Viva ed efficace è la parola di Dio

 

Pastore Corrado (a cura), Viva ed efficace è la parola di Dio (Ebr 4,12). Linee per l’animazione biblica della pastorale, Elledici, Leumann (TO) 2010, pp. 334.

 

Si tratta di una Miscellanea offerta a Don Cesare Bissoli, da parte dell’Istituto di Catechetica dell’Università Salesiana, in cui per oltre un trentennio ha prestato il suo servizio nell’ambito della pastorale e catechesi biblica, con innumerevoli interventi di riflessione e di pratica nella comunità ecclesiale italiana.

Il volume è stato pensato come uno strumento che servisse all’animazione biblica della pastorale, in un momento di affermazione di tale compito da parte del Sinodo sulla Parola di Dio e specificamente nella fase di crescita dell’incontro della gente con la Bibbia grazie anche all’apostolato biblico coltivato sempre più nelle diocesi e nelle comunità cristiane.

L’obiettivo è stato realizzato grazie al contributo di 22 esperti riconosciuti, tra cui sei vescovi, che hanno realizzato il progetto articolato in quattro parti.

Prima parte: elementi di fondazione biblico-teologica della Scrittura nella pastorale. Viene qui trattato il rapporto Bibbia e Tradizione nell’azione pastorale (B. Forte), come incontrare la Bibbia nel contesto culturale di oggi (L. Meddi), la lettura storico-critica e lettura spirituale del Libro sacro (R. Fabris), la relazione tra Parola, libro e lettore per una lettura orante della Scrittura (G. Benzi), il senso del detto gregoriano “La Scrittura cresce con chi la legge” (L. Chiarinelli).

Seconda parte: elementi di contenuto in vista dell’azione pastorale. Leggere la Bibbia e fare teologia (C. Buzzetti), l’AT nel cammino di fede (M. Cimosa), l’AT nella liturgia di rito romano (M. Sodi).

Terza parte: elementi attinenti alla comunicazione. Qui vengono presentate le luci ed ombre nella pastorale e catechesi biblica oggi (G. Giavini), Parola di Dio e ri-figurazioni audiovisive (D. Viganò), Bibbia, arte e catechesi (A. Scattolini), l’animatore biblico e la sua formazione (E. Biemmi), formazione di animatori di Gruppi di Ascolto (G. Barbieri).

Quarta parte. riferimenti ai destinatari. Iiniziare alla Bibbia nella comunità cristiana (A. Fontana), potenziale e limiti dell’incontro del bambino con la Bibbia (F. Feliziani Kannheiser), i giovani e la Bibbia (R. Tonelli), la Bibbia nell’esperienza scout (F. Chiulli – L. Marzona – D. Boscaro), Bibbia e  famiglia (C. Ghidelli), la Bibbia in America Latina oggi (C. Pastore).

Merita ricordare le pagine di inizio e di conclusione del volume. Il Cardinal A. Bagnasco, presidente della CEI, nella sua presentazione con accenti di stima ed amicizia ricorda il servizio di Don Bissoli alla Chiesa italiana. A conclusione lo stesso Don Cesare compie un bilancio del suo lavoro facendo una sintesi della sua bibliografia, che è andata oltre il campo strettamente biblico-pastorale, toccando tematiche riguardanti la catechesi, l’insegnamento della religione, la pastorale giovanile, temi pedagogici… Tutto – egli afferma – “al servizio della Chiesa oggi”. Questa può essere ritenuta la prospettiva di fondo di tutto il suo lavoro.

Gli operatori pastorali e gli animatori biblici possono qui trovare un materiale solido, aggiornato e fruibile per l’animazione biblica della pastorale. (Corrado Pastore)

Nucleare addio, parola di teologo


Intervista a Robert Spaemann a cura di Guido Kalberer

 


La Germania abbandona l’energia atomica. Cosa ne pensa?
«Meglio tardi che mai. Ma l’uscita è solo in una legge e non al 100%. Se ci saranno difficoltà di approvvigionamento energetico la legge potrà cambiare o si potrà rimandare lo spegnimento dei reattori. L’unico modo di prevenire queste eventualità è prescrivere l’abbandono dell’energia atomica nella Costituzione».

È ciò che lei propone?
«Sì, benché io non sia favorevole a scrivere nella Costituzione obiettivi politici di attualità. Ma in questo caso la posta in gioco supera ogni normale metro di paragone umano».

Le energie alternative potranno soddisfare il fabbisogno?
«Se non riusciamo a coprire in modo alternativo il fabbisogno energetico, dovremmo ridurre il fabbisogno.
Non possiamo dare per scontato di avere a disposizione in qualunque momento qualunque quantità di energia. È desiderabile ma non possiamo pretenderlo. Se possiamo produrre energia solo con  una tecnologia che minaccia il genere umano, allora è necessario disporre diversamente».

Quindi dobbiamo fare rinunce?
«Sì. Solo quando l’uomo è con le spalle al muro diventa inventivo. È stato sempre così. Finché si pensa che in caso di emergenza si può fare affidamento su ciò che già esiste, non si mobilitano tutte le forze. Solo la certezza che l’energia atomica non è più in gioco attiverà l’ingegno creativo».

Come risponde a chi dice che non è possibile vivere senza energia atomica?
«Questa sarebbe una costrizione oggettiva, ma non è un argomento: le costrizioni sono oggettive quando vogliamo un certo risultato. Allora si è obbligati a fare una cosa e non altre. Se però questa cosa si rivela impraticabile, bisogna cercare alternative. Chi non lo fa è ostile a innovare».

Occorrono disastri per spingere l’uomo a pensare diversamente?
«Sembra di sì. Questo immenso pericolo avrebbe potuto essere riconosciuto molto prima, considerando che nessuna assicurazione è disposta ad assumersene il rischio».

A cosa serve che Svizzera e Germania abbandonino l’energia atomica se la Russia ha in programma 30 nuovi reattori?
«In primo luogo, abbiamo un beneficio locale spegnendo i nostri reattori. È diverso se un reattore va fuori controllo nel nostro Paese o in Giappone. Si può ridurre il rischio locale, senza dover risolvere il problema globale. Poi possiamo essere un esempio. Qualcuno deve pur cominciare; se la Germania saprà fare a meno dell’energia atomica, ciò avrà ripercussioni sul mondo intero».

Quali sono gli argomenti contro l’energia atomica?
«Soprattutto l’incontrollabilità. Chi assicura che si può fare un uso pacifico dell’energia atomica pone sempre condizioni: per esempio che non avvengano guerre o attentati.
Ma il porre condizioni dimostra che l’uomo non sa controllare questa tecnologia. Si immagina un mondo perfetto in cui le maggiori fonti di pericolo vengono nascoste. E ciò che resta lo si dichiara sicuro. Ma ci sono anche argomenti filosofici. Cosa fa l’uomo quando si serve dell’energia atomica?
L’energia degli atomi è alla base della nostra esistenza materiale. Serve a mantenere la realtà quale essa è. E lo fa pacificamente e senza il nostro intervento. Quando sottraiamo questa energia alla sua funzione naturale, quando scindiamo i nuclei degli atomi e ne liberiamo la forza, tocchiamo qualcosa che ci trascende. È arroganza dire che ce la faremo».

L’uomo si sopravvaluta?
«Sì. C’è una situazione analoga in cui i miei argomenti sono altrettanto categorici: è la manipolazione del genoma umano. Proprio come con l’atomo, anche qui tocchiamo una struttura di base della nostra realtà non come materiale, ma come esseri viventi. Con la costruzione di nuove combinazioni genetiche possiamo mettere in moto processi di cui perdiamo il controllo».

Lei argomenta qui come Jürgen Habermas. L’uomo non può progettare il risultato della sua procreazione.
«Su questo siamo d’accordo.
L’umanità si dividerebbe in due classi: chi fa e chi è fatto. E ciò avrebbe conseguenze imprevedibili».

Lei è contrario anche perché ciò sarebbe una manipolazione del Creato?
«Si deve condurre il dibattito su basi puramente razionali. Ma l’argomento diventa più forte se si evoca il concetto di Creato: permette di imbrigliare la superbia dell’uomo che crede di poter fare
tutto».

Hans Jonas prescrive un’etica della responsabilità verso le generazioni future. Condivide il concetto?
«Sì. In relazione alle generazioni future c’è soprattutto il problema dei rifiuti radioattivi. I responsabili delle tecnologie atomiche dicono sempre: troveremo un deposito definitivo.
Qui si fa della suggestione basandola in modo irresponsabile su un ‘principio speranza’.
Sembrerebbe che Dio abbia il dovere di metterci sempre a disposizione ciò che risponde ai nostri bisogni momentanei. Oltre al dovere di considerare i rischi immediati posti da una centrale atomica, vi è l’obbligo di non costruire un reattore, prima di aver trovato un deposito definitivo per le scorie radioattive».

Dove vede il problema principale dei rifiuti radioattivi?
«Come si può oggi garantire per migliaia di anni la sicurezza di un deposito radioattivo definitivo?
Non abbiamo alcuna responsabilità positiva per le persone che popoleranno il pianeta nel futuro, ma non ci è permesso di rovinare la loro esistenza in modi già prevedibili, per esempio con la contaminazione atomica in aree che diventano così invivibili. Abbiamo l’ingenua e diffusa idea che, a differenza del passato, la nostra civiltà scientifico-tecnologica continuerà all’infinito. È assurdo. Il nostro sapere attuale sarà interamente tramandato e sarà a disposizione delle generazioni future?
Oggi non sappiamo più come sia stato possibile realizzare Stonehenge (sito neolitico con megaliti posti in circolo, ndt). Forse i nostri discendenti non conosceranno più i pericoli ai quali noi consapevolmente li esponiamo.
Non può essere questa la nostra eredità. È sconsiderato aumentare con l’energia atomica il potenziale di pericolo che la natura già contiene».

Lei non riesce a trovare niente di buono nell’energia atomica.
«La prima fissione nucleare servì ad annientare esseri umani. Non è un caso che con la prima applicazione dell’energia atomica si siano sterminate centinaia di migliaia di persone a Hiroshima. ‘Funziona davvero’, fu la prima reazione di Carl Friedrich von Weizsäcker (fisico nucleare e filosofotedesco). L’orrore venne più tardi. Se gli scienziati sono solo scienziati, non saranno capaci di aiutarci».

Per lei non c’è progresso, ma progressi. Cosa vuol dire?
«L’Europa vive da secoli della menzogna del progresso al singolare. Progresso vuol dire: migliore, più veloce, più brillante.
Sono cresciuto nel periodo nazista e fui assillato fino alla nausea con lo slogan ‘Con noi avanza la nuova era’. L’ideologia del progresso la proclamavano anche i nazisti. Il mio scetticismo verso il progresso risale a quel periodo buio: essere poco progressivo mi sembrava meglio che mettere le persone in campi di concentramento e ucciderle. Il progresso può essere meraviglioso, ma anche terribile. Da una parte ci sono progressi nella tecnica anestetica, dall’altra progressi della bomba atomica. A chi nomina il progresso dico: progresso di cosa e in quale direzione?».

Il pensiero cristiano ci porterebbe avanti?
«Certo! In tempi in cui la religione cristiana è stata dominante, non si pensava a un futuro infinito, come si fa oggi. Si aspettava la fine del mondo. Come descritto nel Nuovo Testamento, la storia termina con il ritorno di Cristo. Sì, credo che l’esistenza dell’umanità non durerà così a lungo; e ciò più per ragioni immanenti che non religiose. Il mio scetticismo sul fatto che l’umanità  sopravviverà è alimentato dal modo in cui l’uomo prende ora in mano il suo destino».

Come cristiano lei crede all’Apocalisse. Se siamo destinati a finire, a cosa serve lottare contro l’energia atomica?
«La sua domanda si basa sull’idea erronea che se una cosa accade in natura possiamo farla anche noi: se in natura ci sono vulcani, possiamo anche noi fare vulcani; se in natura un ramo cade su un uomo, allora anche noi possiamo fare lo stesso.

Non sappiamo cosa vuole la natura e quali siano i piani di Dio. Siccome Lenin credeva di conoscere il fine della storia, diceva che coloro che lavorano a rendere felice l’umanità non possono essere sottomessi a regole morali. L’arroganza è nel credere che qualcuno conosca quale sia il fine della storia. La concezione cristiana del termine della storia invece implica un’irruzione dall’esterno e non un immanente paradiso come risultato di uno sviluppo continuo. Il regno di Dio è la conseguenza di una fine improvvisa della storia precedente».

(traduzione di Marco Morosini)

in “Avvenire” del 19 lulgio 2011

Sì all’abbronzatura finta, no a interventi al naso

 

 

Un teologo morale inglese spiega perché si dovrebbe riflettere attentamente prima di chiedere interventi di chirurgia estetica.



Ornare il proprio corpo è una cosa antica quasi quanto l’umanità stessa. Essere come Dio ti ha fatto, storicamente parlando, non è stato mai abbastanza per la maggior parte delle culture del pianeta.
Invece di accontentarsi di star bene così, la gente da tempo immemorabile si è abituata a perforare, tatuare, rimuovere chirurgicamente certe estremità, anche tutte, si presume nella convinzione che queste azioni potessero migliorare il proprio corpo.


Molto prima che si giungesse all’età moderna con la sua capacità di trasformare le fattezze umane mediante la chirurgia plastica ed estetica, le culture primitive stavano già facendo questo. Ötzi, l’Uomo rinvenuto dal ghiaccio in Tirolo, il cui cadavere risale al Neolitico, ha dei tatuaggi, così come molte mummie dell’antico Egitto, risalenti a circa 2.000 anni fa. Anche in questo caso, ci sono prove che le mutilazioni genitali femminili (come si chiamano ora) risalgano ad almeno due millenni fa, e la circoncisione maschile deve essere ancora più antica. E non si sa chi fu il primo a bucare il lobo dell’orecchio per indossare gli orecchini. Queste sono solo alcune comuni modifiche del corpo, diffuse ancora oggi da noi: per fortuna l’idea di indossare anelli al collo per allungarlo non è andata diffondendosi oltre la cosiddetta “donna giraffa” della regione del Paudang in Myanmar.


Ma è nella nostra epoca che l’ornamento del corpo decolla sul serio. Con la chirurgia moderna poi si può fare molto di più. Lifting, miglioramenti al seno, riduzione del seno, interventi al naso, tutti questi sono diventati non solo possibili, ma vengono considerati persino di routine. E sappiamo tutti di chi ha intrapreso queste procedure troppo lontano nel tempo. Basta andare a vedere su Google le immagini di Michael Jackson da giovane per constatare gli interventi chirurgici cui è andato incontro, producendo quell’aspetto che i giornalisti amavano definire “bizzarre”. Lo stesso vale per quella signora chiamata “la sposa di Wildenstein”, una donna che si è letteralmente rovinata il volto con il ripetersi di procedure cosmetiche.


Prima di soccombere di fronte all’orrore di tutto questo – e questi esempi estremi sono davvero agghiaccianti – è importante sottolineare la differenza tra la chirurgia plastica e chirurgia estetica. La chirurgia plastica si occupa del recupero di forma e funzione di alcune parti del corpo. Molto di tutto questo è davvero essenziale – il trattamento delle vittime di ustioni e la ricostruzione, per esempio, di volo e mani dopo un incidente. Gli interventi di chirurgia cosmetica – alle volte chiamati chirurgia estetica – sono invece interventi chirurgici volti a migliorare l’aspetto di una persona. Questo a volte può anche essere lodevole: se qualcuno ha una deformità che deteriora gravemente la qualità della propria vita, è perfettamente accettabile: se il rischio di un intervento chirurgico è proporzionato al beneficio che si otterrà, per correggere la deformità, è positivo.


L’idea di proporzionalità costi/benefici è uno strumento importante dal punto di vista morale nel considerare se tali operazioni debbano andare avanti. Qualcuno la cui vita è stata resa difficile per via di un naso troppo grande potrebbe giudicare l’intervento chirurgico un piccolo prezzo da pagare,
nel caso che la rinoplastica possa migliorare in qualche modo la socializzazione. Qui, un chirurgo e uno psicologo avrebbero bisogno di consultare il paziente circa la strada migliore da intraprendere.
Ma cosa accade quando qualcuno vuole soltanto ottenere un aspetto esteticamente migliore, e pensa che il modo migliore per ottenerlo sia un naso più piccolo o un seno più prosperoso? Si può dire che il problema della chirurgia sia giustificato dalle ragioni avanzate sopra?


Come regola generale, la chirurgia non deve essere mai intrapresa senza un motivo serio. I motivi psicologici possono anche essere anche di grave entità, ma il desiderio di un aspetto migliore è immediatamente da ritenersi sospetto. Le apparenze sono per loro natura molto superficiali.
Cambiamo i nostri vestiti regolarmente, e alteriamo il nostro “look” – questo è un fatto che riguarda la moda in sé – ma possiamo davvero, ritenerci nel giusto se consideriamo il desiderio di cambiare, anche di molto, la nostra stessa carne ? Questa sembrerebbe essere non solo una misura estrema, ma fondamentalmente sbagliata. Il modo con cui si guarda a questioni di natura fisica – sarebbe sciocco negarlo – non dovrebbe importare più di tanto. Guardiamo a quanti mezzi abbiamo per indossare il make-up o sfoggiare un’abbronzatura, anche finta, ma risparmiamo il bisturi su noi stessi.
Indossare il make-up, anche andare dal parrucchiere, è un po’ come arrendersi alla pressione sociale per un aspetto più attraente, ma il ridurre chirurgicamente il proprio naso per apparire migliori davvero alla lunga ha il sapore di una resa. A questo punto potrebbe essere utile ricordare le parole
del grande Ann Widdecombe: “Ho trentadue denti, mi sento losca, brutta, sovrappeso, una zitella: che diavolo?”. Eppure lei era come Dio l’ha fatta, e noi siamo tutti quanti nelle sue stesse condizioni.


Ora il desiderio di modificare il proprio aspetto di per sé non è sbagliato, ma occorre valutarne anche la proporzionalità, vale a dire ci sono alcune altre considerazioni morali da valutare. Prima di tutto, si vuole davvero operare un cambiamento? Questo desiderio è il frutto di una decisione matura e deliberata? O in questo si è solo costretti dalla pressione esterna? A volte questo tipo di pressione è fin troppo facile da riconoscere (come nei casi di ragazze forzatamente sottoposte a mutilazioni genitali femminili), a volte, come in Occidente, è molto più sottile, ma comunque reale.
In secondo luogo, alcune procedure chirurgiche sono semplicemente sbagliate. Le mutilazioni genitali femminili costituiscono un buon esempio di questo: si tratta di un comportamento intrinsecamente negativo, sbagliato in sé, a prescindere dalle circostanze. Il motivo è che tale procedura non può mai essere per il bene della persona che viene “tagliata” in questo modo. Dal punto di vista medico può portare a complicazioni future, in modalità diverse: è impossibile pertanto vedere questo come qualcosa che sia un bene per la ragazza che lo riceve, ma piuttosto è qualcosa che la ragazza si vede imporre dalla società per un suo presunto bene. La circoncisione maschile, che può anche avere benefici per la salute, non è sbagliata di per sé, e può essere anche  giusta, a patto però che si svolga nelle condizioni adatte. Alcune procedure cosmetiche sono banali, nel senso che sono facilmente reversibili – come il taglio dei capelli, o la rasatura. Altre sono gravi, e se non ci sono motivi seri che le giustifichino, sono da ritenersi sbagliate.


Le donne (perché accade quasi sempre alle donne) devono resistere alla pressione a conformarsi a una forma particolare del corpo, di solito una forma del corpo che esse stesse, se fossero lasciate loro a decidere di loro stesse, non si sarebbero mai sognate di scegliere. Pensate alla figura della clessidra, così popolare nel XIX secolo. Alcune donne hanno una figura a clessidra naturale, ma altre hanno fatto interventi innaturali per ottenerne l’aspetto, come l’ingestione di tenie o la rimozione chirurgica di alcune costole. Questo non solo è contrario alla virtù della prudenza, ma rappresenta anche uno sforzo sproporzionato e, a guardare bene, rappresenta una pericolosa forma di ossessione del sé, del proprio aspetto fisico.


Francamente, il nostro modo di presentarci non è poi così determinante. La bellezza è solo una cosa esteriore e, come dice San Paolo: “Allo stesso modo le donne, vestite decorosamente, si adornino con pudore e riservatezza, non con trecce e ornamenti d’oro, perle o vesti sontuose, ma come si conviene a donne che onorano Dio con opere buone” (1 Tim 2,9-10). Questo dell’Apostolo non è il pensiero di un musone o un guastafeste, ma di uno che parla con buon senso. E’ il come sei dentro, ciò che conta veramente. Così che l’eccessiva enfasi sull’apparenza rappresenta quasi una forma di idolatria.


La maggior parte delle persone che leggono questo articolo probabilmente hanno dedicato anche oggi parte del loro tempo al proprio aspetto: anch’io ho spazzolato i capelli e mi sono lavato i denti, questa mattina, non solo per il mio bene, ma anche per quanti mi stanno intorno. Non sto sostenendo l’idea di vestire in maniera spartana, come messo in mostra dalla defunta moglie di Mao. Sto solo dicendo che abbiamo bisogno di mantenere una proporzione nelle cose, e che questo potrebbe riguardare soprattutto quanti si sentono sotto pressione per cercare di rispondere a diverse “presunte” necessità dettate dal costume sociale.

 


Padre Alexander Lucie-Smith è un teologo morale e autore di Narrative Theology and Moral
Theology (Ashgate, 2007).


in “Catholic Herald” del 4 luglio 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)

Geografia dell’Italia cattolica

 

 

Cartocci Roberto, Geografia dell’Italia cattolica, Il Mulino, Bologna 2011, EAN 9788815150608, pp. 200 , Euro 15,00.

 

Descrizione

 

 

Secondo un’opinione diffusa il cattolicesimo è un tratto unificante degli italiani, con una tradizionale frattura tra Lombardo-Veneto “bianco” e regioni “rosse”. Ma quanto c’è ancora di vero in questa geografia? Quanti sono i cattolici praticanti e in quali aree del paese sono più numerosi? Da alcuni interessanti indicatori (frequenza alla messa, otto per mille, insegnamento della religione, matrimoni civili, nascite fuori dal matrimonio) risulta che i praticanti sono una minoranza del 30-40% concentrata nelle regioni del Sud, la vera zona “bianca”. Per un verso, dunque, il cattolicesimo si accompagna a una sindrome meridionale fatta di minore ricchezza, inefficienza delle istituzioni e carenza di capitale sociale; per un altro, nella generale crisi della partecipazione sociale e politica, i movimenti ecclesiali costituiscono una risorsa tale da fornire alla Chiesa-istituzione un forte potere di veto.

 

 

Il Dio personale degli italiani. Al Sud la messa non è finita
di Michele Smargiassi
in “la Repubblica” del 7 luglio 2011


A Verona si celebrano più matrimoni civili che a Modena. A Belluno nascono più bambini da coppie non sposate che a Lucca. I goriziani negano il loro otto per mille alla Chiesa più dei pisani. A Venezia la quota di studenti che “non si avvalgono” dell’ora di religione cattolica è identica a quella di Ravenna. Ma dove sono finite le “regioni bianche”, il Triveneto devoto, il Nord-Est cattolico, fabbrica di papi e serbatoio di voti democristiani? Certo, i veneti vanno ancora a messa (uno su tre) molto più dei toscani (uno su cinque); ma lontano dal sagrato, nelle scelte individuali, intime, familiari, private, l’etica dell’Italia che per decenni fornì un modello di modernità credente, antagonista di quello scristianizzato ed edonista delle “regioni rosse”, ormai appare definitivamente omologata al resto del Nord. Dove al massimo si declina il comportamento religioso su modelli personali. La pratica più intensa della fede è colata giù, lungo i meridiani, di parecchie centinaia di chilometri. Basta una sola occhiata ai colori stesi da Roberto Cartocci, docente di Scienze politiche
a Bologna, sulla mappa che riassume la sua Geografia dell’Italia cattolica, per rendersi conto che negli ultimi anni è avvenuto, silenziosamente, un terremoto nei costumi religiosi nazionali. Un travaso di coscienze, una decantazione, un’elettrolisi che hanno spezzato in due il paese: al Nord la secolarizzazione, al Sud la devozione.


Lo studio che Cartocci e la sua équipe hanno realizzato per l’Istituto Cattaneo di Bologna (e pubblicato in volume da Il Mulino) mettendo a confronto tutti gli sparsi indicatori dei comportamenti in qualche modo legati alla morale cristiana, a prima vista non offre sorprese particolari. Tutti i trend che ci si potrebbe attendere dall’avanzata della società del disincanto sono rispettati: calano pian piano i matrimoni all’altare, si spopolano via via le navate, soprattutto di adulti in età attiva (25-44 anni), le coppie di fatto salgono in dieci anni dal 3,5% al 5,5%, e tutto questo avviene specialmente nelle grandi città, tra le classi più istruite e ricche, tra i maschi adulti, eccetera. Un lento processo in corso da almeno mezzo secolo, che erode però soltanto quello che i
sociologi chiamano “cattolicesimo di maggioranza”, quella massa di italiani pari grosso modo al cinquanta per cento della popolazione che si limita a rispettare i precetti più generali, a far capolino in chiesa a Natale e Pasqua. Resiste invece, almeno da un ventennio, attorno al trenta per cento, il “cattolicesimo di minoranza” di chi va a messa tutte le domeniche, al cui interno si rafforza addirittura, ed è un’eredità della spinta di Wojtyla, un dieci per cento di “cattolicesimo militante” fatto di animatori di parrocchia e di membri attivi dei movimenti ecclesiali.


Sulla base di questi indicatori è difficile dare una risposta univoca alla domanda fondamentale: gli italiani sono ancora cattolici? Ma certo, è quel che mostrano di essere nei loro comportamenti maggioritari: sei coppie su dieci si sposano all’altare, otto bambini su dieci nascono dopo le nozze, nove contribuenti su dieci regalano l’otto per mille alla Cei (e quindi lo fa anche la metà di quel venti per cento che non mette mai piede in chiesa), e nove ragazzi su dieci frequentano l’ora di religione a scuola. Ma questi parametri definiscono la fede o il conformismo sociale? Se è cattolico chi obbedisce almeno al precetto di santificare le feste (lo fa il 32,5%), bisognerà ammettere che in Italia i credenti sono solo una robusta minoranza, poco più di 18 milioni di persone, bambini compresi. E tuttavia «sono l’unica minoranza attiva e coesa che sia sopravvissuta alla crisi delle grandi ideologie», precisa Cartocci: dall’altra parte infatti non c’è un’organizzata, crescente e nuova moralità laica, ma solo un patchwork frutto della somma tra agnosticismo più o meno ideologico, materialismo distratto e consumista e religioni importate, dove i non-praticanti per convinta scelta non aumentano: sono il 15% da dieci anni.


Messo nel conto il disincanto generale della modernità, le cifre assolute di questa ricerca non dovrebbero dunque allarmare troppo i vescovi italiani. Le quantità, no. Ma la distribuzione territoriale invece sì, e parecchio. Perché il processo di secolarizzazione se non è travolgente, non è affatto omogeneo. Una polarizzazione fortissima è emersa: un confine antico che ricalca quello del regno borbonico, tagliando lo Stivale a metà. La più “laica” delle province meridionali, Latina, nella graduatoria dell’indice generale di secolarizzazione messo a punto dall’inchiesta, non raggiunge il punteggio della più “clericale” di quelle settentrionali, Vicenza.
Una delle spiegazioni è interna alla logica della statistica: il Nord-Est non si è affatto “sconvertito” in massa, piuttosto la base di credenti praticanti si è trovata diluita dall’arrivo di una popolazione non indifferente di immigrati di altre fedi. È probabilmente per effetto di questa redistribuzione demografica che in Friuli i non praticanti hanno sorpassato di recente i praticanti regolari. Ma gli immigrati ci sono anche nel Meridione. Dove  evidentemente è intervenuta una compensazione di altro genere. A sud di Roma la secolarizzazione ha rallentato, in molti casi si è arrestata (in Campania il record di frequenza alla messa domenicale, 42,8%, a Palermo quello delle nozze religiose, 76,1%), a volte si è ribaltata di segno, come nel caso clamoroso di Napoli, che fino al 1961 era la metropoli italiana col il numero più alto di matrimoni civili (17,7% nel ’51, quando a Milano erano il 5,4%), e che dagli anni Ottanta è passata in coda, scavalcata dall’irruenza laicista delle altre metropoli, anche meridionali (ora le nozze civili sono il 26,3 a Napoli contro il 57,6% di Milano e il 32,2% di Catania). Una “conversione” strepitosa che attende ancora una spiegazione, che però data dagli anni del dopo-terremoto e corre parallela al sorgere dell’impero di Gomorra: e le mafie sono sempre molto affezionate al rispetto delle tradizioni.
Devono essere allora contenti i vescovi della risorgenza al Sud dell’Italia “bianca” ormai estinta al Nord? Niente affatto, sostengono i ricercatori. Il Veneto cattolico aveva costruito una società ad alto “capitale sociale”, fondata su una rete di parrocchie che erano la trama vivificante del territorio, nuclei di partecipazione non solo religiosa ma anche civile e politica e verosimilmente non estranei al miracolo economico territoriale del Nord-Est oggi sofferente. La mappa della nuova Italia cattolica è invece sovrapponibile a quella dell’Italia del sottosviluppo economico, dell’inefficienza pubblica e del degrado civile. «Coincidenza non significa rapporto di causa ed effetto», è la cautela dello studioso, ma una coincidenza così perfetta invoca una richiesta urgente di spiegazioni. È un fatto, dimostrato dati alla mano nel volume: si prega di più dove c’è meno raccolta differenziata dei rifiuti, si va più a messa dove si emigra di più verso gli ospedali del Nord. La devozione meridionale tradizionale convive con una socialità disgregata, incapace di produrre più di un coinvolgimento puramente formale e rituale dei parrocchiani, di contrastare la corruzione delle istituzioni, il dilagare dell’illegalità, il degrado del senso di comunità, il deficit di Stato. Solo quando e dove la Chiesa si ribella a tutto questo, di colpo diventa incompatibile: è nel Meridione devoto, non riesce a non ricordare Cartocci spogliandosi dei panni dell’analista, che sono stati ammazzati due preti scomodi, don Pino Puglisi e don Peppino Diana. I vescovi questo lo sanno: e negli ultimi anni sfornano documenti sulla “questione meridionale” come mai prima. La “borbonizzazione” della pratica religiosa inquieta i pastori di un pezzo di Paese in cui risuona ancora, senza risposte, il furente grido di Giovanni Paolo II a Palermo: “Convertitevi!”.

«Caro Odifreddi, è un errore dividere matematica e fede»


«Caro Piergiorgio,


è l’alba e ho appena finito la tua “lettera” al Papa e devo dirti che la trovo una delle tue cose più belle (inclusa anche la Classical Recursion Theory). Tra l’altro mi sembra più profonda e riflessiva, e talora meno polemica di altre tue cose sul tema. Soprattutto ci intravedo la percezione della complessità del “fatto” religioso e credo che partendo di qui la distanza tra credenti e atei non sia poi tanto vasta.
Per un caso del destino ho finito di leggerla all’indomani del referendum, nel successo del quale pochi hanno osservato il ruolo svolto dal mondo cattolico, dai Francescani allo stesso Papa. In realtà la contrapposizione tra laici e cattolici è sempre stata nel XX secolo la fortuna della destra, e di questo era acutamente consapevole Enrico Berlinguer, il più grande leader della sinistra italiana nel secolo scorso, quando propose il “compromesso storico”, una proposta purtroppo presto svanita nella sinistra, nella nefasta opinione che il sostantivo, “compromesso”, derubricasse l’aggettivo, “storico”.

 

contrasti evidenti?


Ovviamente il tema mi ha sempre affascinato, in quanto matematico, cristiano e “di sinistra” (anche se, su tutti e tre i fronti, scarso a fede ed estraneo alle gerarchie). E ovviamente ci ho riflettuto sopra e mi sono chiesto perché tra religione e pensiero scientifico e laico io non trovo i contrasti evidenziati nelle tue parole (e anche in quelle del Papa): per me credere in Cristo e nel contempo esaltare la ragione laico-scientifica è, se non facile, sicuramente possibile, ed è per giunta un’avventura del pensiero tra le più affascinanti. Credo che questo accada anche perché ho un’idea della matematica (e della scienza) diversa da quella su cui mi sembra che voi due, papa reale e aspirante papa pentito, finiate col concordare: fate della matematica/logica lo strumento linguistico/ideologico e lo scheletro formale della scienza, fisica soprattutto. Il che per te è sinonimo di razionalità, per il Papa di scientismo freddo e formalista. Questa tesi storicamente si è consolidata parallelamente in campo teologico e in filosofia della scienza soprattutto in due periodi.

 


il tomismo


Nella media scolastica: il tomismo ha definito il rapporto tra teologia e scienza nei termini di fede e osservazione empirica connesse metafisicamente, i mertoniani hanno usato la metafora geometrica per descrivere gli osservabili fisici. E poi nel passaggio tra ottocento e novecento: il neotomismo ha visto il male nascere dalle filosofie moderniste (il materialismo, il relativismo, il socialismo, etc.), e positivismo e neopositivismo hanno ridotto la matematica/ logica ad aspetto linguistico di una scienza empirista.
In mezzo il concilio di Trento e il divorzio tra la cultura cristiana e la sua “figlia prediletta”, la scienza. E subito dopo Galileo, la sua scienza e il suo processo. Così oggi i teologi accettano la scienza come osservazione del Creato ma la rigettano nella sua forma razionale totalizzante, i
filosofi della scienza considerano la scienza come impresa sostanzialmente empirica, cui la matematica deve adeguarsi come linguaggio per esprimerne i risultati. Certo tu noti giustamente che la matematica non è solo esprit de geometrie, ma mi sembra che nella polemica tu a quello finisci col ridurla per difendere un’idea di verità di stampo tutto sommato positivista. Ti propongo invece un’idea che acquista sempre più peso nei miei corsi di storia: la complessità del “fatto” matematico.

 

la più antica disciplina


La matematica è la più antica delle discipline, individuata e caratterizzata da almeno quattromila anni. Al punto che uno scriba babilonese disibernato oggi potrebbe fare un ottimo corso di matematica alle elementari, e un matematico ellenistico arrivare anche alle medie inferiori. Potrebbe qualcuno fondare sull’Enuma Elish sumerico o sulla mitologia greca la formazione di un fisico o di uno psicologo o di un filosofo o di un teologo? Questo fatto può avere due spiegazioni: o la matematica è la più banale delle tecniche o è la più profonda delle antropologie. Io credo che la seconda sia quella giusta. Anche perché così diventa più chiara la profonda interconnessione tra matematica e religione che possiamo riscontrare sin dalla notte dei tempi, dai Babilonesi e Induisti sino a Cantor.
La connessione moderna tra matematica e fisica risale invece al massimo alla fine del Medioevo, mentre prima appariva indiscutibile l’osservazione aristotelica: come può la matematica che è scienza dell’essere applicarsi alla physis, e cioè al divenire? La fisica-matematica è ovviamente una delle più grandi creazioni dello spirito umano, ma questo non vuol dire che caratterizzi la natura dell’opera matematica. E la riduzione della matematica a strumento linguistico della scienza mi sembra una delle peggiori turpitudini moderne. E stupide le “difese” della matematica basate sulla sua utilità o sulla sua bellezza: la matematica è ben più che uno strumento più o meno “utile” e “bello” della scienza, è invece la più radicale delle antropologie. Anzi io staccherei i dipartimenti di Matematica dalla facoltà di Scienze.
Credo allora che il contrasto tra pensiero matematico e religione (non filosofica) sia dovuto solo al dogmatismo filosofico che caratterizza tanto i teologi quanto gli atei: svanito questo, svanisce anche quello. In realtà io sono abbastanza d’accordo con i tuoi argomenti (ad esempio sulla mania teologica per il verbo “essere”). E credo da cristiano che tu alla lunga potresti fare tanto bene alla Chiesa (più o meno quanto le denunce dei preti pedofili) da essere quasi beatificabile (anche se credo che spesso tu faccia polemica per puro amore della polemica e per difendere la tua “immagine”).
È quando riduci i tuoi argomenti a una presupposizione positivista che non concordo più: mi sembra una delle tante filosofie della scienza incompatibili con la storia della scienza. Credo che abbia ragione il Papa a considerare incompleta la ragione scientifica, ed abbia ragione tu a considerare incompleta la ragione teologica. Ma non potete dialogare poiché entrambi cercate nella filosofia la completabilità della vostra ragione. A Bari, terra di cinici, diremmo ’o policlin’k ’uè la salut’? (“al policlinico cerchi la salute?”). In realtà non sembra neanche un dibattito, ha più i caratteri di una sorta di “antinomia della ragion pura”. In verità, per quanto io ami la filosofia, divento sempre più intollerante del dogmatismo dei filosofi “con le idee chiare”, e sogno invece una filosofia rapsodica, una piantina insicura, umile e timida, cresciuta all’ombra della storia. Sono le filosofie “pesanti”, tanto analitiche che continentali, che vogliono essere coerenti e riempire tutti i buchi, ad affaticarmi
tanto in teologia quanto in filosofia della scienza. E a questo proposito potrei ammonire, come l’Amleto di Shakespeare, “there are more things in mathematics and religion, Horatio, than are dreamt in your philosophy!”.


Ti abbraccio gb


in “l’Unità” del 5 luglio 2011


Il libro

Odifreddi Piergiorgio, Caro Papa, ti scrivo, Mondadori,  Milano 2011, ISBN: 8804610077, pp. 196

Descrizione

Nell’autunno del 1959 Piergiorgio Odifreddi varcò la soglia del Seminario di Cuneo. La sua intenzione era quella di diventare un giorno papa, e benedire da una finestra di Piazza San Pietro la folla estasiata. Ma presto imparò che «il cammino che porta al soglio pontificio è più accidentato e tortuoso di quanto un bambino avesse ingenuamente potuto immaginare». E, soprattutto, che «per poter un giorno comandare bisognava iniziare subito a obbedire» e a essere rispettosi: cosa che già allora non gli piaceva particolarmente. Cinquant’anni dopo, il matematico impertinente ricorda quei tempi e, contenendo per una volta il suo abituale tono urticante e provocatorio, scrive con grande rispetto e sincerità a chi papa lo è diventato per davvero. Anche se, da scienziato, non abiura al dovere intellettuale di rimanere saldamente ancorato ai fatti della realtà fisica, storica e biologica. Ed è dunque costretto a confutare punto per punto il teologo Joseph Ratzinger, che crede invece in ciò che va «oltre » la realtà e sconfina nella metafisica, nella metastoria e nella metabiologia. In questa lettera si confrontano così due metodi, due atteggiamenti, due visioni del mondo. Da un lato il «comprendere per credere», che accetta prudentemente di dar credito soltanto a ciò che si capisce e si conosce. E dall’altro il «credere per comprendere», che si azzarda a scommettere su ciò che ancora non si capisce o non si conosce, nella speranza che tutto poi si chiarificherà o giustificherà. Ma, soprattutto, in questa lettera si contrappongono due Credi. Da un lato, il Credo canonico dei fedeli, commentato da Ratzinger nella sua memorabile Introduzione al cristianesimo. E dall’altro il Credo apocrifo dei razionalisti, enunciato da Odifreddi in una lettera che si presenta come un’altrettanto memorabile introduzione all’ateismo.


La teologia del Novecento

 

 

Fulvio Ferrario, La teologia del Novecento, Carocci, 2011, pp. 304, € 24


 

Anche se il XX secolo ha conosciuto una crisi del rapporto tra Chiese e società — le grandi masse lontano dalle pratiche religiose, l’ateismo comunista al potere, la secolarizzazione — non si può dire che la teologia del Novecento sia stata debole, anzi. Quasi come una forza di reazione, essa ha saputo opporsi alle sfide del «secolo breve» e oggi ci accorgiamo che figure come Karl Barth o Dietrich Bonhoeffer, Hans Urs von Balthasar o Rudolf Bultmann restano indiscussi punti di riferimento. Quella del Novecento è stata una teologia che sino a una buona parte degli anni Sessanta ha parlato tedesco, poi ha preferito l’inglese, grazie anche ai mezzi messi a disposizione dagli istituti americani; inoltre si può dire che questa ricerca continua di Dio ha avuto alimentatori filosofici formidabili (primo fra tutti Martin Heidegger) o spazi nuovi di confronto (genetica o tecnologia), soprattutto si è trovata davanti una società che al trascendente ha chiesto soluzioni sulla terra. È insomma stato un pensiero che ha saputo riflettere sulla morte di Dio (tema già presente in Schiller e nell’Ottocento tedesco prima che in Nietzsche, divenuto però popolare nella seconda metà del Novecento) e infine sulle scoperte di Qumran e di Nag Hammadi. I testi qui ritrovati hanno avviato nuovi capitoli di storia dell’esegesi della Parola. Fulvio Ferrario ha tracciato con competenza l’avventura di questo universo ne La teologia del Novecento (Carocci, pp. 304, € 24), offrendoci un manuale utile e comprensibile.

È il ritratto dell’anima del secolo scorso, oltre che il registro di tanti pensieri sopravvissuti alle guerre e alle ideologie. Dieci decenni che con Freud hanno creduto che Dio potesse essere «un padre potenziato» (in Totem e tabù) e con Einstein si sono infine accorti che il Creatore non gioca mai a dadi con il mondo.


in “Corriere della Sera” del 5 luglio 2011

Perseverare nella speranza


Cari amici e ospiti,


quanti di voi ci frequentano con maggiore assiduità o seguono gli interventi del Priore su giornali e periodici avranno notato una nostra crescente preoccupazione per la situazione ecclesiale, italiana ma non solo. Avvertiamo un clima di stanchezza, di fatica, di scoramento che qualcuno ha riassunto in un’espressione molto efficace: “Manca il respiro”. Quello che già anni fa era stato definito uno “scisma sommerso” ha assunto più i tratti di un sofferto silenzio, di un ritrarsi in disparte riflettendo su un grigiore che come nebbia autunnale sembra avvolgere e intridere tutto. Anche tra di noi, i più anziani, che han conosciuto lo slancio della primavera conciliare, vedono sfuocarsi sempre più le speranze nate allora dalla fede salda e dall’audacia profetica non di singole figure ma della massima autorità magisteriale cattolica: un concilio ecumenico cum Petro et sub Petro. I più giovani risentono del clima da orizzonte chiuso con cui deve quotidianamente confrontarsi la loro
generazione cui viene negata la credibilità stessa di un possibile futuro migliore. Sì, dire che “manca il respiro” non significa solo avvertire l’affanno di polmoni affaticati o non irrorati da aria fresca, ma vuol dire anche constatare che “il nostro respiro” di credenti, lo Spirito del Signore risorto trova ostacoli nell’aprire mente e cuore alla sua volontà di pace e vita piena.


Assistiamo alla voce sempre più soffocata di quella che nella chiesa non si dovrebbe chiamare “opinione pubblica” ma piuttosto sensus fidelium: la sensibilità, la percezione della fede e delle sue implicazioni che ogni battezzato è abilitato dallo Spirito santo a esercitare e ad alimentare attraverso il confronto con i fratelli e le sorelle nella fede, attraverso la correzione fraterna, l’ascolto reciproco, la comune edificazione di quell’edificio spirituale di cui siamo chiamati a essere “pietre vive” (cf. 1Pt 2,5). Oggi, nel torpore dominante, molte delle stesse guide della comunità cristiana paiono incapaci di una parola convinta, decisa, obbediente al “sì sì, no no” evangelico, una parola in grado cioè di far risuonare con vigore nell’oggi della storia le assolute esigenze cristiane. Quando anche la voce di un pastore si leva con parresia, questa cade senza ulteriori risonanze perché il paradossale intreccio di mutismo e frastuono, unito all’assuefazione alla menzogna, la soffocano sul nascere o la relegano nel campo delle buone intenzioni di un personaggio “singolare”.


Per contro, quasi ogni giorno vi è chi vuol far apparire la chiesa come un’arena in cui si fronteggiano fazioni contrapposte, incapaci di ascoltarsi e di ricercare insieme un cammino di comunione e tese invece a tacitare “l’altro”, a prevalere negli organigrammi, a “vincere” chissà quale conflitto ideologico. Eppure Gesù ha ammonito con forza i suoi discepoli. “Non così tra voi!” (Mc 10,43). E “non così” si erano comportati i padri conciliari al Vaticano II, che avevano saputo confrontare le loro diverse visioni di chiesa per sottometterle al giudizio della parola di Dio e del suo farsi storia nell’oggi dell’umanità, fino a farle convergere in una lettura condivisa perché docile allo Spirito.


Questo nostro tempo si sta rivelando tempo di prova e di sofferenza. Certo, non la prova estrema della persecuzione e del martirio, cui tanti nostri fratelli e sorelle nella fede vanno incontro, ma la prova della perseveranza, della fedeltà a scrutare “come se si vedesse l’invisibile”. Anche dopo la vittoria di Cristo, dopo la sua resurrezione e la trasmissione delle energie del Risorto al cristiano, resta infatti ancora operante l’influsso del “principe di questo mondo” (2 Cor 4,4), sicché il tempo del cristiano permane tempo di esilio, di pellegrinaggio, in attesa della realtà escatologica in cui Dio sarà tutto in tutti. Il cristiano infatti sa – e non ci stancheremo mai di ripeterlo in un’epoca che non ha più il coraggio di parlare né di perseveranza né tanto meno di eternità, in un’epoca appiattita sull’immediato e sull’attualità – che il tempo è aperto all’eternità, alla vita eterna, a un tempo riempito solo da Dio: questa è la meta di tutti i tempi, in cui “Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre”
(Ebr 13,8). Il télos delle nostre vite è la vita eterna e quindi i nostri giorni sono attesa di questo incontro con il Dio che viene.


Risuonano quanto mai attuali le parole di Dietrich Bonhoeffer, testimone di Cristo in mezzo ai suoi fratelli in una stagione di martirio per quei cristiani che avevano rifiutato ogni compromesso con la barbarie nazista: “La perdita della memoria morale non è forse il motivo dello sfaldarsi di tutti i vincoli, dell’amore, del matrimonio, dell’amicizia, della fedeltà? Niente resta, niente si radica. Tutto è a breve termine, tutto ha breve respiro. Ma beni come la giustizia, la verità, la bellezza e in generale tutte le grandi realizzazioni richiedono tempo, stabilità, ‘memoria’, altrimenti degenerano.


Chi non è disposto a portare la responsabilità di un passato e a dare forma a un futuro, costui è uno ‘smemorato’, e io non so come si possa colpire, affrontare, far riflettere una persona simile”. Scritte quasi settant’anni fa, queste parole pongono il problema della fedeltà e della perseveranza: realtà oggi rare, parole che non sappiamo più declinare, dimensione a volte sentite perfino come sospette o sorpassate e di cui – si pensa – solo qualche nostalgico dei “valori di una volta” potrebbe auspicare un ritorno.


Ora, se la fedeltà è virtù essenziale a ogni relazione interpersonale, la perseveranza è la virtù specifica del tempo: esse pertanto ci interpellano sulla relazione con l’altro. Non solo, i valori che tutti proclamiamo grandi e assoluti esistono e prendono forma solo grazie ad esse: che cos’è la
giustizia senza la fedeltà di uomini giusti? Che cos’è la libertà senza la perseveranza di persone libere? Non esiste valore né virtù senza  perseveranza e fedeltà! Oggi, nel tempo frantumato e senza vincoli, queste realtà si configurano come una sfida per ogni essere umano e, in particolare, per il cristiano. Ma come riconoscere la propria fedeltà se non a partire dalla fede in Colui che è fedele?
In questo senso il cristiano “fedele” è colui che è capace di memoria Dei, che ricorda l’agire del Signore: la memoria sempre rinnovata della fedeltà divina è ciò che può suscitare e sostenere la fedeltà del credente nel momento stesso in cui gli rivela la propria infedeltà. E questo è esattamente ciò che, al cuore della vita della chiesa, avviene nell’anamnesi eucaristica.


È lì, al cuore della nostra fede, che dobbiamo tornare per ritrovare speranza contro ogni speranza, per ritrovare un respiro capace di riaprirci orizzonti di vita piena, perché nulla mai potrà separarci dall’amore di Dio e dal Vangelo che ce lo ha narrato I fratelli e le sorelle di Bose


in “ lettera agli amici” n. 52 (http://www.monasterodibose.it) del 12 giugno 2011

Liquidazione della religione?

 

«Il fanatismo scientifico»un libro di Richard Schröder

 

Laureato in teologia, docente di filosofia alla Humboldt-Universität di Berlino, giudice costituzionale del Brandeburgo, presidente del senato della Deutsche nationalforschung di Weimar, membro del Consiglio nazionale di etica e dell’Accademia delle scienze di Berlino, insignito di vari premi e lauree honoris causa e altro ancora: a un auto

La vergogna e la fortuna

 

un libro coraggioso  di Bianca Stancanelli (Marsilio, 350 pagine, 19 euro): ventuno storie di vita rom, ognuna con la sua specificità, senza mai nascondere nulla.

 

Nel 1422 una nuova popolazione si affacciò in Italia, e non riscosse il plauso di un cronista bolognese, rimasto anonimo. «Era la più brutta genia che mai fosse in queste parti. Erano magri e negri e mangiavano come porci». È passato qualche anno da allora, loro sono rimasti dalle nostre parti. Ma l’opinione di molti sui rom non è molto differente da quella riportata qui sopra. Anche per questo — per il suo essere un piccolo antidoto alla nostra eterna  paura dell’altro, perché affronta un tema scabroso e difficile — La vergogna e la fortuna (Marsilio, 350 pagine, 19 euro), di Bianca Stancanelli, è un libro coraggioso. Ventuno storie di vita rom, ognuna con la sua specificità, senza mai nascondere nulla, senza mai cadere nello stereotipo opposto, quello del popolo che a forza di essere vento assurge a una categoria poetica. Coraggioso non è sinonimo di militante. Stancanelli applica lo stesso metodo che ha usato per raccontare la vita di don Pino Puglisi in A testa alta: è la cara, vecchia cronaca, niente di più. Solo che questa volta il tema è dei più difficili per i nostri palati abituati al pregiudizio. E per vederne gli effetti, basta leggere la vicenda dei genitori dei 4 bimbi bruciati in una roulotte a Livorno nel 2007. Provate, se avete figli, a mettervi nei loro panni, come
talvolta capita in questi giorni con i padri storditi dall’afa che dimenticano i bimbi in macchina, ai quali offriamo una confusa solidarietà. E poi a proseguire, seguendo la violenza giudiziaria che hanno dovuto patire, colpevoli soprattutto di essere zingari. Questo libro non è un almanacco di tipi umani, perché ogni vicenda personale si fonde con informazioni decisive e sconosciute ai più. La vergogna e la fortuna, che tra gli altri pregi ha quello della bella scrittura, non fa sconti alla nostra memoria. Quanti si ricordano di Emilia Neamtu? Era la rom che tentò di fermare la mano di Nicolae Mailat, il delinquente che aggredì e straziò Giovanna Reggiani, al buio di un vialetto all’uscita di un fermata periferica della metropolitana di Roma. Mailat, romeno, divenne rom per ellissi e convenienza, Emilia cadde nell’oblio, non era funzionale alla narrazione richiesta allora. Alla fine restano soprattutto i volti delle persone, gli esempi di vita. Marta, che considerava Natale il tempo della vergogna, perché quello era il periodo in cui le toccava chiedere  l’elemosina per strada. La giovane rom di Torino che miete premi con i suoi film e un giorno, forse, stringerà la mano a
Woody Allen. E anche l’autrice, che non fa sconti a neppure a se stessa e descrive la sue esitazioni nel premere il citofono di un palazzo elegante per incontrare l’ex operaio Graziano Halilovic: in fondo, si scopre a pensare, uno zingaro deve stare in una baracca, non in un quartiere borghese.
Appunti a futura memoria da un libro esemplare, magari da far leggere a chi ancora la pensa come l’anonimo bolognese e straparla di zingaropoli. I rom sono fragili e forti, umani e furbi, virtuosi e imperfetti. Come tutti, come noi.

 

Marco Imarisio
in “Corriere della Sera” del 30 maggio 2011

Clemente Vismara: un missionario beato


Ha passato la vita in missione. Ha piantato la Chiesa dove mai il cristianesimo era arrivato. Una santità ordinaria, che semplicemente ha  messo in pratica il Discorso della Montagna



La beatificazione di Giovanni Paolo II ha scosso come un ciclone il mondo intero. “Ma vi sono anche altri testimoni esemplari di Cristo, molto meno noti, che la Chiesa addita con gioia alla venerazione dei fedeli”: così ha detto Benedetto XVI al “Regina Cæli” di due domeniche dopo.

Quello dei santi umili e ordinari – anche quelli che non avranno mai l’aureola – è un tema chiave nella predicazione di papa Joseph Ratzinger. Per lui i santi sono “la più grande apologia della nostra fede”. Assieme all’arte e alla musica, ha aggiunto spesso. E molto più degli argomenti di ragione.

Detta da un papa grande teologo e grande ragionatore, l’affermazione può sorprendere. Ma è del tutto in linea con un altro dei suoi tratti caratterizzanti: quello di mettere la teologia al servizio della “fede dei semplici”.

I santi – ha detto Benedetto XVI in più occasioni – “sono quella grande scia luminosa con la quale Iddio ha attraversato la storia. Vediamo che lì veramente c’è una forza del bene che resiste ai millenni. Lì c’è veramente la luce dalla luce”.

Una di queste luci si accenderà a una più larga attenzione il 26 giugno, giorno della festa del Corpus Domini, quando a Milano sarà beatificato un sacerdote di nome Clemente Vismara, morto nel 1988 all’età di 91 anni, spesi fino all’ultimo in terra di missione, in un angolo remoto della Birmania.

La sua biografia è il racconto di quella santità ordinaria che tanto piace a questo papa che s’è definito “umile lavoratore nella vigna del Signore”.

Il profilo del nuovo beato riprodotto qui sotto è stato scritto da un confratello che l’ha conosciuto molto da vicino: padre Piero Gheddo, anche lui appartenente al Pontificio Istituto Missioni Estere, anche lui da decenni missionario con quello stile “antico” che risale agli stessi apostoli. Non per nulla Giovanni Paolo II chiese a padre Gheddo di scrivergli una traccia per l’enciclica del 1990 “Redemptoris Missio”, mirata a rinvigorire il genuino spirito missionario in un’epoca in cui sembra andato fuori moda.

Nella buddista Birmania, oggi detta Myanmar, i cattolici sono poco più di uno ogni cento abitanti. Ma se la fede cristiana vi si è radicata, lo si deve proprio a un missionario come padre Vismara, prossimo beato.

Lo si deve alla “scia luminosa” irradiata dalla sua santità.

Questo profilo del nuovo beato scritto da padre Gheddo è uscito su “Asia News”, l’agenzia on line dell’istituto missionario al quale padre Vismara apparteneva.

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IL NUOVO BEATO CLEMENTE VISMARA, PATRIARCA DELLA BIRMANIA

di Piero Gheddo

Domenica 26 giugno in Piazza Duomo a Milano verrà beatificato padre Clemente Vismara (1897-1988), che nel 1983, quando compì i suoi sessant’anni di missione in Myanmar, la conferenza episcopale del luogo proclamò “Patriarca della Birmania”.

Nato ad Agrate Brianza nel 1897, partecipa come fante di trincea alla prima guerra mondiale, alla fine della quale è sergente maggiore con tre medaglie al valor militare. Capisce che “la vita ha valore solo se la si dona agli altri” (come scriveva), diventa sacerdote e missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere, PIME, nel 1923 e parte per la Birmania. Giunto a Toungoo, l’ultima città con un governatore britannico, si ferma sei mesi a casa del vescovo per imparare l’inglese, poi è destinato a Kengtung, territorio forestale, montuoso, quasi inesplorato e abitato da tribali, ancora sotto il dominio di un re locale (saboà) patrocinato dagli inglesi. In quattordici giorni a cavallo arriva a Kengtung, tre mesi di sosta per imparare qualcosa delle lingue locali e poi il superiore della missione in sei giorni a cavallo lo porta a Monglin, la sua ultima destinazione ai confini tra Laos, Cina e Thailandia.

Era  l’ottobre 1924 e in 32 anni (con la seconda guerra mondiale in mezzo, nella quale cade prigioniero dei giapponesi), Clemente Vismara fonda dal nulla tre parrocchie: Monglin, Mong Phyak e Kenglap. Scriveva ad Agrate: “Qui sono a 120 chilometri da Kengtung, se voglio vedere un altro cristiano debbo guardarmi allo specchio”. Vive con tre orfani in un capannone di fango e paglia. Il suo apostolato è girare i villaggi dei tribali a cavallo, piantare la sua tenda e farsi conoscere: porta medicine, strappa i denti che fanno male, si adatta a vivere con loro, al clima, ai pericoli, al cibo, riso e salsa piccante, la carne se la procurava con battute di caccia. Fin dall’inizio porta a Monglin orfani e bambini abbandonati per educarli. In seguito fondò un orfanotrofio e divenne la casa di 200-250 orfani e orfane. Oggi è invocato “protettore dei bambini” e fa molte grazie che  riguardano i piccoli e le famiglie.

Una vita poverissima e Clemente scriveva: “Qui è peggio che quando ero in trincea sull’Adamello e sul Monte Maio, ma questa guerra l’ho voluta io e debbo combatterla fino in fondo con l’aiuto di Dio. Sono sempre nelle mani di Dio”. A poco a poco nasce una comunità cristiana, arrivano le suore di Maria Bambina ad aiutarlo, fonda scuole e cappelle, officine e risaie, canali d’irrigazione, insegna la falegnameria e la meccanica, costruisce case in muratura e porta nuove coltivazioni, il frumento, il granoturco, il baco da seta, la verdura (carote, cipolle, insalata: “Il padre mangia l’erba”, diceva la gente).

In breve, il beato Clemente ha fondato la Chiesa in un angolo di mondo dove non ci sono turisti ma solo contrabbandieri d’oppio, stregoni e guerriglieri di varia estrazione; ha portato la pace e stabilizzato sul territorio le tribù nomadi che, attraverso la scuola e l’assistenza sanitaria, si sono elevate e oggi hanno medici e infermiere, artigiani e insegnanti, preti e suore, autorità civili e vescovi. Non pochi si chiamano Clemente e Clementina.

Nel 1956, dopo che aveva fondato la cittadella cristiana di Monglin e convertito una cinquantina  di villaggi alla fede in Cristo, il vescovo lo sposta a Mongping, a 250 chilometri da Monglin nella sterminata diocesi di Kengtung, dove deve ricominciare da zero. Clemente scrive ad un suo fratello: “Obbedisco al vescovo perché capisco che se faccio di testa mia sbaglio”. A sessant’anni dà inizio a una nuova missione e fonda la cittadella cristiana e parrocchia di Mongping, una seconda parrocchia a Tongtà e lascia in eredità altri cinquanta villaggi cattolici.

Muore il 15 giugno 1988 a Mongping ed è sepolto vicino alla chiesa e alla grotta di Lourdes da lui costruite. Sulla sua tomba, visitata anche da molti non cristiani, non mancano mai i fiori freschi e i lumini accesi. Ora, 23 anni dopo,  il 26 giugno 2011, padre Clemente Vismara è proclamato beato della Chiesa universale ed è il primo beato della Birmania. Una causa di beatificazione rapidissima, considerando i tempi lunghi di questi “processi” romani.

Perché padre Clemente Vismara diventa beato? In vita non ha fatto miracoli, non ha avuto visioni o rivelazioni, non era un mistico e nemmeno un teologo, non ha compiuto grandi opere né è emerso per qualità o carismi straordinari. Era un missionario come tutti gli altri, tant’è vero che quando nel PIME si discuteva di iniziare la sua causa di beatificazione, qualche suo confratello della Birmania diceva: “Se fate beato lui dovete fare beati anche tutti noi che abbiamo fatto la sua stessa vita”. Nel 1993 sono andato a Kengtung con due missionari che erano stati con Clemente in Birmania e abbiamo chiesto al vescovo Abraham Than: “Perchè vuol fare beato padre Clemente?”. Ha risposto: “Abbiamo avuto tanti santi missionari del PIME che hanno fondato questa diocesi, compreso il primo vescovo Erminio Bonetta, ancora ricordato come un modello di carità evangelica, e altri il cui ricordo è vivo. Ma per nessuno di essi si sono verificati questa devozione e questo movimento di popolo per dichiararli santi, come per padre Vismara. In questo io vedo un segno di Dio per iniziare il processo conoscitivo diocesano”.

Diceva un suo confratello: “Vismara era straordinario nell’ordinario”. A ottant’anni aveva lo stesso entusiasmo per la sua vocazione di prete e missionario, sereno e gioioso, generoso con tutti, fiducioso nella Provvidenza, un uomo di Dio pur nelle tragiche situazioni in cui è vissuto. Aveva una visione avventurosa e poetica della vocazione missionaria, che l’ha reso un personaggio affascinante attraverso i suoi scritti, forse il missionario italiano più conosciuto del Novecento.

La sua fiducia nella Provvidenza era proverbiale. Non faceva bilanci, né preventivi, non contava mai i soldi che aveva. In un paese in cui la maggioranza della gente in alcuni mesi dell’anno soffre la fame, Clemente dava da mangiare a tutti, non rimandava mai nessuno a mani vuote. I confratelli del PIME e le suore  di Maria Bambina lo rimproveravano di accogliere troppi bambini, vecchi, lebbrosi, handicappati, vedove, squilibrati. Clemente diceva sempre: “Oggi abbiamo mangiato tutti, domani il Signore provvederà”.  Si fidava della Provvidenza, ma scriveva a benefattori di mezzo mondo per avere aiuti e collaborava con articoli a varie riviste. Le sue serate le spendeva scrivendo al lume di candela lettere e articoli (ho raccolto più di 2000 lettere e 600 articoli). Bisogna aggiungere che gli scritti di padre Vismara, poetici, avventurosi, infiammati di amore per i più poveri, hanno suscitato numerose vocazioni sacerdotali, missionarie e religiose non solo in Italia.

Clemente rappresenta bene le virtù dei missionari e i valori da tramandare alle generazioni future. Nell’ultimo mezzo secolo la missione alle genti è cambiata radicalmente, sempre però continuando ad essere quello che Gesù vuole: “Andate in tutto il mondo, annunziate il Vangelo a tutte le creature”. Ma i metodi nuovi (responsabilità della Chiesa locale, inculturazione, dialogo interreligioso, ecc.) debbono essere vissuti nello spirito e nella continuità della Tradizione ecclesiale che risale agli apostoli.

Clemente è uno degli ultimi anelli di questa gloriosa Tradizione apostolica. Era  innamorato di Gesù (pregava molto!) e del suo popolo, specie dei piccoli e degli ultimi e scriveva: “Questi orfani non sono miei ma di Dio, e Dio non lascia mai mancare il necessario”. Viveva alla lettera quanto dice Gesù nel Vangelo: “Non preoccupatevi troppo dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Come ci vestiremo? Sono quelli che non conoscono Dio che si preoccupano di tutte queste cose. Voi invece cercate il regno di Dio e fate la sua volontà: tutto il resto Dio ve lo darà in più” (Matteo 6, 31-34). Utopia? No, in Clemente era una realtà vissuta, che gli portava la gioia nel cuore nonostante tutti i problemi che aveva.

L’ho visitato in Birmania nel 1983, a 86 anni era ancora parroco a Mongping. Volevo intervistarlo sulle sue avventure e mi diceva: “Lascia perdere il mio passato che ho già raccontato tante volte. Parliamo del mio futuro”. E mi parlava dei villaggi da visitare, delle scuole e cappelle da costruire, delle richieste di conversioni che gli venivano da varie parti. Come diceva un confratello: “È morto a 91 anni senza mai essere invecchiato”. Aveva conservato l’entusiasmo dei primi tempi per la sua missione.

Padre Clemente Vismara è uno dei circa 200 missionari del PIME che dal 1867 ad oggi hanno fondato nella Birmania nord-orientale sei delle 14 diocesi di Myanmar: Toungoo, Kengtung, Taunggyi, Lashio, Loikaw e Pekong, con circa 300 mila battezzati, vescovi, preti e suore indigeni, più di metà dei cattolici della Birmania.

Clemente è uno dei tanti che, tutti assieme, rappresentano bene la tradizione missionaria e lo spirito del PIME, che continua ad assistere in vari modi la Chiesa del Myanmar, fra l’altro anche assumendo loro vocazioni missionarie, formandole e inviandole nelle comunità dell’istituto in tutti i continenti per annunziare Cristo e fondare la Chiesa anche in altri popoli.

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L’agenzia on line del Pontificio Istituto Missioni Estere al quale il beato Clemente Vismara apparteneva:

> Asia News