I responsabili della crisi? Sono gli unici a guadagnarci

La crisi economico-finanziaria è tutt’altro che superata.
Le conseguenze negative sono sempre più evidenti, e si fanno sentire, sia sul terreno dell’occupazione – ogni giorno si assiste anche nel nostro Paese alla chiusura di nuove aziende – sia su quello dei consumi, che hanno subito una forte contrazione.
Ma a destare soprattutto sconcerto è il fatto che – come osservava alcuni mesi fa sul Financial Times George Soros – gli operatori finanziari, cioè i principali responsabili della crisi, sembrano gli unici a guadagnarci.
Dopo un breve periodo di silenzio dovuto alla paura delle reazioni dell’opinione pubblica, essi sono infatti rientrati spavaldamente sul mercato, usando tutta la loro influenza per ristabilire lo statu quo, per ripristinare cioè la massimizzazione dei loro profitti a spese dei consumatori.
A risultare vincenti sono infatti oggi la maggior parte delle grandi banche e agenzie finanziarie americane ed europee, che vantano nel 2009 ricavi superiori a quelli del 2007.
A propiziare questo risultato è stato l’impegno profuso dai Governi e dalle banche centrali nel salvataggio degli enti in difficoltà (banche private in particolare); impegno peraltro doveroso in vista della creazione di condizioni per il rilancio delle imprese in grave crisi di liquidità.
Le somme erogate per perseguire tale risultato sono state assai ingenti; i Paesi del G20 hanno speso finora nove miliardi di dollari, pari al 18% del loro Pil (e vi è chi ipotizza persino una cifra doppia).
Le perplessità circa questo massiccio impegno del “pubblico” sono venute, tuttavia, gradualmente affiorando soprattutto per il modo con cui banche e società finanziarie hanno utilizzato (e utilizzano) i fondi ricevuti: sembra infatti che lo sforzo maggiore si sia concentrato sul perseguimento di ricavi sempre più elevati e sugli stipendi dei banchieri che, stando a quanto riferisce il Wall Street Joumal, superano, nelle ventitré maggiori istituzioni finanziarie americane, il record raggiunto nel 2007.
Le conseguenze di tali operazioni si sono rivelate estremamente gravi: si va infatti dall’aumento del deficit pubblico – si calcola che si sia giunti un po’ ovunque in Occidente al 100% del Pil – alla riduzione delle entrate fiscali, fino alla crescita della spesa statale, che ha raggiunto negli Usa oltre il 100% del Pil.
A questi dati preoccupanti vanno inoltre aggiunte: la contrazione senza precedenti del credito alle imprese, anche per questo in grande difficoltà; la perdita secca del posto di lavoro per un numero assai vasto di lavoratori (si calcola che nel 2009 i disoccupati sono aumentati di oltre 60 milioni e che la percentuale degli under 25 che si trovano senza lavoro è del 18,2% negli Usa e del 19,8% in Europa); la crescita sempre maggiore dei debiti delle famiglie e, infine, la minore disponibilità delle istituzioni pubbliche a investire in campi fondamentali come la salute, l’istruzione e la cultura e, in generale, i servizi.
A pagare lo scotto maggiore di questa difficile congiuntura sono anzitutto i comuni cittadini e le loro famiglie, che si trovano a dover fronteggiare problemi sempre più assillanti di sussistenza, avendo a disposizione un quantitativo sempre meno consistente di risorse a livello personale e potendo sempre meno contare sulla protezione dal pubblico.
Ma a destare le maggiori preoccupazioni, al di là delle ricadute immediate della crisi, per le quali si esige la creazione di ammortizzatori sociali adeguati, è la constatazione che quanto si sta verificando in questi mesi, lungi dal preludere a un’uscita dall’attuale stato di difficoltà, crea le premesse perché si precipiti, in tempi ravvicinati, in un baratro ancor più profondo, con esiti drammatici.
La mancata ricerca di alternative vere, che provochino un capovolgimento nei rapporti tra economia finanziaria ed economia produttiva, ribaltando l’ordine attuale e restituendo alla produttività dei beni il primato, ma soprattutto la rinuncia a imporre regole severe al mercato per rimetterlo al servizio dello sviluppo umano, sono segnali che mortificano ogni speranza di cambiamento.
L’uscita dal tunnel è ancora lontana, ed esige, per potersi realizzare, una svolta radicale nelle politiche degli Stati, con l’abbandono del semplice laissez-faire e la rivendicazione di un ruolo di controllo anche in campo economico finalizzato a indirizzare le scelte verso il bene comune.
Ma, nel contempo, esige la presenza di una società civile matura, che sappia sostenere responsabilmente l’azione politica, anche a costo di inevitabili sacrifici, e sia soprattutto in grado di reagire alla situazione presente con l’adozione di stili di comportamento che abbiano come obiettivo lo sviluppo di un nuovo modello di civiltà incentrato sulla promozione di una migliore qualità della vita.
in “Jesus” del luglio 2010

Testimoni credibili in una società in crisi: intervista a Angelo Bagnasco,

La questione sollevata dalla controversa sentenza della Corte di Strasburgo che vieta l’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche da affrontare con un pizzico di buon senso; la malintesa e pervicace forma di laicità, che ignora il fatto religioso e anzi esplicitamente lo esclude; la necessità di un’autoriforma e di una purificazione della Chiesa indicata da Benedetto XVI; l’esigenza di una nuova generazione di politici cattolici auspicata già dal Papa e dal suo segretario di Stato; il persistere della crisi economica; l’anniversario dell’unità d’Italia come occasione per ritrovare coesione e convergenza secondo l’auspicio, tra gli altri, del presidente della Repubblica; il federalismo come intuizione già presente nella dottrina sociale della Chiesa; la bellezza, la gioia e la responsabilità dell’essere preti come frutti dell’Anno sacerdotale.
Sono i questi i temi della lunga intervista che il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo metropolita di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) ha rilasciato al nostro giornale.
Che ha espresso alla fine una convinzione: “Questi mesi difficili cederanno il passo a una rinnovata passione per l’annuncio di Dio con le parole e le opere.
Di Dio, infatti, l’uomo contemporaneo sente forte il bisogno in un mondo confuso e incerto, ma pur sempre alla ricerca del senso della vita terrena e della felicità piena”.
Eminenza, il 30 giugno si è tenuta presso la Corte di Strasburgo l’udienza per il ricorso presentato dal Governo italiano contro la sentenza del novembre scorso che vieta l’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche.
Che aspettative ha rispetto a questa decisione? A quali conseguenze porterebbe una conferma della precedente sentenza? A dire la verità, mi aspetterei solo un pizzico di buon senso.
È strano infatti che proprio oggi, quando il confronto interculturale si fa più esigente, a motivo della crescente mobilità, si pretenda poi di censurare una delle matrici fondamentali della storia del nostro continente.
Ipotizzare, come taluni fanno, che il crocifisso leda la laicità dello Stato, il quale non dovrebbe inclinare verso nessuna opzione religiosa o confessionale, significa dimenticare che ben prima dello Stato vi è la gente; esiste infatti un humus profondo che identifica il sentire comune della gran parte della popolazione italiana.
Nella scelta di mettere tra parentesi un segno come il crocifisso colgo peraltro una scarsa considerazione di quel principio di sussidiarietà per cui ciascuno Stato, nel contesto europeo, presenta una peculiare radice che merita rispetto e considerazione.
Del resto, a essere sinceri, a chi mai è venuto in mente di eliminare festività nazionali che hanno una chiara impronta religiosa nel nostro o in altri Paesi del mondo? Volere eliminare le caratteristiche tradizioni culturali e religiose di un Paese, specie quelle legate agli ambienti di vita – siano essi la scuola o i luoghi di aggregazione giovanile – significa rinunciare proprio a quella ricchezza delle culture che si vorrebbe per altri versi tutelare e difendere.
Sono stati in molti a ravvisare dietro alla precedente sentenza della Corte un’ispirazione culturale molto vicina a sentimenti di cristianofobia.
Lo stesso si è detto a proposito degli attacchi subiti dalla Chiesa, come per esempio è avvenuto in Belgio.
Da dove nasce tutta questa ostilità? Più semplicemente – ma vorrei dire ancora più gravemente – esiste una malintesa e pervicace forma di laicità, che sarebbe meglio definire laicismo; questa ignora il fatto religioso, anzi esplicitamente lo esclude.
Si tratta in realtà di una grave amputazione del senso dello Stato, che ovviamente non ha competenze in campo religioso né persegue finalità religiose, ma deve riconoscere, rispettare e anzi promuovere la dimensione religiosa.
Dietro la libertà religiosa infatti si cela la più decisiva esperienza della libertà umana, senza la quale è a rischio non solo la fede, ma ancor prima la democrazia.
Dietro la cosiddetta neutralità dello Stato è presente un pregiudizio, tardo a morire, verso il quale giustamente Benedetto XVI da tempo va concentrando la sua riflessione: quello cioè di confinare Dio al di fuori dello spazio pubblico, riducendolo a una questione privata.
Per quel che riguarda l’Europa, poi, si trascura il fatto che la nostra civiltà – delle cui conquiste relative alla libertà, all’uguaglianza, ai diritti individuali e sociali tutti godono – germoglia proprio dal crocifisso, riconosciuto come il suo simbolo più qualificato e universale.
Benedetto XVI ha affermato che il pericolo più grande per la Chiesa è al suo interno.
Come si affronta questa minaccia? Il Santo Padre chiama tutti i cattolici a un’opera di autoriforma e spinge tutta la Chiesa a compiere un cammino di purificazione.
Questa indicazione è senza dubbio una provocazione non solo per il mondo ecclesiale, ma per la stessa società civile.
Tale linea di marcia non è affatto “spiritualista”, come afferma qualcuno; al contrario, racchiude un’immensa forza rinnovatrice, una forza di concretezza e di azione che la storia già conosce.
In una stagione in cui tendenzialmente tutti cercano di difendere se stessi e, all’occorrenza di denigrare gli altri, il Papa invita a battersi il petto e a non guardare alle colpe altrui, chiamando in causa la coscienza individuale perché dinanzi a Dio ognuno si riconosca nella verità.
È evidente che l’insidia maggiore nasce sempre dal di dentro e non dal di fuori.
Ciò che fa vacillare, infatti, non sono gli attacchi, anche virulenti, che possono esserci da parte di chi nutre pregiudizi o ostilità nei riguardi della fede, ma quelli da parte di chi alla fede si appella, rinnegandola poi nel concreto con l’insipienza e lo scandalo dei suoi comportamenti.
La minaccia dall’interno dunque è più subdola e chiede di essere smascherata attraverso un lineare riconoscimento dei fatti, seguendo un rigoroso percorso di penitenza che non ammette ritardi o attenuanti.
Nel caso degli abusi su minori, che hanno coinvolto dolorosamente alcuni ecclesiastici, occorre aggiungere che l’accertamento dei fatti, nelle sedi e nei modi dovuti, garantisce alla giustizia i colpevoli di questi terribili delitti.
Se, come credo, la crisi che si sta attraversando ha un senso, esso consiste proprio nel ritornare con umiltà alle sorgenti del Vangelo, che chiama ogni generazione di cristiani a dare ragione della propria speranza con le parole e con la vita.
La questione educativa è da tempo indicata come elemento centrale dell’azione pastorale.
In Italia, la Chiesa l’ha messa al centro degli orientamenti pastorali per il prossimo decennio.
C’è un momento, o un processo, a partire dal quale, nella società civile, si può ravvisare l’inizio di questa emergenza? Come ricorda di frequente Benedetto XVI, ogni generazione è chiamata a raccogliere la sfida della libertà, e così a imparare sempre di nuovo cosa significhi essere liberi.
Certamente ai nostri giorni esiste una serie di elementi che hanno reso più difficile l’esercizio di questa libertà, a fronte di un’aspirazione diffusa che la vede come un diritto e non anche come una responsabilità.
In particolare, il mondo degli adulti ha smesso di generare alla vita.
Ognuno di noi, infatti, cresce non tanto ascoltando quanto vedendo qualcuno.
In concreto, genera alla vita chi si lascia sorprendere dalla vita e attraversare da essa.
Ciò vuol dire che per essere generativi bisogna accettare il fatto che non si è all’origine della vita, ma che ci si fa attraversare da essa e con essa si dialoga.
Diversamente si resta accecati e imprigionati dalla volontà di potenza e si finisce per distruggere il mondo.
Credo che avere perso il senso dell’anteriorità, cioè di Dio, abbia prodotto mancanza di autorevolezza, e finito col creare una società senza padri, cioè fatalmente senza testimoni.
La capacità di generare peraltro implica sempre una trasformazione personale, fatta di dedizione, di impegno, di passione, di successo e di fallimento.
Fa parte dell’accoglienza della vita anche il sapere rinunciare a qualcosa di sé per gli altri.
Mi sembra che questa serie elementare di atteggiamenti sia scomparsa dalla scena pubblica per dare adito a comportamenti per lo più narcisistici, quando non addirittura adolescenziali.
Benedetto XVI, già nel 2008, ha fatto riferimento alla necessità di una nuova generazione di politici cattolici, messaggio rilanciato dal suo segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone, e da lei in occasione del Consiglio permanente della Cei dello scorso gennaio.
Generalmente questo messaggio viene inteso come una chiamata ad assumere iniziative politiche conseguenti alla propria coscienza di cristiani.
È questa l’interpretazione corretta? Il Papa a Cagliari ha auspicato una nuova generazione di politici cattolici e il suo segretario di Stato, il cardinale Bertone, gli ha fatto doverosamente eco, per segnalare una urgenza che è sotto gli occhi di tutti.
L’affezione per la cosa pubblica sta scemando e sempre più rarefatto è il consenso intorno al bene comune, privilegiando ciascuno beni di piccolo cabotaggio e senza prospettiva alcuna.
Per questa ragione anch’io ho fatto riferimento a un “sogno” per evocare una direzione di marcia verso cui camminare.
Nella prolusione mi riferivo appunto a “una generazione nuova di italiani e di cattolici che, pur nel travaglio della cultura odierna e attrezzandosi a stare sensatamente dentro ad essa, sentono la cosa pubblica come importante e alta, in quanto capace di segnare il destino di tutti, e per essa sono disposti a dare il meglio dei loro pensieri, dei loro progetti, dei loro giorni”.
Penso che attorno a questo tema nevralgico della nostra società, che chiama in causa la testimonianza della Chiesa, occorra il concorso attivo di tutti.
Come vescovi italiani ci impegneremo a una specifica riflessione in merito.
Sui temi etici, in quasi tutti i partiti italiani si registrano al momento posizioni eterogenee.
Esiste oggi un problema di rappresentanza politica delle posizioni cattoliche in Italia? Più che un problema di rappresentanza politica esiste un problema di coerenza personale.
Credo che sempre più siano necessari fedeli laici capaci di imparare a vivere il mistero di Dio, esercitandosi ai beni fondamentali della libertà, della verità, della coscienza.
Come detto nella citata prolusione dello scorso gennaio, “cresce l’urgenza di uomini e donne capaci, con l’aiuto dello Spirito, di incarnare questi ideali e di tradurli nella storia non cercando la via meno costosa della convenienza di parte comunque argomentata, ma la via più vera, che dispiega meglio il progetto di Dio sull’umanità, e perciò capaci di suscitare nel tempo l’ammirazione degli altri, anche di chi è mosso da logiche diverse”.
L’Italia, come il resto del mondo, sta vivendo un difficile passaggio economico.
Ritiene che il peggio si possa considerare ormai superato o gli effetti della crisi devono ancora rivelarsi pienamente? Per quel che vedo con i miei occhi, c’è ancora molta disoccupazione.
E non scorgo concreti e sicuri segnali di inversione di tendenza, anche in grandi realtà industriali della mia Genova.
Serpeggiano tra la gente preoccupazioni serie e pungenti.
Non mi riferisco ovviamente a un discorso di macroeconomia per il quale non ho le competenze.
Semplicemente constato che se gli strateghi possono rassicurare sul medio periodo, ritenendo che la strada giusta sia stata imboccata, come vescovo vedo molta gente senza lavoro e sono turbato da tanta sofferenza e insicurezza su come arrivare alla fine del mese.
Un certo assestamento c’è stato perché le famiglie si sono adattate, utilizzando meglio le risorse ed evitando gli sprechi.
Però c’è una fascia che aveva ben poco da risparmiare e che obiettivamente è in affanno.
Le misure che si stanno prendendo in risposta alla crisi stanno creando diverse tensioni fra parti sociali e contrasti a livello politico.
Quali criteri dovrebbero essere seguiti nella previsione di interventi che si preannunciano molto severi? Credo che il criterio dell’equità economica sia quello da seguire, dovendo ciascuno dare in rapporto alle proprie capacità.
Sta poi a chi ha la responsabilità politica affrontare in concreto la situazione, declinando l’equità economica dentro a una cornice di libertà politica e di coesione sociale.
Solo così i tre valori in gioco – la libertà politica, la giustizia economica, la coesione sociale – si salvaguardano insieme.
Da alcune parti, di frequente anche dal Quirinale, si osserva come il Paese stia perdendo il senso della coesione nazionale.
La Chiesa in Italia condivide questa sensazione? L’anniversario dell’unità d’Italia è una provvidenziale occasione per ritrovare le comuni radici che hanno fatto il nostro Paese, ben prima del suo riconoscimento come Stato.
Proprio riandando indietro nel tempo, si scopre che quando a prevalere sono state logiche di campanile e ci si è contrapposti in nome del proprio “particolare” si è registrata una battuta d’arresto.
Al contrario, quando si è innescato il meccanismo virtuoso della cooperazione, allora le forze culturali, sociali, economiche e spirituali, si sono sommate e non annullate.
Penso che la crisi in atto debba dunque spingere l’Italia a ritrovare se stessa.
Per questo apprezzo lo sforzo di quanti, innanzitutto il presidente della Repubblica, invitano continuamente a ritrovare la coesione e la convergenza, al di là delle legittime differenze.
Al Mezzogiorno la Cei ha dedicato un importante documento.
La crisi, secondo gli osservatori, sembra aver aggravato ulteriormente il divario con il resto del Paese.
Si discute anche dell’impatto del decentramento fiscale.
Il federalismo è un pericolo o un’opportunità? Il federalismo non è una ricetta magica, ma rappresenta un’intuizione ben presente nella dottrina sociale della Chiesa, che sin dai tempi di Pio XI chiama in causa il principio di sussidiarietà – poi introdotto a Maastricht – per sottolineare che quel che può essere fatto dalle realtà intermedie non deve essere avocato a sé dall’istanza centrale.
Infatti più si è vicini alla realtà, più la si può accompagnare con efficienza e oculatezza.
Ciò posto, il principio suddetto va coniugato con quello di solidarietà per evitare che chi sta indietro resti ancora più arretrato.
Dal 14 al 17 ottobre si terrà a Reggio Calabria la Settimana sociale dei cattolici italiani, con la quale si vuole proporre un'”agenda di speranza”.
È la speranza che manca maggiormente al Paese? L’agenda è un termine entrato nel linguaggio comune per richiamare concretezza di obiettivi e aderenza alla realtà.
In quella preparata in vista della settimana di Reggio Calabria si elenca una serie di questioni non più rinviabili – come creare impresa, educare, includere nuove presenze nel nostro Paese, introdurre i giovani nel mondo del lavoro e della ricerca, compiere la transizione istituzionale – che oggi definiscono in modo puntuale il volto del bene comune, che solo garantisce la tenuta unitaria dell’Italia e la ripresa economica.
Certamente è la speranza cristiana che fa da sfondo, e ancor prima da movente, a questa rinnovata stagione di impegno dei cattolici italiani dentro la società di oggi.
Si è da poco concluso l’Anno sacerdotale.
Cosa ha significato per i sacerdoti italiani, quale è l’eredità di questa iniziativa? L’Anno sacerdotale è stato, per volontà di Benedetto XVI, un’occasione straordinaria per riscoprire la bellezza, la gioia e la responsabilità del sacerdozio e del ministero pastorale.
E per mettersi di più in gioco nella santità che richiede.
La vocazione sacerdotale è infatti un dono inestimabile che non cancella la consapevolezza dei limiti umani, ma esalta la scelta del Signore Gesù, il quale si fa prossimo a ogni uomo attraverso il servizio discreto e fedele di tanti parroci e preti; e questi, attraverso il Vangelo e i sacramenti, aprono il mondo a Dio e rendono più umano il nostro territorio.
Credo che l’eredità dell’Anno sacerdotale sia l’impegno a una testimonianza di vita che deve farsi ancor più trasparente per l’amore a Dio e alla sua Chiesa.
“Per crucem ad lucem”: ha usato più volte questa espressione per descrivere il momento che sta vivendo la Chiesa.
Il tempo della croce sarà ancora molto lungo? Ogni momento di sofferenza, quando accolto con senso di responsabilità, prelude sempre a una rinascita.
Sono convinto che anche questi mesi difficili cederanno il passo a una rinnovata passione per l’annuncio di Dio con le parole e le opere.
Di Dio, infatti, l’uomo contemporaneo sente forte il bisogno in un mondo confuso e incerto, ma pur sempre alla ricerca del senso della vita terrena e della felicità piena.
in “L’Osservatore Romano” del 14 luglio 2010

“Gerusalemme, un laboratorio della biodiversità umana”. colloquio di Jean-Yves Leloup e Elias Sanbar,

Un prete ortodosso, Jean-Yves Leloup, e un saggista palestinese, Elias Sanbar, sono gli autori di due dictionnaires amoureux.
Uno su Gerusalemme, l’altro sulla Palestina.
Hanno accettato di dialogare.
Jean-Yves Leloup, lei ha scritto un “Dictionnaire amoureux de Jérusalem” (Plon, p.
960, € 27) e lei, Elias Sanbar, un “Dictionnaire amoureux de la Palestine” (Plon, p.
496, € 24,50).
Avrebbe accettato questo dialogo se l’autore del “Dictionnaire amoureux de Jérusalem” fosse stato un ebreo israeliano? Sanbar: Se si trattasse di attaccamento personale, non di un qualsiasi diritto esclusivo sulla città basato sulla religione, sì, sinceramente.
Simbolicamente, l’editore ha pubblicato questi due libri contemporaneamente, ma uno è fatto da un palestinese, quindi dall’interno, l’altro da un cristiano francese.
Leloup: Un cristiano aperto ai palestinesi, agli ebrei e a tutte le tradizioni che sono vive a Gerusalemme.
Jean-Yves Leloup, che cosa pensa dell’affermazione di Elias Sanbar su Gerusalemme, una città che deve essere concepita in funzione della condivisione, “una capitale per due Stati”? Leloup: È forse una cosa possibile, conoscendo l’attaccamento degli uni e degli altri a questa terra e a questa città, e la confusione che vi regna tra il politico e il religioso? Sanbar: Io ci credo.
Bisognerà arrivare a questo, perché non c’è altra soluzione.
La grande difficoltà, ancor prima che inizino i negoziati, è la confusione permanente tra lo strato spirituale, simbolico della città, ciò che costituisce la sua universalità, e il problema della sovranità.
Per il momento, i negoziati e i discorsi trattano la città come un luogo di disputa tra due sovranità divine: vale a dire, quale dio sarebbe più sovrano? E la cosa è tanto più complicata per il fatto che è lo stesso dio per i tre monoteismi! Bisogna riconoscere alla città la sua importanza spirituale e, su questo piano, essa appartiene all’umanità.
Ma bisogna anche trattarla come una città, semplicemente, non diversa da altre città del paese, senza tuttavia rinnegare la sua dimensione di futura capitale della Palestina.
Come avrete capito, parlo di Gerusalemme est.
Solo a quel punto, si potrà negoziare.
Leloup: Ogni realtà è una realtà “costruita” o immaginaria.
Particolarmente a Gerusalemme dove ciascuno investe talmente tanti sentimenti e così tante memorie sulle sue pietre…
Come ritrovare la terra che vi è sotto? Sanbar: I palestinesi hanno il vantaggio di non dover fare nulla per considerarla anche come una città reale.
Noi ci stiamo.
Sentiamo così tanti discorsi deliranti, sulla Terra santa, i Luoghi santi, ma per noi è anche la nostra terra, banalmente.
Abbiamo pagato caro il prezzo di questi immaginari.
L’imposizione dell’aspetto mitico sui luoghi è stata origine di morte e non di vita.
Senza rinnegare la sua dimensione universale, se non ci si rende conto anche che questo paese esiste, non si troverà la soluzione.
Che cosa significa per voi due l’idea di “città santa”? Leloup: La santità è l’alterità.
Una città santa è il luogo di incontro delle alterità.
Gerusalemme è una sorta di laboratorio della biodiversità umana.
Non far entrare in relazione queste alterità rende la vita impossibile all’umanità.
Elias Sanbar, nel suo dizionario, alla voce “Fondamentalismo” lei scrive: “È una malattia che colpisce i tre monoteismi.” Leloup: Lo penso anch’io, è una patologia che vuol ridurre l’altro a sé: fare di Gerusalemme una città ebraica, una città musulmana o una città cristiana.
Gerusalemme all’origine è una sorgente in un deserto, un pozzo; bisogna avere cura del pozzo, non solo per sé, ma anche per i cammelli dell’altro.
Elias Sanbar, che cosa ha pensato della voce “Palestina” del “Dictionnaire amoureux de Jérusalem”? Sanbar: È una breve voce storica.
Io torno allo spazio reale e alla terra familiare, cosa complicata per i nativi di questa terra, perché alla loro familiarità dei luoghi viene sempre opposta l’immensità del sacro.
Ma essa è anche terra familiare.
L’identità della Palestina è spesso a torto analizzata col metro della vicinanza di comunità del vicino Libano.
In Palestina, non si è nelle terre vicine.
Ma in una realtà forgiata nella durata, che fa sì che le persone del luogo, pur appartenendo ciascuna ad una religione, si ritengono depositari, attraverso il luogo, di tutto ciò che vi è accaduto.
Si parla molto di questa pluralità della Palestina, oggi minacciata, poiché sia il sionismo che il fondamentalismo musulmano cercano di darle un solo colore.
Anche le crociate, un tempo, hanno cercato di darle un colore, allora esclusivamente cristiano.
Nella seconda metà del XIX secolo, ci sono stati degli scontri “comunitari” sanguinosi nei paesi vicini, Libano e Siria, dovuti fondamentalmente all’arrivo della modernità industriale, che sconvolgeva le strutture tradizionali.
In Siria, ad esempio, abbiamo assistito ad un’alleanza della comunità ebraica e di quella musulmana contro la comunità cristiana.
In Libano, ci sono stati degli scontri tra drusi e maroniti.
Da noi, questo non è avvenuto.
Certi parlano di una sorta di “attitudine democratica” precoce nei palestinesi: è ridicolo.
Semplicemente si tratta del sentimento dei palestinesi di essere i depositari di tutto ciò che era accaduto nella loro terra.
È ciò che chiamerei la loro pluralità.
Del resto oggi minacciata, e questo per la prima volta nella loro storia.
Jean-Yves Leloup, la sua voce “Terrorismo” è molto breve.
Perché ha affrontato il tema? In un “Dictionnaire amoureux”, si è totalmente liberi di scegliere le voci.
Leloup: I terroristi si presentano purtroppo anche come innamorati della legge, della religione, della terra.
Uccidono in nome del loro amore.
Di quale amore parlano, di quale dio parlano? Per quanto mi riguarda, dico con Albert Camus: “Quale che sia la causa che si difende, essa resterà sempre disonorata dal cieco massacro della folla innocente.” Jean-Yves Leloup, lei ha sviluppato molto le voci “Resistenti”, “Commando-suicidi”…
Sanbar: Ho affrontato non il terrorismo, ma il problema che mi sembra inglobare tutto ciò, nella voce “Vivere e morire”.
Ciò che è molto preoccupante oggi, è che sia la morte e non la libertà a diventare la finalità della lotta.
Capisco la metafora usata da Jean-Yves Leloup su terrorismo e amore.
Ma essa non esprime la terribile realtà, quella realtà nuova che fa dire a dei giovani: “Io mi batto per morire.” Le generazioni precedenti hanno certo rischiato e spesso perso la vita, ma si battevano per vivere, la finalità della loro lotta era la libertà: vivere liberi, a rischio, e non con lo scopo, di morire per questo.
Il suo “Dictionnaire amoureux”, Elias Sanbar, è quello di un esiliato.
Sanbar: Sì, ma ho anche voluto presentare la Palestina reale.
Noi siamo vivi e c’è un modo di ridere palestinese, di autoderisione, che si esprime bene nei nostri film e nella nostra letteratura.
È una forma superiore di resistenza, perché esprime la fede nella vita che abita, malgrado tutto, questa terra semplice, schiacciata in un conflitto interminabile.
A Gerusalemme più che altrove, secondo lei, Jean-Yves Leloup, ci si può interrogare sull’idea di un’etica universale.
Leloup: Ritrovare la realtà di Gerusalemme significa ritrovare il senso dell’altro, del volto unico di ciascuno.
Non è forse lì l’inizio dell’etica che può liberarti da ogni idolatria, cioè da ogni forma di appropriazione esclusiva? Lei dice anche di essere partito dall’idea di un dizionario di una certa leggerezza amorosa e di essere sfociato ad una certa gravità.
Leloup: Non si può essere leggeri né con la Shoah, né con l’esilio dei palestinesi, né con l’emigrazione dei cristiani.
Ma, malgrado tutto, tante volte distrutta e tante volte ricostruita, Gerusalemme testimonia una vita più forte della morte.
in “Le Monde” del 3 luglio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

Tecnologie educative

Il Regno Unito è all’avanguardia in Europa per quanto riguarda la diffusione delle tecnologie per l’istruzione, tanto che in quasi tutte le scuole è presente una lavagna interattiva.
Secondo quanto riportato da una ricerca condotta da Panasonic le lavagne vendute nel 2009 in Gran Bretagna sono state ben 55.000.
Passi in avanti si stanno facendo anche in altri Paesi, come la Francia, dove però la percentuale di scuole equipaggiate con strumenti di questo tipo è solo del 20%.
In Spagna sono stati previsti 200 milioni di euro per la digitalizzazione di tutte le aule spagnole entro il 2012, e anche la Germania si muove nella stessa direzione.
Per quanto riguarda l’Italia, secondo il rapporto Ocse “Uno sguardo sull’educazione 2009”, il nostro paese risulta sotto la media europea della spesa per l’istruzione, ma ha varato un importante piano d’intervento, “La scuola digitale”, per la diffusione dell’innovazione nella scuola, coordinato dal Miur e dall’Agenzia per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica (ex Indire).
Il piano si articola in due fasi.
La prima prevede l’introduzione delle “Lavagne interattive multimediali (LIM)”, la seconda, denominata cl@ssi 2.0, ha come obiettivo l’utilizzo delle ICT nelle scuole primarie e secondarie di I grado.
A partire dall’anno scolastico 2009-2010) sono state installate 16.000 LIM in altrettante classi della scuola secondaria di I grado e 50.000 insegnanti sono stati coinvolti in percorsi di formazione che interessano oltre 350.000 studenti.
Anche il Ministro per l’Innovazione e la Pubblica Amministrazione Renato Brunetta, ha recentemente presentato My Innova, un social network che si appoggia alla piattaforma Innova Scuola, progettato per la condivisione di esperienze e risorse didattiche tra studenti e docenti.

«La religione nella sfera pubblica».

Durante la scrittura della Costituzione europea, naufragata poi sui capricci dei referendum, la questione delle «radici cristiane» (o giudeo-cristiane) dell’Europa ha tenuto banco per mesi.
Chi non le voleva menzionare sosteneva che quella espressione ambigua (il Nuovo Testamento usa «radice» o per parlare dell’interiorità o per descrivere l’ebraismo) minacciava le libertà laiche del continente.
Chi la difendeva non s’accorgeva che, arroccandosi su un sintagma innocuo (che Pio XII ad esempio non chiese mai ai costituenti italiani), la Santa Sede rinunciava alle pregiudiziali che avrebbero potuto strozzare, con un non expedit bioetico, la nascita della Costituzione.
Alla fine tutti sanno come andò: da allora il paesaggio religioso dell’Europa è mutato.
Mentre le Chiese rimpiazzano l’ecumenismo con un galateo scortese, i nuovi cristianesimi evangelicali si insediano.
La minoranza islamica è un imamato, spesso fatto di apprendisti, galleggia sugli strepiti di chi insegue ad urla la distinzione fra il velo di chi va in moschea e quello di chi entra al Carmelo.
Il vicinato fra fedi vissute per secoli lontanissime è affidato al fai da te delle maestre.
L’antisemitismo — patologia mai sopita, come s’è visto in questi giorni quando, non un ministro o un governo, ma un Paese e un popolo sono stati accusati di un esecrabile eccidio — continua a correre con nuove parole d’ordine.
E il mantra «lai-ci-té/lai-ci-tà» viene ripetuto con la nostalgia di chi ricorda una Europa, semplice, divisa fra cristiani ed ex cristiani e decorata da una puntina superstite d’ebraismo.
Per decifrare le sfide di questo paesaggio plurale ci vuole un pensiero.
E la Polonia sta preparando il suo turno di presidenza Ue producendo pensiero con seminari finalizzati al Congresso sulla cultura europea che si terrà a Breslavia dall’8 all’11 settembre 2011.
Tramite il prestigioso Istituto viennese di scienze umane, diretto da un intellettuale a tutto tondo come Krzysztof Michalski, il ministero della Cultura polacco ha fatto un programma che inizia oggi a Milano con la collaborazione della Fondazione Corriere della Sera, presieduta da Piergaetano Marchetti.
Un giurista come Giuliano Amato (a suo tempo vicepresidente della Convenzione europea), uno storico della filosofia antica come Giovanni Reale (cattolicissimo, ma detestato da qualche frangia del fondamentalismo per il rigore teoretico con cui discute d’embrione), un direttore di giornale come Adam Michnik (che non ha appreso la militanza antitotalitaria in saldo), e il canadese Charles Taylor (il maggior studioso del comunitarismo e della secolarizzazione, nonché Templeton Prize 2007), si confronteranno su «La religione nella sfera pubblica».
Tema da discutere (religione o religioni? Sfera o sfere?), ma cruciale: perché, nella caduta di riferimenti ideologici collettivi e nella crisi della capacità «trasmittente» della famiglia, cresce la tendenza ad usare l’appartenenza religiosa per riempire lo smarrimento delle maggioranze e la solitudine delle minoranze.
Col rischio che convivenze storiche (pensate alla Bosnia o alla Turchia) si logorino e che il nocciolo dell’esperienza di fede — che è la fede — si perda nell’ossessione di agitare differenze che i fondamentalisti americani definirono «non negoziabili» cent’anni fa, senza gran frutto per nessuno.
La politica d’una Unione che ingloba re capi di Chiese, Stati costituzionalmente ortodossi e leggi di laicità che vietano di indossare un crocifisso, non può snobbare la voce delle autorità religiose, ma non può nemmeno non chiedersi come la democrazia risponde a queste sfide.
Il vecchio continente, infatti, ha da insegnare a tutti non una formula ma una storia: la storia che dice che nella coabitazione plurale le fedi stesse possono riapprendere cose che avevano dimenticato — basti pensare all’atteggiamento della Chiesa cattolica verso i diritti della donna, ad esempio — e che nel dimenticatoio sarebbero rimaste.
in “Corriere della Sera” dell’8 giugno 2010

Scrutini finali

Le polemiche di questi giorni sul potere dei consigli di classe nelle valutazione degli studenti per l’ammissione all’esame o alla classe successiva ci hanno indotto a rinfrescarci la memoria sulle disposizioni (non modificate da trent’anni a questa parte) che regolano la loro funzione valutativa.
  Il Consiglio di classe, costituito da tutti i Docenti della classe, è presieduto dal Dirigente scolastico.
Nell’attività valutativa opera come un Collegio perfetto e come tale deve operare con la partecipazione di tutti i suoi componenti, essendo richiesto il quorum integrale nei collegi con funzioni giudicatrici (cfr.nota 717 del 14 maggio 1981 Ufficio Decreti delegati; Consiglio di Stato – VI Sez.
– n.
189 del 17 febbraio 1988).
Essendo il Consiglio di classe in funzione valutativa un Collegio perfetto, in caso di disaccordo e quindi di decisione da adottare a maggioranza mediante votazione su proposte, non è ammessa l’astensione; pertanto tutti i docenti devono votare e il totale dei voti deve coincidere con il totale dei componenti il Consiglio.
La natura del collegio perfetto ha riflessi sull’eventuale sciopero degli scrutini: l’assenza di un solo componente rende impossibile lo svolgimento dello scrutinio.
Anche il Presidente, essendo a tutti gli effetti un membro del Consiglio, è tenuto a votare.
In caso di parità egli non vota due volte, ma prevale la proposta a cui ha dato il suo voto, senza apportare alcuna modifica al numero dei voti assegnati a ciascuna proposta (art.
37 Testo unico – d.lvo 297/1994).
I docenti di sostegno sono membri del consiglio di classe e nello scrutinio esprimono la loro valutazione per tutti gli alunni per l’ammissione alla classe successiva o all’esame e per il voto di comportamento di tutti (art.
315 del Testo unico e art.
13, legge quadro 104/1992).
Fanno parte del consiglio di classe, con pieno titolo a partecipare allo scrutinio, tutti i docenti che operano nella classe, compresi gli insegnanti tecnico-pratici, i docenti di approfondimento linguistico nella scuola secondaria di I grado, i docenti di religione.
Per gli insegnanti tecnico-pratici, anche quando il loro insegnamento si svolge in compresenza, partecipano a pieno titolo e con pienezza di voto deliberativo (art.
5, comma 1bis Testo Unico).

In Italia uno studente su cinque non raggiunge il diploma

Il 19,2% dei giovani italiani fra i 18 e i 24 anni abbandonano gli studi senza aver conseguito il diploma della scuola superiore: quattro punti sopra la media Ue, nove sopra il valore fissato dalla strategia di Lisbona.
E’ netto lo svantaggio del nostro paese rispetto all’Unione europea per quanto riguarda il livello generale di istruzione della popolazione: quasi la metà degli italiani si ferma al massimo alla licenza media e solo il 12,8% può vantare una laurea.
Lo specifica l’Istat nel suo annuale rapporto che mette in evidenza, fra i vari dati, la eccessiva quota di giovani fra i 18 e i 24 anni che hanno abbandonato gli studi senza aver conseguito un diploma di scuola superiore: gli “early school leavers” nel 2009 erano il 19,2%, oltre quattro punti percentuali in più della media Ue e nove punti al di sopra del valore fissato dalla strategia di Lisbona.
Nel dettaglio, oltre il 10% dei 15-64enni possiede solo la licenza elementare o nessun titolo di studio, il 36,6 ha la licenza media, circa il 40 per cento ha il diploma e appena il 12,8 ha la laurea.
La tendenza è verso un lento progresso della quota di diplomati (+2,1 punti percentuali rispetto al 2004) e dei laureati (+2,8): quest’ultima sale soprattutto grazie alle donne (+3,7 punti percentuali).
Nel 2009 la quota di 25-64enni che ha conseguito al più la licenza media (titolo Isced 0-2) è nettamente superiore alla media Ue (46,1 a fronte del 28,5 per cento).
Le differenze sociali nel conseguimento della licenza media – specifica l’Istat – si annullano con l’introduzione dell’obbligo scolastico, mentre nel conseguimento dei titoli superiori continua a pesare una forte diseguaglianza legata alla classe sociale della famiglia di provenienza degli studenti, anche considerando le differenti generazioni.
Il tasso di scolarità è aumentato di 41 punti percentuali negli ultimi 30 anni.
Nell’anno scolastico 2008/2009 si registrano circa 93 iscritti alla scuola secondaria di secondo grado ogni 100 giovani in età 14-18 anni.
La partecipazione femminile è raddoppiata e le scelte formative degli studenti sono cambiate, orientandosi in misura maggiore (+8 punti percentuali) verso scuole di formazione “general”, (con programmi atti a consentire la prosecuzione degli studi all’università) rispetto a quelle “vocational” (indirizzate a fornire una preparazione finalizzata all’immediato inserimento nel mercato del lavoro).
Cresce anche il numero dei giovani che conseguono un titolo di studio secondario di secondo grado: 74 ogni cento 19enni nell’anno scolastico 2007/2008, circa 36 in più rispetto a 30 anni prima.
Il 7,7 per cento degli iscritti a scuole superiori nell’anno scolastico 2008/2009 ha ripetuto l’anno di corso (il 10,3% se si considerano gli iscritti al primo anno), con percentuali più elevate per le scuole a indirizzo tecnico e professionale.
Inoltre, il 12,2 % del totale degli iscritti al primo anno abbandona il percorso d’istruzione non iscrivendosi all’anno successivo e un ulteriore 3,4 per cento lascia gli studi alla fine del secondo anno.
La distribuzione territoriale di quest’ultimo fenomeno rivela una situazione particolarmente critica per il Mezzogiorno, con abbandoni al primo e al secondo anno pari rispettivamente al 14,1 e al 3,8%.

Approvato il regolamento sulla formazione iniziale

La commissione Cultura della Camera ha approvato oggi lo schema di regolamento sulla formazione iniziale degli insegnanti.
Caratteristiche principali sono il numero programmato per l’accesso ai nuovi percorsi formativi, tirocini formativi, corsi di perfezionamento per l’insegnamento di una materia in lingua straniera.     L’accesso ai nuovi percorsi formativi prevede il superamento di una prova.
Il numero dei posti annualmente disponibili sarà determinato sulla base della programmazione del fabbisogno di personale docente.
Per insegnare nella scuola dell’infanzia e nella primaria è richiesto un corso di laurea magistrale quinquennale a ciclo unico: dal secondo anno ci dsarà un tirocinio di 600 ore che si conclude con la discussione della tesi e della relazione finale che costituiscono esame con valore abilitante.
Per insegnare nella scuola secondaria di primo e secondo grado è richiesta la laurea magistrale (o un diploma accademico di secondo livello per l’insegnamento di discipline artistiche, musicali e coreutiche) più un anno di tirocinio formativo attivo (TFA), che si conclude con la stesura di una relazione e l’esame finale con valore abilitante.
La specializzazione per il sostegno agli alunni disabili, in attesa della istituzione di specifiche classi di abilitazione, si consegue solo presso le università, con la partecipazione a un corso di durata almeno annuale, a numero programmato, che deve comprendere almeno 300 ore di tirocinio.    Presso le universita’ sono, inoltre, istituiti corsi di perfezionamento per l’insegnamento di una disciplina non linguistica in lingua straniera.
I corsi durano almeno un anno e comprendono almeno 300 ore di tirocinio.
Fino al 2011-2012 i non abilitati che hanno svolto, alla data di entrata in vigore del decreto, almeno 360 giorni di insegnamento, sono ammessi in soprannumero al TFA ma devono superare una prova di accesso.
Il servizio prestato coprirà parte dei crediti formativi richiesti.
Ecco i Premi più importanti: Enorme sorpresa( ma non è una novità: difficilmente la Giuria e i cinefili vanno d’accordo)  al 63mo Festival di Cannes con l’assegnazione della Palma d’Oro all’affascinante Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives del thailandese Apichatpong Weerasethakul.
Il film è coprodotto da Regno Unito, Francia, Germania e Spagna.
A 39 anni, il regista conferma il suo talento originale già salutato a Cannes con il Premio Un Certain Regard nel 2002 per Blissfully Yours e con il Premio della Giuria nel 2004 per Tropical Malady.
Con tre premi alla Francia e riconoscimenti per l’Italia e la Spagna, l’Europa è ben rappresentata in un palmarès che pare sia stato oggetto di aspre discussioni.
Il Gran Premio va a Des Hommes et des Dieux del francese Xavier Beauvois, mentre la sua connazionale Juliette Binoche trionfa per l’interpretazione femminile grazie a Copia conforme] di Abbas Kiarostami.
Mathieu Amalric completa il palmarès francese con il Premio della regia per Tournée (coprodotto con la Germania -) Il premio dell’interpretazione maschile è stato assegnato ex-æquo allo spagnolo Javier Bardem per Biutiful] di Alejandro González Iñárritu) e all’italiano Elio Germano per La nostra vita di Daniele Luchetti.
La produzione europea ricava anche il Premio della Giuria attribuito alla coproduzione franco-belga Un homme qui crie del ciadiano Mahamat-Saleh Haroun.
Il palmarès di questa edizione si è rivelato in flessione rispetto all’eccezionale annata 2009, ha anche favorito l’Asia con il premio della sceneggiatura andato al coreano Lee Chang-dong per Poetry, mentre la Caméra d’Or della migliore opera prima consacra Année Bissextile del messicano Michael Rowe, presentato alla Quinzaine des réalisateurs.
Infine, il futuro del cinema europeo promette bene con la Palma d’Oro del cortometraggio assegnata al francese Serge Avédikian per Chienne d’histoire e un Premio della Giuria al corto svedese Micky Bader di Frida Kempf.

Esposizione del Crocifisso in classe

La richiesta delle ACLI – Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani – di costituirsi davanti alla Corte europea di Strasburgo per i diritti dell’uomo, nel procedimento di ricorso contro la sentenza che vieta di esporre il crocifisso nelle scuole, è stata accolta.
Ne dà notizia il quotidiano “L’Avvenire” di oggi, che precisa che le ACLI sono state ammesse a presentare una propria memoria alla Corte, entro il prossimo 1° giugno, unitamente ad altre associazioni cattoliche tedesche e francesi.
Il presidente delle ACLI, Andrea Olivero, ha commentato che si tratta di un riconoscimento estremamente importante perché conferma la legittimità dell’iniziativa di tre grandi organizzazioni di laici cristiani impegnate a livello europeo.
Secondo Olivero, al di là degli esiti del ricorso, è un fatto che le argomentazioni per il rispetto delle diversità culturali espresse dai singoli Stati non potranno essere ignorate.
 La battaglia per il crocifisso in classe non deve fare i conti solo con chi è contrario, ma anche con i soldi che mancano nelle casse della scuola.
E’ il caso dell’Istituto Comprensivo ”Marconi” di Cengia, nel veneziano, dove per rimpiazzare tre crocifissi che non c’erano più è dovuto intervenire un benefattore.
Il tutto è partito da un interrogazione di un consigliere comunale di ”Impegno e partecipazione” che aveva chiesto lumi sulla mancata esposizione del crocifisso in tre classi: l’assessore all’Istruzione Carla Trevisan ha girato il quesito alla preside che ha spiegato la drammatica situazione delle esangui casse scolastiche.
In soccorso della scuola è arrivato però un anonimo benefattore, che ha donato i tre crocifissi.
Situazione dunque risolta, ma nella risposta all’interrogazione – riporta il Gazzettino – l’assessore ha sottolineato la difficile situazione scolastica dovuta ai ”tagli” introdotti dalla riforma Gelmini e al mancato trasferimento dei fondi minimi ministeriali.
E’ utile ricordare però che l’acquisto del crocifisso rientra nelle spese di arredo, che per gli istituti comprensivi sono di pertinenza del Comune.
Il richiamo ai tagli dunque deve fare riferimento ai trasferimenti agli enti locali e non a quelli alle scuole.
L’anonimo benefattore ha dunque recato un sollievo più alle casse del Comune che a quelle della scuola.

Cattolici soci fondatori di un Paese unito

Pedofilia, il perdono non evita la giustizia Venerati e cari Confratelli, «voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”.
Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio.
E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rom 8, 15-17).
È questa la rivelazione formidabile che riguarda l’umanità.
La Chiesa infatti, germogliando nel grembo del Cenacolo, e sospinta dal fervido fuoco della Pentecoste, apre le porte e va incontro agli uomini di tutti i tempi perché ha una notizia da porgere a tutti.
Non è − lo sappiamo − un’idea, un codice, una sapienza umana o una nuova gnosi: ha un volto e un nome, ha uno sguardo che accende la vita, è parola che risuona e suscita speranza.
È la Persona viva e palpitante, umanissima e divina, di Cristo.
Egli è il Salvatore, Colui che redime l’uomo dal peccato, radice di ogni male, e lo restituisce al Padre nell’abbraccio rinnovatore del suo Spirito.
È il Liberatore da ogni schiavitù, la Verità di Dio e dell’uomo, la Via che conduce al cielo – Egli che è il Cielo – la Vita che il cuore dell’uomo desidera, e ricerca a volte per strade sbagliate.
Egli è la felicità piena che non viene meno anche a fronte dei nostri tradimenti.
Davanti al suo volto, il credente si sente come trafitto da un pianto e da un incanto che non riesce pienamente a descrivere: l’incanto è provocato dalla bellezza che scorge in quello sguardo d’amore, il pianto invece lo prende alla gola per la consapevolezza pungente della propria povertà.
È pianto di rammarico ma anche di gioia: sa che Cristo, nonostante tutto, non rinuncerà ad amarlo.
Come gli Apostoli di allora, anche noi, cari Confratelli, vogliamo uscire da questo cenacolo con passo umile e spedito, confermati dalla luce dello Spirito che è in noi e ispira la nostra stessa Assemblea; vogliamo andare incontro al mondo contemporaneo con rinnovata fiducia per annunciare non una dottrina nostra che possiamo ritagliare secondo i tempi, ma il Signore Gesù che è «lo stesso ieri e oggi e per sempre!» (Eb 13, 8).
Per la missione ricevuta e della quale siamo gioiosamente responsabili, intendiamo dire all’uomo contemporaneo, talora frastornato e triste, che nessuno è orfano, che non si tratta di una scintilla che nel buio si accende per subito spegnersi; che nessuno è capitato per caso in un cosmo senza destino.
Vogliamo dire, senza presunzione o arroganza ma con la convinzione e la simpatia dei messaggeri, che tutti siamo pellegrini verso la Patria vera – la vita eterna − dove vedremo il Dio dell’Amore amato faccia a faccia, nella beatificante comunione di tutti i viventi.
È questo il tesoro della Chiesa, e di questo tesoro siamo debitori verso il mondo.
«Lo Spirito dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio – dice il Concilio Vaticano II – e in essi prega e rende testimonianza della adozione filiale.
Egli guida la Chiesa verso tutta intera la verità, la unifica nella comunione e nel servizio […].
Con la forza del Vangelo la fa ringiovanire, la rinnova continuamente e la conduce alla perfetta unione con lo Sposo.
Infatti, lo Spirito e la Sposa dicono al Signore Gesù: Vieni!» (Lumen Gentium, 4).
La Chiesa non porta avanti se stessa, ma serve l’uomo con la simpatia di Dio: la sua prossimità agli uomini là dove sono, la condivisione delle loro ansie e speranze, è segno di una presenza, anzi di una compagnia più alta e consolante.
Sperimenta così Gesù nella duplice fedeltà a Dio e all’uomo.
Questa è la missione della Chiesa, il suo statuto, la sua perenne bellezza.
È dentro a questa verità ospitale e luminosa che la Chiesa guarda a se stessa e al mondo, riconoscendo luci ed ombre.
Nella misura in cui il suo sguardo è fisso sul volto del Signore, qualsiasi ruga e qualsiasi opacità acquistano il loro vero rilievo, disvelano la loro autentica serietà, sollecitano ad una proporzionata assunzione di responsabilità.
«Per crucem ad lucem»: così avevamo interpretato – all’avvio del Consiglio Permanente del settembre scorso – i primi passi dell’anno pastorale che va ora concludendosi, alla luce cioè di una regola – incontrovertibile, eppure consolante – della vita cristiana (cfr Prolusione al Consiglio Permanente della CEI, 21 settembre 2009).
Ebbene, a me pare che, nell’arco dei mesi successivi, mai in realtà ci si sia allontanati dal solco di quelle parole: per crucem ad lucem.
Veniamo infatti da una stagione particolarmente carica di sofferenza e di pena.
Naturalmente ci guardiamo dal lasciarci catturare dal pessimismo, restando per noi vincolante l’indicazione secondo cui ogni vero discepolo di Cristo può aspirare ad una cosa sola, ossia a condividere la sua passione, senza rivendicare altre ricompense o gratificazioni (cfr Mc 10, 39-40).
Così preferiamo considerare le nostre tribolazioni intrecciate a quelle che attraversano il popolo a noi affidato, le stesse a cui faceva riferimento Benedetto XVI nella celebrazione eucaristica presieduta a Torino: «Sì, la vita porta ad affrontare molte difficoltà, molti problemi, ma è proprio la certezza che ci viene dalla fede, la certezza che non siamo soli, che Dio ama ciascuno senza distinzione ed è vicino a ciascuno con il suo amore, che rende possibile affrontare, vivere e superare la fatica» quotidiana (Omelia in Piazza San Carlo, 2 maggio 2010).
1.
Salutiamo anzitutto con viva cordialità il Nunzio apostolico in Italia, l’Arcivescovo Giuseppe Bertello, che amabilmente è già qui tra noi e la cui parola avremo a breve il piacere di ascoltare.
Onoriamo con gioia il dovere dell’ospitalità dando il benvenuto ai confratelli Vescovi che qui rappresentano le Conferenze episcopali di numerosi Paesi, ringraziandoli fin d’ora per il dono della loro presenza e della loro parola.
Avviando questi lavori assembleari vogliamo in primo luogo accogliere i Presuli che nell’ultimo periodo sono entrati a far parte della nostra Conferenza.
Confidiamo sul loro impegno e chiediamo al Signore abbondanza di grazie per il loro ministero.
Mi riferisco a: – S.E.
Mons.
Giovanni D’Ercole, Vescovo ausiliare de L’Aquila; – S.E.
Mons.
Gianfranco Agostino Gardin, Arcivescovo – Vescovo di Treviso; – S.E.
Mons.
Lucio Lemmo, Vescovo ausiliare di Napoli; – S.E.
Mons.
Vincenzo Pisanello, Vescovo di Oria; – S.E.
Mons.
Calogero Peri, Vescovo di Caltagirone; – S.E.
Mons.
Valentino Di Cerbo, Vescovo di Alife – Caiazzo.
Un particolare saluto di riconoscenza ed affettuosa vicinanza desideriamo rivolgere ai Confratelli che di recente hanno lasciato il governo pastorale, e che in altro modo ora continuano a lavorare con noi per il bene delle nostre Chiese.
Si tratta di: – S.E.
Mons.
Benito Cocchi, Arcivescovo di Modena – Nonantola; – S.E.
Mons.
Luciano Giovannetti, Vescovo di Fiesole; – S.E.
Mons.
Eugenio Binini, Vescovo di Massa Carrara – Pontremoli.
Grata memoria desideriamo fare dei fratelli Vescovi che recentemente hanno concluso la loro esistenza terrena.
Domandiamo al Padre di ogni misericordia, che fedelmente hanno servito, di accoglierli nella pienezza della vita, mentre confidiamo sulla loro intercessione per noi e per il popolo a cui si sono dedicati.
Ecco i loro nomi: – S.E.
Mons.
Martino Gomiero, Vescovo emerito di Adria – Rovigo; – S.E.
Mons.
Piergiorgio Silvano Nesti, Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche; – S.E.
Mons.
Roberto Amadei, Vescovo emerito di Bergamo; – S.E.
Mons.
Carlo Chenis, Vescovo di Civitavecchia – Tarquinia; – S.E.
Mons.
Franco Gualdrini, Vescovo emerito di Terni – Narni – Amelia; – S.E.
Mons.
Vito De Grisantis, Vescovo di Ugento – Santa Maria di Leuca; – S.E.
Mons.
Andrea Cassone, Arcivescovo emerito di Rossano – Cariati; – S.E.
Mons.
Luigi Amaducci, Arcivescovo emerito di Ravenna – Cervia.
2.
La quaresima, la settimana santa e il tempo pasquale che abbiamo immediatamente alle spalle ci hanno aiutato non poco ad affrontare la vicenda della pedofilia e delle sofferenze ad essa connesse che anzitutto «vengono proprio dall’interno della Chiesa, dal peccato che esiste nella Chiesa» stessa (Benedetto XVI, Ai giornalisti nel volo Roma Lisbona, 11 maggio 2010).
Come discepoli del Signore, ci è stato chiesto di impegnarci anzitutto nella purificazione e nella penitenza, che è parola dura, prospettiva che si tende a scantonare.
Eppure, «sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter fare penitenza è grazia.
E vediamo che è necessario far penitenza, cioè riconoscere quanto è sbagliato nella nostra vita, aprirsi al perdono, prepararsi al perdono, lasciarsi trasformare» (Benedetto XVI, Omelia per i Membri della Pontificia Commissione biblica, 15 aprile 2010).
In altre parole, dovevamo vivere cristianamente la prova, dovevamo affrontare la sfida – pur se talora rappresentata come una generale e indistinta incolpazione – anzitutto nei termini di un esame di coscienza.
E perché non avessimo esitazione, Pietro si è messo avanti a noi e si è caricato, per primo lui, la croce.
Il Papa ci precede e con mano ferma e paterna non cessa di indicare alla Chiesa il proprio centro − Cristo −, a richiamarla con la parola e l’esempio, verso quella santità di vita che è vocazione di ogni battezzato e, innanzitutto, di ogni ministro di Dio.
Continuamente ci invita alla purificazione e alla conversione del cuore, ricordando con la sua chiara semplicità che «il vero nemico da temere e da combattere è il peccato, il male spirituale, che a volte purtroppo, minaccia anche i membri della Chiesa.
Viviamo nel mondo, ma non siamo del mondo (cfr Gv 17, 14).
Noi cristiani non abbiamo paura del mondo, anche se dobbiamo guardarci dalle sue seduzioni.
Dobbiamo invece temere il peccato […].
Perseguiamo insieme con fiducia questo cammino, e le prove, che il Signore permette, ci spingano a maggiore radicalità e coerenza” (Regina Caeli, 16 maggio 2010).
E che cosa dovevamo comprendere ancora meglio, aiutati magari da risultanze delle scienze psico-pedagogiche? Che le persone vittime di aggressione pedofilia portano a lungo le ferite interiori, che a volte, pur risalendo a molti anni addietro, restano ancora aperte.
Non dovevamo cioè esitare a riconoscere che gli abusi feriscono ad un livello personale profondo, per saper intuire quale fonte di disordine e di patimenti possa diventare una loro sottovalutazione.
In particolare, quando a prevaricare è un sacerdote, persona consacrata che ha una responsabilità educativa tutta speciale, della quale i ragazzi tendenzialmente si fidano.
Si spiega anche così il risentimento che emerge talora dopo decenni.
L’amarezza, quando non la rabbia, sono cioè in connessione con le attese tradite.
Ci si trova davanti a persone che chiedono principalmente di essere capite e accompagnate, con rispetto e delicatezza, lungo un itinerario paziente di recupero e di riconciliazione anzitutto verso se stesse e la loro storia.
Il nostro primo pensiero, la nostra prima attenzione è nei confronti delle vittime: ancora una volta esprimiamo a loro tutto il nostro dolore, il nostro profondo rammarico e la cordiale vicinanza per aver subito ciò che è peccato grave e crimine odioso.
Non genera in noi stupore il constatare come la sensibilità nei loro confronti sia cresciuta nel tempo: per la società in generale, ma anche per la comunità cristiana.
Così come c’è una consapevolezza più evoluta oggi per quel che riguarda il delitto di pedofilia, che può essere anche una patologia ed è certamente peccato terrificante.
Per questo, una persona che abusa di minori ha bisogno – ad un tempo – della giustizia, come della cura e della grazia.
Tutte e tre sono necessarie, e senza confusioni o mistificazioni tra loro.
La pena inflitta per il delitto non guarisce automaticamente né dà il perdono, come – all’inverso – il perdono del peccato non guarisce automaticamente la malattia né sostituisce la giustizia (cfr Benedetto XVI, Ai giornalisti cit.), e così la cura non sostituisce la pena, tanto meno può rimettere il peccato.
Queste evidenze sono oggi il frutto di una conoscenza più approfondita del dramma della pedofilia, che la Chiesa tuttavia in nessuna stagione ha inteso sottovalutare, sulla scorta del raggelante ammonimento del Vangelo: «Chi […] scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare» (Mt 18, 6).
Ha infatti via via adeguato le disposizioni che andavano adottate alla sempre più avvertita conoscenza del fenomeno.
Le direttive chiare e incalzanti che da tempo sono impartite dalla Santa Sede confermano tutta la determinazione a fare verità fino ai necessari provvedimenti, una volta accertati i fatti.
L’episcopato italiano, dal canto suo, ha prontamente recepito tali disposizioni, intensificando lo sforzo educativo nei riguardi dei candidati al sacerdozio (cfr La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana, 2007) e  il rigore del discernimento servendosi anche delle migliori acquisizioni delle scienze umane, la vigilanza per prevenire situazioni non compatibili con la scelta di Dio e la dedizione al prossimo, una formazione permanente del clero adeguata alle sfide.
Siamo, in quanto Vescovi italiani, riconoscenti alla Congregazione per la Dottrina della Fede per l’indirizzo e il sostegno nell’inderogabile compito di fare giustizia nella verità, consapevoli che anche un solo caso in questo ambito è sempre troppo, specie se il responsabile è un sacerdote.
3.
Per gli incarichi che ha ricoperto e per la visione sempre lucida dei problemi che l’ha contraddistinto, Joseph Ratzinger ha svolto in questa presa di coscienza ecclesiale un ruolo costantemente propulsivo.
Intransigente con ogni sporcizia, egli ha propugnato erga omnes scelte di trasparenza e di pulizia.
Da lui la Chiesa ha imparato e impara a non avere paura della verità, anche quando è dolorosa e odiosa, a non tacerla o coprirla.
Questo, naturalmente, non significa che si debba subire – qualora ci fossero – strategie di discredito generalizzato o di destrutturazione ecclesiale.
E questo la comunità ecclesiale lo sa e lo vede; potremmo dire che l’ha sempre saputo, e per questo ha prontamente solidarizzato con lui di fronte alle insinuazioni assurde qua e là avanzate.
Da Prefetto della Dottrina della Fede, e con l’avallo di Giovanni Paolo II, ha operato per introdurre importanti cambiamenti nelle procedure sanzionatorie, con regole uniformi sia per quel che concerne la responsabilizzazione delle Diocesi sia per quanto riguarda la competenza del governo centrale, prevedendo anche, caso per caso, la rinuncia alla prescrizione (cfr  Sacramentorum sanctitatis tutela, del 30 aprile 2001).
Nello spirito di una corretta e concreta cooperazione, si è inoltre stabilito di dare sempre seguito alle disposizioni della legge civile, e per i casi più gravi si è scelta la via di una rapida dimissione dallo stato clericale, come si legge nella «Guida alle procedure di base riguardo alle accuse di abusi sessuali» della medesima Congregazione.
Anche senza ulteriori dichiarazioni, è questa la direttiva di riferimento più aggiornata, esplicita ed autorevole a cui ci atteniamo per il nostro discernimento di Vescovi, in ordine a qualsiasi intervento da condursi con determinatezza e tempestività.
Da Pontefice, ha condannato ripetutamente e con forza gli abusi sui minori, adottando un metodo scrupoloso di vigilanza, e incontrando in più occasioni gruppi di vittime.
Ha più volte raccomandato ai sacerdoti le esigenze della vita ascetica e, seppur con intendimenti più ampi, ha indetto l’Anno Sacerdotale.
La Lettera che nel marzo scorso egli ha indirizzato ai cattolici d’Irlanda è, per forza e coerenza interna, un testo unico nel suo genere che si è − non a caso − imposto all’attenzione del mondo, veemente e sereno ad un tempo, senza margini all’incertezza o alle minimizzazioni.
Insomma, le azioni di Benedetto XVI sono eloquenti almeno quanto le sue parole.
Noi Vescovi sappiamo di dover ringraziare il Papa per quanto ha fatto e sta facendo in ordine all’esemplarità della Chiesa e dei suoi ministri.
Egli è il Pastore all’altezza delle sfide, che affronta con credibilità e lucidità questo tempo difficile; è il maestro che parla della verità di Dio e rivela il giusto rispetto per la verità sugli uomini; è il testimone della carità, come della trasparenza che la carità esige.
Non c’è cedevolezza in lui nei riguardi di pressioni esterne, ma un’assunzione di responsabilità proporzionata al suo mandato.
Pur vivendo oggi in regime di libertà, esistono tuttavia «forme sottili di dittatura: un conformismo in base al quale diventa obbligatorio pensare come pensano tutti, agire come agiscono tutti.
E le sottili aggressioni contro la Chiesa, o anche quelle meno sottili, dimostrano come questo conformismo possa realmente essere una vera dittatura.
Per noi vale questo: si deve obbedire più a Dio che agli uomini» (Benedetto XVI, Omelia per i Membri…, cit.).
Che egli obbedisca a Dio, e viva la sua missione in una intimità speciale con il Signore, noi non abbiamo dubbi.
Egli stesso confidava ad un gruppo di Confratelli del Sud-America: «Sento che il centro e la fonte del ministero petrino sono nell’Eucaristia» (Discorso ai Vescovi della regione Norte 2 del Brasile, 16 aprile 2010).
Noi pure verifichiamo nell’Eucaristia quotidiana lo sguardo di fede che si deve al Papa, lì soprattutto alimentiamo il nostro vincolo di comunione con lui, lì rafforziamo il nostro affetto e la nostra preghiera per lui.
Al termine dell’incontro conviviale con il Collegio Cardinalizio, in occasione del quinto anniversario della sua elezione, egli confidava che «sente molto fortemente di non essere solo».
Sì, possiamo dire che, nel nostro piccolo, noi non lo lasciamo solo: questa peraltro è la condizione perché noi, a nostra volta, non siamo soli.
E non lo lasciano solo neppure le nostre comunità che almeno in due momenti – il 19 aprile e il 16 maggio – hanno voluto anche dimostrarlo pubblicamente.
Abbiamo ancora negli occhi il grande abbraccio con cui il laicato cattolico italiano, riempiendo Piazza San Pietro, ha inteso esprimere il proprio amore per il Papa: c’era soprattutto la gente semplice, in particolare si sono viste moltissime famiglie, giovani e meno giovani, che dalle varie regioni, anche lontane, dell’Italia si erano messe in strada, affrontando − dov’era necessario − dei sacrifici, per vedere il Papa, per stare un po’ con lui, per pregare insieme a lui e per lui, per le intenzioni del suo cuore di pastore universale.
Nessuna esibizione, ben inteso, ma un gesto consapevole e grato, e per questo anche festoso, come di figli con il padre.
A vedere le cose nella loro luce, com’è congeniale ai discepoli del Risorto, si è trattato di un evento di grazia, di una nuova incursione dello Spirito, dell’emergere ancora una volta di quel senso di Dio che torna a palpitare nel cuore dell’umanità, nonostante il secolarismo e la marginalizzazione della trascendenza.
Siamo per questo riconoscenti al nostro laicato che ha rilanciato in avanti una tensione spirituale che da sempre attraversa il cattolicesimo italiano.
Così come siamo grati alle molteplici Aggregazioni che la CNAL esprime come provvidenziale organo di conoscenza e di comunione.
Vogliamo anche dire che contiamo su ciascuna persona e ciascuna aggregazione per il compito di tessitura in atto nelle nostre Chiese.
4.
Dicevamo prima che c’è un’evoluzione rassicurante a proposito della sensibilità con cui generalmente si valuta il fenomeno della pedofilia, arrivando sempre più spesso a porre seri interrogativi circa la spersonalizzazione cui è soggetta l’infanzia nella rete del web come nella pubblicistica corrente, in ampi segmenti della comunicazione pubblicitaria come in taluni programmi televisivi.
E circa l’ipocrisia con cui spesso si giustifica ogni abuso, o si coprono inconfessabili scelte di svago e di turismo.
Possiamo noi forse dimenticare le segnalazioni allarmate di confratelli Vescovi dell’Estremo Oriente in merito al commercio obbrobrioso di cui anche nostri connazionali si rendono colà responsabili? Possiamo forse non ripetere l’allarme, da noi già lanciato, sulle multinazionali della pornografia che sono in agguato dietro l’adozione, in se stessa positiva per la televisione, del digitale terrestre? Senza qui evocare le posizioni estreme di chi nel mondo occidentale vorrebbe dare addirittura dignità politica alla pratica pedofila, si deve pur dire che ci si muove dentro ad una più generale contraddizione culturale ed etica.
C’è oggi infatti una esasperazione indubitabile circa la dimensione della sessualità, contrassegnata da una pervasività addirittura ossessiva, che non può – a lungo andare – non produrre effetti indesiderati sugli atteggiamenti delle persone, in particolare quelle psicologicamente più fragili ed esposte.
Operare perché le persone diventino vieppiù fragili significa sfrangiare e indebolire la società intera.
Qual è lo scopo? L’opinione pubblica come le famiglie devono sapere che noi Chiesa faremo di tutto per meritare sempre, e sempre di più, la fiducia che generalmente ci viene accordata anche da genitori non credenti o non frequentanti.
Non risparmieremo attenzione, verifiche, provvedimenti; non sorvoleremo su segnali o dubbi; non rinunceremo a interpretare, con ogni premura e ogni scrupolo necessari, la nostra funzione educativa.
Il mistero incomprimibile insito in ogni persona, sacrario inviolabile e vocazione alla trascendenza, è la bussola che ci guida, la regola che deve sempre condurci.
Qui è la nostra missione, rispetto alla quale non possiamo distrarci né deludere.
Sulla integrità dei nostri preti, del nostro personale religioso, dei nostri ambienti, noi non possiamo transigere perché essa sta al cuore delle nostre scelte di dedizione al Signore e di servizio ai fratelli.
E bisogna dire che i nostri sacerdoti, per come stanno in mezzo al popolo, per come operano, per come si spendono, sono la gloria della nostra Chiesa.
I casi di indegnità che fin qui sono emersi e – Dio non voglia – potranno ancora emergere, non possono oscurare il luminoso impegno che il clero italiano nel suo complesso, da tempo immemore, svolge in ogni angolo del Paese.
5.
Circostanza provvidenziale, nel nostro cammino, è stato l’Anno Sacerdotale, indetto a sorpresa dal Papa per il 150° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars, e che si concluderà nel mese prossimo.
Dal 9 all’11 giugno infatti avrà luogo a Roma, da tutto il mondo, una grande convocazione di sacerdoti, una sorta di «cenacolo sacerdotale», dove non mancherà ovviamente la presenza del Santo Padre, e a cui sollecitiamo caldamente i nostri preti.
Pur scaturito da preoccupazioni squisitamente ecclesiali, questo Anno ha avuto una finalizzazione di carattere più plenario: contribuire a portare in luce, grazie alla via sacramentale, il misterioso disegno del Padre, fare di Cristo il cuore del mondo (cfr Benedetto XVI, Omelia per l’inaugurazione dell’Anno Sacerdotale, 19 giugno 2010).
Dapprima è stata l’occasione per ribadire che il punto di partenza del nostro interrogarci sul sacerdozio è la fede in Gesù Cristo, la cui novità non sta propriamente in qualche idea di moralizzazione o in una ideologia politica più convincente dell’altra, ma in una persona: il Dio che si fa uomo e attira l’uomo a sé.
Lo attira perché, nella potenza dello Spirito Santo, Gesù è l’Inviato del Padre per la salvezza dell’uomo stesso.
Gesù e la sua missione cioè sono totalmente relativi al Padre: «Il Figlio da se stesso non può fare nulla» (Gv 5,19).
Ma anche il sacerdote, a sua volta, non può «nulla» senza Gesù Cristo (cfr Gv 15,5).
Ed è precisamente questo «nulla», che i discepoli condividono con Gesù, ad esprimere in pari tempo la forza e la debolezza del ministero sacerdotale (cfr Benedetto XVI, All’Udienza del Mercoledì, 5 maggio 2010).
E qui si radica la consapevolezza da parte del sacerdote di agire in persona Christi Capitis, che non è una modalità per essere presente al posto di un assente: «Cristo non è mai assente, anzi è presente in un modo totalmente libero dai limiti dello spazio e del tempo, grazie all’evento della Risurrezione» (Benedetto XVI, All’Udienza del Mercoledì, 14 aprile 2010).
Il sacerdote cioè agisce non a nome proprio ma nella persona stessa di Cristo Risorto, che è il capo del corpo della Chiesa, e che si rende presente con la sua azione realmente efficace.
Grazie a questa presenza, il sacerdote fa quello che da solo non potrebbe fare, che lo supera e non è alla sua portata: consacrare il pane e il vino e rimettere i peccati.
Perciò il prete non è tale da se stesso né ad opera della comunità, ma solo per il sacramento, ossia da Dio.
Proprio questo non radicarsi in sé ma in Gesù Cristo diventa per lui il legame essenziale e personale, così come il donarsi agli altri diventa la sua auto-realizzazione e maturazione anche umana.
L’identità del sacerdote – tutta relativa a Cristo − è insomma costitutiva del suo essere interiore e ne nutre l’agire nel mondo.
Oltre a rinforzare la spina dorsale dell’identità, quest’Anno è stata l’occasione per precisare la logica che di fatto muove ogni sacerdote.
Occorre sempre di nuovo apprendere da Cristo ciò che conta; il personale baricentro infatti non è la propria soddisfazione umana: la vocazione è una dichiarazione d’amore e chiede una risposta d’amore.
Per questo al sacerdote è richiesto, attraverso una conversione continua, di stare con Lui e di camminare costantemente alla sua presenza: senza tale perno egli finisce per non resistere a lungo nel suo ministero, in particolare oggi, quando la pressione esterna è così tenace.
Se persevererà, però, egli sperimenterà sempre più che questo non mettere al centro se stesso è il fattore veramente liberante e gratificante (cfr Benedetto XVI, Omelia per la Beatificazione, 11 ottobre 2009).
Gli è richiesto come ad ogni cristiano, ma a lui in modo specialissimo perché pastore, di essere “nel” mondo ma non “del” mondo.
Se diventiamo del mondo, invero, con l’illusione di essergli più vicini, in realtà lo abbandoniamo e non lo serviamo.
Essere veramente nel mondo, infatti, richiede un’alterità, esige che siamo “davanti” al mondo con un volto e un dono da offrire.
Essere del mondo, invece, significa non avere più nulla da dire per la sua salvezza, e quindi – in fondo – non amarlo davvero.
Accogliere liberamente il dono del celibato e percorrerne il sentiero non implica alcuna mutilazione psicologica o spirituale, né tradisce visioni inadeguate o immature della sessualità umana.
In realtà, vissuto con lo sguardo fisso in Gesù e con cuore indiviso per il bene della comunità, il celibato richiesto dalla Chiesa latina è un’esperienza di amore realizzante che fa fiorire l’umanità del sacerdote e la trasforma in una dedizione incondizionata, che in maniera decisiva contribuisce alla responsabilità della comunione, alla possibilità dunque che i fratelli «si aggrappino alla cordata», in ultima istanza alla bellezza divina della Chiesa stessa.
«Di questo essere nell’“insieme della cordata” fa parte anche il non comportarsi da padroni della Parola di Dio, il non correre dietro un’idea sbagliata di emancipazione.
L’umiltà “dell’essere con” è essenziale per l’ascesa» (Benedetto XVI, Omelia per la XXV Giornata cit.), come è essenziale per saper promuovere in mezzo al popolo di Dio l’atteggiamento proprio dei costruttori della Chiesa, secondo l’ideale del Concilio Vaticano II.
Proprio in questo orizzonte, guardando con affetto e stima i nostri sacerdoti, noi sentiamo di dover far nostra l’esortazione di Benedetto XVI ai Vescovi portoghesi, là dove diceva: nell’Anno Sacerdotale che volge al termine «riscoprite, cari Fratelli, la paternità episcopale soprattutto verso il vostro clero.
Per troppo tempo si è relegata in secondo piano la responsabilità dell’autorità come servizio alla crescita degli altri, e, prima di tutti, dei sacerdoti» medesimi (Discorso all’Episcopato del Portogallo, Fatima, 13 maggio 2010).
Dopo aver rilevato «l’ermeneutica della continuità» che caratterizza, oltre che la Chiesa, anche il sacerdozio cattolico (cfr Discorso al Convegno promosso dalla Congregazione per il clero, 12 marzo 2010), Benedetto XVI ha in più occasioni indicato una serie di Santi quali modelli per i sacerdoti di oggi.
Nell’800, ad esempio, Torino fu una fucina fulgida di tali vocazioni, basti citare san Giovanni Bosco, o san Leonardo Murialdo, oppure san Giuseppe Cottolengo (cfr All’Udienza del Mercoledì, 28 aprile 2010), la cui opera il Papa stesso ha visitato nel corso del recente viaggio nel capoluogo piemontese.
Com’è noto, egli ha inteso per l’occasione unirsi «con particolare intensità» ai tanti pellegrini che dal 10 aprile hanno voluto raggiungere quella città per venerare la sacra Sindone, singolare «icona scritta col sangue, sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro […] da un colpo di lancia romana» (Alla Venerazione della Sindone, 2 maggio 2010).
«Icona del Sabato santo», l’ha chiamata ancora il Papa, «icona del mistero», icona «dell’impensabile», icona di quella «solidarietà più radicale» che Cristo ha realizzato, condividendo con noi «non solo il nostro morire, ma anche il nostro rimanere nella morte».
La sacra Sindone – ha aggiunto ancora il Papa – «si comporta come un documento fotografico, dotato di un positivo e di un negativo.
E in effetti è proprio così […] l’Amore è penetrato “negli Inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori […].
Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli” (ib).  Passio Christi.
Passio hominis  recitava il motto di questa decima Ostensione torinese.
Consolante il concorso di pellegrini – ben oltre i due milioni – che ha contrassegnato l’iniziativa promossa con grande cura dal nostro confratello cardinale Severino Poletto.
La Chiesa, che «con occhio d’aquila» sa spingersi e ghermire la luce inaccessibile del mistero divino, è ancora una volta quella vissuta dalla gente del popolo.
Ed è per lo più questa Chiesa, assunta e testimoniata dai fedeli semplici, a sottolineare con grande persuasività la dimensione propria dell’incarnazione.
6.
È noto a tutti i Confratelli come in questa Assemblea episcopale si dovranno valutare – e, nel caso, approvare – gli Orientamenti pastorali per il decennio 2011-2020 che già si era deciso di incentrare sulla dimensione educativa.
Non c’è chi non possa cogliere come in questo tipo di scelta la Chiesa italiana intenda continuare, nonostante la complessità dei problemi in parte anche accennati, a interpretare la propria missione senza complessi e senza menomazioni.
Non solo: riteniamo come Chiesa che, se c’è da percorrere un confronto e  uno scambio sinergico con la comunità civile e le sue diverse istituzioni, non si possa optare per un’incombenza di scarso momento, ma ci si debba orientare senz’altro verso un orizzonte cruciale della vita di oggi.
La sfida educativa è cimento adeguato.
Peraltro, osservava il Papa lo scorso anno, l’educazione è «un’esigenza costitutiva e permanente della vita della Chiesa» (Discorso all’Assemblea della CEI, 28 maggio 2009), tant’è che si può, senza nulla forzare, leggere sotto questa angolatura diversi momenti del nostro recente impegno come Conferenza: si pensi al convegno «Testimoni digitali» sul rapporto tra i cattolici e il nuovo ambiente mediatico segnato dal web, o alla lettera Annuncio e catechesi per la vita cristiana pubblicata in occasione del quarantesimo anniversario del «Documento base sul Rinnovamento della catechesi».
Si pensi soprattutto al documento della nostra Conferenza Per un Paese solidale.
Chiesa italiana e Mezzogiorno, nel quale si mette in evidenza che il fattore principale dello sviluppo anche socio-economico sono la persona umana, la sua vitalità e le relazioni sociali che la contraddistinguono.
La stessa Settimana sociale, in calendario per il 14-17 ottobre prossimo a Reggio Calabria, sul tema: «Cattolici nell’Italia di oggi: un’agenda di speranza», ha uno spiccato risvolto educativo.
Ovvio che alla luce della scelta che stiamo per compiere circa la colorazione del prossimo decennio, si dovrà nel prossimo futuro evitare con cura di perdersi in eccessive frammentazioni e privilegiare invece lo sforzo di confluenza dei singoli momenti verso un ideale di sintesi, a servizio di un’autentica humanitas.
Ben sappiamo che educare è aiutare l’altro a introdursi in modo critico e responsabile alla realtà intera.
Di questa realtà ognuno è parte integrante e irripetibile.
I giovani «sentono l’esigenza di accostarsi ai valori autentici quali la centralità della persona, la dignità umana, la pace e la giustizia, la tolleranza e la solidarietà.
Ricercano anche, in modi a volte confusi e contradditori, la spiritualità e la trascendenza, per trovare equilibrio e armonia» (Benedetto XVI, Saluto al Concerto per il V anniversario di Pontificato, 29 aprile 2010).
Ma questo impegna noi adulti a superare incertezze e reticenze, per recuperare una nozione adeguata di educazione che si avvicini alla paideia, cioè ad un processo formativo articolato ma mai evasivo rispetto alla verità dell’essere, ad una capacità di distinguere ciò che è bene da ciò che è male, ad una concreta disciplina dei sentimenti e delle emozioni.
Bisogna, in altre parole, che si affermi una generazione di adulti che non fuggano dalle proprie responsabilità perché disposti a mettersi in gioco, a onorare le scelte qualificanti e definitive, a cogliere – loro per primi – la differenza abissale tra il vivere e il vivacchiare.
Se per un istante si pone mente infatti agli episodi di certa cronaca scolastica o a taluni fatti di violenza che si verificano purtroppo anche in famiglia come nei piccoli centri, venendo magari facilmente liquidati come raptus mentre con ogni evidenza si tratta anzitutto di vistosi deficit nella filiera educativa, allora si comprende come si sia oramai in una situazione in cui il vuoto di valori sfocia immediatamente, senza più stadi intermedi, nel disagio se non nella disintegrazione sociale.
Guai però se in simili contesti, che sembrano in espansione, vengono ipotizzate risposte semplicemente disciplinari o emergenziali; la sfida educativa non ammette surrogati: se va disertata è la comunità che – a segmenti – si decompone.
Come dire che l’impegno volto all’educare – di cui gli Orientamenti pastorali per il prossimo decennio dovranno essere una declinazione esemplare – è qualcosa di decisivo sotto il profilo non solo evangelico e dunque ecclesiale, ma anche storico, sociale e politico.
7.
C’è all’orizzonte un evento di cui si sta discutendo, a tratti anche animatamente, e che ci interessa molto da vicino.
È il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
Che sia un appuntamento che merita di essere avvertito, già s’è cercato di dirlo nell’incontro – uno dei primi su questo tema a livello nazionale – che ha avuto luogo a Genova il 3 e 4 maggio scorso anche in preparazione alla Settimana Sociale di ottobre.
Per l’occasione, mi ero permesso di assicurare che come Chiesa non risparmieremo energie morali né culturali al fine di partecipare al significativo anniversario, giacché questa è la condizione per poter a nostra volta chiedere che esso sia da tutti vissuto con lo sguardo rivolto in avanti, e per questo – se uniamo fedeltà e riforme – in grado di aiutare i cittadini e le famiglie, le associazioni e le istituzioni che in questa stagione si stanno spendendo per la ripresa del Paese.
Non dunque una celebrazione lasciata ai margini, quasi un atto dovuto staccato dalla vita comunitaria e dagli sforzi che essa richiede, ma collocata dentro a questo fluire, come a rinvigorirlo, assegnando freschezza e luminosità ai traguardi comuni da conseguire.
Questo è dunque il nostro augurio: il dibattito che prenderà vita scaturisca da una coscienza storica avvertita, in grado di far confluire e infine ragionevolmente comporre in una cornice più ampia i punti di vista, le sensibilità, le esperienze.
L’unità del Paese resta una conquista e un ancoraggio irrinunciabili: ogni auspicabile riforma condivisa, a partire da quella federalista, per essere un approdo giovevole, dovrà storicizzare il vincolo unitario e coerentemente farlo evolvere per il meglio di tutti.
Per parte nostra, crediamo meriti attenzione l’appunto di chi annota che l’anniversario è significativo non perché l’Italia sia un’invenzione di quel momento, ossia del 1861, ma perché in quel momento, per una serie di combinazioni, veniva a compiersi anche politicamente una nazione che da un punto di vista geografico, linguistico, religioso, culturale e artistico era già da secoli in cammino.
A nessuno è certamente ignoto che cosa comportò il realizzarsi del disegno di uno Stato finalmente unitario per la Chiesa cattolica, cioè per quella realtà storico-religiosa che, rappresentata dalla barca di Pietro, assai presto approdò alla foce del Tevere, nella capitale dell’impero.
E lì, sulla tomba di Pietro, stabilì la cattedra del primato espandendosi via via nelle terre vicine e lontane, mentre altri Apostoli raggiungevano nuove comunità e nazioni della terra.
Certamente la Pentecoste, dunque l’impulso universale dato al Vangelo di Cristo, precede la nascita della Chiesa di Roma, ma «il nome di Roma appare nelle intenzioni divine», dirà in un memorabile discorso, all’indomani del primo centenario dell’unità, Giovan Battista Montini, se è vero com’è vero che Pietro ha fatto di Roma il cardine del suo ministero e che Paolo, in una visione notturna, riceve dal Signore un preciso ammonimento: «Coraggio… è necessario che tu dia testimonianza anche a Roma» (At 23,11) (cfr Roma e il Concilio, Campidoglio, 10 ottobre 1962).
La storia che seguì è a tutti nota, come tutti conoscono le annose traversie che si è soliti condensare nella «questione romana».
Si potrebbe dire, tuttavia, che mai come in quella stagione la Provvidenza guidò gli eventi.
È vero: a nessun altro popolo è stato domandato, in termini storici, ciò che è stato richiesto al popolo italiano.
Ma anche nessun altro popolo ha ricevuto, in termini spirituali e culturali, quello che ha ricevuto e riceve l’Italia.
Il Presidente Napolitano, nel telegramma che mi ha inviato per il convegno genovese, non ha esitato a riconoscere «il grande contributo che la Chiesa e i cattolici hanno dato, spesso pagandone alti prezzi, alla storia d’Italia e alla crescita civile del Paese».
8.
Di fronte a tante obiezioni e a talune polemiche che ci rincorrono come italiani, verrebbe da dire: accettiamoci, amici, per quello che siamo, a partire dalla nostra geografia e dalla nostra storia, dalla nostra tradizione e dalla nostra cultura.
È saggio confrontarsi con gli altri, è bene cercare di imparare da tutti, ma è sciocco illudersi che l’emancipazione coincida con la fuga da se stessi, immaginarsi nelle condizioni altrui.
Osservava qualche settimana fa lo stesso Presidente della Repubblica: «È giusto ricordare i vizi d’origine e gli alti e bassi di quella costruzione, mettere a fuoco le incompiutezze dell’unificazione […] e riportare in luce filoni di pensiero e progetti che restarono sacrificati nella dialettica del processo unitario» (Intervento per il 150° anniversario della Partenza dei Mille, 5 maggio 2010).
Confrontiamoci, dunque, da persone adulte, in un dialogo sereno e intelligente con la consapevolezza che la verità giova al Paese.
Se oggi si ringrazia Iddio per l’assetto conseguito e la pacificazione ormai raggiunta, non si può espungere quello che, nella religione, si presenta come un elemento connaturato al nostro umanesimo e concorre a definire la nostra missione nel mondo.
Ben lo esemplificano da una parte i nostri missionari e dall’altra le nostre forze di pace presenti in diverse zone del pianeta.
La sfida semmai è come continuare a farne, nella modernità, un coefficiente di creatività e di sviluppo.
La questione in particolare dei rapporti tra Stato e Chiesa, e di conseguenza l’esplicazione di una autentica laicità, è stata per noi italiani una vicenda forse un po’ più complessa che per altri, costata dibattiti e lacerazioni che hanno tormentato le coscienze più vigili; ma oggi − per i termini in cui è definita (cfr Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica italiana di modifica al Concordato Lateranense, 18 febbraio 1984) − essa si presenta come un approdo di generale soddisfazione.
Superare le contrapposizioni che residualmente affiorano significa accettare che l’unità non ha rappresentato il prevalere di un disegno politico su altri disegni; certo anche questo è avvenuto, ma è stata soprattutto il coronamento di un processo ardito e coerente, l’approdo ad un risultato assolutamente prezioso, che impone tuttavia a ciascuna componente un’autocritica onesta e proporzionata alla quota di fardello caricato − magari involontariamente − sul passo comune.
È «l’interiore unità» e la consistenza spirituale del Paese ciò che a noi Vescovi oggi preme, e il servizio a cui in umiltà intendiamo applicarci, per il bene comune.
Certi che i credenti in Cristo continueranno a sentirsi, oggi come ieri, oggi come nel 1945 all’uscita dalla guerra, oggi come nel 1980, nella fase più acuta del terrorismo, sentirsi – dicevo – tra i soci fondatori di questo Paese.
Desideriamo, per la nostra parte, contribuire a far sì che i 150 anni dall’unità d’Italia si trasformino in una felice occasione per un nuovo innamoramento dell’essere italiani, in una Europa saggiamente unita e in un mondo equilibratamente globale.
L’Italia contenta di sé, cerca spontaneamente di superarsi e di stringere relazioni mai anonime con tutti.
Bisogna per questo alimentare la cultura dello stare insieme, decidere di volersi reciprocamente più bene.
Niente, nel bagaglio che ci distingue, può essere così incombente da annullare il nostro vincolo nazionale.
Occorre, nello stesso tempo, essere lucidi quanto allo «strumento» moderno dello Stato che, per i compiti oggi esigiti, va non solo preservato ma affinato e reso sempre più efficiente.
Per questo servono visioni grandi per nutrire gli spiriti, vincendo paure o resistenze, e recuperando il gusto di pensarci come un insieme vivo e dinamico, consapevole e grato per la propria identità, e per questo accogliente e solidale con quanti approdano con onestà e impegno alla ricerca di un futuro più umano.
La sentenza, emessa il 3 novembre scorso dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, a proposito dell’esposizione del Crocifisso nelle scuole italiane, non poteva essere accolta che con lo stupore dell’incredibilità.
Confidiamo in una lungimirante rettifica in sede di ricorso nel prossimo mese di giugno, in forza anche delle ragioni che in modo autorevole e competente sono state espresse in diverse sedi, essendosi trattato di un pronunciamento che non solo contraddice la giurisprudenza consolidata della stessa Corte, ma trascura del tutto – fino a negarle – le radici iscritte nelle costituzioni, nelle leggi fondamentali sulla libertà religiosa e nei concordati della stragrande maggioranza dei Paesi membri.
C’è da dire che la presenza del Crocifisso nei luoghi pubblici risale, per l’Italia, alla stagione risorgimentale e non certo come fatto confessionale ma come elemento fondato sulla tradizione religiosa e sui sentimenti del popolo italiano.
La discussa sentenza è con ogni evidenza il frutto di un malinteso senso della laicità; è segnale del tentativo di affermarsi di un’interpretazione della laicità stessa preclusiva del fatto religioso, che verrebbe relegato nel privato, avendo negata ogni visibilità sociale, quale presunto fattore di divisione.
Ossia tutto il contrario di ciò che positivamente il Crocifisso è: guardandolo, infatti, vediamo «quanto grande è la dignità umana e il valore dell’uomo» (Benedetto XVI, All’Udienza del Mercoledì, 10 febbraio 2010).
9.
Puntando al futuro, ci sono due realtà che giudichiamo fondanti e sono infatti strutturalmente strategiche.
Anzitutto, la famiglia fondata su quel bene inalterabile che è il matrimonio tra un uomo e una donna, che va difeso – come bene ha fatto la Corte Costituzionale con l’importante sentenza resa nota il 14 aprile scorso – e continuamente preservato quale crogiuolo di energia morale, determinante nel dare prospettive di vita al nostro presente.
Eppure l’Italia sta andando verso un lento suicidio demografico: oltre il cinquanta per cento delle famiglie oggi è senza figli, e tra quelle che ne hanno quasi la metà ne contemplano uno solo, il resto due, e solamente il 5,1 delle famiglie ha tre o più di tre figli.
Sembra inutile evocare scenari preoccupanti, e certo non incoraggiante è ripetere previsioni peraltro già note sotto il profilo sociale e culturale.
Urge una politica che sia orientata ai figli, che voglia da subito farsi carico di un equilibrato ricambio generazionale.
Ci permettiamo di insistere con i responsabili della cosa pubblica affinché pongano in essere iniziative urgenti e incisive: questo è paradossalmente il momento per farlo.
Proprio perché perdura una condizione di pesante difficoltà economica, bisogna tentare di uscirne attraverso parametri sociali nuovi e coerenti con le analisi fatte.
Il quoziente familiare è l’innovazione che si attende e che può liberare l’avvenire della nostra società.
Da parte nostra ci impegniamo affinché nella pastorale familiare, e in quella volta alla preparazione al matrimonio, si operi per radicare ancor più la coscienza dei figli come doni che moltiplicano il credito verso la vita e il suo domani.
L’altro perno essenziale è dato dal lavoro, che è la risorsa, anzi la quota parte minima di capitale fornita dalla società a ciascun cittadino, in particolare ai giovani alla ricerca del primo impiego, perché possano inserirsi e, trovando senso in ciò che fanno, sentirsi utili quali attori di crescita e di sviluppo.
È questo lavoro che spesso oggi latita, creando situazioni di disagio pesante nell’ambito delle famiglie giovani e meno giovani, in ogni regione d’Italia, e con indici decisamente allarmanti nel Meridione.
Il lavoro, in sostanza, è tornato ad essere, dopo anni di ragionevoli speranze, una preoccupazione che angoscia e per la quale chiediamo un supplemento di sforzo e di cura all’intera classe dirigente del Paese: politici, imprenditori, banchieri e sindacalisti.
La Chiesa – come si sa – fa tutto ciò che può inventando anche canali nuovi di aiuto, senza che i precedenti siano nel frattempo messi fuori uso, ma è ovviamente troppo poco rispetto ai bisogni.
Il protrarsi della crisi economica mondiale si sta rivelando sorprendentemente tenace, come dimostrano gli esiti cui è pervenuto qualche Paese della stessa Unione Europea.
I provvedimenti ultimamente adottati in sede comunitaria hanno da un lato − pare − arrestato lo scivolamento verso il peggio, dall’altra però stanno imponendo nuove ristrettezze a tutti i cittadini.
Dinanzi a questo scenario non possiamo da parte nostra non chiedere ai responsabili di ogni parte politica di voler fare un passo in avanti, puntando come metodo ad un responsabile coinvolgimento di tutti nell’opera che si presenta sempre più ardua.
I ruoli sono assegnati dalla libera determinazione dei cittadini, ma il concorso delle volontà in vista di risultati più efficaci è un obiettivo che va saggiamente e tenacemente perseguito.
Lo pretende il rispetto che si deve ai cittadini.
È noto infatti che, se non mancano gli indici che danno ragionevolmente concretezza a previsioni anche ottimiste, nelle pieghe di questa evoluzione molti sono in sofferenza.
Si dice, tra l’altro, che l’uscita dalla crisi non significherà nuova occupazione, il che pare una ragione decisiva per procedere, senza ulteriori indugi, a riforme che producano crescita, mettere il più possibile in campo risorse che finanzino gli investimenti, in altre parole potenziare le piccole e medie industrie, metterle in rete anche sul piano decisionale, qualificare il settore della ricerca e quello turistico, potenziare l’agricoltura e l’artigianato, sveltire la distribuzione, facilitare il mondo cooperativistico.
Bisogna cioè rinforzare i soggetti che meglio esprimono le qualità del territorio e più possono assorbire e rimotivare leve del lavoro.
Grande vicinanza e considerazione vogliamo esprimere alle Forze dell’ordine e alle Autorità inquirenti per la formidabile azione di contrasto che stanno svolgendo contro le cosche malavitose e la loro pervasiva ramificazione su tutto il territorio nazionale e oltre.
I risultati importanti che a ripetizione si stanno ottenendo, e che mettono a frutto una perizia e una disponibilità al sacrificio meritevoli di ogni encomio, se da una parte ci dicono quanto il malaffare sia radicato nel nostro Paese, dall’altra ci avvertono che il male, anche quello più organizzato, non è imbattibile.
Il rinnovamento morale che continua a generarsi dalle comunità cristiane, e che espone talora i Confratelli del Meridione quale bersaglio di facinorosi, ha tutto il nostro incoraggiamento e il nostro sostegno.
Parimenti sentiamo di dover esprimere, come Pastori, viva partecipazione al lutto per la morte di due militari caduti in un proditorio attentato mentre svolgevano il loro servizio per la sicurezza e la pace della popolazione afgana.
A loro, come alle loro famiglie e ai loro compagni di missione, assicuriamo il nostro affetto e la nostra preghiera.
Venerabili Padri, termino qui il mio dire, ringraziando per il fraterno ascolto e invitandoci a tenere lo sguardo aperto sull’insieme del mondo che sta oggi nuovamente trattando sulla non proliferazione delle armi nucleari, e dunque sugli scenari più ampi in cui pure la Chiesa è presente e gli uomini sono spesso in sofferenza per i diritti fondamentali calpestati, la libertà di coscienza conculcata, l’ingiustizia eretta a sistema.
La situazione in atto nella Thailandia non può non preoccuparci.
Anche i cattolici sono troppo spesso in grande tribolazione, fino ad essere – come in Iraq – vittime di una «pulizia confessionale» intollerabile che va arginata e superata.
Noi ci sentiamo in comunione con tutti, e invitiamo le nostre Chiese a respirare al ritmo del mondo, per saperlo sorprendere ad ogni varco in cui è possibile intessere colloqui di amicizia e di salvezza.
Ci assista nei nostri lavori lo Spirito Santo, lo chiediamo per l’intercessione di Maria, «cuore spirituale» della comunità cristiana (Benedetto XVI, Regina Caeli, 9 maggio 2010), invocata in questo mese di maggio in ogni santuario e capitello delle nostre contrade, e per l’intercessione dei Santi nostri protettori e patroni delle nostre Diocesi.
Grazie.
Angelo Card.
Bagnasco  Zamagni: il federalismo è cattolico Applicare subito il quoziente familiare e creare nuova occupazione con l’impresa sociale.
Per l’economista Stefano Zamagni, docente e presidente dell’Agenzia delle Onlus, le riflessioni del cardinale Bagnasco offrono diversi spunti per una politica di riforme.
A partire dal federalismo, che sturzianamente è nel dna dei cattolici.
La crisi ha creato un’emergenza lavoro senza precedenti, destinata ad acuirsi perché la ripresa rischia di tradursi in una crescita senza occupazione.
Il cardinale indica la via di una rete di piccole e medie imprese e del sostegno alle cooperative.
Che ne pensa? La Chiesa italiana ha offerto un contributo eccezionale ai disoccupati e conosce bene la realtà.
L’emergenza non è dovuta solo alla crisi, che l’ha accentuata, bensì alla terza rivoluzione industriale infotecnologica.
Che ci ha portati da un mercato del lavoro costruito sul modello piramidale a uno a clessidra, dove le aziende in gara sui mercati globali scelgono personale molto specializzato oppure poco formato.
E al massimo assorbiranno il 70% della forza lavoro italiana, a meno che si decida di abbassare i salari.
In questo quadro occorre che la politica sostenga i giovani e i lavoratori con livello medio di istruzione.
In quali forme? Ad esempio sostenendo cooperative e imprese sociali che possono lavorare nel mercato dei servizi alla persona oppure piccole imprese.
Per fare questo, lo dice bene Bagnasco, occorre uno sforzo bipartisan.
Per esempio, per completare la riforma del libro primo e titolo secondo del Codice civile che regolamenta l’impresa sociale.
Era già avviata, poi si è arenata in Parlamento.
E con l’istituzione di una borsa sociale per finanziare cooperative e imprese con capitali privati sganciandoli, in questa fase di tagli della spesa pubblica, dalle convenzioni con l’ente locale.
Questi provvedimenti a sostegno di domanda e offerta, con pochi investimenti farebbero ripartire la crescita con occupazione.
Le misure assistenzialistiche ai poveri sono invece poco efficaci.
Per uscire dal «suicidio demografico» il presidente della Cei chiede di introdurre il quoziente familiare.
È possibile? Certo, anzi bisogna chiedere di più.
Posso in parte condividere le critiche degli oppositori di questa rivoluzione fiscale.
Vi sono soluzioni in teoria meno costose per l’erario per diminuire le tasse al soggetto produttore di reddito con figli a carico quali detrazioni fiscali e controlli rigidi.
Ma questo in Italia non è sostenibile perché richiederebbe contribuenti molto onesti e nuove assunzioni di controllori, oggi impossibili.
Allora applichiamo subito il quoziente familiare se vogliamo dare una prospettiva al Paese.
Ma è condizione necessaria, non ancora sufficiente.
Che cosa manca? Studi economici dimostrano che la natalità nel Belpaese cresce se si aumenta il reddito dei genitori con il quoziente e si ripensano gli orari produttivi di madri e padri in base alle esigenze famigliari.
Anche questo richiede scelte bipartisan.
Italia unita valore irrinunciabile per la riforma federale.
Una nuova organizzazione dello Stato aiuterà lo sviluppo? Sono per il federalismo solidale, a patto che non diventi una scusa per frenare il federalismo.
Ha ancora una volta ragione il presidente della Cei, noi cattolici siamo soci fondatori dello Stato unitario.
Ma il federalismo è nel nostro dna, basta pensare a don Sturzo.
Dovremmo trovare la forza di guidare la riforma federale con la solidarietà e la sussidiarietà, che abbiamo introdotto soprattutto noi nella nuova Costituzione nel 2001.
È questa l’unica speranza di sviluppo per il 33% degli italiani che vive nel Mezzogiorno.
La Chiesa e l’orizzonte della speranza Impegni ai quali non si può venir meno Densa, come sempre, la prolusione del cardinale Angelo Bagnasco alla 61ª Assemblea Generale della Cei.
Le parole che egli ha pronunciato si muovono tutte nell’orizzonte della speranza: non la speranza, a volte dolce, ma ingenua di chi cerca di rimuovere le sofferenze del presente, augurando a sé e agli altri un generico futuro “migliore”, ma la speranza cristiana, di chi sa che sperare in modo autentico significa mettere alla prova se stessi con un serio e fiducioso operare nel mondo.
Molteplici i temi trattati nella prolusione.
A molti apparirà predominante, e non a torto, quello della pedofilia, affrontato dal cardinale in modo limpido ed esplicito e soprattutto in stretta connessione con le indicazioni che provengono dagli insegnamenti e dalle indicazioni pastorali del Papa.
Il tema è conturbante, ma la Chiesa non deve esitare ad affrontarlo; non è del mondo che il cristiano deve aver paura, ma del peccato e delle sue tragiche conseguenze, nella consapevolezza che la più autentica risposta che è possibile dare al peccato, cioè la penitenza, appartiene anche essa all’ordine della grazia.
Più che sulla pedofilia, sembra però opportuno soffermarsi oggi su altri due temi, non perché siano più rilevanti di questo, ma perché in essi, più ancora che in quello della pedofilia, siamo messi in grado di percepire la specificità dell’approccio ecclesiale a questioni che possiedono una rilevanza non solo antropologica, ma più spiccatamente “civile”; questioni, cioè, per le quali alcuni potrebbero pensare che un intervento da parte della Chiesa debba essere ritenuto inessenziale, se non addirittura superfluo.
Non è così.
La prima questione è quella demografica.
Il presidente della Cei non rinuncia ai toni che gli sono propri, caratterizzati da una pacata fermezza.
Ma non è possibile sottovalutare la forza di un’affermazione che egli fa, quella secondo la quale l’Italia sta andando «verso un lento suicidio demografico».
All’affermazione seguono le cifre che le danno sostanza: oltre il cinquanta per cento delle famiglie oggi è senza figli; tra quelle che ne hanno, la metà ha un figlio solo; solo il cinque per cento delle famiglie con prole ha tre o più figli.
Il cardinale non usa molte parole per spiegare il significato antropologico di questi dati: se viene meno la coscienza del valore che ha l’aver figli viene inevitabilmente meno la percezione del valore della vita stessa.
I figli, dice Bagnasco, sono «doni che moltiplicano il credito verso la vita e il suo domani»; essi sono, in altre parole, il segno che la vita ha un senso e che ha un senso lottare per darle un senso.
Il necessario e doveroso impegno dello Stato nel sostegno delle famiglie non va visto quindi solo in chiave economico-politica, ma in un orizzonte più ampiamente antropologico.
L’altra grande questione affrontata è quella dell’ormai prossimo anniversario dell’unità d’Italia: un tema sul quale, dice il presidente della Cei, è doveroso confrontarsi «da persone adulte».
Che l’ unità del Paese sia una conquista irrinunciabile è un dato acquisito, così come è da ritenere acquisito che l’unità non vada interpretata come il prevalere di un progetto su altri progetti, ma come il «coronamento di un processo», di un lungo processo nazionale, culturale, artistico, e soprattutto religioso; un processo di cui i cattolici sono stati protagonisti, al punto da poterli qualificare – con un’ espressione a suo modo ardita – «tra i soci fondatori di questo Paese».
Anche le questioni più laceranti che hanno tormentato tante coscienze nel corso del processo risorgimentale sono ormai ricomposte: l’esplicita citazione dei nuovi accordi concordatari tra Stato e Chiesa del 1984 serve a sottolineare come, anche in questo ambito, la «pacificazione» sia ormai completamente raggiunta.
Tutte queste osservazioni, avverte però il cardinale, vanno intese non come rivolte verso il passato, ma come aperte al futuro, perché il nostro «stare insieme» si radichi sempre di più nella volontà di «volersi reciprocamente più bene».
Questo è il grande insegnamento, nello stesso tempo “politico” e “meta-politico” che, tramite le parole di Bagnasco, la Chiesa rivolge a tutti i cittadini: il nostro vincolo nazionale non si fonda su meri interessi, o su accordi politico-procedurali, né meno che mai sulla condivisione di sentimenti nazionalistici o narcisistici.
Esso si fonda sulla consapevolezza che esiste un bene comune di noi italiani, un bene che va costantemente promosso attraverso riforme concrete e intelligenti.
A questo impegno i cattolici non vogliono, né possono venir meno.
Francesco D’Agostino