La traversata di Newman

in “Europa” del 10 settembre 2010 Quando, fra qualche giorno, il 19 settembre, Benedetto XVI beatificherà John Henry Newman, il papa non renderà soltanto il dovuto omaggio della Chiesa cattolica a un uomo che in vita, a causa della sua ricerca della fede vera, affrontò tante tribolazioni.
Indicherà anche un modello di vita cristiana e di slancio pastorale valido per l’oggi.
Nato nel 1801 e morto nel 1890, fervente anglicano e poi ministro della Chiesa d’Inghilterra, Newman nel 1845 si converte al cattolicesimo, due anni dopo è ordinato prete cattolico e nel 1879 è creato cardinale.
Ma dietro l’apparente linearità di questo percorso ci sono tante curve difficili, tanti ostacoli, tante incomprensioni.
Fin dall’inizio la vita del futuro cardinale è segnata dall’imprevisto e dal contrasto.
È uno studente brillante, ma a causa del troppo studio i suoi esami finali sono un mezzo fallimento.
Il voto è molto basso, ma dopo circa un anno dà nuovi esami e questa volta diventa insegnante all’Oriel College di Oxford.
Il suo ruolo è quello di tutor, con l’incarico di seguire un gruppo ristretto di studenti, ma ecco che Newman, poco più che ventenne, non si limita a trasmettere nozioni.
Per lui l’insegnamento può essere concepito solo come una parte dell’educazione, che è in primo luogo morale e spirituale.
Secondo la visione allora dominante si tratta di uno scandalo, e così gli studenti gli vengono sottratti.
Nel 1825 diventa pastore anglicano, si dedica alla parrocchia universitaria, tiene sermoni, e intanto incomincia a interrogarsi: è proprio nella Chiesa anglicana la strada giusta per raggiungere Dio e vivere da santi? Una prima risposta è positiva: la Chiesa d’Inghilterra, dice, è una sorta di “via media” tra il protestantesimo e la cattolicità, un giusto mezzo.
Ma nel corso degli anni si rende conto che questa via, nella pratica, non esiste, avverte che le interferenze dello Stato nella vita della Chiesa sono indebite e inammissibili.
Piano piano si avvicina alla Chiesa cattolica.
Il suo “traghettatore” è un prete italiano, il passionista Domenico Barberi.
La conversione è il frutto di questo lento cammino, come la traversata, dice, di un mare in tempesta.
Non volta le spalle agli anglicani, non rinnega nulla del passato, ma per gli ex confratelli è un traditore.
Lascia le certezze condivise per entrare in una minoranza disprezzata.
Abbandona la comodità e la reputazione per abbracciare la verità.
La barca arriva in porto, ma i problemi sono tutt’altro che finiti.
La stessa Chiesa cattolica fatica ad accogliere un personaggio sotto molti aspetti ingombrante.
Sia come fondatore dell’Università cattolica di Dublino sia come direttore del periodico cattolico The Rambler, Newman va incontro a contrasti e incomprensioni.
Nel diario annota: «Se prima la mia religione era desolata ma non lo era la mia vita, ora la mia religione non è più desolata ma lo è la mia vita».
In mezzo a tanti fallimenti (comprese le calunnie di un ex cattolico italiano, che gli costano una condanna per diffamazione), Newman deve anche guardarsi dai sospetti di entrambe le parti: così come alcuni anglicani sostengono che è sempre stato cattolico in segreto, alcuni cattolici dicono che non ha mai veramente abbandonato il protestantesimo.
Quando Leone XIII, ammiratore di Newman, succede a Pio IX, le nubi, per la prima volta, si diradano.
La porpora cardinalizia, inaspettata, è il sigillo a una vita coraggiosa e piena di passione per la verità, una vita dalla quale escono alcuni tratti distintivi del cristiano: la ricerca continua, l’incapacità di accettare il quieto vivere, il desiderio di diventare ponte nonostante l’accanimento di chi vuole ergere muri, la testimonianza personale, l’indissolubilità di parola ed esempio, la disponibilità al cambiamento, perché «qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni».
Affascinato dal convertito Agostino, Benedetto XVI è da sempre affascinato anche dal convertito Newman.
È la conversione continua la via del cristiano.
Uno sviluppo ininterrotto, una maturazione.
Lungo la quale le difficoltà sono inevitabili.
Nel 1990, per il centenario della morte di Newman, il cardinale Ratzinger tiene a Roma una conferenza e svela che la teoria della coscienza, centrale nel pensiero del grande convertito, lo affascinò fin dal 1946, cioè dall’inizio dei suoi studi di teologia nel seminario di Frisinga, subito dopo la guerra.
Quando, nella Lettera al duca di Norfolk, Newman dice che in un ipotetico brindisi lui brinderebbe prima alla coscienza e poi al papa, non invita a cadere nella soggettività.
Al contrario, annota il futuro papa, Newman sostiene la «via dell’obbedienza alla verità oggettiva».
È in questo senso che la coscienza viene prima ed è anche il fondamento dell’autorità del papa.
Benedetto XVI, il pontefice che ha messo l’idea di verità al centro del suo insegnamento, non poteva non appassionarsi a Newman.
Anche perché, come racconta egli stesso, in quel 1946, quando incominciò a studiare teologia, lui e i suoi compagni avevano appena finito di sperimentare che cosa significa la negazione della coscienza.
Hermann Goering aveva detto del suo capo: «Io non ho nessuna coscienza! La mia coscienza è Adolf Hitler».
Commenta Ratzinger: «L’immensa rovina dell’uomo che ne derivò ci stava davanti agli occhi»

Le novità della scuola in Francia

Autonomia e sperimentazione nelle scuole francesi.
Sono queste le parole d’ordine lanciate dal ministro dell’istruzione Luc Chatel, che ha anche individuato cinque elementi fondamentali per portare a compimento la riforma del sistema scolastico.
Punto chiave della riforma dei licei sarà una maggiore attenzione verso i bisogni degli studenti, sia in termini di orari supplementari per attività di accompagnamento individualizzato sia in termini di orientamento, finalizzati a far acquisire agli alunni metodi di apprendimento autonomi.
Sempre per i licei, sarà prevista una maggiore autonomia finanziaria e organizzativa, che prevede, tra l’altro la possibilità di gestire in proprio il 25% dell’orario scolastico con progetti anche di tipo locale.
Inoltre, 60 scuole medie (collèges) e 45 licei sperimenteranno un programma di assunzione diretta degli insegnanti da parte del capo di istituto; sebbene il numero di istituzioni coinvolte nella sperimentazione sia limitato, secondo Chatel questa sarà la prospettiva futura di tutto il sistema educativo francese.
Saranno aperti nuovi internati di eccellenza per studenti meritevoli ma con difficoltà economiche o sociali che potranno così completare gli studi in condizioni più favorevoli.
Infine, il ministro rinnova la richiesta, già presente nella legge sull’educazione del 2005, di procedere ad una valutazione degli studenti per competenze.
Già attuata nella scuola primaria, si estenderà anche alla scuola superiore, consentendo di apprezzare al meglio, grazie alla compilazione del  libretto delle competenze, i progressi di ciascun allievo.

La Costituzione dimezzata

Tra trono e altare alleanza al tramonto di Carlo Galli in “la Repubblica” del 25 agosto 2010 Che “Famiglia Cristiana” attacchi Berlusconi e la sua politica con argomenti – fondatissimi e di per sé evidenti – che mescolano l´indignazione civile e lo sdegno religioso non ha nulla di “disgustoso”.
È semplicemente la dimostrazione di una verità quasi bimillenaria: che la Chiesa cattolica è capace di stringere compromessi con ogni potere, di allearsi con potenze mondane di ogni risma – da Costantino a Mussolini, solo per dare un´idea.
Ed è capace di agire con la spregiudicatezza che la politica richiede, trovando sempre (del resto non è troppo difficile) il modo di giustificare il proprio operato, davanti a se stessa e davanti al mondo.
Ma che da questi abbracci la Chiesa sa anche sciogliersi per tempo, quando le diventano scomodi.
E questo perché la Chiesa non ha mai una politica soltanto, ma ne ha sempre altre di riserva.
Ed è “con riserva” che sta nelle cose del mondo, senza sposare mai una causa una volta per tutte: del resto, è la Sposa di Cristo, non di questo o di quel potere.
Questa intrinseca duplicità deriva dal fatto che la radice religiosa del messaggio di cui la Chiesa è portatrice ha almeno due lati: quel messaggio è da una parte una volontà di organizzazione del mondo sul fondamento stabile del dogma e del magistero delle gerarchie.
E per questo motivo la Chiesa è organismo politico, che si confronta con altri, secondo logiche di potenza.
E´ la Chiesa costantiniana, che cerca il potere per essere in grado di esercitare in sicurezza la propria missione.
Ma d´altra parte quel messaggio è anche la potenza profetica del Dio che libera dal peccato e dall´oppressione, del Dio che mobilita gli animi, muove le coscienze, e suscita gli scandali.
E´ anche questa una Chiesa politica, sia chiaro; ma di una politica caritatevole e battagliera, per nulla diplomatica o benpensante, che nel corso della storia si è sempre affiancata criticamente alla Chiesa gerarchica; e questa, per quanto l´abbia temuta e, per quanto possibile, normalizzata, non ne ha mai potuto prescindere.
La Chiesa è entrambe le cose, contemporaneamente; fa coesistere in sé gli opposti.
Non è un´azienda in cui regni la volontà unica del padrone, ma una realtà per sua natura complessa e plurima.
Anche il rigido centralismo vaticano, il primato del Papa, si confronta con questa ricchezza inesauribile, a cui dà sì una direzione ma non un´uniformità totale.
Non c´è da stupirsi, quindi, se dentro la Chiesa cattolica le posizioni su Berlusconi sono differenziate: su queste differenze ha giocato, del resto, lo stesso premier, che, col caso Boffo, ha sfruttato a proprio vantaggio i contrasti fra la Cei e la Segreteria di Stato; mentre su altre differenze, ora, inciampa.
“Famiglia Cristiana”, da parte sua, non è nuova a questo esercizio di critica: e quindi non ci sarebbe da stupirsi.
Ma forse la destra sta fiutando – nell´asprezza, nella libertà, nella costanza degli attacchi del settimanale – un cambiamento di vento nelle stesse gerarchie, con le quali ha stipulato molti e vantaggiosi (per entrambi) compromessi, scambiando benefici fiscali e acquiescenze verso gli aspetti più chiusi del magistero (sulla bioetica e sulla biopolitica) con un appoggio politico di fatto.
Un appoggio per nulla scontato poiché il modello d´uomo e di società proposto dalla destra di Berlusconi e Bossi – per non parlare del troppo laico Fini – non dovrebbe essere gradito alla sensibilità religiosa.
In ogni caso, la settimana scorsa, a un analogo attacco di “Famiglia Cristiana” era stato risposto, da parte della destra, con l´invito agli estensori – evidentemente ritenuti ignari – a ripassare i capisaldi della dottrina sociale della Chiesa, e, con un po´ più di verosimiglianza, a non dimenticare i tanti segni tangibili della vicinanza di questo governo alle richieste delle gerarchie.
Nelle risposte davvero sopra le righe a “Famiglia Cristiana” (rea di darsi alla “pornografia politica”), c´è forse solo l´esasperazione di una maggioranza in crisi per ben altri motivi.
Ma potrebbe anche esserci la preoccupazione di Berlusconi di perdere, dopo Casini e Fini, e – chissà – Bossi e Tremonti, anche la benevolenza vaticana.
Forse il fido Letta non è riuscito a far digerire Oltretevere le nuove minacciate leggi di ispirazione leghista contro immigrati e rom; o forse le gerarchie si rendono conto che dal Cavaliere hanno spremuto tutto quello che si poteva, e che la sua politica ormai di rottura, di lotta disperata per la sopravvivenza, non è più in grado di garantire quello spazioche la Chiesa chiede per sé e per le proprie istanze in Italia.
Forse la prospettiva di un clima di divisione permanente – che mette a rischio l´unità dello Stato (tema spesso sollevato ad altissimo livello, in queste settimane) e della società, e che spezza l´unità dei cattolici (come “Famiglia Cristiana” denuncia) – comincia a interessare meno i vertici della Chiesa.
Che non vogliono e non possono legare il loro destino a quello di un´avventura politica ormai incerta, e mandano messaggi trasversali come sanno fare.
Forse, un´alleanza fra trono e altare – un buon affare per entrambi, ma di solito più per il secondo che non per il primo – sta tramontando, e il trono comincia a temere per la propria stabilità.
I Paolini in trincea “Con gli insulti non ci intimidiscono” di Giacomo Galeazzi in “La Stampa” del 25 agosto 2010 Il cardinale di Parigi attacca Sarkozy e noi non possiamo criticare Berlusconi?».
 Don Antonio Sciortino resta in riunione fino a sera coi più stretti collaboratori, ma è «sereno» perché sa che nella Chiesa la sua non è più una voce fuori dal coro.
La «furente reazione» del governo alle contestazioni del settimanale dei Paolini fa meno rumore ora che anche la Cei stigmatizza apertamente il «sottosviluppo morale» e la «crisi della classe dirigente» in Italia.
«Siamo tranquilli, la nostra non è una linea improvvisata, sono anni che denunciamo l’imbarbarimento della vita pubblica e che difendiamo la Costituzione: l’abbiamo anche pubblicata integralmente – rassicura la redazione il direttore di Famiglia Cristiana -.
Non è questione di essere credenti o no, qui è in discussione la tenuta democratica del Paese e la libertà dell’informazione.
Infatti associazioni laiche come articolo 21 hanno subito rilanciato in rete il nostro editoriale per respingere l’attacco degli “squadristi della libertà”.
Ogni giornale ha la sua opinione, solo in Italia il governo risponde coninsulti ai rilievi critici della stampa».
Avanti «come sempre», dunque.
«Negli Stati Uniti i mass media mettono continuamente sott’accusa Bush o Obama, mentre qui si viene bollati come “pornografia” se solo ci si azzarda a mettere in iscussione le tesi del capo supremo», evidenzia don Sciortino con i suoi collaboratori.
«Non ci faremo intimidire e proseguiremo tranquillamente a svolgere liberamente il nostro mestiere di giornalisti», garantisce don Sciortino.
Piuttosto «siano i ministri a disarmare le loro parole».
Tanto più che anche nelle gerarchie ecclesiastiche il clima sta cambiando, considerate le sempre più frequenti critiche della Cei e di Radio Vaticana alla politica italiana.
«In Francia l’episcopato fustiga di continuo il governo sull’espulsione dei rom come sugli scandali, eppure Sarkozy non insulta chilo critica».
Accade il contrario in Italia.
«Solo nel nostro Paese se difendi la Costituzione e racconti ciò che è sotto gli occhi di tutti diventi un nemico da abbattere – sottolinea il direttore del settimanale dei Paolini -.
Questa è la prova che le nostre preoccupazioni sono fondate».
Per testimoniare l’«anomalia italiana» rispetto al dibattito in Francia tra Chiesa e governo in serata il sito di Famiglia Cristiana riporta l’intervento con cui Radio Vaticana rivendica il diritto della Chiesa a farsi sentire: «La Chiesa deve essere libera di esprimersi e soprattutto non deve adeguarsi alle mode del momento, la Chiesa non è un camaleonte che prende il colore dell’opinione che va per la maggiore».
E, aggiunge Radio Vaticana, «a volte prendiamo posizioni che sono controcorrente, contro alcune tendenze che non sempre ci sembrano positive.
Lo facciamo in nome dei nostri valori e cerchiamo soltanto di portare il nostro contributo al pensiero e all’azione della società».
E mentre Famiglia Cristiana viene degradata a pornografia dai ministri italiani, puntualizza don Sciortino coi suoi, i vescovi francesi fustigano l’immagine da «circo» offerta dalla politica nel dibattito sulla sicurezza e deplorano l’uso spropositato delle «invettive» e il «fascino dei soldi», chiaro riferimento «all’affare Bettencourt e alle presunte tangenti che hanno coinvolto il presidente».
Altro Paese, altro stile.
Scola a «Famiglia cristiana»: non è la voce della Chiesa di Maria Antonietta Calabrò in “Corriere della Sera” del 26 agosto 2010 Famiglia cristiana «ha il cattolicesimo come riferimento, ma non è la voce della Chiesa italiana, così come Avvenire è vicino alla Conferenza episcopale» ma non è l’emanazione diretta della voce dei vescovi.
In ogni caso «tutta la stampa, anche quella cattolica, non ha il diritto di forzare i toni».
L’influente Patriarca di Venezia, il cardinale Angelo Scola, richiesto di un commento sulle critiche del settimanale dei paolini contro il premier, ha risposto in modo puntuale.
Per Scola «non forzare i toni» equivale a quella che dovrebbe essere una regola del buon giornalismo: «non fare le notizie ma dare le notizie», mentre la «tentazione spesso è quella della verosimiglianza: inseguire il verosimile».
E questo, naturalmente vale per «qualsiasi testata».
Il giorno dopo il nuovo attacco del periodico contro Berlusconi («comanda solo lui») e contro il «berlusconismo» («ha spaccato in due il voto cattolico», mentre «chi dissente va distrutto»), nella Chiesa prevalgono i distinguo più che la prudenza.
Senza «scomuniche», ma è significativo che varie personalità ecclesiastiche abbiano preso le distanze dai commenti del settimanale.
«È lecito che Famiglia cristiana formuli certi giudizi, anche se questo appare del tutto tendenzioso.
Ma non è corretto attribuirli al mondo cattolico», ha detto al Giornale monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione e cappellano di Montecitorio.
Il presidente del Club Santa Chiara, un’associazione che riunisce oltre 450 operatori dei media raggruppati sotto il nome della santa patrona della comunicazione, Marco Palmisano, afferma che «se l’unità politica dei cattolici in Italia non esiste più, è colpa dei politici cattolici non di Berlusconi».
Avvenire — che pure negli ultimi tempi non ha risparmiato critiche sulla situazione politica — non ha preso posizione sul caso, limitandosi a riferirne in un «box» di 20 righe a pagina 9.
Silenzio tombale, poi, dai media della Santa Sede, come la Radio Vaticana e l’Osservatore romano.
Mentre il Sir, agenzia dei settimanali cattolici vicina alla Cei, nella sua nota settimanale, pur con un’analisi preoccupata sulla situazione politica, invita a guardare direttamente alle «parole di impegno, di responsabilità e di speranza» delle omelie dei vescovi: quella del cardinale presidente della Cei Angelo Bagnasco per san Lorenzo, quella del cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi per l’Assunta e l’intervento ferragostano del segretario generale della Cei, Mariano Crociata Berlusconi ha detto chiaro e tondo che nel cammino verso le elezioni anticipate – qualora il piano dei “cinque punti” non riceva rapidamente la fiducia del Parlamento – non si farà incantare da nessuno, tantomeno dai “formalismi costituzionali”.
Così lo sappiamo dalla sua viva voce: in Italia comanda solo lui, grazie alla “sovranità popolare” che finora lo ha votato.
La Costituzione in realtà dice: «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
Berlusconi si ferma a metà della frase, il resto non gli interessa, è  puro “formalismo”.
Quanti italiani avranno saputo di queste parole? Fra quelli che le hanno apprese, quanti le avranno approvate, quanti le avranno criticate, a quanti non sono importate nulla, alle prese come sono con ben altri problemi? Forse una risposta verrà dalle prossime elezioni, se si faranno presto e comunque, come sostiene Umberto Bossi (con la Lega che spera di conseguire il primato nel Nord e, di conseguenza, il solo potere concreto che conta oggi in Italia).
Ma più probabilmente non lo sapremo mai.
La situazione politica italiana è assolutamente unica in tutte le attuali democrazie, in Paesi dove – almeno da Machiavelli in poi – la questione del potere, attraverso cento passaggi teorici e pratici, è stata trattata in modo che si arrivasse a sistemi bilanciati, in cui nessun potere può arrogarsi il diritto di fare quello che vuole, avendo per di più in mano la grande maggioranza dei mezzi di comunicazione.
Uno dei temi trattati in queste settimane dagli opinionisti è che cosa ci si aspetta dal mondo cattolico, invitato da Gian Enrico Rusconi su La Stampa a fare autocritica.
Su che cosa, in particolare? La discesa in campo di Berlusconi ha avuto come risultato quello che nessun politico nel mezzo secolo precedente aveva mai sperato: di spaccare in due il voto cattolico (o, per meglio dire, il voto democristiano).
Quale delle due metà deve fare “autocritica”: quella che ha scelto il Cavaliere, o quella che si è divisa fra il Centro e la Sinistra, piena di magoni sui temi “non negoziabili” sui quali la Chiesa insiste in questi anni? A proposito.
Ivan Illich, famoso sacerdote, teologo e sociologo critico della modernità, distingueva fra la vie substantive (cioè quella che riassume il concetto di “vita” mettendo insieme, come è giusto, e come risponde all’etica cristiana, tutti i momenti di un’esistenza umana, dalla fase embrionale a quella della morte naturale) e ogni altro aspetto della vita personale o comunitaria, a cui un sistema sociale e politico deve provvedere.
Il berlusconismo sembra averne fatto una regola: se promette alla Chiesa di appassionarsi (soprattutto con i suoi atei-devoti) all’embrione e a tutto il resto, con la vita quotidiana degli altri non ha esitazioni: il “metodo Boffo” (chi dissente va distrutto) è fatto apposta.
Beppe Del Colle in Famiglia Cristiana n.
35 del 25 agosto 2010 ”Famiglia Cristiana è vecchia la sua è una visione moralista” intervista a Giorgio Vittadini, a cura di Marco Marozzi in “la Repubblica” del 26 agosto 2010 I ragazzi fanno la fila per la sua mostra sulla crisi.
«Da Lotta Continua a fila continua» ride Giorgio Vittadini sull’ingresso, guida persino fisica al fiume giovanile del Meeting di Comunione e Liberazione.
Poco più in là il cardinal Angelo Scola raccoglie più di diecimila giovani parlando di «Desiderare Dio: Chiesa e postmodernità».
«Tutta la stampa non deve forzare i toni.
Neanche quella cattolica come Famiglia cristiana» bacchetta il patriarca di Venezia.
«E anche Avvenire» aggiunge bipartisan, anche se il quotidiano della Cei ha dedicato alla polemica scatenata dai confratelli delle Paoline venti righe a pagina 9.
Già, Famiglia Cristiana: che ricaduta hanno le sue accuse a Berlusconi di comandare solo lui e di avere diviso i cattolici? «La risposta è quella che vede qui».
Vittadini indica la fiera di Rimini straripante.
Come sempre.
«La posizione di Famiglia Cristiana è vecchia, parziale.
Parte da una visione moralistica invece che dalla proposta di valorizzare il desiderio più vero delle persone.
Se si riduce il desiderio ai propri schemi moralistici, non si pone nessuna radice per il cambiamento».
Vittadini è il presidente e il fondatore della Fondazione per la Sussidiarietà, dopo esserlo stato della Compagnia delle Opere.
Le strutture terrene di CL.
Lui, professore di statistica alla Bicocca di Milano, ascetico e gaudente, è l’anima, pardon l’uomo dialogante e insieme importante del movimento.
Le sue parole, «Basta demiurghi», sono state applaudite dai cattolici del Pd.
Basta Berlusconi? «Berlusconi ha i limiti di una concezione ma anche il merito di essersi preso le sue responsabilità.
Piaccia o non piaccia.
Il bipolarismo all’italiana ha creato solo demiurghi, tribuni della plebe, cooptazioni, la politica dei talkshow e dei salotti pensati per far vincere il conduttore».
Rimpiange la Dc? Punta su Fini e Casini che vogliono rifare il centro? «Magari rimpiango il Partito Popolare di Sturzo.
Non so cosa vogliano fare.
Io rimpiango certi valori della Prima Repubblica.
La capacità di costruire anche quando il contrasto era feroce.
Il problema è la fine dei leader che sorgevano da una trafila lunga e dura fra la gente comune.
Era un cursus honorum da dove alla fine uscivano i migliori».
Berlusconi come lo colloca? «Non si può continuare a viverlo come un demonio o un demiurgo.
Lo statista non è un divo, è un primus inter pares, da solo non risolve i problemi.
Il Parlamento dovrebbe essere il contraltare al governo.
Invece con l’attuale sistema si è buttato via il bambino insieme all’acqua calda».
Meglio andare a votare? «No.
Questo governo, non uno tecnico o istituzionale, deve andare avanti per cinque anni perché è quello uscito dalle elezioni e poi perché la priorità oggi è la crisi economica.
Ha comunque controllato i conti pubblici, e sta cominciando a metter mano al federalismo, al welfare, all’università.
Il limite sono gli sprovveduti messi dai partiti in Parlamento».
Cosa chiedo a (certi) cattolici di Paolo Flores d’Arcais in “il Fatto Quotidiano” del 26 agosto 2010 “Con Dio o senza Dio, cosa cambia?”.
Un paio di mesi fa l’arcivescovo di Lucca mi invitava a discutere su questo tema, nella basilica della sua città, in dialogo con padre Enzo Bianchi.
Cosa può unire un ateo e un credente in Gesù morto e risorto? Che impegno comune possono realizzare? Questo il cuore di quel pomeriggio di confronto, per me indimenticabile, di fronte a mille persone in stragrande maggioranza cattoliche.
Una questione che mi sembra più che mai di attualità nell’Italia che si appresta – nelle prossime cruciali settimane – a decidere il futuro della propria convivenza, se quella indicata dalla Costituzione democratica o quella basata sulla prevaricazione dei più forti.
Una questione che l’editoriale di “Famiglia cristiana” rende una volta di più ineludibile.
Affinità e differenze UN ATEO e un credente sono separati dalla fede, ovviamente.
Per te, amico cristiano, questa vita è slo un passaggio, un preludio alla vita futura che non avrà mai fine, e quanto avviene nella storia umana, e anzi nell’intera vicenda del cosmo, dal big bang in avanti, ha un senso e uno scopo, nasce dalla volontà di Dio.
Per me tutto si gioca e si conclude nella finitezza dell’esistenza, la mia morte sarà come quella di una qualsiasi altra scimmia, di un qualsiasi altro organismo.
Tutto tornerà come era prima che nascessi, il mondo senza di me e io nel nulla.
Un mondo che non ha alcun senso, che è nato dal caso: il senso, alla vita individuale e collettiva, dobbiamo provare a darlo noi, se ci riusciamo.
Ma proprio a partire da qui, tra l’ateo e il cristiano è possibile assai più che alleanze e convergenze, è possibile un agire comune.
Cristiano è infatti in primo luogo – o almeno dovrebbe, se la parola vuole avere un senso – colui che ascolta e cerca di applicare il messaggio di Gesù di Nazareth codificato nei vangeli.
Dove – aprendo una pagina a caso – viene ricordato che il primo dovere di chi ha fede è quello di stare dalla parte degli ultimi, di dare al povero la metà del proprio mantello, perché è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che per un ricco si apra la porta del paradiso.
Dove il Gesù dell’amore e della mitezza diventa furia di intolleranza solo con i mercanti del tempio, perché trasformano un luogo dello spirito in una spelonca di ladri, e con chi dà scandalo ai piccoli, perché sarebbe meglio che si gettasse in mare con una macina al collo, e con i farisei e chi non parla secondo “il tuo dire sia sì sì, no no”, perché ogni “di più viene dal maligno”.
Per un ateo, se democratico, e per un credente, se cristiano, l’impegno comune dovrebbe perciò essere la cosa più semplice ed ovvia del mondo.
Caro amico che credi in un Dio crocefisso e risorto, sul piano filosofico avremo sempre difficoltà a capirci.
Io trovo assurdo che tu possa immaginare che non morirai mai, tu trovi che la mia vita, priva di trascendenza, sia irrimediabilmente impoverita.
Ma sul piano civile, della nostra esistenza in comune, nulla ci divide.
Uno dei comandamenti dice infatti “non ruberai”, nessun comandamento si preoccupa di cellule staminali, fissazione di Ratzinger e di Giuliano Ferrara, ignota a Gesù, e non certo perché non fossero state ancora scoperte.
Ama il prossimo tuo come te stesso, è la sintesi che quel profeta ebreo di Galilea offre per il suo insegnamento.
Quel prossimo che è l’immigrato esattamente e anzi più dei fratelli o del padre e della madre (che nei vangeli Gesù tratta tutti più volte con sprezzante durezza).
Gesù fa appello alla coscienza di ciascuno, non all’obbedienza verso le autorità, verso i sommi sacerdoti di una Chiesa gerarchica che non si è mai sognato di fondare (la chiesa per Gesù è solo il riunirsi di chi ha fede in agape fraterna).
Diktat di obbedienza IL MESSAGGIO terreno di Gesù è un messaggio di giustizia e di libertà.
Tra i più radicali, e perciò divenuto paradigmatico di tante rivolte.
Il messaggio della Chiesa gerarchica che pretende di avere in monopolio le chiavi della volontà di Cristo è invece divenuto, nei momenti cruciali della modernità, un diktat di obbedienza, volto fin troppo al mantenimento del privilegio.
Mentre il padre degli Stati Uniti d’America, Thomas Jefferson, proclama il “muro di separazione” tra chiese e democrazia, tra politica e religione, e in nome non solo del liberalismo di Locke ma anche della morale di Gesù (di cui pubblica il “vangelo autentico”, epurato di tutte le incrostazioni delle “chiese” che li renderanno “canonici”), i papi si esercitano nell’anatema contro l’autonomia che gli esseri umani cominciano a rivendicare.
Questa divaricazione della fede percorre tutta la modernità, ed è oggi più che mai presente.
C’è infatti la fede di monsignor Romero, martirizzato dagli squadroni della morte delle oligarchie, e quella di Karol Wojtyla che si affaccia insieme a Pinochet da un balcone (e che mette sullo stesso piano la donna che abortisce e l’SS), come ci fu ieri quella di Bonhoeffer, impiccato per resistenza al nazismo, o di don Minzoni, trucidato dal fascismo, e quella di Pio XII, corrivo verso l’uno e l’altro.
Non sempre la contrapposizione è così netta, ovviamente.
E talvolta i due modi di vivere la fede si intrecciano e alternano nella stessa persona.
Non possono però mai conciliarsi fino in fondo.
I valori del vangelo o la supremazia della gerarchia: ogni credente, alla fin fine, compie una scelta.
Il cristianesimo di chi decide il primo corno, quello di tanti “preti di strada” e delle loro associazioni di volontariato, è per molti di noi, atei democratici, una lezione quotidiana di coerenza.
Pochi di noi trovano il coraggio di vivere radicalmente i valori di giustizia e libertà fino a quel punto di generosità e abnegazione.
E sono proprio queste persone di fede che, in genere, praticano anche una rigorosa laicità, considerano forse peccato l’aborto o l’eutanasia, ma peccato ancor più inammissibile pretendere di negarlo con la violenza della legge a chi peccato non lo considera.
Con questi credenti, che spero siano sempre di più, ci aspettano mesi di impegno senza risparmio, sotto la comune bandiera di chi vuole realizzare la nostra Costituzione nata dalla Resistenza.
Contro coloro che vogliono assassinarla.
Mons.
Bregantini: «Ha ragione Famiglia cristiana» Di Iaia Vantaggiato in “il manifesto” del 26 agosto 2010 Prima Famiglia cristiana che attacca il presidente del consiglio, colpevole di aver spaccato  il mondo cattolico e dimezzato la Costituzione.
Poi la Cei che interviene sulla questione di Melfi, plaude all’intervento di Giorgio Napolitano – «nobilissimo, rapido, incisivo e lucido» – e attacca la Fiat: «Negando i diritti della persona e alla luce della dottrina sociale della Chiesa, l’azienda sta compiendo un errore etico».
Certo a parlare non è il cardinal Bagnasco ma l’arcivescovo di Campobasso, mons.
Giancarlo Maria Bregantini, presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali, il lavoro, la giustizia e la pace.
E che la sua non sia una voce rappresentativa dell’intera conferenza dei vescovi italiani lo dimostra il fatto che, alle sue affermazioni, il sito di Avvenire – quotidiano della Cei – abbia dedicato ieri solo tre righe virgolettate alla fine di un pezzo in cui le lodi della Fiat e di Emma Marcegaglia venivano tessute, eccome.
Si spacca la Cei sulla questione di Melfi ma si spacca soprattutto sulla posizione da prendere nei confronti del governo.
Sembra partire da lontano Bregantini quando dice che «il Meridione del Paese sta attraversando un momento difficile ed è lasciato sempre più solo da questa pseudo-crisi che sta logorando la politica italiana».
Ma così non è perché l’accordo siglato ieri sul Lago Maggiore da Bossi e Berlusconi porta con sé l’attuazione di un’ipotesi federalista di stampo nordico avversata da buona parte della Chiesa e del mondo cattolico italiano.
E se anche il punto non riguardasse solo il federalismo – che chissà se e quando arriverà – dei malumori di quel mondo il presidente del consiglio dovrebbe cominciare a tenere conto soprattutto dopo aver sacrificato i centristi sull’altare del Carroccio.
«La crisi avviene su questioni personali – dice Bregantini – e non sulla questione del bene comune, cioè il bene della collettività nazionale».
Quindi l’affondo finale e il pubblico esordio di una nuova alleanza: «Sono concetti che ha spiegato bene Famiglia cristiana».
Bregantini non sarà Bagnasco ma che Berlusconi debba aspettarsi a breve l’apertura di un nuovo fronte incandescente lo dimostrano le affermazioni della Sir, l’agenzia vicina alla Cei che nella sua nota settimanale ieri dedicata alla politica scrive: «L’analisi della situazione non può che essere preoccupata, in particolare di fronte al senso di frammentazione e al risaltare di egoismi e particolarismi».
L’uscita del cofondatore del Pd prima e del Pdl poi altro non sarebbero, secondo la Sir, che «gli effetti della crisi dei contenitori politici costruiti per le elezioni del 2008».
Un modo non proprio entusiastico di definire il bipolarismo made in Italy.
Ma – forse – anche un modo per auspicare la «fine» di quel bipolarismo e dell’egemonia di Berlusconi.
Non per amor di patria o di coscienza ma perché al Vaticano, un Berlusconi ostaggio della Lega, non serve più

La messa è finita: intervista a Giuseppe De Rita

“Il ventennio di Berlusconi è scaduto, ma il mondo cattolico è senza rappresentanza e si sente lontano dalla politica”.
Giuseppe De Rita, segretario generale del Censis, è da decenni un profondo conoscitore del mondo cattolico e in questa crisi coglie non solo lo sfarinarsi del leaderismo del Cavaliere, ma soprattutto la profonda disaffezione del cattolicesimo italiano dal sistema politico.
Fenomeno che, d’altronde, Famiglia Cristiana denunciava tempo fa, avvertendo che nella popolazione si registra un’atmosfera di impotenza e di passività nei confronti dei grandi scandali governativi.
Professor De Rita, a che punto siamo arrivati.
Ad una confusione generale.
C’è un livello politico – mi riferisco al governo – in cui il presidente del Consiglio tenta un difficile dialogo con i cattolici, prova a riavvicinarsi a Casini, mentre ministri come Sacconi e la Gelmini lanciano segnali per porsi come interlocutori del mondo cattolico.
E c’è un altro livello? Dove il Papa interviene criticando il governo per la politica sull’immigrazione e Famiglia Cristiana intensifica le sue denunce contro il premier.
Piani separati.
La Chiesa a sua volta ha la propria crisi di funzionamento.
Guardiamo ai cattolici nella loro realtà quotidiana.
Il popolo cattolico ha una sua capacità di diffusione nelle varie realtà territoriali.
Fa comunità sul territorio, in città e nelle periferie urbane, e attraverso le sue iniziative di volontariato assimila e in qualche modo riesce a gestire i problemi posti dalla crisi attuale: l’immigrazione, la crisi del postedonismo, la ricerca di un senso della vita, la crisi del welfare.
In queste situazioni il popolo dei credenti con le sue comunità riesce a fare assistenza.
E dinanzi alla crisi politica? Se ne frega.
Queste cose non interessano al fedele di Torgiano o delle periferie romane.
Proviamo a spiegare.
Si è creata da tempo una spaccatura tra il mondo politico e la realtà sociale di base.
Il problema è che in mezzo non c’è niente.
Niente? Non c’è una rappresentanza intermedia, capace di interagire sulle vicende politiche.
Voglio dire che quanto di spontaneo si manifesta nel basso, Comunione e liberazione o i Focolarini o altri movimenti, si rivolge alla fine soltanto al proprio numero chiuso.
Manca una capacità di interpretare la realtà cattolica nel suo insieme.
I vescovi che fanno? La gerarchia non mostra una grande capacità, e forse non ne ha nemmeno la voglia, di interpretare il popolo cattolico nei confronti della politica.
Emergono però voci coraggiose.
Pensiamo alle denuncie puntuali di ‘Famiglia Cristiana’ nei confronti del sistema di potere berlusconiano.
Famiglia Cristiana pone problemi reali.
E non scuote le coscienze cattoliche? Penso che in fondo, a suo tempo, è stato ancora più incisivo e puntuale nella denuncia Dino Boffo sull’Avvenire l’anno scorso.
Quel modo di fare parlare i lettori attraverso le lettere al direttore… Per questo è stato messo a tacere.
Anche da parte della gerarchia.
Sostiene che il Vaticano e i vescovi non hanno reagito abbastanza alla manovra berlusconiana resa palese dal killeraggio di Feltri? La gerarchia allora non voleva lo scontro.
Torniamo agli interventi di Boffo contro lo “spettacolo desolante” del premier nel 2009.
A mio parere era una denuncia più forte.
L’intervento di Famiglia Cristiana appare più gridato in termini di prima pagina, ma non sento meccanismi di risonanza particolari nel mondo cattolico.
L’immagine di Berlusconi non è intaccata? Il carisma di Berlusconi sta declinando.
Direi meglio: si sta sfarinando.
E non tanto per la ferita di una denuncia morale, ma perché è in declino il suo ciclo.
Si può definire l’atteggiamento del mondo cattolico nei confronti della crisi berlusconiana? La reazione è: il ventennio di Berlusconi è scaduto, vediamo cosa viene dopo.
In realtà si è esaurita una stagione.
Berlusconi interpretava benissimo la logica del ‘fai da te’ e della libertà di essere se stessi.
Ma oggi nessuno può più dire di farcela da solo e di essere libero di essere se stesso.
Ecco perché si sfarina il sistema berlusconiano.
Tuttavia ora siamo al bivio: si torna al voto o si vara un governo di transizione? Nuove elezioni? La risposta tende ad essere un’alzata di spalle.
Tanto la maggior parte non va più a votare.
La maggior parte dei cattolici non si sente coinvolta in questi discorsi.
Si è fatta strada la sensazione che il governo sia roba loro.
O roba sua.
Ha una radice questo disincanto? C’è un motivo profondo.
Il popolo cattolico – non dico la Democrazia cristiana – è stato collettivamente protagonista dello sviluppo dell’Italia dal 1945 al 1990.
Quella era un’avventura di tutti, ma l’avventura di pochi o di uno solo non interessa più.
Nella verticalizzazione della politica, nel decisionismo il cattolico non si riconosce.
Il Terzo Polo non potrebbe fare da calamita? Potrebbe… se ci fosse un esponente cattolico nuovo.
Non dei cattolici che stanno in politica da venti, trent’anni.
Rutelli, Casini, Fini o Franceschini evocano solo tattica.
In questo schema l’opposizione non gioca nessun ruolo? Il Pd è prigioniero della dialettica tra cattolici e postcomunisti.
Si guardi all’intervento di Parisi dopo l’omaggio sulla tomba di Togliatti.
C’è il sospetto che il Pd vada a definirsi come partito classico di sinistra.
Non se n’esce? Il problema è che non è riuscito il legame tra cultura cattolica e cultura di sinistra post-Pci.
Se questo legame non riesce, è difficile che il Pd riesca a parlare per i cattolici.
Quanto è sistemica questa crisi? Siano alla fine di un ciclo cominciato negli anni Sessanta, con don Lorenzo Milani, con la contestazione delle autorità e delle norme tradizionali.
Ora serve un nuovo ciclo filosofico-sociale.
Se le persone sentono di non contare, non possono interessarsi di nulla.
intervista a Giuseppe De Rita a cura di Marco Politi in “il Fatto Quotidiano” del 26 agosto 2010

GodBlock: «blocca Dio»

Sul sito Godblock.com puoi scaricare un programma per tenere Dio lontano dalla tua navigazione.
Il filtro anti-Dio è semplice.
Una volta installato, cercherà in ogni pagina internet che stai per aprire parole legate a testi sacri, fedi, culti, santi.
Se la pagina è pulita, se non contiene Dio, essa ti si aprirà regolarmente.
Se viceversa è «infettata» da Dio, sarà automaticamente bloccata.
«Blocca Dio» è appunto il nome di questo filtro web di cui il sito pubblicizza le virtù educative: protegge tuo figlio dalla violenza della rivelazione e dall’intolleranza del proselitismo; lo difende dal «materiale sessualmente e psicologicamente dannoso» contenuto nei testi sacri.
Poco importa se sotto il pulsante per scaricare il programma si nasconde la delusione di uno «spiacenti, il filtro non è ancora pronto».
Stravaganza della rete, ennesima follia del fondamentalismo stelle e strisce, col passare dei mesi il filtro «blocca Dio» è divenuto oggetto di dibattito.
Ha fatto riflettere sull’impossibilità di separare la parte religiosa dal tutto dei contenuti di Internet.
Ha diviso gli atei anglosassoni in oltranzisti favorevoli e moderati contrari a Godblock.
Ha mostrato come su Dio si rincorrano l’appello dei credenti alla conversione e la sempre più ardita provocazione dei blasfemi.
Altro è tuttavia il motivo per cui ha senso prender sul serio il filtro blocca Dio.
È l’idea dei suoi creatori che la religione vada isolata, confinata.
Che l’ignoranza di Dio faccia bene.
Che un muro, un filtro, debba proteggere l’intelligenza dalla fede, il razionale dal sacro.
In ciò Godblock non sancisce tanto la lotta tra chi crede e chi non crede, quanto la separazione tra chi sa e chi non sa.
Separazione di cui si nutre quell’ateo che non osserva la fede; ma anche quel credente che è tanto geloso della sua ortodossia da non osare guardarla.
Il filtro blocca Dio offende chi crede.
Ma soprattutto minaccia chi è convinto dell’importanza di studiare, capire, approfondire, criticare la religione.
Il filtro Godblock è lo specchio di chi, per Dio o contro Dio, vuole sottrarre la religione al sapere.
in “Corriere della Sera” del 26 agosto 2010

Il Corano

BIANCAMARIA SCARCIA, Il Corano, Carocci Roma 2009, 9788843050178, pp.
288, € 21,50 Nel breve periodo la paura è la merce più redditizia in politica.
Compatta, rende solidali, attutisce perfino i principi.
Una politica lungimirante sa che la paura, presto o tardi, diventa difficilissima da governare e spesso sbrana chi l’ha allevata.
Si pensi al peso della paura nella genesi dei totalitarismi, nella corsa agli armamenti, nelle variazioni dell’antisemitismo.
Da qualche decennio il movimento migratorio ha portato una nuova paura che è la paura di tanti islam, improvvisamente divenuti di casa di tutti gli abitanti del pianeta e di un Occidente svogliato davanti alla fatica di cogliere varianti, sfumature, spiritualità di quei mondi.
Sicuro di poter addomesticare qualsiasi fede, ha fatto dell’analfabetismo religioso una virtù civile e della grossolanità un vizio chiamato spesso coraggio.
E un cristianesimo in calo d’autostima spirituale ha creduto che il suo compito sia diventato quello di difendersi come «cultura» sul piano delle identità o come ermeneuta del «naturale» sul piano della legge, rinunciando a tentare un’ermeneutica dell’altro e dunque di sé.
Da qui la paura di tutto: minareti, barbe, foulard obbligatori per diversi e opposti motivi settant’anni fa.
E regina di tutte, la paura della mancanza di paura.
Mentre la cosa che per prima dovrebbe spaventarci — cioè l’instabile convivenza fra persone che ignorano le priorità interiori dell’altro — sembra trascurabile.
È per questo che un piccolo libro come Il Corano di Biancamaria Scarcia (Carocci) diventa oggi un talismano ancora più prezioso.
Non ci sono qui ingenue sottovalutazioni dei problemi o tentativi per far diventare vicine le religioni di Abramo o i cosiddetti monoteismi.
Al contrario il lettore troverà una tesi forte: se c’è una specificità coranica — e c’è — è quella di un testo che è insieme scrittura, recitazione, preghiera alfabeto, dottrina, salmodia in un tutt’uno: e che dunque si impone all’interpretazione che cresce con chi legge e legge chi da essa si fa crescere.
Biancamaria Scarcia lo fa con la sicurezza della grande studiosa: allieva della grande scuola di Bausani — la cui traduzione del Corano è ancora oggi un pezzo pregiato del catalogo Mondadori e qui utilizzata insieme a quella di Mandel Kahn —, la studiosa offre sì una lettura ma anche qualcosa di più: sfata l’idea che la violenza fondamentalista sia un islam «radicale» e lo demistifica a islam blasfemo.
Oggi in Italia non c’è parlamentare o maestra, assessore o parroco, che possa pensare di fare a meno di queste nozioni.
Così come almeno alle figure di spicco delle comunità islamiche sarebbe utile rendersi conto di come e quanto la tradizione della Scrittura ebraica, e di quella cristiana, sia indispensabile per decifrare la nostra società, tanto più a chi non senza qualche ragione ne coglie solo le dissipazioni e le dissolutezze.
di Alberto Melloni in “Corriere della Sera” del 26 agosto 2010

Il futuro della scuola italiana

Dice Giovanni Belardinelli nell’articolo sul Corriere della Sera de  27 agosto 2010: “L’opinione pubblica sembra poco interessata a discuterne forse perché sfiduciata dall’aver sentito richiamare troppe volte in passato l’elenco, apparentemente sempre uguale, dei problemi che affliggono il nostro sistema scolastico: gli alti costi (spendiamo per l’istruzione più della media Ocse) a fronte di risultati scarsi in termini di apprendimento, i forti squilibri regionali, la difficoltà a considerare il merito nelle carriere degli studenti, da un lato, e nella valutazione del lavoro degli insegnanti, dall’altro”: Ma se la scuola è ciò che la fanno essere i suoi insegnanti: “la perdita di autorevolezza e prestigio di un corpo docente che si sente ogni anno meno motivato” sta forse alla radice dcel problema scuola.
Certo la perdita di status della professione è soprattutto “il frutto delle trasformazioni che hanno investito il Paese nell’ultimo mezzo secolo”.
In particolare conseguenza della crisi delle grandi agenzie di formazione quali la Chiesa e la famiglia.
In particolare è venuto meno quell’insegnante gentiliano che si “sentiva, e come tale era riconosciuto dalla società circostante, membro di un ceto addetto alla conservazione/ trasmissione di una tradizione culturale”.
Non basterà certo introdurre nella retribuzione degli insegnanti una percentuale legata al merito per restituire autorevolezza alla loro professione.
Ma può essere un primo passo per ridare alla scuola quella dignità e centralita necessaria al progresso di un paese.
”C’è un futuro per la scuola italiana?“: da questa provocazione, al Meeting dell’amicizia dei popoli a Rimini, è scaturito un dialogo serrato con Norberto Bottani, analista internazionale dei sistemi di istruzione e tra gli iniziatori del sistema di valutazione europea OCSE-PISA.
Intervistato da Alessandra Ricciardi, responsabile di “Azienda scuola” – l’inserto settimanale di ItaliaOggi – Bottani ha preso le mosse dal quadro della scuola italiana disegnato dal quarto capitolo dell’ultimo Rapporto ISTAT 2010, proprio dedicato ai dati sul sistema scolastico.
Un quadro fosco, costituito da situazioni di arretratezza, dal quale Bottani ha preso le mosse, con le cifre già note sui livelli di conoscenza dell’italiano nei vari ordini di scuola, per poi passare al grave aumento della dispersione scolastica dopo la licenza media, aumento che non può non interrogare seriamente rispetto al nostro futuro: con oltre 1 milione di giovani tra i 15 e i 24 anni che dichiara di non aver letto neanche un libro o di non aver mai utilizzato il computer e con il ritorno a percentuali significative di bocciati e dispersi; con poco più di 2 milioni di giovani tra i 15-29 anni (la “Neet” generazione) che non lavora e non studia.
L’incontro, proposto da DiSAL e ADI (associazioni professionali rispettivamente di dirigenti scolastici e docenti) ed al quale erano presenti presidi di scuole statali e non statali, operatori e politici delle Amministrazioni Scolastiche e Locali, “ha avuto l’utilità – ha sottolineato alla fine Roberto Pellegatta, presidente di DiSAL – di mettere a fuoco alcuni ‘mattoni’ sui quali costruire un reale dialogo oltre gli steccati della politica e dell’ideologia (ancora pesanti nella scuola italiana), per giungere a scelte dove studenti, docenti, famiglie e realtà locali non siano strumenti per finalità diverse, ma protagonisti dei propri percorsi formativi”.
Alessandra Cenerini, presidente di ADI, ha tenuto invece a chiarire che “non si esce dalla crisi tutta nazionale della scuola con la difesa dell’esistente, ma con una rivoluzione innanzitutto nella professione docente, con il coraggio di colpire lo statalismo, insieme ai residui privilegi (orario, organico, nomine), per piegare il funzionare delle scuole alle attese degli alunni e delle comunità”.
Ripercorrendo, attraverso esperienze e vicende professionali personali, Bottani ha risposto in modo originale alle questioni sollevate.
Sui livelli di apprendimento oggetto delle ultime indagini valutative, ha ricordato come già nel 1976 Visalberghi, allora direttore del CEDE di Frascati, presentando all’allora ministro Malfatti i risultati della prima partecipazione dell’Italia ad un’indagine campione europea sugli apprendimenti degli alunni, notava tristemente come questi occupassero la coda dei coetanei europei.
Il dialogo col pubblico ha scartato nettamente il falso dilemma, tipico del dibattito italiano, se vengano prima le conoscenze o le competenza, per riconoscere che la scuola dovunque e sempre si deve misurare solo sui livelli di istruzione ai quali riesce a portare i propri studenti Bottani ha sostenuto poi come la scuola media unica sia stata fino a tutt’oggi l’unica riforma dall’epoca fascista, attribuendovi il merito dell’elevamento dei livelli di istruzione popolari.
Ma contemporaneamente ha sostenuto con forza che questo compito della scuola unica è terminato, dovendosi affrontare nuove forme di scuola che tengano conto delle nuove fonti di apprendimento e della necessità di “saper uscire dalla scuola per imparare”.
A proposito della questione sollevata dai dati ISTAT sulla dispersione e disoccupazione tra i 15 ed i 29 anni (un quinto di questa non ha titolo di studio del II ciclo e non ha lavoro: la “Neet – acronimo di ‘Not in Employment, Education or Training’ generation”) l’analista ha sostenuto che il livello più delicato e critico della situazione scolastica nazionale rimane l’istruzione e formazione tecnica e professionale, zoppicante, sempre più scolastica e teorica, senza un “aspiratore sociale verso l’alto” che favorisca la valorizzazione di tutto il comporta delle professioni tecniche, per farlo uscire da stato di minorità che lo riduce (dagli anni ’80 in poi) ad una scelta fatta da chi “non può andare al liceo”.
Portando il caso svedese, Bottani ha sollevato la mancanza poi di un valido sistema di apprendistato come fattore che collabora a far crescere l’esclusione.
Sul tema “valutazione” ha ricordato l’altra arretratezza nazionale, sulla quale attualmente in Italia lavora solo una piccola pattuglia, purtroppo senza l’autonomia necessaria dall’apparato politico.
Dopo la sbornia dei “sistemi di qualità” che hanno “spennato” le scuole e un’autovalutazione intesa come un generico “volersi tutti bene” è giunta l’ora di una valutazione seria e sistematica su docenti, dirigenti e sistema amministrativo dalla quale ognuno (in modo corretto e trasparente) possa raccogliere le informazioni indispensabili per gestire ogni anno la vita della scuola.
Nella prosecuzione del dibattito si è parlato poi di abolizione del centralismo amministrativo e del servizio statale di istruzione (veri residui di due secoli fa), di superamento dell’astrattezza della formazione universitaria dei docenti estranea alle reali necessità della scuola e della assenza di politiche familiari di sostegno alla natalità, al compito educativo delle famiglie, al lavoro femminile, così che le giovani donne non debbano fare salti mortali per conciliare l’attenzione ai figli con il proprio lavoro.
Nella conclusione Pellegatta di DiSAL ha confessato di sentire come “umiliazione personale” le difficoltà della scuola ricordate, umiliazione dalla quale non si esce con tecniche o teorie, ma con personali e appassionate assunzioni di responsabilità ad ogni livello per un bene comune, tanto trascurato dalla politica e dalla società, quanto vitale per la nazione, assumendo come impegno operativo delle associazioni professionali dei dirigenti e dei docenti presenti il compito di delineare la “scuola del futuro”.
tuttoscuola.com

27 Volte Cinema

Giornate degli Autori  Venezia 2010   L bellissima  iniziativa promossa dalla Commissione Cultura del Parlamento Europeo in accordo con le Giornate degli Autori e la collaborazione di Europa Cinemas e Cineuropa , porterà a Venezia 27 giovani appassionati di cinema, ciascuno in rappresentanza di una diversa nazione (dal 2 al 10 settembre).
L’evento  che prevede tra l’altro una serie  di incontri  a tema alla Villa degli Autori, è sostenuta, come cultural partner, da Variety che realizza il daily ufficiale della Mostra e i cui giornalisti saranno protagonisti, come moderatori, degli incontri di 27 Volte Cinema.
Gli incontri di 27 Volte Cinema cominceranno il 2 settembre con un dialogo sul tema “Creatività, libertà e censura: il caso Panahi”(e il regista è stato invitato con un suo film in Venezia’67).
Nei giorni successivi si discuterà di “Violenza della porta accanto”, “La forma del cinema di domani”, “Il modello della produzione indipendente americana e l’Europa”, “I festival e il pubblico”, “Memoria e radici culturali”, “Esordire e confermarsi”, “Cinema- documento e cinema del reale”, “Creatività e identità europee”.
  I protagonisti di 27 Volte Cinema hanno tra 18 e 26 anni, sono 13 ragazzi e 14 ragazze.
Tra gli altri ci sono filmmakers indipendenti, collaboratori di festival, fotografi, critici e blogger in erba.
Per lo più hanno studiato cinema all’Università, ma ben cinque sono appena usciti dalle scuole superiori.
Due stanno alla cassa di un cinema, molti hanno fatto i più svariati mestieri, soprattutto in bar e ristoranti, per pagarsi gli studi.
  Sono stati individuati al termine di una severa selezione: in ogni paese, una sala di Europa Cinemas ha scelto una ristretta rosa di “spettatori eccellenti” che hanno presentato la propria domanda in lingua inglese, redatto brevi recensioni di film europei visti nell’ultimo anno, esposto le motivazioni che li conducono a Venezia.
Per 11 giorni saranno impegnati in un serrato confronto con registi, critici, addetti ai lavori in un vero campus multiculturale che proporrà ogni giorno un incontro a più voci sui grandi temi suscitati dai film delle Giornate degli Autori e dell’intera Mostra.
La registrazione degli incontri verrà messa online in diretta-differita dal piacevole( noi non trascuriamo mai di leggere le sue notizie) portale Cineuropa e riproposto dai siti di Venice Days e Europa Cinemas.
Doris Pack, Presidente della Commissione Cultura del Parlamento Europeo ha dichiarato: “La sfida, a ben vedere, è quella che il Parlamento affronta ogni giorno, non sempre con successo : ascoltare e farsi interprete della voce dei suoi cittadini.
Con questa iniziativa si vuole ridare la parola a un pubblico nuovo, giovane, favorendo momenti di dialogo tra le ragazze e i ragazzi invitati, i professionisti del cinema europeo e i rappresentanti del Parlamento europeo”.
Notizie tecniche 27 Volte Cinema è un progetto che si svolge nell’ambito delle manifestazioni del Premio LUX, il riconoscimento ufficiale per il cinema del Parlamento Europeo, la cui quarta edizione si concluderà a Bruxelles il 24 novembre prossimo.
Una giuria di addetti ai lavori ha individuato, nel corso dell’ultima stagione cinematografica europea 10 titoli di qualità e indicato i tre film finalisti (presentati eccezionalmente dalle Giornate degli Autori nei giorni 10 e 11 settembre).
Sarà poi la platea dei 736 parlamentari europei a scegliere, tra il greco Plato’s Academy  di Filippos Tsitos, il tedesco When We Leave  di Feo Aladag e il belga Illegal di Olivier Masset-Depasse il vincitore del Premio LUX 2010.

Il cardinale Scola: sull’amore serve una riforma della Chiesa

«Io sono la madre del bell’amore …».
Il cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia, sta rivedendo gli appunti del discorso del Redentore.
Partendo dal passo delle Scritture sul «bell’amore », toccherà temi delicati come sessualità, pedofilia, verginità e celibato.
Perché questa scelta? «Per la fatica di noi cristiani a comunicare che lo stile di vita affettiva e sessuale indicato dalla Chiesa è buono e conveniente per l’uomo di oggi.
Invece pare quasi che questa proposta non solo sia iperdatata, impotente a favorire il desiderio umano di gioia piena, ma che sia addirittura contraria alla libertà e priva di realismo, incapace di tener conto di ciò che l’uomo ha imparato circa se stesso e circa il mondo delle emozioni, degli affetti, dei rapporti con l’altro, grazie a una lunga storia e alle recenti scoperte scientifiche.
Ho sentito tutto questo come una provocazione a dire che gli uomini e le donne di oggi, magari senza volerlo, rischiano di smarrire qualcosa di profondo, perdono una grande chance di realizzazione, se mettono da parte la proposta cristiana circa la vita affettiva e sessuale».  Ma su cosa si fonda questa proposta? «Mi pare che l’idea biblica del “bell’amore”, che la tradizione cristiana ha approfondito, sia particolarmente adeguata proprio per la sua capacità di coniugare l’amore alla bellezza, di vederlo scaturire da essa e percepirlo come “diffusivo” di bellezza, capace di farla splendere sul volto degli altri.
I Padri della Chiesa riferiscono il tema biblico del “bell’amore” non solo alla Madonna ma anche a Gesù.
Tommaso parla della bellezza come dello “splendore della verità”; per Bonaventura colui che contempla Dio, cioè che lo ama, è reso tutto bello.
Ma questa capacità spesso manca nell’esperienza sessuale degli uomini e delle donne di oggi.
Viverne la bellezza significa strappare la sessualità al dualismo tra spirito e corpo; come se trattenessimo la sessualità nell’animalesco e poi a tratti avessimo spiritualissimi slanci d’intenzione di bell’amore.
Pascal diceva che l’uomo è a metà strada tra l’animale e l’angelo, ma deve stare bene attento a non guardare solo all’uno o all’altro; ognuno di noi, inscindibilmente uno di anima e di corpo, ha da fare i conti con la dimensione sessuale del proprio io per tutta la vita, dalla nascita fino alla morte».
Patriarca, lei conosce l’obiezione mossa agli uomini di Chiesa: parlano di cose che non vivono, se non talora in modo deviato, e non li riguardano.
«Ho appena detto che “ogni uomo e ogni donna” devono fare i conti con la dimensione sessuale per tutta la vita! Certo, chi è chiamato alla verginità o al celibato li fa in un modo singolare ma, sia ben chiaro, senza mutilazioni psichiche e spirituali.
Il fatto poi che il messaggio cristiano sia portato in vasi di argilla, e quindi che uomini di Chiesa possano cadere in contraddizioni tragiche e gravissime a livello affettivo e sessuale, non inficia di per sé la proposta come tale.
Ovviamente non lo dico per coprire scandali».
Come uscire dallo scandalo della pedofilia? «Il Santo Padre, a partire dalla “Lettera ai cattolici di Irlanda”, ha saputo affrontare la situazione in modo chiaro e deciso: una condanna senza mezzi termini della gravità estrema di questo peccato e di questo reato.
Le parole chiave — misericordia, giustizia in leale collaborazione con le autorità civili, ed espiazione—consentono di affrontare ogni singolo caso.
Il Papa non sottovaluta la corresponsabilità che ne viene ad ogni membro dell’unico corpo ecclesiale e, in particolare, del collegio episcopale.
È uno scandalo che tocca l’intera Chiesa, chiamata ad una profonda penitenza e ad una riforma che non potrà non riguardare tutti i livelli della sua missione.
Una cosa però mi ha colpito in questa vicenda: quelli che dovrebbero parlare, per aiutarci a capire la radice di questo male e tentare di espungerlo, stanno zitti ».
A chi pensa? «Agli psicologi, agli educatori, ai pedagogisti, agli uomini chiamati ad approfondire questi lati oscuri dell’io.
La stampa ha denunciato il fenomeno con enfasi comprensibile, entro certi termini anche giustificabile, ma indiscutibilmente eccessiva».
Lei parla della necessità di riforma della Chiesa.
«Come il Santo Padre ci ha indicato, i casi terribili di pedofilia e le provate responsabilità di ingenua copertura o negligenza da parte delle autorità richiamano con forza alla Chiesa la sua condizione di realtà sempre in riforma.
Benedetto XVI esige penitenza, andare alle radici della misericordia, cioè all’incontro personale con il Tu di Cristo, e ricorda che i nemici più pericolosi della Chiesa vengono dall’interno e non dall’esterno».
Ma in cosa dovrebbe consistere la riforma? «Nello specifico, riscoprire il nesso tra il bell’amore e la sessualità.
Mostrare che la soddisfazione piena del desiderio è ritrovare il vero volto dell’altro, soprattutto nel rapporto uomo-donna.
E imparare di nuovo come la sfera della sessualità esiga di essere integrata nell’io attraverso una grande virtù purtroppo in disuso: la castità.
Per riscoprirla occorre il coraggio di parlare del modo in cui noi viviamo oggi la sfera sessuale».
A quale modo si riferisce? «Cito l’esempio più sofisticato.
I più recenti studi della neuroscienza, come quelli di Helen Fisher, riconducono tutte le dimensioni dell’amore, compreso “l’amore romantico”, a pure modificazioni neuronali del nostro cervello.
Fine della libertà e della creatività anche in questo ambito? È vero che noi abbiamo bisogno di mangiare e bere, come gli animali; ma non mangiamo e beviamo come animali, anzi la cucina è diventata un’arte, un aspetto della civiltà; e questo vale a maggior ragione per la dimensione sessuale.
Una pretesa riduzionistica come quella della Fisher è una variante della tentazione di concepire l’uomo come puro esperimento di se stesso.
Così si crea una mentalità, un clima in cui il desiderio, l’energia della libertà che incontra la realtà, diventa privo di senso, e la dimensione sessuale assume una fisionomia quasi animalesca.
Ma questo un uomo e una donna, quando sono in sé, non possono accettarlo».
Castità e sessualità sono sentite come antitesi.
«La castità tiene in ordine l’io.
Eliminarla significa ridurre l’amore a mera abilità sessuale, veicolata da una sottocultura delle relazioni umane che si fonda su un grave equivoco e cioè sull’idea che nell’uomo esista un “istinto sessuale” come avviene negli animali.
Non è vero, lo dimostra certa psicanalisi: anche nel nostro inconscio più profondo niente si gioca senza un coinvolgimento dell’io.
Il sacrificio ed il distacco richiesti dalla castità mantengono l’io personale unito, aprendo la strada ad un possesso più autentico.
Il sacrificio non annulla il possesso, è la condizione che lo potenzia.
I dottori della Chiesa parlavano in proposito di “gaudium” (godimento).
Il puro piacere, che per sua natura finisce subito, chiede di essere inserito nel godimento, perché se resta chiuso in se stesso annulla lentamente il possesso, lo intristisce, lo deprime.
Mi colpisce il fatto che quando dico queste cose ai giovani incontro più sorpresa che obiezione».
Godimento e sessualità sembrano concetti incompatibili con la dottrina cattolica.
«Non è così.
Il messaggio biblico è stato il primo storicamente parlando a far vedere la differenza sessuale in un’ottica assolutamente positiva e creativa, come dono di Dio.
Ma, come in tutte le cose umane, il positivo, il bene, il vero non sono mai a buon mercato.
Però senza il bello, il buono, il vero, la vita si affloscia, non ha in se energia per condurre alla pienezza del reale.
Nei Libro dei Proverbi, tra le cose troppo ardue a comprendersi, l’autore considera “la via dell’uomo in una giovane donna”.
La donna è la figura di colei che sta all’inizio: io esco da lei quando nasco.
Allora quando l’uomo e la donna si incontrano fanno al tempo stesso l’esperienza di ricominciare quel che in qualche modo già conoscevano e di dar vita a una novità.
Qui c’è l’inestirpabile radice della fecondità.
L’amore oggettivo non è mai un rapporto a due.
Lo impariamo dalla Trinità ».
Ma cosa c’entra questo con la riforma della Chiesa? «C’entra e come! Fondamentale per la riforma della Chiesa è ritrovare testimoni credibili del bell’amore, che Cristo, con una schiera innumerevole di santi nella stragrande maggioranza anonimi, ha introdotto nella storia.
Penso a tante generazioni vissute nella logica del bell’amore.
Penso ai miei genitori, agli occhi con cui mio papà a novant’anni guardava mia mamma pure novantenne, moribonda, stremata da un cancro violento al rene.
Penso alle coppie di anziani che quasi ogni domenica, alla fine della messa, vengono a dirmi: “Questa settimana sono cinquanta”, oppure “questa settimana sono sessant’anni di matrimonio”.
Quale amore avrebbe custodito l’io meglio di questo legame indissolubile? Oggettivamente non c’è paragone tra la densità di un’esperienza così definitiva e il susseguirsi indefinito di una sequenza di relazioni precarie.
Alla fine, sia la necessità di amare definitivamente, sia la fragilità sessuale sono segnate dal terrore della morte.
Per amare veramente devo essere amato definitivamente, cioè oltre la morte; ed è quello che Gesù è venuto a fare.
Se c’è un delitto che noi cristiani commettiamo è non far vedere il dono stupendo di Gesù: dare la vita per farci capire la bellezza dell’amore oggettivo ed effettivo.
Esso ha sempre un carattere nuziale, inscindibile intreccio di differenza, dono di sé e fecondità.
L’altro non è fuori dal mio io, l’altro mi attraversa tutti i giorni; lo stesso mio concepimento è legato a questo attraversarmi.
Perciò umanizzare la sessualità attraverso la castità è una risorsa capitale per vincere la scommessa del postmoderno, per l’uomo del terzo millennio che voglia salvare la via del bell’amore, la quale ci fa godere davvero la vita».
Aldo Cazzullo

La dispersione scolastica al 31%

Sono quasi 120mila i ”dispersi” tra i 14 e i 17 anni E’ quanto ha reso noto un rapporto Isfol, secondo cui il 5% dei ragazzi in questa fascia d’età abbandona gli studi Sono 117.429 (il 5%) i ragazzi tra i 14 e i 17 anni fuori da qualsiasi percorso formativo, con un forte divario tra Nord e Sud.
È quanto ha reso noto l’Isfol, che ha effettuato il rapporto di monitoraggio del diritto-dovere per conto del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.
Il numero che risalta maggiormente è, ancora una volta, quello dei dispersi, pari ad oltre 117 mila giovani tra i 14 e i 17 anni.
Il fenomeno dell’abbandono, però, non ha la stessa rilevanza lungo tutto il territorio nazionale.
Oltre 71mila dispersi risulta risiedere al sud e nelle isole, in altri termini, oltre 1 disperso su 2.
Diversa la situazione al Nord, che registra rispettivamente il 4,5% dei dispersi a nord ovest e solo l’1,7% a nord est.
Tra gli strumenti a sostegno dei ragazzi a rischio si profilano i percorsi triennali di istruzione e formazione curati dalle Regioni, che hanno registrato, nel 2008, un +9,5% di iscrizioni.
 La dispersione in Sardegna sfiora il 40%; Marche e Umbria al 23% Difficile dare un nome preciso (e unico) alle cause di abbandono del percorso scolastico verso il diploma che colpisce tuttora più di tre ragazzi su dieci in Italia nella scuola statale.
Alle classi del quinto anno di corso del 2009-10 sono mancati 31 dei cento ragazzi partiti cinque anni prima.
Forse alcuni (molto pochi) hanno scelto altre strade formative o alternative (la scuola non statale, la formazione professionale).
In attesa che l’anagrafe degli studenti si attui pienamente consentendo di rilevare il percorso di ogni ragazzo e di quantificare e localizzare meglio il fenomeno della dispersione (e di intervenire con misure preventive puntuali), si può stimare nell’1-1,5% questa quota di non dispersi (non più di 10 mila all’anno) che non intacca sostanzialmente il fenomeno.  I differenziati livelli quantitativi della dispersione raggiunti sul territorio non aiutano a capire le cause effettive della dispersione, distinguendo tra fattori esterni alla scuola (attrazione del mondo del lavoro o grave mancanza di prospettiva occupazionale) e fattori interni (severità, selezione, impegno gravoso degli studi).
Così può capitare che nella stessa area territoriale del Sud vi sia la Calabria che registra “soltanto” un 24,1% di dispersione (24,4% nel 2008-09), mentre la Campania si attesta al 35,4% (35,9% nel 2008-09).
Molto più omogenee nella loro negatività le situazioni di dispersione nelle isole: Sicilia al 37,5% (36,7% l’anno precedente), Sardegna 39,4% (35,2% nel 2008-09).
Nell’area settentrionale si registra una analoga situazione differenziata con il Nord Ovest che evidenzia un tasso di dispersione oscillante tra il 33,2% della Lombardia e il 30,1% del Piemonte, mentre il Nord Est ha una dispersione compresa tra il 23,3% del Friuli Venezia Giulia e il 28% dell’Emilia Romagna.
Le regioni centrali sono tutte sotto il 30% di dispersione con la situazione virtuosa delle Marche (22,9% di dispersione) e dell’Umbria (23%).