Essere cristiani nell’Italia unita

 

 

Rivolta al passato dal ciglio del presente, avida di comprendere il perché del proprio tempo e delle cose umane nelle res gestae d’altri, anche la storia dell’esperienza cristiana, delle istituzioni e delle dottrine che ne emanano, è tenuta tesa da due forze contrapposte.

Anch’essa, come ogni altra storia, ha sentito la sirena che voleva farla diventare giudice d’un tribunale tutto moderno che le consegnerebbe l’uomo, imputato del mancato bene e del male procurato, e che — proprio come accadeva a Dio nella teodicea, secondo Odo Marquard non potrebbe che assolverlo davanti
all’abilità con cui egli sa appellarsi alla nequizia dei tempi, alla superficialità del suo intelletto, alla fragilità della «natura». D’altro canto la storia della vita cristiana ha dovuto anche misurarsi con la richiesta di fungere da garante di una ideologia delle origini, di un mitico passato a volte primitivo a volte concentrato in una più vicina stagione, al quale pretende di tornare sia chi invoca uno scatto riformatore sia chi impugna l’identità fra sé e un passato chiamato in causa per giustificare assetti di potere. Nella sua declinazione disciplinare tutta moderna di cui Reinhart Koselleck ha sviscerato le origini, la comprensione storico-critica di ciò che accade nel tempo a causa e all’interno dell’esperienza cristiana s’è collocata in molteplici modi nel paesaggio culturale europeo. Per capire storicamente ciò che i cristiani sono effettivamente stati, generazione dopo generazione, dentro una durata o uno spazio politico, con gli strumenti e i limiti propri di questo sapere critico, i sistemi di ricerca d’Occidente hanno prodotto modelli tra loro più distanti di quanto non siano i risultati di conoscenza ai quali hanno poi saputo giungere. La vicenda delle facoltà teologiche tedesche, delle divinity americane, della ricerca sul fatto religioso di stampo francese è ben diversa da quella italiana: espulsa la teologia dalla università, la ricerca è tornata attraverso la storia religiosa: e a questa è stato chiesto, nel secondo dopoguerra, di fornire le genealogie del «partito cristiano al potere», secondo la formula Baget Bozzo. È stata la storia del «movimento cattolico» — una chiave che trent’anni fa ha dato il meglio di sé e che altri hanno tentato di superare. Mentre si raccontava un’Italia volta a volta neutra, o sacra o religiosa, il lavoro di scavo ha formato una leva di studiosi (che per qualche decennio ha popolato il mondo universitario nazionale), accedendo ad una realtà più limpida e più profonda. Nell’Italia diventata Stato non orbitavano due mondi — uno di cittadini
da un lato e uno di cristiani dall’altro — condannati a narrarsi per contrapposizioni o per sintonie irreali. Esistevano più semplicemente dei soggetti capaci di legarsi e di sciogliersi, portatori d’una formazione spirituale attivata o anche solo residua, di un’educabilità alla Scrittura o ai sacramenti, osservanti o autoemancipati rispetto a discipline morali e dottrinali. Insomma: cristiani. Cristiani delle «Chiese di Dio che sono in Italia», si dovrebbe dire mutuando quella decisiva espressione di Paolo (1 Cor. 1,2) da cui discende la tradizione che vede nei fedeli d’una città la parrocchia orante in attesa della propria patria, secondo la formula dell’epistola a Diogneto così cara a grandi patrologi come Michele Pellegrino e Giuseppe Lazzati. Ma la consapevolezza ecclesiologica d’essere una «Chiesa di Dio che è in», gli italiani che confessano la loro fede in Gesù Cristo, non l’hanno ancora avuta, se non per qualche sprazzo legato alle grandi figure dei vescovi santi, a qualche testimone capace di coagulare attorno a sé una stagione spirituale, a storie comunitarie durate abbastanza per segnare una vita, a qualche momento alto della pratica sinodale. Spaventati
dalle prove del tempo o esaltati dalle mediazioni politiche, i cristiani si sono sentiti l’armatura che protegge il Papa o la spina protestante rimasta conficcata nel Paese che l’Inquisizione avrebbe voluto «liberare» dalla riforma. E, dunque, cristiani d’Italia di cui studiare le grande linee e le minoranze, le tensioni e le eredità, cogliere la complessità, i miti e le autocomprensioni che hanno segnato la storia che conosciamo. Quando questa si sarà distanziata, ci si potrà  domandare di nuovo — come faceva Giuseppe Donati nel 1929 — se sia stato il clericalismo di secoli «a rendere gli italiani quali furono e quali, purtroppo, sono sempre» o se viceversa non siano stati gli italiani a rendere il clericalismo qual è. Forse si vedrà con maggiore chiarezza se l’assioma dossettiano dei primi anni Cinquanta (per cui l’incapacità della Chiesa di sovraordinarsi alle svolte epocali della civiltà la rende responsabile dei mali che da quei mutamenti si producono) si possa applicare ad altri momenti della storia italiana. Per ora, di quelle letture e di quelle speranze che hanno mosso la storia che possiamo studiare è necessario tentare un inventario che le protegga dalle semplificazioni.

 

in “Corriere della Sera” del 5 maggio 2011

Risurrezione


I fatti.

Gesù si ritrova con i Suoi.

Oltre il dramma, la delusione, l’amarezza è la felicità: la corsa al Sepolcro di Pietro e Giovanni, il ritorno concitato dei discepoli da Emmaus, lo stupore dell’ incontro nelle diverse situazioni di vita: in pianto alla tomba, raccolti in preghiera, sul monte  del commiato…

 

Anche più realistica la concreta partecipazione alle consuete esperienze di vita: pace a voi, avete qualcosa da mangiare, avvicinati, tocca il mio costato… E’ Lui, proprio Lui; quello che hanno veduto e toccato per gli anni duri e luminosi della missione.

E se tratta con qualcuno di loro in particolare, è toccante l’intensità dell’incontro.

Giovanni e Luca ne danno la misura.

L’incontro con Maria di Magdala è di una intensità umana incomparabile.

Maria, suona il richiamo affettuoso alle sue spalle;

Rabbunì risponde di slancio appassionato la prima donna che lo vede risorto.

E nessuno sa narrare la felicità di quel momento nella novità di una presenza, che esalta l’attesa di una donna che ama e contemporaneamente sconvolge la vicenda di ogni uomo che dopo di lei è chiamato ad incrociarlo.

Così il ritorno concitato dei due discepoli da Emmaus verso Gerusalemme con in cuore una notizia sconvolgente: E’ risorto; ha cenato con noi!

Come è difficile misurare la forza rinnovatrice del dialogo di Pietro con Gesù sulle sponde del lago di Tiberiade, al momento della Consegna. Dalla consolazione di sentirsi di nuovo interpellato sulla passione che ormai brucia la sua vita: mi ami? All’insistenza garbata da cui affiora l’ombra amara del tradimento, alla consegna che gli restituisce intatta la fiducia del Maestro.

 

Il significato.

Insomma nella risurrezione Cristo ricupera in pienezza la quotidianità dell’esperienza vissuta con i Suoi; anzi la fa vibrare di una intensità singolare.

Rivela finalmente il senso di misteriose allusioni che il discepolo prediletto si è preoccupato di raccoglie e segnalare lungo l’intero arco della sua vita terrena.

Quando sarò elevato attirerò tutti a me.

La morte in croce ha segnato il vertice dell’ascesa umana; il compimento di questo sinuoso e talora atroce percorso che l’uomo va conducendo: a Lui possono guardare tutti coloro che vivono la passione per la propria dignità e realizzazione. Che cercano a tentoni di orientarsi, di cogliere un barlume di verità, che rischiari il proprio cammino: sono venuto per rendere testimonianza alla verità…

La sua risurrezione offre il sigillo della’autenticità a tutta la vicenda terrena: nulla di quanto Gesù ha vissuto va perduto; anzi, tutto assume conferma e splendore.

Nella risurrezione rifulge di nuova e imprevedibile luce  il senso vero dell’esistenza e del travaglio che l’accompagna. Tutti i segni che hanno segnato la vita terrena di Cristo ritornano; erano espressione di una rivelazione iscritta nel tempo, in un certo senso destinati a tramontare con il tempo: il segno della risurrezione si iscrive nell’eternità, supera il tempo e lo redime con una conferma che ha il carattere della definitività.

Dunque la risurrezione porta per eccellenza il suggello della vita, non perché Gesù ritorna alla vita, ma perché imprime nella vita il segno nuovo dell’immortalità.

Nella ridda concitata di incontri che i Vangeli raccontano con sobrietà ed emozione i primi testimoni fanno un’esperienza sconvolgente: sono proiettati nel tempo nell’intronizzazione di Cristo che li ha salvati oltre il tempo.

Cosicché l’esistenza dell’uomo, tutta la sua esistenza, trova il senso che Dio solo è in grado di imprimervi.

 

Teologi e filosofi contro l’evoluzione

 

 

Le critiche mostrano un concetto inadeguato di azione creatrice, non considerano il tempo come struttura necessaria delle creature e valutano il loro divenire come un dato secondario. Non tengono conto che il fascino della teoria evoluzionista non sta tanto nelle molte prove documentarie accumulate negli ultimi secoli, quanto nella spiegazione che offre di molti fenomeni altrimenti inspiegabili.


 

 

In questa rubrica ho illustrato più volte la prospettiva evolutiva nella convinzione che oggi essa sia necessaria per una corretta formulazione della dottrina cristiana. Siccome non mancano gli oppositori dell’evoluzionismo e alcuni di loro si richiamano alle dottrine di fede, credo sia utile esaminare le argomentazioni con le quali essi negano la solidità della teoria evolutiva e fondano la loro credenza in un Dio creatore che opera in modo perfetto e interviene nei momenti cruciali.
Il 26 febbraio 2009 si è svolto a Roma un convegno a porte chiuse «per offrire un contributo scientifico al dibattito in corso nell’anno darwiniano». L’iniziativa era del Vice presidente del Consiglio Nazionale delle ricerche, lo storico Roberto De Mattei. Il volume che ne rende pubbliche le undici relazioni già nel titolo indica l’orientamento comune degli scienziati, scrittori e filosofi intervenuti: Evoluzionismo: il tramonto di una ipotesi (Cantagalli, Siena 2009).

Non esamino gli argomenti scientifici degli altri interventi. Mi limito alle prime due relazioni che presentano soprattutto riflessioni di tipo filosofico e teologico. De Mattei sostiene che il darwinismo non è «scienza» bensì una «cosmogonia capovolta». Mentre i miti di tutti i popoli considerano «perfetti» gli inizi del cosmo, della vita e della specie umana, gli evoluzionisti pongono «l’archetipo della perfezione non nel passato, ma nel futuro, non nelle sfere celesti, ma nel processo immanente della storia» (p. 30). La cosmogonia evoluzionista, quindi è una «narrazione fantasiosa di un passato, immaginato per sorreggere una radicale avversione ai principi metafisici di trascendenza e di causalità» (p. 30). Anche secondo gli evoluzionisti «nell’impresa scientifica l’onere della prova spetta allo sfidante» (Pievani T., Creazione senza Dio. n. 84). Ora. argomenta De Mattei «la ‘sfida’ di Darwin e dei suoi seguaci alla scienza tradizionale non è mai stata suffragata da prove» (p. 29). Per questo conclude: «il tramonto dell’ipotesi evoluzionista è un processo ormai irreversibile» (p. 30).
Se però si esamina come vengono affrontati i problemi che hanno stimolato la soluzione evoluzionista si resta delusi. De Mattei non dice nulla del disordine presente nei processi naturali, degli sprechi enormi che essi comportano, dei molti vicoli ciechi imboccati dalla vita nella sua diffusione sulla terra, dei suoi rami secchi e improduttivi, del male presente in tutte le fasi dei processi vitali, delle numerosissime catastrofi naturali che hanno fatto scomparire la stragrande maggioranza delle specie viventi, non dice nulla delle immani sofferenze e tragedie della storia. Non offre nessuna spiegazione di come tutto ciò possa attribuirsi a un Dio buono e provvidente. Propone una figura di Creatore senza alcuna spiegazione delle caratteristiche della sua azione. Non esamina nessuna riflessione dei teologi evoluzionisti su questi temi. Egli afferma solo che «le posizioni dei teoevoluzionisti sono confuse» (p. 24 n. 73). Scendendo ad alcuni nomi ricorda che: «antesignano degli evoluzionisti cattolici è il gesuita Vittorio Marcozzi (1908-2005)» e che «oggi si distinguono l’ex-sacerdote Francesco Ayala, il sacerdote paleoantropolgo mons. Fiorenzo Facchini e, in parte, il filosofo della scienza, Don Stanley L. Jaki (1924-2009)» (ib). Non menziona neppure Teilhard de Chardin (1882-1955), e il profondo influsso che egli ha esercitato anche nel mondo laico. De Mattei non sembra neppure ammettere la presenza di eventi «casuali», quelli cioè che non hanno alcuna finalità in ordine alla vita, ma che fanno parte dei processi e sono oltreché imprevedibili anche ineliminabili.
Per lui: «il ‘caso’ diviene la ‘spiegazione’ dell’inspiegabile, ossia dell’assurdo… La scienza diviene storia dove `tutto è permesso’ e dove «non vi sono più leggi divine che assegnino limiti all’esperimento» (Jacob F., La logica dei viventi, Einaudi, Torino 1971, p. 215)» (o. c. p. 27). De Mattei non sembra dare alcun rilievo al principio di indeterminazione dei processi fisici elementari e soprattutto non richiama il valore della libertà che Dio è in grado di suscitare nelle creature.
Molto più coerentemente il filosofo Robert Spaeman ha osservato nel Convegno Cei del dicembre 2009: «Dio agisce tanto attraverso il caso quanto attraverso leggi naturali» (La ragionevolezza della fede in Dio, in Dio oggi, Cantagalli, Siena 2010, p.75). Questa è una caratteristica del creatore: offre contemporaneamente diverse possibilità tra le quali scegliere.
Nello stesso volume Joseph Seitert, Direttore della Accademia internazionale di Filosofia del Liechtenstein, membro della Pontificia Accademia della Vita, propone una riflessione filosofica con alcuni cenni teologici: Riflessioni critiche sull’evoluzionismo come teoria scientifica o pseudscientifica e come ideologia atea (pp. 31-64). Egli presenta tre forme di l’evoluzionismo: atea, teista e limitata.
1.Circa la prima inanella una serie impressionante di affermazioni critiche: «non è una teoria scientifica, ma un’ideologia pseudo-metafisica» (p. 34). «Essendo falsa, non può passare il ‘test di realtà’, nel senso che non soddisfa i criteri propri per la conoscenza oggettiva e inoltre i test empirici contraddicono le sue false affermazioni scientifiche e filosofiche» (p. 35). «Tale evoluzionismo ideologico, materialista ed ateo non è solamente una tesi impossibile, ma realmente stupida, per non dire idiota» (p. 39). «Non esiste assolutamente alcuna prova né alcuna plausibilità che tutte le specie di animali, dalle amebe agli elefanti, si siano sviluppate l’una dall’altra tramite una qualche evoluzione» (p. 39). «Una delle obiezioni filosoficamente più importanti della teoria dell’evoluzione… consiste nella intuizione dell’assoluta irriducibilità della vita alla materia inerte» (p. 50); «l’essenza della vita è irriducibile a sistemi fisici di qualunque tipo» (p. 53). Il passaggio dagli animali all’uomo «per lo meno per quanto riguarda l’anima umana… è realmente impossibile metafisicamente» (ib. p. 38).
«Una promessa o qualsiasi atto libero è necessariamente impossibile, se non assurdo, se tale atto è identico a, o determinato da, un processo materiale o organico, o se è un semplice prodotto causale dello sviluppo evoluzionistico» (p. 56). E «la conoscenza contraddice la possibilità di essere un epifenomeno del cervello o delle sue funzioni» (p. 57).
2.Anche «l’evoluzionismo teista, o ‘deista’ (o cripto-atea essendo panteista)… è insostenibile in virtù del fatto che dimentica le differenze insuperabili tra le sfere e gli ordini di esseri che non potranno mai evolvere l’uno dall’altro: il vivente dal morto, il personale dall’impersonale, lo spirito dalla materia» (p. 40 si riferisce esplicitamente al paleontologo gesuita Pierre Teilhard de Chardin).
Seifert non sembra tenere conto della notevole differenza tra evoluzionismo ateo e teista. Chi crede in Dio ritiene che la perfezione iniziale contiene già tutte le qualità che nel tempo fioriranno nelle creature. Le sue difficoltà non considerano che nella prospettiva teista tutto il processo è alimentato e sostenuto da Dio, perfezione compiuta, per cui non è lo spirito a derivare dalla materia, ma viceversa questa deriva dallo Spirito. Quando le strutture materiali lo consentono il pensiero, la consapevolezza, la libertà possono emergere ed esprimersi perché già presenti alla radice di tutto.
Siefert si chiede: «Per quale motivo mai avrebbe Egli [Dio] usato leggi tanto primitive come `la sopravvivenza del più forte», la `selezione naturale’, ‘l’adattamento’, che in realtà sono del tutto prive di significato, e perché egli avrebbe impiegato un tempo senza fine per permettere a tali assurde cause di produrre il mondo, osservando e aspettando innumerevoli incidenti di percorso in tale processo?» (p. 42). Questo modo di argomentare suppone che le creature (cioè il vuoto o caos iniziale) siano in grado di accogliere la perfezione divina in modo istantaneo. Non tiene conto che l’azione creatrice alimenta il processo del divenire perché le creature non vengono prodotte o fatte, come l’artigiano
modella una statua da materia preesistente, bensì create: esse diventano nel tempo.
3.Della forma limitata di evoluzionismo egli ammette qualche possibilità, ma sempre condizionata dagli interventi puntuali di Dio. «È piuttosto probabile che abbia avuto luogo un qualche processo evolutivo limitato e sviluppo trans-specifico, ad es. dai lupi a certi tipi di cani, ed è certo che le pratiche di allevamento possono condurre a nuove razze canine, le cui caratteristiche sono trasferite alle generazioni successive» (p. 39; cfr p. 41).
In conclusione le critiche mostrano un concetto inadeguato di azione creatrice, non considerano il tempo come struttura necessaria delle creature e valutano il loro divenire come un dato secondario. Non tengono conto che il fascino della teoria evoluzionista non sta tanto nelle molte prove documentarie accumulate negli ultimi secoli, quanto nella spiegazione che offre di molti fenomeni altrimenti inspiegabili. In particolare dà ragione della casualità, del lungo tempo necessario ai processi cosmici e vitali, della distruzione della maggioranza delle specie un tempo viventi, della imperfezione cronica e del male smisurato che accompagna il divenire del creato e la storia umana.

 

in “Rocca” n. 7 del 1 aprile 2011

Parlare con gli atei

 

“Ritroviamo il coraggio di parlare con gli atei”
intervista a Gianfranco Ravasi

 

Cattolici e atei, credenti e agnostici: faccia a faccia nella Parigi dei Lumi per un vertice inedito promosso dal cardinale Gianfranco Ravasi, ministro della Cultura vaticano. Partner del dialogo, che si svolgerà tra il 24 e il 25 marzo, sono l’Unesco, la Sorbona, l’Institut de France, il “parlamento dei sapienti” che riunisce le cinque grandi accademie francesi. È una pagina nuova nella storia della Chiesa, il tentativo di affrontare il Terzo millennio smettendola di considerare atei ed agnostici come nemici o handicappati spirituali.“Anticlericalismo e Clericalismo” vanno superati, è l’opinione del porporato. Perché “chiudersi nel proprio recinto è una malattia sia per le religioni che per il mondo laico e per una scienza che pretenda di dare le risposte a tutte le domande”.  L’iniziativa è sorta per impulso di Benedetto XVI, che nel 2009 affermò a Praga che andava stimolato il confronto con i non-credenti e indicò nel Cortile dei Gentili dell’antico Tempio di Gerusalemme lo spazio, dove gli aderenti ad altre religioni potevano accostarsi al Dio Sconosciuto.
Sul sagrato di Notre Dame, dove si terrà uno spettacolo per i giovani, arriverà un videomessaggio del Papa.

 

 

Cardinale Ravasi, partite dalla Francia, l’Anticristo dell’Illuminismo.
Sì, ho voluto scegliere Parigi proprio perché è un vessillo di laicità, ma devo dire subito che ho trovato un mondo laico interessato a un confronto vero sui grandi temi.

 

Voglia di convertire?
Non è questo lo scopo. Non parliamo di evangelizzazione. L’obiettivo è il dia-logo. Il confronto fra due Logoi, tra visioni del mondo che si misurano sulle questioni alte dell’esistenza. Quando mi trovo di fronte a un ateo come Nietzsche o al discorso marxista o scientista, io ascolto, rispetto, valuto. Le religioni e i sistemi ideologici sono letture del reale e del cosmo ed è bene che si confrontino.


Superando l’atteggiamento classico secondo cui il non-credente è un’anitra zoppa?

Il credente e l’ateo sono ciascuno portatori di un messaggio, che è ‘performativo’ poiché coinvolge l’esistenza. Sono contento di avere come interlocutori a Parigi personalità come Julia Kristeva, semiologa e psicanalista agnostica o il genetista Axel Kahn.

Su cosa ragionare?
All’Unesco si discuterà tra credenti e laici sul ruolo della cultura ma anche delle donne nella società moderna, sull’impegno per la pace e la ricerca di senso in un mondo che è contemporaneamente secolarizzato e religioso. Alla Sorbona il tema è emblematico: Lumi, religioni, ragione comune.
All’Institut de France il dibattito sarà su economia, diritto, arte.

Sperando di trovare punti di incontro?
Non interessano incontri o scontri generici né di accordarsi su una vaga spiritualità. E non si tratta  nemmeno di un asettico convegno di matematica. Ciò che conta è mettere a confronto visioni di vita alternative, ragionando in ultima istanza su alcune domande capitali.
Lei ha detto recentemente che la Chiesa deve imparare ad abbattere i propri muri.
Spesso abbiamo un linguaggio eccessivamente connotato ed escludente. Dobbiamo riconoscere che esistono visioni diverse della realtà e che dal mondo laico ci vengono rivolte domande profonde rispetto alle quali non possiamo essere evasivi.

Quali questioni considera capitali?
Le domande sul senso dell’esistenza, sull’oltre-vita, sulla morte. E ancora, la domanda sulla categoria di verità.

C’è già nel processo a Gesù: cos’è la verità?
È qualcosa che ci precede, che è ‘in sé’? Oppure, come affermano i moderni, è l’elaborazione del soggetto secondo i differenti contesti?

Immagina Parigi come tappa di una ricerca sull’etica universale, quel Weltethos che il teologo Hans Kueng espose a Benedetto XVI a Castegandolfo dopo la sua elezione?
Penso piuttosto che si possa aprire il discorso, senza sincretismi, su ciò che significa Natura e legge naturale.
Vale la pena di indagare sulle radici ultime, che precedono le ragioni delle religioni e delle ideologie. Porre a confronto le differenti concezioni di essere ed esistere significa mettersi autenticamente a ricercare, senza pretendere di sapere a priori.
Troppe volte si è diffusa la sensazione che con l’arrivo del pensiero scientifico moderno sia stato segnato un anno zero, che annulli le elaborazioni della cultura precedente, specie quella greca e cristiana.

Invece?
Trovo tanti scienziati aperti a riflettere sulle categorie filosofiche dell’esistenza.

C’è un tema su cui si dovrebbe riflettere di più nella civiltà contemporanea?
La potenza del male. Bisogna esserne consapevoli. Gli atteggiamenti susseguenti possono essere diversi. Per Albert Camus, nell’assenza di Dio, la risposta finale è il suicidio. Per George Bernanos, al di là di tutte le difficoltà e fragilità, la presenza divina non abbandona mai l’umano.

La Chiesa è pronta a fare i conti con la decristianizzazione in atto nel continente europeo?
Le categorie statistiche sono insufficienti per misurare il reale. Serve un metodo qualitativo per misurare dall’interno i comportamenti sociali e personali. Harvey Cox, che aveva scritto la ‘Città secolare’, ora sostiene di  essersi sbagliato. Assistiamo ad un ritorno del Sacro e a una nostalgia del Religioso, che però non trova una risposta nel istituzioni religiose. Così si manifesta in varie espressioni: movimenti, New Age, devozionalismo, spiritualismo.

Qual via d’uscita propone?
Il cristianesimo deve tornare alle sue grandi risposte. Riuscendo a guarire il palato della società, deformato da una secolarizzazione che cerca spiritualità a basso profilo.

Non pensa che vi sia nella Chiesa ancora troppa paura della modernità?
Io nutro rispetto per la modernità, ma rivendico la legittimità di criticare una modernità superficiale, inodore, incolore, nemmeno immorale bensì a-morale. Come dice Goethe nel Faust: abbiamo dimenticato il Grande Maligno, sono rimasti i Piccoli Mascalzoni.

in “il Fatto Quotidiano” del 20 marzo 2011

 

 

Parlare con gli atei


 

di Paolo Flores d’Arcais

 

Stimato cardinal Ravasi, ho letto con crescente interesse l’intervista – impegnata e soprattutto impegnativa – che ha concesso a Marco Politi per questo giornale. Le sue parole mi hanno colpito, tra l’altro, per un tono appassionato di autenticità che non sempre si avverte in altri uomini di Chiesa del suo altissimo livello gerarchico. Lei enuncia come obiettivo delle sue iniziative “il dialogo” con gli atei, dunque un parlarsi-fra che non aggiri la controversia, anzi, visto che lo intende come “il confronto tra due Logoi, tra visioni del mondo che si misurano sulle questioni alte
dell’esistenza”. E perché non ci siano dubbi che tali “Logoi” debbano essere anche quelli più radicalmente conflittuali con la fede cattolica, esemplifica con gli ateismi di stampo nicciano, marxista, scientista: insomma tutto il “vade retro” del moderno relativismo (condannato dagli ultimi due Pontefici come incubatore di nichilismo). Ateismi radicali che, aggiunge, “io ascolto, rispetto, valuto”.

 

DI PIÙ

Marco Politi molto opportunamente insiste: “Superando l’atteggiamento classico secondo cui il non-credente è un’anatra zoppa?”. Bella metafora, in effetti, per stigmatizzare l’atteggiamento paternalistico che spinge ancora troppo spesso la Chiesa a scegliere come interlocutori solo quei “gentili” (“Cortile dei gentili” si intitola la sua iniziativa) che sembrano soffrire la condizione della mancanza di fede come un’amputazione ontologica o esistenziale. “Atei” sì, ma “alla ricerca di Dio”. Sembra proprio che invece lei questa volta voglia promuovere il confronto con l’intera costellazione dell’ateismo hard: “non interessano incontri o scontri generici, né di accordarsi su una vaga spiritualità” perché “quel che conta è mettere a confronto visioni di vita alternative” smettendola di “essere evasivi” rispetto alle “profonde domande che ci vengono rivolte dal mondo laico”. Apprezzo “toto corde”. Del resto dirigo da un quarto di secolo una rivista di adamantina laicità (tanto che viene spesso tacciata di “laicismo” proprio perché non è laicità “rispettosa”, da anatre zoppe) che del confronto senza diplomatismi con uomini di fede, anche della Chiesa gerarchica, si è fatta un punto d’onore. Praticandolo.
Spero perciò sinceramente che alle sue parole seguano i fatti. Non solo a Parigi, anche in Italia.
Negli ultimi anni l’atteggiamento è stato però di segno opposto. Il dia-logo con l’ateismo è stato sistematicamente rifiutato dalla Chiesa gerarchica e anche da lei personalmente. Si tratta di una verità inoppugnabile, di cui purtroppo posso dare testimonianza diretta. Quando nell’anno del giubileo MicroMega pubblicò un almanacco di filosofia dedicato a Dio, con saggi in maggioranza di ispirazione atea, l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina  della fede, cardinal Ratzinger, non solo accettò di collaborare con un suo testo, ma anche di presentare il numero in una controversia pubblica con me al teatro Quirino di Roma, gremito all’inverosimile e con duemila persone che seguirono il dibattito sulla strada attraverso altoparlanti di fortuna. Se guardo ai due o tre anni successivi, posso constatare che accettarono pubbliche controversie i cardinali Schönborn, Tettamanzi, Piovanelli, Caffarra, Herranz e infine nel 2007, presso la Scuola normale superiore di Pisa, il patriarca di Venezia Angelo Scola.
Da allora l’atteggiamento della Chiesa gerarchica si è rovesciato. MicroMega ha proseguito nella volontà di un confronto franco, “ragionando in ultima istanza su alcune domande capitali”, secondo quanto lei dice di auspicare. Ma ci siamo trovati di fronte al muro di un sistematico rifiuto. Sia chiaro, un Principe della Chiesa ha tutto il diritto di rifiutare il confronto se non ritiene l’interlocutore all’altezza, senza con ciò smentire la sua volontà di dia-logo. Pretende solo atei più autorevoli. Ma visti i precedenti fin troppo lusinghieri in fatto di porporati che hanno accettato la discussione con Micro-Mega e con me, non è certo questo il motivo del rifiuto.


SUL QUALE

non provo neppure ad avanzare ipotesi. Mi interessa il futuro. Vorrei prenderla in parola, nella sua volontà di “dia-logo”, e organizzare con lei occasioni di confronto proprio con il metodo e sui temi che lei illustra nell’intervista. Discutere tra atei-atei e Chiesa gerarchica per “ricercare senza pretendere di sapere a priori”, su questioni che spaziano dal “senso dell’esistenza” alla “oltrevita, la morte, la categoria della verità” o “su ciò che significa Natura e legge naturale”, visto che da qui nascono le questioni eticamente sensibili che sempre più affollano l’agenda politica non solo italiana.
Si tratta, del resto, di temi previsti nel confronto con il cardinal Ratzinger, che non fu possibile affrontare per mancanza di tempo (vi era anche quello del Gesù storico, che certamente a lei, biblista di fama, interesserà). La invito dunque alle “Giornate della laicità” che si svolgeranno a Reggio Emilia dal 15 al 17 aprile, a cui hanno rifiutato di partecipare i quindici cardinali che abbiamo invitato, e nelle quali potrà discutere con atei non “anatre zoppe” come Savater, Hack, Odifreddi, Giorello, Pievani, Luzzatto, e buon ultimo il sottoscritto. Se poi la sua agenda non le
consentisse di accogliere questo invito, le propongo di organizzare insieme, lei ed io, una serie di confronti nei tempi e luoghi che riterrà opportuni. Devo però dirle, in tutta franchezza, che non riesco a liberarmi dalla sensazione – negli ultimi anni empiricamente suffragata – che il “dia-logo” che lei teorizza voglia invece eludere il confronto proprio con l’ateismo italiano più conseguente.

Con la speranza che i fatti mi smentiscano e che lei possa accettare la mia proposta, le invio intanto i miei più sinceri auguri di buon lavoro.

in “il Fatto Quotidiano” del 22 marzo 2011

 

 

La Chiesa in dialogo

 

di Jacques Noyer

 

La Chiesa cattolica vuole entrare in dialogo tanto nel cammino ecumenico quanto negli incontri interreligiosi. Vuole perfino aprire il dialogo con gli atei. Non si può che essere contenti di queste iniziative, totalmente in armonia con quel Dio di dialogo di cui Gesù ci ha rivelato il volto. La Trinità è dialogo. La Rivelazione è dialogo. L’evangelizzazione è dialogo.
Ma il dialogo presuppone che gli interlocutori accettino tra loro una certa uguaglianza e riconoscano in sé una certa fragilità. Ci si ritrova sotto lo sguardo di una ragione, di uno spirito di cui si accetta l’arbitraggio e si rinuncia così a conoscere in anticipo l’ultima parola verso cui ci si mette in cammino. Ma non si capisce bene come le istituzioni possano dialogare. Nazioni, partiti, organizzazioni diverse possono avere negoziati di pace, trattative d’alleanza, complicità d’azione.
Ma non possono dialogare. Se un rappresentante fosse colpito dalle argomentazioni dell’altro, non potrebbe più rappresentare la sua organizzazione. Si è condannati ad avere solo dei dialoghi tra sordi. Questo non significa che questi dibattiti non possano condurre, in seguito, nelle istituzioni, ad un’evoluzione del loro punto di vista, ma per niente al mondo accetteranno di dire che il cambiamento è avvenuto ascoltando l’altro: sarebbe ammissione di debolezza!
Le Chiese e le religioni possono dialogare ancor meno di altre istituzioni poiché le loro convinzioni sono presentate come sacre e quindi intangibili. Bloccate nelle loro certezze, possono al massimo cercare insieme delle formule sottili che nascondano le differenze. La stagnazione dell’ecumenismo, il blocco del dialogo teologico interreligioso ne sono la prova. Ugualmente, è proprio l’impossibilità del dialogo tra l’islam e l’ebraismo a rendere impossibile la pace in Israele. Le religioni sono più atte a fare la guerra, o almeno ad incoraggiarla, che a vivere il dialogo della comunità fraterna.
Se le religioni non possono dialogare, invece lo possono fare gli uomini, credenti o non credenti.
Ed è proprio quello che accade in tutti i quartieri in cui vivono credenti di diverse religioni o semplicemente in tutti  gli incontri amichevoli che accompagnano la vita sociale quotidiana. Sono molteplici le testimonianze sull’esistenza  e sulla fecondità di questi luoghi informali di parola.
Quando vediamo le folle dei paesi arabi sollevarsi in nome dei diritti umani per esigere un po’ più di democrazia, come non ammirare la forza del dialogo condiviso nell’ambito della mondializzazione o della laicità? Dio mi guardi dal vedervi il risultato di una certa evangelizzazione! Sarebbe un recupero odioso. Ma nessuno può negare di potervi  vedere il lavoro dello Spirito, e il Dio in cui credo certo ne è felice!
Sì, la Chiesa, questo popolo in cui vive lo Spirito, perché è fatta di uomini e di donne immersi nel mondo, può  dialogare col mondo. E lo fa da venti secoli. Lo fa oggi come ieri. Ma se la Chiesa è quell’istituzione gerarchica dalla  dottrina intangibile e dalla Verità Posseduta, allora non può farlo.
Se l’istituzione organizzasse il dialogo invece di averne paura, se essa stessa fosse dialogo tra i suoi membri, se la Chiesa si assumesse il rischio di desacralizzare il suo discorso di ieri e i suoi orpelli storici per cercare, oggi, adesso, la Verità con tutte le nazioni, essa potrebbe essere, come la sua Vocazione le chiede, il dialogo in cui lo Spirito fa nuove tutte le cose.

in “Témoignage chrétien” n° 3436 del 17 marzo 2011 (traduzione: finesettimana.org)

 

 

RASSEGNA  STAMPA

 

25 marzo 2011

“Per i cristiani, la Verità ci precede, nella persona di Cristo. Mentre agli occhi della cultura contemporanea, ciascuno di noi la costruisce. Da questa differenza derivano concezioni diverse del bene e del male, della libertà, della giustizia”
“L’esigenza di razionalità – che è essenziale – non fa scomparire quelle dimensioni del vissuto che sono il sacro, l’immaginario, l’istintivo o anche l’affettivo e evidentemente la credenza… (che non ha un significato univoco, perché mescola rappresentazioni più o meno razionali, credenze affettive, fede, fiducia, nel senso della fides latina)”
“«’L’incontro è differente e più profondo del dialogo. Questo è uno scambio che si situa al livello delle idee e della visione del mondo. L’incontro riguarda la nostra umanità nel suo cuore più profondo, la realtà della nostra persona con tutto quello che essa ha di debole e bello»”
“il dialogo costringe ciascuno ad essere méthorios, … cioè «colui che sta sulla frontiera», ben radicato nel suo territorio, ma con lo sguardo che si protende oltre il confine e l’orecchio che ascolta le ragioni dell’altro

 

“La circostanza non va giù a un gruppo di fedeli… «Le parole e gli atti di Gentilini sono incompatibili con il messaggio evangelico»… E lo sceriffo padano [discusso esponente leghista, noto per le sue pesanti esternazioni contro immigrati e omosessuali]? Non si scompone: «Dicano quello che vogliono… sono un cattolico praticante io, mica un comunista»”
“Il Cortile dei Gentili è cominciato ieri alle 15 nella sala XI dell’Unesco, a Parigi… si succedono autorità… ambasciatori… Getachew Engida… Gianfranco Ravasi… Giuliano Amato, protagonista di un intervento che fa pensare [che] evidenzia lo spostamento dei confini del bene e del male che è in atto… Fabrice Hadjadjj, filosofo e scrittore, che [invita] a cercare l’uomo non nell’efficienza ma «nell’epifania del suo volto»”
“«Mi interessa l’umanesimo, la differenza tra l’umanesimo cristiano e quello dei Lumi, e come quest’ultimo può rispondere alle questioni della nostra epoca… Non si tratta di distruggere la religione, come hanno tentato di fare i totalitarismi, ma neanche di accettarla: serve un lavoro di rivalutazione della memoria»”

 

“Il Gesù di cui parla Joseph Ratzinger nel suo libro appena uscito (Gesù di Nazaret – Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, che segue il primo volume pubblicato nel 2007) non è invece Gesù, bensì il Cristo dogmatizzato dai Concili di Nicea (325) e Calcedonia (451), dominati e decisi dagli imperatori di Roma, che con il Gesù della storia nulla ha a che fare e anzi contraddice e nega sotto ogni aspetto essenziale.” (ndr.: diversità non vuol dire per forza di cose opposizione. Certamente permane il problema di come far interagire l’ermeneutica storica con l’ermeneutica della fede)

 

24 marzo 2011

  • Ragione comune di Dominique Greiner in La Croix del 24 marzo 2011 (nostra traduzione)
“coloro che non credono, coloro che si dicono senza Dio non sono necessariamente indifferenti. Capaci di mobilitarsi per la promozione di valori universali, possono anche essere interessati a sentir parlare di Dio. Allo stesso tempo, il loro impegno può anche essere stimolante per quello dei cristiani”
“Fino agli anni ’70 del secolo scorso coloro che rifiutavano Dio lo facevano in maniera argomentata, proponendo un sistema costruito in parallelo – o in opposizione – al cristianesimo. Quindi c’era una base comune a partire dalla quale era possibile il dialogo. “Oggi le giovani generazione non conoscono veramente il termine Dio. Non esiste nella loro cultura””

 

“Dopo l’annuncio avvenuto a Roma nel dicembre del 2009 da parte di Benedetto XVI, il Cortile dei gentili… prende il via ufficialmente a Parigi, giovedì 24 e venerdì 25 marzo… Una scommessa in società fortemente secolarizzate… Per il cardinale Gianfranco Ravasi… questo dialogo è tuttavia possibile… malgrado la persistenza di forti sospetti tra i due mondi

 

 

“L’idea del Cortile dei Gentili corrisponde sicuramente ad un bisogno autentico sentito dai credenti illuminati e dalle persone di buon senso in ricerca. Benedetto XVI lo situa accanto al dialogo con le religioni.”

 

Cristiani, l’unità senza egoismi

In queste settimane e per i prossimi mesi, in vari momenti e diverse forme si celebrano i 150 anni dell’avvenuta Unità d’Italia, nonostante le contestazioni e la mancata partecipazione di alcuni a questa ricorrenza. Anche la chiesa cattolica che è in Italia ha voluto – nella maniera che le è propria, cioè attraverso una celebrazione liturgica – prendere parte alla memoria di questo evento.
Il papa, come vescovo di Roma (non si dimentichi che è in tale veste che presiede alla chiesa universale) e primate d’Italia, ha voluto indirizzare un messaggio non solo ai cattolici ma a tutti gli italiani.
Ma proprio perché quest’Unità d’Italia è stata faticosamente costruita anche contro il volere del papa – allora difensore non solo dell’onore di Dio ma anche di «Cesare», il potere politico che lui incarnava nello Stato pontificio – proprio perché c’è ancora chi vorrebbe che l’Italia tornasse a una federazione di staterelli, proprio perché nuove ideologie contrastano con la realtà di un’Italia unita, è bene interrogarsi sul significato di questa unità.
E io vorrei interrogarmi da cristiano e da cittadino italiano, due appartenenze che non sono né in contrasto né in concorrenza ma che, per essere vissute senza schizofrenia, abbisognano di lealtà, di riconoscimento della storia e di esercizio della  memoria, di una visione di solidarietà capace di convergenza per la polis. Come cristiani, abbiamo una parola da dire nei confronti di questa celebrazione e del suo significato? La risposta è certamente positiva: in Italia i cristiani abitano tranquillamente, sono membri della polis e come tali partecipano responsabilmente alla storia di questo paese senza evasioni e senza esenzioni.
Ma dobbiamo porci anche un’altra domanda: noi cristiani abbiamo una parola «cristiana» da dire sull’Italia unita? E qui la risposta si fa più articolata e richiede specificazioni. L’Italia non è né un articolo di fede, né un principio strutturale della chiesa che è cattolica, universale. Ma resta vero che questa terra «Italia» è la terra che i cristiani abitano nella consapevolezza che «ogni patria è per loro straniera e ogni terra straniera è loro patria» (Lettera a Diogneto).
Cosa significano queste parole, formulate nel II secolo d.C. e  ancora oggi utilizzate? Non indicano evasione o estraneità dei cristiani rispetto alla terra e allo Stato, ma che i cristiani sanno amare la terra che è stata data loro in sorte, che questa terra è per loro anche «patria» in quanto terra già dei loro padri, che i cristiani pregano per questa terra e per i loro governanti,  fossero anche non cristiani, così come pregavano per l’imperatore romano che era pagano (e, a volte, anche loro persecutore!), che i cristiani partecipano in tutto come cittadini alla costruzione della società italiana e lavorano per una convivenza in questa terra segnata da libertà, giustizia, eguaglianza, solidarietà, pace.
Ma questa appartenenza all’Italia certamente non deve suscitare nei cristiani un’ideologia nazionalistica, che si manifesta sempre in una egemonia rispetto ad altre terre, nella costruzione di un popolo «senza gli altri» e magari «contro gli altri». Il contributo più specifico dei cristiani alla costruzione di uno Stato unitario dovrebbe essere caratterizzato dal superamento di una pretesa superiorità della loro cultura, dalla negazione di un centralismo foriero di ideologie che, anziché preparare la pace, alimenta intolleranza e rifiuto dell’alterità di cultura, etica, religione… D’altro lato i cristiani dovrebbero vigilare che non si affermino spinte localistiche, che finiscono sempre per generare atteggiamenti razzisti o xenofobi, non solo verso le culture  lontane che si fanno presenti attraverso gli immigrati, ma addirittura verso la terra, la regione vicina. È vero che l’Italia è storicamente segnata da regioni che hanno una cultura propria più accentuata che in altre nazioni, ma la lingua è divenuta una, così come la cultura che ha dato il meglio dell’umanesimo e ha fatto compiere un cammino all’Italia è unitaria e convergente.
Un’unità d’Italia che nutrisse un’identità italiana segnata dalla vittoria del «medesimo» e da un ripiegamento autistico storico-sociale a causa dell’esclusione dell’altro, soprattutto dei tanti   poveri che giungono dall’altra sponda del mare nostrum, contraddirebbe gravemente l’ispirazione cristiana e cattolica.
Se penso alla mia vita, non posso dimenticare che fin da piccolo sono cresciuto con persone provenienti da altre regioni, con altri dialetti, con abitudini in parte diverse dalle mie: alle elementari, in un piccolissimo paese del Monferrato, avevo vicini di banco provenienti dal Polesine alluvionato, alle superiori in una cittadina di provincia avevo compagni calabresi e sardi, all’università a Torino ho incontrato studenti di tutte le regioni italiane. Non posso negare questa italianità, questo sentire che c’è un’Italia vissuta nella mia storia e che dunque non va negata né tanto meno ferita dalla negazione della solidarietà. La mia generazione ha imparato fin dalle elementari che non i localismi, ma l’Europa unita doveva essere l’orizzonte da tenere presente e in nome di un’affermazione di quei valori di libertà, di democrazia, di giustizia per i quali tanto si era combattuto in Europa nei tempi della modernità.
festeggiare l’unità d’Italia allora significa riconoscere ciò che lega gli abitanti di questa terra, affermare la solidarietà e la convergenza verso una polis segnata da giustizia e pace, senza ripiegamenti localistici, senza egoismi territoriali, senza esasperazioni della propria cultura locale.
Per questa unità d’Italia molti che ci hanno creduto hanno speso la vita e hanno saputo sacrificarsi perché il loro obiettivo era una «communitas italiana». Per noi oggi tutto questo è di  esempio, è un’eredità che comporta responsabilità, soprattutto di fronte a rigurgiti ideologici e a proclami e programmi che vorrebbero non solo dividere gli italiani, ma costruire una  «babele» locale in cui ciò che si afferma sa solo di barbarie.
Sì, come cristiano lontano da ogni nazionalismo, credo di amare questa terra d’Italia, volere che in essa cresca l’unità tra le popolazioni, così diverse ma così capaci di essere solidali l’una con l’altra, così disposte – lo spero, nonostante tutto – a una convergenza verso una polis più umanizzata, unite da una comune cittadinanza sempre più di suolo che non di sangue. Celebrare l’unità della nazione italiana, nell’orizzonte dell’unità del continente europeo e nella volontà di affermare sempre l’unità e la dignità di tutti e il rispetto di tutte le culture e le nazioni è un dovere che nasce dalla consapevolezza di essere cittadini che devono sperare tutti insieme e sentire questa terra come appartenente a tutti.

 

in “La Stampa” del 17 marzo 2011