione di sapere ciò che resta sempre valido, e ciò che può e deve essere cambiato».


Criteri


Dietro l’esigenza istituzionale esposta da Benedetto XVI appare l’imperativo di situarsi in una storia e, soprattutto, in una tradizione, cosa che di solito manca a comunità che spuntano come funghi attorno al carisma di un solo uomo e che rivendicano la loro indipendenza.
Non si può qui dimenticare il testo Dominus Jesus del 2001, nel quale il cardinal Ratzinger considerava la successione apostolica (la trasmissione ininterrotta da vescovi a vescovi) come una condizione necessaria per essere una vera chiesa.
Anche se i luterani rispondono solo in parte a questo esigente criterio, il papa, a Erfurt, ha preferito non tornare su quel testo, accolto molto male all’epoca in ambiente protestante.
La seconda critica – la debolezza della consistenza razionale – fa eco ad una affermazione abituale di Benedetto XVI che non cessa di martellare sul fatto che la fede cristiana deve essere edificata sulla ragione, la quale conduce naturalmente a Cristo e a Dio. La forte presenza dell’emozione nel rito, con pratiche nelle quali il corpo sembra prevalere sullo spirito, è in questa prospettiva molto sospetta al vescovo di Roma.
In terzo luogo i pentecostali mancherebbero di struttura dogmatica. È incontestabile, ma è anche la ragione del loro successo. Il rilievo si applica ugualmente a tutti coloro che vorrebbero  liberarsi da regole giudicate secondarie o troppo repressive nelle attuali società occidentali.
Vissute timidamente nel cattolicesimo o esibite apertamente presso i riformati più liberali, le velleità moderniste dei gruppi più attenti ai valori cristiani che non alle esigenze ecclesiali, sono qui prese di mira. Al di fuori di uno stretto inquadramento non c’è salvezza, dice il papa.


Instabilità


L’ultimo rilievo indirizzato alle correnti cristiane pentecostali riguarda la loro instabilità. Nella tradizione protestante, qualunque divergenza può essere pretesto per un’uscita e per la  reazione di una nuova chiesa.
Nel contesto cattolico, l’insistenza del papa su questo punto è un segnale di fronte ai progetti dichiarati di indipendenza, in Austria e altrove, e di fronte ai promotori di evoluzioni interne.
Ma il richiamo alla stabilità mette anche in discussione i percorsi di avvicinamento e di piccoli passi che hanno lungamente ritmato il cammino ecumenico. Così, Benedetto XVI qualifica il “dono ecumenico dell’ospite”, dietro il quale si può vedere l’ospitalità eucaristica (accoglienza alla comunione di fedeli luterano-riformati) come «cattiva comprensione politica della fede e dell’ecumenismo».
Di fronte «all’assenza di Dio nelle nostre società (che) si fa più pesante», il «compito ecumenico centrale» consisterebbe ormai nel ripensare la fede, non edulcorandola, ma vivendola «integralmente nel nostro oggi».
Ciò che seguirà a questo discorso fondatore ci dirà se i nuovi binari ecumenici, nei quali gli ortodossi si immetteranno senza difficoltà, incontreranno il favore di tutta la galassia dei fedeli.


in “www.temoignagechretien.fr” del 28 settembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

 

Il Vangelo fuoco che arde nonostante la cenere della storia

“È possibile vivere il Vangelo?”.

 

Chi come me ha una certa età, avendo ormai attraversato le varie stagioni della vita ed essendo approdato all’ultima, riconosce che questa domanda ha ricevuto e continua a ricevere risposte diverse.
C’è stata una stagione, che per la mia generazione è coincisa con la giovinezza, in cui le attese, le speranze, le forti convinzioni tipiche del tempo in cui i giovani si affacciano alla vita e vi entrano, erano convergenti con le speranze della chiesa e del mondo. Erano gli anni del disgelo tra l’occidente e l’oriente comunista, gli anni in cui si riprendeva un dialogo interrotto da tempo, e la primavera sembrava essere la metafora più appropriata per definire quell’epoca in cui molte realtà sembravano germogliare e alcune sbocciare. Questo avveniva anche nella chiesa: un papa che appariva innanzitutto come un cristiano; un concilio da lui voluto in cui ci si ascoltava, ci si confrontava anche aspramente ma con la passione della fedeltà al Signore; un dibattito tra singoli cristiani e tra comunità cristiane che avvertivano nel loro quotidiano il bisogno di mutamento, di rinnovamento, potremmo anche dire di conversione. Si respirava nell’aria una novità che non  era l’arrivo di una “moda”, ma era un ritorno al Vangelo, alla forma vitae della chiesa primitiva.


Per questo si parlava, con molto timore, anche di aggiornamento, qualcuno ardiva persino parlare di riforma della vita della chiesa. Per i cristiani con una certa consapevolezza era il Vangelo che
diventava una presenza dinamica, un riferimento, un principio che veniva invocato come un’urgenza, una realtà da viversi concretamente e, oserei dire, visibilmente: questo non per “un’ostensione davanti agli uomini” ma per verificare che il Vangelo ispirava veramente la vita di molti cristiani ed era assunto dalla chiesa come presenza egemone. In questo cammino si  coniavano parole ed espressioni nuove: ritorno alle fonti, riscoperta della chiesa dei padri, ispirazione alla comunità apostolica, autorevolezza della chiesa indivisa…


Qualcuno oggi, analizzando quella stagione, conclude che nella chiesa si era instaurato un mito – il mito di un’età dell’oro, il mito delle origini – e che questo era dovuto soprattutto a Erasmo da Rotterdam, il quale agli inizi del XVI secolo plasmò un certo vocabolario e una certa filosofia della riforma ecclesiale. In verità chi conosce più in profondità la storia della chiesa sa che nella vicenda stessa del cristianesimo è insita questa nostalgia degli inizi. Anzi, potremmo dire che già nell’Antico Testamento i profeti, a partire da Osea, ricordavano al popolo del Signore il bisogno di ritornare ai tempi del fidanzamento, ai tempi del deserto, contrassegnati dalla fedeltà e dall’amore (cf. Os 2,16- 25): quell’amore che sa cantare la convinzione forte e la grande speranza in cui sembra non apparire la stanchezza e non esserci posto per la frustrazione, la delusione, il misurare la propria debolezza.


Quando, di fronte alla chiesa costantiniana sorta nel IV secolo, avvenne la protesta del monachesimo e la sua fuga nel deserto, i padri monastici chiesero di tornare alla koinonía, alla comunità descritta da Luca nei cosiddetti “sommari” degli Atti degli apostoli (cf. At 2,42-47; 4,32- 35). Ritorno alle fonti, quindi. In seguito ogni tradizione attingerà sempre a quella forma della chiesa primitiva: questo avverrà per i vari tentativi di riforma, da quello di Cluny a quello di Bernardo di Clairvaux, ai movimenti mendicanti e anche a quelli ereticali, tutti tesi a riprendere la prassi di chi “nudo segue il Cristo nudo”.


Mito della riforma? O non piuttosto capacità del Vangelo di essere un fuoco che continua a covare sotto la cenere, che resta brace incandescente la quale può sempre dare origine a un roveto  ardente?
“Il Vangelo è dýnamis, potenza di Dio” (Rm 1,16), dice l’apostolo Paolo! Può essere smentito, fatto tacere, reso inefficace, può essere addirittura contraddetto e pervertito, e allora sembra restare inerte sotto la cenere. Ma poi riprende ad ardere, perché è un fuoco che subito rinasce non appena un cristiano getta sulla cenere qualche sterpo del suo vivere, alla ricerca della luce e della presenza divina. Non si può far tacere per sempre il Vangelo: per qualche tempo sì, e la storia della chiesa lo testimonia; ma poi basta che un uomo o una donna, alla ricerca di luce vera e di fuoco che consumi, abbia il coraggio di scostare un po’ di cenere e di gettarvi sopra una bracciata di legna secca, che subito il fuoco e la luce si fanno nuovamente vedere.


Ormai vecchio, vicino alla morte, un grande spirituale italiano confidò a me e a un mio fratello: “Me ne vado dopo aver combattuto per riformare la chiesa, ma ora sono convinto che la chiesa sia irriformabile”. Quelle parole mi stupirono, mi fecero male, ma non nego che ora a volte sono tentato di condividerle. Siamo capaci di dare alla chiesa un volto nuovo, più fedele e conforme al volto  di Cristo, oppure questa è solo una speranza, e la sposa di Cristo sarà tale solo quando verrà lo Sposo? Mi ostino a credere che alla brace del Vangelo basti il soffio dello Spirito per riprendere adardere, riscaldando i nostri cuori e illuminando l’umanità intera. Sì, il Vangelo si può ancora vivere in ogni stagione.


in “Jesus” n. 9 del settembre 2011

Chiesa di fede e di governo

Chiesa e Stato (o società): quante analisi e discussioni si sono avviluppate e ingarbugliate attorno a questo binomio. E i colori dei discorsi il più delle volte si sono fatti accesi e le tonalità squillanti.

Tanto per esemplificare gli estremi cromatici: «La Chiesa è lo spietato cuore dello Stato», scriveva Pasolini in un poemetto della Religione del mio tempo (1961), mentre Martin Luther King, nella Forza di amare (1968), ribatteva: «La Chiesa non è la padrona o la serva dello Stato, bensì la sua coscienza». C’è, poi, un altro equivoco da schiodare nell’opinione comune, ossia l’equazione d’identità Chiesa-Clero, con esiti spesso fieramente polemici, come già accadeva a Machiavelli che, intingendo la penna nel curaro, scriveva queste righe nei suoi Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: «Abbiamo con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obbligo: di essere diventati senza religione e cattivi»!

Ma che cos’è effettivamente la Chiesa, questa realtà così celebrata e contestata, considerata anche il nodo più aggrovigliato che l’ecumenismo tenta vanamente di dipanare? Se dovessimo cercare la risposta nella bibliografia anche solo post-conciliare, ci troveremmo immersi subito in una foresta dai mille sentieri, nella quale si muovono a fatica già i teologi e dalla quale fedeli e “laici” uscirebbero ben presto spossati. Certo, si potrebbe consegnare loro quella sorta di mappa chiara e ben definita che è il documento del Concilio Vaticano II sulla Chiesa, denominato dalle prime parole Lumen gentium, ma forse anche in quel caso sarebbe necessaria un’esegesi di quel testo così denso e intenso, a causa della sua funzione “ufficiale”. Si potrebbe rimandare a quel Dizionario di Ecclesiologia, edito lo scorso anno da Città Nuova e da noi presentato proprio in queste pagine, ma si cadrebbe nel rischio della dispersione. Non sono neppure più agevoli i percorsi suggeriti dai manuali o trattati teologici, grossi tomi la cui lettura estenua già gli specialisti.

Vorremmo indicare una via un po’ più pianeggiante e breve. L’ha abbozzata in un volume ridotto ma succoso uno dei nostri migliori teologi contemporanei, Severino Dianich, docente emerito della facoltà di Teologia di Firenze, che ha sulle spalle una personale panoplia bibliografica poderosa, ma che qui ama indossare un’attrezzatura leggera quasi da viaggiatore. Sì, perché quello che egli propone è un viaggio, anzi, un’«esperienza» dal momento che presentare un tema della fede «non è mai un’operazione asettica, da svolgersi come si fosse col camice bianco in laboratorio». Alla radice della Chiesa c’è un dato originario. È «l’atto della comunicazione della fede da un credente a un’altra persona che l’accoglie e la fa sua», creando così una profonda comunione interpersonale; questo evento è «frutto di un disegno divino e della grazia di Dio che opera nella storia per attuarlo». In pratica, la Chiesa si rivela come il punto di incrocio fra l’orizzontalità dell’incontro tra  persone nella fede e la verticalità del rivelarsi di Dio nella grazia.
Si comprende, quindi, che la definizione della Chiesa come società è imperfetta: essa, certo, proprio perché comunità di uomini e donne inserite nelle coordinate spazio-temporali, insiste ed esiste nella storia e ha una dimensione “carnale”; ma al tempo stesso nel suo cuore intimo custodisce una realtà trascendente fatta appunto di grazia e di fede, senza la quale si sterilizzerebbe in una mera istituzione. La mappa ecclesiale che Dianich delinea è, perciò, ritmata costantemente su questi due livelli. Da un lato, c’è l’evento germinale che è dono divino e annuncio di fede. Esso vede in  azione la gratuità e l’efficacia superiore del sacramento, che genera continuità, indefettibilità, verità. D’altro lato, questo evento si attua nel mondo, ha per attori non solo Dio, ma anche persone,  apostoli, ministri, testimoni. La Chiesa, perciò, è dotata di una sua visibilità che si esprime nelle strutture e si espande nell’universalità (la «cattolicità»).

È su questo secondo versante che si colloca appunto il nesso Chiesa-politica da cui siamo partiti. La stessa «incarnazione», anzi, il cuore del messaggio evangelico e del Regno di Dio, fondato sulla giustizia, sulla libertà, sulla dignità umana, sulla salvezza, non possono non avere ridondanze sociali. Se Dio e il suo Cristo sono il principio dell’umanità nella sua nobiltà nativa, «nessun uomo, nessuna forza nazionale o economica – scrive Dianich –, nessun partito e nessuna ideologia possono pretendere di dominare l’uomo nella sua totalità, rifiutando di essere giudicati dalla coscienza  di ciascuno». Questa sorgente primordiale della dignità umana nella sua libertà, nella vita, nella moralità, nell’amore, nel bene comune (è il «Date a Dio quel che è di Dio», del celebre asserto di Gesù) non esclude, tuttavia, che esista uno spazio di autonomia proprio della politica e dell’economia nella gestione storica dell’umanità: è appunto il «Date a Cesare quel che è di Cesare» che Cristo  imboleggia nella moneta con l’«immagine» di Cesare, laddove però non si deve dimenticare che «immagine» di Dio è l’uomo nella sua profonda identità trascendente, come proclama la Scrittura (Genesi 1, 27).
È, però, altrettanto ovvio che questa evidenza di principio si fa più complessa, si appesantisce e si offusca quando deve mettersi concretamente in azione nel groviglio delle vicende storiche. E qui  si apre un altro più delicato capitolo, al quale abbiamo già fatto riferimento in passato, quello della dottrina sociale della Chiesa, e a livello più generale, la corretta declinazione della categoria «laicità», indispensabile nella visione cristiana che non è teocratica, ma neppure totalmente secolaristica per i principi sopra enunciati. Fermiamoci qui, rimandando al testo di Dianich e alla bibliografia ragionata che egli propone in finale. A chi non è digiuno di studi teologici e volesse ulteriormente procedere nell’orizzonte specifico dell’ecclesiologia, suggeriamo la recente  raccolta di scritti del cardinale Walter Kasper, un importante teologo che è stato a lungo a capo del dicastero vaticano per il dialogo ecumenico, dopo essere stato vescovo della rilevante diocesi di  Stoccarda.

Anche nelle sue pagine, che sono di approfondimento, si vedrà emergere la categoria ecclesiale fondante della comunione e del dialogo.

Severino Dianich, La Chiesa mistero di comunione, Marietti 1820, Genova – Milano, pagg. 246, € 24,00
Si vedano anche:
Walter Kasper, La Chiesa di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia, pagg. 488, € 43,00
Thomas Söding, Gesù e la Chiesa, Queriniana, Brescia, pagg. 362, € 31,00

 

 

 

 

 

in “Il Sole 24 Ore” del 28 agosto 2011

Quei giovani dal Papa che sanno scuotere le nostre paure e le fughe nel privato

Un mare di giovani provenienti da tutto il mondo (si calcola che ai momenti di incontro con Papa Benedetto XVI siano stati oltre un milione e mezzo, di cui più di centomila gli italiani).

Una folla gioiosa e festante per le vie di Madrid. Una stupenda tavolozza di colori, di bandiere, di magliette, di volti, un coro di voci di ogni genere, un fiume in piena di canti, di parole, di risate. E poi, quegli stessi giovani raccolti nel silenzio prolungato dei momenti di adorazione, attenti e riflessivi nei tempi delle catechesi, spontanei e generosi, stanchi e felici, pronti sempre a  ricominciare la giornata con entusiasmo. E noi, vescovi e sacerdoti, educatori e catechisti, insieme con loro, a condividere cibo ed esperienze, testimonianza e fatica, fede e gioia profonde, sin dai giorni dei cosiddetti “gemellaggi” nelle principali città della Spagna. Tutto questo e molto di più è stata la XXVI Giornata Mondiale della Gioventù (GMG), tenutasi nella capitale spagnola in questo agosto infuocato. Alcuni media hanno dato evidenza a qualche chiassosa contestazione di “laicisti” radicali (certamente non “laici”, se con questo termine si vuole intendere la  posizione di chi rispetta tutte le posizioni e le identità): la violenza verbale (e talvolta non solo) di qualche scalmanato ha trovato la sua smentita migliore nella risposta del tutto non violenta e serena dei giovani, che hanno semplicemente continuato a cantare, testimoniando gioia e amicizia, simpatia e bellezza della loro scelta di fede.


Stando con questi ragazzi, parlando loro con fiducia e trasparenza, ascoltandoli e vedendoli nei tanti momenti di incontro, non ho potuto non chiedermi quale messaggio venga da loro a tutti noi e alla nostra Europa in crisi economica e morale. Provo a dare qualche risposta, certo però  che ciò che si è vissuto in questi giorni a Madrid ha un potenziale di vita e di speranza ben più grande di quanto immediatamente si possa rilevare. In primo luogo questi ragazzi hanno saputo testimoniare che libertà e impegno non solo non si oppongono, ma sono l’una il volto dell’altro: se si pensa ai sacrifici che hanno affrontato (dormendo per giorni in sacco a pelo nelle condizioni anche più proibitive, e mangiando in una maniera che definire sobria è già molto…) e alla gioia con cui li hanno vissuti, ci si rende conto che nessuno avrebbe potuto costringerli a tanto se non ci fosse stata in ciascuno una scelta libera e consapevole di volerci essere. Qui sta la bellezza dei cammini di preparazione che hanno portato questi ragazzi a vivere la GMG, ma qui emerge anche la straordinaria capacità dei nostri giovani di saper fare scelte consapevoli e responsabili di impegno e di dedizione. Vedendoli, mi è venuta tante volte in mente la frase fulminante di Paul Ricoeur a proposito del rapporto fra libertà e necessità: “C’est l’amour qui oblige”. Solo per amore si fa liberamente quello che nessun obbligo esteriore e nessun oro del mondo potrebbe portarti a fare.


Una seconda impressione che ho ricevuto da questi giovani è quella della loro trasparenza, della lealtà e della limpidezza dei loro occhi, dei loro sguardi, del loro cuore. Il loro stare insieme in un clima di amicizia semplice e festoso, dimostra come tanti, veramente tanti giovani di oggi siano molto migliori di come qualcuno vorrebbe dipingerli nel loro insieme. Di fronte allo scenario della politica non solo nostrana, che  suscita tante volte disaffezione e perfino disgusto, soprattutto quando si sente dai responsabili della cosa pubblica l’appello alla solidarietà e alla rinuncia senza vederne le conseguenze nella vita e nello stile propri di chi queste rinunce le chiede, questi ragazzi sono una sfida vivente a credere che un mondo diverso e migliore sia non solo possibile, ma necessario e urgente. Nel volto e nel cuore di questi ragazzi la speranza torna a essere l’anticipazione militante dell’avvenire, la passione per ciò che è possibile e bello per tutti, l’inizio di quel mondo nuovo che tira nel presente degli uomini qualcosa della bellezza del futuro promesso di Dio.


Infine, è la radice profonda del comportamento dei giovani a Madrid che mi sembra debba far pensare tutti: essi ci sono andati per ascoltare parole forti, tutt’altro che accomodanti, come quelle che Benedetto XVI sa dire con la sua intelligenza e la fede del suo cuore. Il loro ascolto, il loro entusiasmo li ha accomunati al di là delle differenze e perfino delle distanze di lingue, di culture, di condizioni sociali e politiche, dimostrazione ineccepibile di come il Vangelo sia ancora oggi e forse ancor più che in altri momenti della storia buona novella per amare, sperare e dare la vita per gli altri. E il Vangelo è sfida e dono a vivere quell’esodo da sé senza ritorno in cui consiste propriamente l’amore: un amore certo impossibile alle sole capacità umane, ma che diventa possibile con la grazia di Dio. Questo possibile, impossibile amore hanno incontrato e annunciato i giovani convenuti a Madrid: l’alternativa al vuoto di valori, all’assenza di senso, all’evasione egoistica e inconsistente, esiste, ed è l’impegno di amore al servizio del bene comune, sostenuto dalla fede e dall’amore che il Dio crocifisso ha offerto alla storia di tutti.

Mi chiedo se da questi giovani non venga a tutti noi una proposta capace di scuotere le nostre paure, i nostri calcoli mediocri, le nostre fughe nel privato. La proposta di un Dio più che mai giovane, attuale e necessario come giovane e necessario è per tutti l’amore, per vivere e dare senso e bellezza alla vita.

in “Il Sole 24 Ore” del 21 agosto 2011


Le parole del Papa



I testi integrali dei discorsi e delle omelie di Benedetto XVI alla Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid, nel sito del Vaticano:   > JMJ 2011 Madrid


GMG di Madrid online!
Racconta live la tua esperienza



iGMG è un’applicazione creata in occasione della Giornata Mondiale delle Gioventù 2011 di Madrid. Ricca di contenuti audio e video sarà la tua compagna di viaggio in questo evento popolato da giovani di tutto il mondo. All’interno di questa applicazione troverai un diario giornaliero che ti permetterà di appuntare, giorno per giorno, i luoghi visitati, le esperienze vissute, una piccola riflessione; inoltre potrai aggiungere gli amici conosciuti, scattare foto o registrare dei video e tenerli “inseriti” nella giornata in modo che questi momenti diventino ricordi indelebili della tua vita. Sarà possibile anche condividere tutto ciò sulla tua bacheca di Facebook.

Guarda l’articolo – 6/07/2011

La prossima GMG da Madir a Rio de Janeiro



Da Madrid il cuore guarda già a Rio de Janeiro, dove si svolgerà la prossima Giornata Mondiale della Gioventù, dal 23 al 28 luglio 2013.
Nell’udienza generale di mercoledì 24 agosto, il Papa ne ha presentato anche il tema, tolto dal Vangelo: “Andate e fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19).
Con ancora negli occhi e nel cuore la “formidabile esperienza di fraternità e di incontro con il Signore, di condivisione e di crescita nella fede” vissuta tra i circa due milioni di giovani di tutto il mondo che hanno partecipato alla Gmg di Madrid, il Papa ha voluto immediatamente avviare la preparazione del prossimo appuntamentio che avrà una tappa significativa nella prossima domenica delle Palme, quando la Gmg sarà celebrata a livello diocesano attorno all’espressione paolina “Siate sempre lieti nel Signore” (Fil 4,4).
Ripercorrendo i momenti delle giornate di Madrid – “un grande dono” – Benedetto XVI ha espresso le emozioni suscitate dall’entusiasmo con il quale i giovani e la Spagna lo hanno accolto e accompagnato fino alla celebrazione conclusiva, avvenuta domenica scorsa, 21 agosto.
L’impressione più viva che il Papa ha detto di conservare “con gioia nel cuore” è quella che hanno saputo suscitare i circa due milioni di giovani presenti, con la loro disponibilità a portare nel mondo “la speranza che nasce dalla fede”.

Dopo Madrid.

Come Benedetto XVI ha innovato le GMG


Sono almeno tre le novità che con questo papa caratterizzano le Giornate Mondiali della Gioventù:

gli spazi di silenzio, l’età giovanissima, la passione di testimoniare la fede nel mondo.Dopo ogni suo viaggio fuori d’Italia, Benedetto XVI ama tracciarne un bilancio nell’udienza generale del mercoledì successivo.

Fece così dopo la Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia, nell’agosto del 2005:

> Riflessione sul pellegrinaggio a Colonia

Non lo fece invece tre anni dopo, di ritorno da Sydney, perché era luglio e in questo mese le udienze generali sono sospese. Ma il papa commentò più tardi quella sua trasferta australiana nel discorso che tenne alla curia romana per gli auguri di Natale del 2008, riprodotto in questo recente servizio di www.chiesa:

> A Madrid risplende una stella

Questa volta, di ritorno da Madrid, ecco la riflessione che mercoledì 24 agosto Benedetto XVI ha dedicato alla terza Giornata Mondiale della Gioventù del suo pontificato:

> “Oggi vorrei riandare brevemente con il pensiero…”

Da questa e dalle sue precedenti riflessioni, è evidente che Benedetto XVI vede le Giornate Mondiali della Gioventù come un momento saliente della sua missione di successore di Pietro.

A una semplice osservazione esterna, questi ultimi raduni mondiali manifestano almeno tre caratteri distintivi e nuovi, che a Madrid sono apparsi con particolare visibilità.

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Il primo è il silenzio. Un silenzio prolungato, intensissimo, che cala nei momenti chiave, in una marea di giovani che fino a subito prima esplodevano di gioia festante.

La Via Crucis è uno di questi momenti. Un altro, ancor più impressionante, è quello dell’adorazione dell’ostia santa durante la veglia notturna. Un terzo è stato quello della comunione durante la messa conclusiva.

L’adorazione silenziosa dell’ostia santa è un’innovazione introdotta nelle Giornate Mondiali della Gioventù da Benedetto XVI. Il papa si inginocchia e con lui si inginocchiano sulla nuda terra centinaia di migliaia di giovani. Tutti protesi non al papa ma a quel “nostro pane quotidiano” che è Gesù.

Il violento scroscio temporalesco che a Madrid ha preceduto l’adorazione eucaristica, creando notevole scompiglio, ha reso ancor più impressionante l’irrompere di tale silenzio. E altrettanto è accaduto la mattina dopo, nella messa. L’inaspettata cancellazione della distribuzione della comunione – per non chiarite ragioni di sicurezza – non ha prodotto disordine e distrazione nella distesa sterminata dei giovani ma, al contrario, un silenzio di compostezza e intensità sorprendenti, una “comunione spirituale” di massa di cui non si ricordano precedenti.

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Un secondo carattere distintivo di quest’ultima Giornata Mondiale della Gioventù è l’età media molto bassa dei convenuti, 22 anni.

Questo significa che molti di essi vi hanno preso parte per la prima volta. Il loro papa è Benedetto XVI, non Giovanni Paolo II, che hanno conosciuto solo da bambini. Essi sono parte di una generazione di giovani e giovanissimi molto esposta a una cultura secolarizzata. Ma sono nello stesso tempo il segnale che le domande su Dio e i destini ultimi sono vive e presenti anche in questa generazione. E ciò che muove questi giovani sono proprio queste domande, alle quali un papa come Benedetto XVI offre risposte semplici eppure potentemente impegnative e attrattive.

I veterani delle Giornate Mondiali della Gioventù c’erano, a Madrid. Ma soprattutto tra le decine di migliaia di volontari che si sono prestati per l’organizzazione. O tra i numerosi sacerdoti e religiose che hanno accompagnato i giovani, e le cui vocazioni sono sbocciate proprio in precedenti Giornate Mondiali della Gioventù. È ormai assodato che questi appuntamenti sono un vivaio per le future leadership delle comunità cattoliche nel mondo.

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Un terzo carattere distintivo è la proiezione “ad extra” di questi giovani. A loro non interessano affatto le battaglie interne alla Chiesa per un suo ammodernamento al passo con i tempi. Sono lontani anni luce dal “cahier de doléances” di certi loro fratelli maggiori: per i preti sposati, per le donne prete, per la comunione ai divorziati risposati, per l’elezione popolare dei vescovi, per la democrazia nella Chiesa, eccetera eccetera.

Per loro, tutto questo è irrilevante. A loro basta essere cattolici come papa Benedetto fa vedere e capire. Senza diversivi, senza sconti. Se alto è il prezzo con il quale siamo stati salvati, il sangue di Cristo, alta dev’essere anche l’offerta di vita dei veri cristiani.

Non è la riorganizzazione interna della Chiesa, ma la passione di testimoniare la fede nel mondo a muovere questi giovani. Il papa glielo stava per dire con queste parole, nel discorso interrotto dal temporale:

“Cari amici, non abbiate paura del mondo, né del futuro, né della vostra debolezza. Il Signore vi ha concesso di vivere in questo momento della storia, perché grazie alla vostra fede continui a risuonare il suo nome in tutta la terra”.

Il vaticanista americano John L. Allen ha definito i giovani convenuti a Madrid “Evangelical Catholics”:

> Big Picture at World Youth Day: ‘It’s the Evangelicals, stupid!’

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La nota di Catholic News Service a proposito della “comunione spirituale” durante la messa conclusiva:

> ‘Spiritual Communion’: Youths learn a traditional concept the hard way

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Su un’altra innovazione introdotta da Benedetto XVI nell’ultima Giornata Mondiale della Gioventù:

> Papa Benedetto confessore. L’esordio a Madrid

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di Sandro Magister


Altri contributi sulla GMG:

26 agosto 2011

“Un ebreo, Benjamin, due musulmane, Farah e Dieynaba, degli scout col fazzolettone, dei membri del Movimento eucaristico dei giovani, dei fan di Taizé, degli accompagnatori di giovani nella loro diocesi, una persona convertita da poche settimane… I giovani del gruppo Coexister hanno passato la settimana a Madrid. Alla GMG, hanno fatto molti incontri che hanno portato a grandi dibattiti: con i giovani cristiani del mondo intero, ma anche tra loro”
“È molto difficile esprimere una valutazione della GMG da poco terminata a Madrid in questo mese d’agosto 2011, appena scesi dal pullman di ritorno da Madrid… desideravo sostenere e accompagnare i giovani dell’associazione Coexister che avevano deciso di parteciparvi insieme, cattolici, musulmani ed ebrei”

24 agosto 2011

L’arcivescovo di Madrid: «Il Papa si è comportato come un padre, ha voluto incontrare tutti. Abbiamo sperimentato l’espressione concreta della comunione». Yago de la Cierva: nelle difficoltà i ragazzi sono stati un esempio di civiltà.

Annuncio vocazionale che vince la mediocrità di Antonello Mura

– Madrid rilancia l’evangelizzazione

– E anche l’economia sorride

22 agosto 2011

“La massa di ragazzi convenuta dai cinque continenti e da ben 193 Paesi, nonostante prima l’afa, poi la tempesta, quindi la mancanza d’acqua e poi una notte quasi insonne, hanno accolto con gioia e passione ancora ieri mattina Benedetto XVI nell’immenso campo attorno alla base aerea… Per molti osservatori il Papa è uscito dalla Spagna non solo con un successo rafforzato di immagine, ma anche con un risultato politico concreto”
“«Se Dio è buono, perché mi ha caricato di così tanto dolore», chiede il giovane cattolico Pablo, dopo aver visto due milioni di suoi coetanei, cantare e pregare per eccesso di gioia”

21 agosto 2011

Dal Rapporto del Censis emerge un volto dei giovani italiani di oggi ben diverso: “non hanno alcuna fiducia nella lotta collettiva per cambiare il mondo e dunque preferiscono adattarsi.”
“Il mondo va a rotoli, l’Europa barcolla, lo spettro del collasso dell’economia aleggia nel Vecchio Continente, il futuro è incerto soprattutto per le giovani generazioni, ma nell’ultima settimana Madrid è stata pacificamente invasa da un pezzo di umanità che non sembra segnata dalla paura e dal pessimismo”

20 agosto 2011

“Tra questi Antonio, pugliese che studia a Roma, e che tutti i venerdì sera distribuisce la cena alla persone che vivono per strada a Porta Pia. E Irene, al terzo anno di liceo, che a Novara si occupa del catechismo ai bambini rom. E Lena, che ad Anversa tutti i sabati fa un doposcuola per bambini di diverse nazionalità per favorire l’integrazione. Il Papa li ha guardati e benedetti tutti.”
“…Poi però parli con loro (senza microfono) e scopri che le preoccupazioni ci sono, e ci sono anche le sofferenze; c’è a volte la malattia, c’è il senso di precarietà causato dalla mancanza di lavoro. Ma non c’è angoscia. C’è, al contrario, una profonda fiducia nell’uomo e nelle sue risorse, perché tutti vivono una fede che non è fondata su una teoria o su una filosofia. Dicono di aver fatto l’incontro che ha cambiato la loro vita.”
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19 agosto 2011

Benedetto XVI e la verità. “E’ nel dialogo, è nell’incontro con l’alterità che ci si accosta alla verità. Lì imparo a non vedere me stesso e le mie idee come il tutto, come un assoluto. Senza questo atteggiamento, la religione diventa ideologia. Un atteggiamento che, se applicato fino in fondo, avrebbe secondo me conseguenze di vasta portata nella Chiesa cattolica.”
“La Giornata mondiale umanitaria, celebrata oggi, rappresenta un’opportunità per esprimere il nostro apprezzamento e gratitudine per le donne e gli uomini che lavorano in condizioni difficili e, talvolta, pericolose e che dedicano il loro lavoro e le loro vite al servizio dell’umanità”
“Chiede loro [ai giovani] di non cedere «agli impulsi ciechi ed egoisti, alle proposte che lusingano, ma che… lasciano il vuoto»… Nella terra del laico Zapatero mette in guardia da coloro che… si arrogano il diritto di decidere ciò che è la verità, il bene e il male, ciò che giusto o ingiusto, sino a chi è degno di vivere e chi no… la polemica del Papa non è diretta. Non spinge ad uno scontro ideologico con la cultura laica. Rivendica il contributo positivo dei valori cristiani”
“resta particolarmente importante chiarire cosa s´intenda qui con fatto religioso. Perché alcuni dei ragazzi che partecipano alla Giornata non sono credenti; come non tutti coloro che rompono le vetrine sono criminali o tutti coloro che gridano libertà sono democratici… in definitiva, ad attirare tanti giovani a radunarsi è unicamente la razionalità del sacro, un desiderio di ascoltare la verità e di far parlare la coscienza”
“Guardando i volti dei cinquemila autoconvocati dei centri sociali, dei partiti comunista e repubblicano, delle associazioni laiche come anche dei cristiani di base e di altre associazioni cattoliche fermamente contrarie all’opulenza del cerimoniale approntato, e confrontandoli con quelli dei gruppi di pellegrini, fedeli e scout raccolti per festeggiare Benedetto XVI si ha l’impressione di guardare le stesse persone, due facce della stessa medaglia.”
” non è fatta di “bambini papalini” la gioventù che arriva alle Giornate. È’ uno spaccato di carne viva di una generazione (o di una fascia di generazione), che cerca solidarietà, fraternità, autenticità di valori e il difficile dialogo con quel soggetto misterioso chiamato Dio” Ma “Nessuno vuole mai ascoltarli (i giovani) su come loro vorrebbero vedere la Chiesa nel terzo millennio. Vescovi, cardinali e papi li considerano come persone da “orientare”.

18 agosto 2011

“La sera di mercoledì 17 agosto erano parecchie migliaia i partecipanti alla marcia organizzata da più di un centinaio di associazioni di laici, atei e cristiani progressisti, appoggiati dagli “indignati” per denunciare il costo delle Giornate Mondiali della Gioventù (GMG), che si svolgono a Madrid a partire dal 15 agosto.””
“Buenos catolicos y catolicas usan preservativos” “spiace vedere giovani cattolici (quelli con la maglietta rossa e quelli con lo zainetto) non entrare in dialogo e restare separati per una questione di idee. In mezzo ai tanti incontri e alle tante catechesi che si tengono in questi giorni, forse non sarebbe stato male organizzare anche una tavola rotonda…” (ndr.: finalmente un giornalista che fa il suo mestiere: informa e riflette)
“La “profezia” di questa Gmg2011, celebrata solo otto mesi dopo la conclusione di quel 2010 che nella storia della Chiesa verrà certamente ricordato come “l’anno zero” dell’istituzione clericale, consiste anche in quel milione e mezzo di famiglie che, inviando i loro figli poco più adolescenti a Madrid, dimostrano di fidarsi ancora del cattolicesimo. Perché hanno un Papa che, quando parla, è umile e dice sempre la verità.”(ndr.: Non è solo Gesù Cristo la via la verità e la vita? l’enfasi sui numeri sa tanto di prova muscolare più che di prova evangelica)
“Bisogna affrontare il problema con saggezza e prudenza, ma non si può fare finta di niente e accantonare l’intera questione come accaduto negli ultimi anni. Con una crisi sempre più prepotente e in una società così precaria è pericoloso se le persone si sentono escluse, e Londra non è poi così lontana…”
“Può la Chiesa italiana rifiutarsi di affrontare nella fase attuale la questione dell’8 per mille, che pesa sul bilancio dello stato per oltre mille milioni?” “La via maestra, la più dignitosa per la Chiesa, è che la Cei nella seduta del suo prossimo Consiglio permanente a settembre annunci di lasciare allo Stato una quota cospicua dei finanziamenti”.
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17 agosto 2011

“Per alcuni atei, il mantenere l’identità europea sarebbe un motivo sufficiente per mettere da parte la lunga inimicizia tra loro e le chiese””a differenza degli Stati Uniti – dove le dispute fra atei e credenti sono aspre e persistenti – in Europa i non credenti conservatori hanno trovato alleati pronti in alcuni leader religiosi del continente, in particolare in papa Benedetto XVI”
“Pur mostrandosi all’attacco per quanto riguarda il posto del cattolicesimo in Spagna, il cardinale Antonio Maria Rouco Varela ha fatto molta attenzione a non esprimere critiche nei confronti del governo socialista e a non ricordare le leggi contro le quali la Chiesa si è levata in questi ultimi anni, come il matrimonio omosessuale o la liberalizzazione dell’aborto. Una netta differenza rispetto ad altri discorsi od omelie sentite nel passato”
“il 75% della popolazione spagnola continua a dichiararsi cattolico (tra i giovani il 53%)… ma solo il 15% degli spagnoli va a messa “quasi tutte le domeniche” (tra i giovani il 9%)… Evaristo Villar, prete e teologo… portavoce dell’associazione Redes cristianas (reti cristiane) che parteciperà ad una manifestazione contro la celebrazione delle GMG: “La separazione del trono e dell’altare fa parte del messaggio di Cristo. Ora, la gerarchia cattolica della Chiesa spagnola, che gode di molte sovvenzioni, fa troppa politica e assume posizioni retrograde che dimostrano le sue reticenze a modernizzarsi””
“da Papa teologo ha cercato di trasmettere con immagini vive ai ragazzi della GMG i misteri della fede cattolica, come quando a Colonia, sei anni fa, paragonò il cambiamento che avviene nella consacrazione eucaristica alla fissione nucleare” (ndr.:Non mi sembra che il neoediorialista della Stampa, già vaticanista del Giornale, abbia scelto l’esempio migliore. I misteri della fede non hanno bisogno di queste pseudodelucidazioni scientifiche, che hanno l’effetto di confondere più che di chiarire. Utilizzare poi la fissione nucleare, la rottura del nucleo di un atomo, per “spiegare” l’eucaristia, cioè l’espressione della massima unione possibile, del massimo amore, è davvero troppo. Non è oltretutto un’idea originale, già utilizzata da altri nel passato per “spiegare” l’immagine della sindone, suscitando giustificata ilarità. Un maggiore spirito critico non guasterebbe)



I giovani e la razionalità del sacro

Si fa un gran parlare dei giovani. È, in fondo, la forma retorica più antica e consolidata che si conosca. Tanto è vero che si sprecano sempre affermazioni solenni e proverbiali quando non si
comprende nulla o quasi di un certo fenomeno. Ben più complesso diviene, invece, il discorso non appena si vuole parlare realmente con cognizione di causa delle nuove generazioni, in un contesto, come quello attuale, nel quale non sembra sia più possibile restare nei limiti di una sola cultura o di una specifica civiltà determinata.
Alcuni eventi sono una buona occasione per farlo. Il più espressivo del protagonismo peculiare dei ragazzi è certamente la Giornata Mondiale della Gioventù che si sta svolgendo in questi giorni a Madrid alla presenza di Benedetto XVI. Ho avuto modo di sperimentare personalmente di cosa si tratti in tutte le occasioni in cui ho accompagnato Giovanni Paolo II dai primi energici appuntamenti fino agli ultimi più faticosi. E poi anche a Benedetto XVI in Germania nel 2005. È stupefacente che dopo 28 anni non solo non è finita la spinta partecipativa, ma il coinvolgimento sembra perfino aumentato. Quest’anno, il profilo essenziale dei partecipanti si esprime così: età media intorno ai 22 anni, il 48 per cento studia (di cui il 58 per cento in un’istituzione  universitaria), il 40 per cento lavora, il 6 per cento è disoccupato; uno su dieci è già sposato; il 55 per cento vive in casa coi genitori. Provengono da 187 Paesi diversi. La cifra totale dei  partecipanti supererà il milione di persone.
Il dato è fin troppo chiaro per essere commentato. È un campione rappresentativo, vasto ed eterogeneo di persone normali.
D’altronde, anche in altre occasioni diverse vediamo i giovani raccogliersi insieme per qualche scopo, senza particolari segni distintivi. È il caso, ad esempio, delle proteste inglesi che hanno messo a ferro e fuoco la città di Londra o della Primavera araba nel Magreb. Giovani, sempre giovani, differenti gli uni dagli altri, che agiscono in modo peculiare e per motivi comuni imparagonabili. Ma sempre e solo giovani, senza specifiche qualità.
Ecco così che, leggendo ogni volta le statistiche, si rimane insoddisfatti, sprovvisti di una spiegazione valida sulle ragioni per cui non un bambino o un adulto, ma un ragazzo non più adolescente  decida di dedicare alcuni giorni della propria vita a stare con altri coetanei che non conosce, in una città che non gli è familiare, a vivere un evento di natura religiosa.
Il citato paragone può, in questo senso, aiutare a capire. I movimenti di ribellione britannica, sono espressione di un moral collapse come ha detto in modo sintetico il premier inglese David Cameron. 
Una paradossale assenza di finalità e di principi che si traduce in un nichilismo sconfinato.
Distruggere, lo si capisce bene, è la quintessenza di una rabbia che trova soddisfazione unicamente nella violenza urbana e nel saccheggiare negozi. In quel caso siamo, evidentemente, agli antipodi di Madrid, davanti ad un malessere generazionale che pone interrogativi duri e chiare responsabilità; direi soprattutto a noi adulti.
Ma anche le rivolte politiche in Africa sono animate da una simile spinta generazionale, questa volta evidentemente positiva. Anche lì sono i giovani a farla da protagonista, non volendo più  accettare e tollerare di vivere al di sotto di loro stessi, delle proprie capacità, possibilità, libertà. È lampante che rispetto al primo caso non è il nichilismo a spingere all’azione, ma una giusta volontà di cambiamento, un anelito civile a riempire il vuoto sociale in cui si è costretti a vivere.
Paragonate a queste agitazioni di massa, quanto spinge giovani di tutto il mondo a stare alcuni giorni con il Papa è il desiderio di fare un’esperienza opposta e decisiva rispetto ad ogni altra. Anche se, a ben vedere, vi è una medesima opzione motivazionale forte, alternativa al restarsene a casa o al mare. Mi ricordo che proprio in occasione della giornata dei giovani a Roma nel Giubileo del  2000 Indro Montanelli scrisse che una spiegazione, in casi del genere, non la dà né la sociologia, né la demografia: bisognerebbe entrare nell’ambito della religione. O esiste un fatto che chiamiamo sacro, oppure, in questi casi, non si motiva né si capisce niente di niente.
Logicamente, resta particolarmente importante chiarire cosa s’intenda qui con fatto religioso. Perché alcuni dei ragazzi che partecipano alla Giornata non sono credenti; allo stesso modo che non tutti coloro che rompono le vetrine sono criminali o tutti coloro che gridano libertà sono democratici.
Mi ricordo di aver indagato in passato sulle ragioni di simile affluenza e di aver trovato delle risposte insolite ma coincidenti tra i ragazzi stessi che partecipavano. Alcuni mi rispondevano che nessuno, in società, a scuola o in famiglia, era in grado di dire qualcosa di simile a quello che stavano ascoltando. Alcuni confessavano il dubbio se sarebbero stati in grado di vivere sempre al livello etico che il Papa chiedeva loro, anche se si sentivano per questo, ancora di più, chiamati ad esserci. Tutti, con disarmante semplicità affermavano: «Ma lui (il Papa) ha ragione». Cioè, dice il vero.
Comprendere giornate intense di preghiera e ascolto, non prive di sacrifici per i partecipanti, significa andare al cuore dell’esperienza religiosa. Richiede di superare in modo drastico quel relativismo imperante che spinge a fare solo ciò che le proprie pulsioni (anche la noia) impongono.
Davanti a sé e accanto a sé c’è una ragione che è vera, una spiegazione umana che garantisce di trovare la propria identità, oltre il proprio nulla e oltre i miraggi del convenzionalismo insipido con cui spesso si presenta la politica.
D’altronde, tale spinta forte a afferrare con il pensiero, il cuore e la volontà il senso della vita, è l’essenza della sana ribellione che si chiama “vita interiore”. L’alternativa, non a caso, è il fondamentalismo irrazionale e il relativismo cinico, ma mai, in nessun modo, l’esperienza spirituale.
Perciò, in definitiva, ad attirare tanti giovani a radunarsi è unicamente la razionalità del sacro, un desiderio di ascoltare la verità e di far parlare la coscienza, che solo può soddisfare le fresche aspirazioni di un giovane ad oltrepassare i circoscritti confini determinati dello spazio e del tempo.
E quelli ancora più determinati della banalità.



in “la Repubblica” del 19 agosto 2011

Segnare la svolta di un’epoca. Le parole che mancano ai cattolici


La svolta storica che ci sovrasta è di proporzioni superiori al panico che produce. Lo stile di vita tenuto dall’Occidente, nel quale il debito aveva sostituito altri sistemi di dominio, è finito. Per sempre. Come il colonialismo in India, come il bolscevismo in Russia. È una «krisis» nel senso del Vangelo: un  «giudizio». Non è la fine del mondo: è la fine di un mondo. Dunque solletica le paure, incoraggia i minimizzatori, svela la statura dei sovrani, denuncia la sordità di chi ha fatto spallucce per anni, chiama intelligenze politiche e spirituali dal domani.

In questo rimestarsi della storia (per ora incruento, come nel ’29  e nell’89), la Chiesa è parca nel dire le parole che pur possiede. Questi non sono i tempi di Gregorio Magno, che davanti alla fine di un’era, raduna il popolo in basilica per spiegare il profeta Ezechiele. Non sono i tempi di papa Giovanni, che nel montare del fatalismo atomico, scardina i parametri dottrinali della guerra giusta.Sono i tempi nostri, nei quali la generazione del benessere più prepotente sente di lasciare ai propri figli le macerie di un disastro politico e morale. E in questo tempo la Chiesa, nel senso più ampio del termine, è come ritratta: articola lentamente le consunte condanne degli «ismi», sussurra cose ovvie o interessate, quasi che anche per lei fosse così poco leggibile una realtà che urla da ogni orizzonte, Nel Medio Oriente sunnita esplode una jihad nella quale il nome di Dio non viene usato per aggredire, ma per sopportare, senza che chi ne ha giustamente criticato le perversioni violente ne sappia dare una lettura. Un assassino psicotico norvegese trascina fuori dall’oscurità il fondamentalismo di antisemiti classici, omofobici aggressivi, tradizionalisti paranoidi, monoculturalisti fascisti, che il diritto penale e canonico hanno ignorato, prima e dopo quel crimine.


Il genio di personaggi come Pacelli, Adenauer, De Gasperi e Schuman che — parlando in tedesco e pensando in cattolico — hanno dato all’Europa un orizzonte politico di pace, viene irriso per mesi dall’egoismo tedesco senza che il discorso cattolico sappia uscire dal vittimismo delle radici, dall’euforia dei crocifissi e dall’ossessione dei diritti dei gay.

La guerra di Libia suscita proteste periodiche del Papa che cadono nel vuoto di una Chiesa più sensibile allo spiritualismo che alla realtà. E quel pezzo di Africa che annega fra la Sirte e Lampedusa estorce qualche senso di colpa alle anime colte, ma alla fine viene trattato come una fatalità che non deve essere capita, ma accettata. La forza che ha avuto la Chiesa in transizioni di magnitudo comparabile a questa — nel VI secolo si diceva, ma anche nell’XI e nel XVI con le riforme, nel XX con il Concilio — è stata quella di saper leggere i processi storici nella loro globalità: trovarne quella chiave supremamente sintetica che, a partire dall’atto di fede in Gesù Cristo morto e risorto, sa indicare le vie di un nuovo tempo e preparare quel che è già tutto scritto nelle premesse presenti. Oggi questo atto — reso più urgente dal tragico nanismo delle leadership politiche — tarda a farsi sentire.

Eppure solo l’intuito spirituale di una comunità globale come quella cattolica può dire con autorevolezza che, se crolla un’Europa poco amata, non finisce l’euro, ma la pace. Può spiegare alla luce del proprio tesoro di insegnamenti sulla sobrietà e la condivisione che il crollo di uno stile di vita è un’opportunità di giustizia o l’anticamera del cannibalismo economico. Ma la Chiesa sa anche che per ogni profezia c’è un tempo opportuno, un «kairós», perduto il quale resta solo il peso silenzioso della penitenza: anche questa testimoniata dalle lunghe epoche buie della sua storia.

Sarebbe stupido e irriverente pensare che il dire tocchi al Papa o che l’afasia di questi mesi sia la sua. Certo Benedetto XVI ha certo modo di farsi sentire: in questi giorni a Madrid davanti a milioni di ragazzi, soprattutto a Berlino nel discorso al Bundestag di settembre, a ottobre alla preghiera interreligiosa di Assisi. E quel che dice resterà. Ma è dalla Chiesa come communio che il mondo attende una lettura del tempo che mostri la capacità di rompere quella omologazione ai riti del potere e dei media. È la communio che permette di leggere un tempo che deve essere trattenuto dalla tendenza a diventare prebellico proprio da una forza spirituale che lo lega, se sa di essere una forza e se sa di essere spirituale.


in “Corriere della Sera” del 20 agosto 2011

 

 

De Rita: “Fragili e sfiduciati, rinunciano ad indignarsi”

 

 

intervista a Giuseppe De Rita

 


Giovani esclusi da ogni prospettiva di futuro. Ma anche incapaci di scosse perché troppo fragili. E circondati da una società rattrappita. Giuseppe De Rita, presidente del Censis, ragiona sul presente e futuro della generazione dimenticata dalle manovre e dai mercati.


Una generazione sfiduciata…
«La sfiducia dei giovani si ricollega a una sfiducia nel sistema. Non è la crisi a paralizzarli. Ma la barra abbassata sul futuro da un sistema incapace di tornare a fare sviluppo. Questo crea disagio».


Perché non si indignano?
«Se facessero come a Madrid o al Cairo, non sarebbero capiti. E poi qui non succederà».


Perché?
«Perché non hanno alcuna fiducia nella lotta collettiva per cambiare il mondo e dunque preferiscono adattarsi. E poi perché non esiste alcuna rappresentanza. I sindacati difendono l´articolo 18 e le pensioni. Le altre organizzazioni si occupano dei loro perimetri, i loro orti».


Come si adattano i giovani italiani?
«Nell´unico modo possibile da noi: il sommerso, l´arte di campare comunque, di arrangiarsi. Quella è la strada. Ma il sommerso non crea sviluppo».


In questo la politica non li aiuta.
«La politica conta poco. Anche se le nostre parti sociali non danno speranze o segnali. Solo tavoli. Nel ‘70 c´erano autunni caldi, l´arrivo al potere del Pci, la crisi della chimica e della grande industria, il governatore Baffi costretto a chiedere ai petrolieri di non attraccare al porto di Napoli perché non c´erano soldi. Eppure la scossa individuale alla ripresa portò a un milione di imprese,raddoppiandole».


E oggi la scossa perché non arriva?
«Da una parte la società è tutta rattrappita: imprenditori, Stato, Comuni, spesa pubblica, ripiegati su loro stessi. Dall´altra, i giovani sono fragili psichicamente e nella capacità a vivere la professione.
Anche perché hanno studiato cose che non servono. E questo non li aiuta a fare da sé, a sviluppare una professionalità propria».


La crisi li ha sommersi.
«Certo. Ma il sistema ha retto: il reddito della famiglia, la casa di famiglia e appunto il sommerso. I giovani si sono sentiti protetti e si sono adattati. Ma questo non si tradurrà in piccola impresa e lavoro autonomo, come negli anni ‘70».


in “la Repubblica” del 21 agosto 2011