Hanno sempre meno fiducia nelle “istituzioni” tradizionali, a cominciare dalla famiglia (ma soprattutto nei politici); consumano meno alcol e sigarette, ma si fanno più “canne”; vorrebbero lezioni di educazione sessuale a scuola e seguono diete fai-da-te.
Soprattutto, lasciando piano piano la televisione, si stanno spostando nella Rete dove con le loro relazioni si moltiplicano i comportamenti a rischio come dare il proprio numero di telefono a sconosciuti o accettare appuntamenti al buio.
E’ in sintesi il ritratto dei ragazzi italiani che emerge dalla XIV indagine “Abitudini e stili di vita degli adolescenti” realizzata dalla Società italiana di pediatria.
Il rapporto, che sarà presentato al convegno “La società degli adolescenti” (il 2 dicembre a Salsomaggiore), è il risultato di una ricerca patrocinata dal ministero della Gioventù e realizzata attraverso l’ascolto di 1.300 studenti delle scuole medie, di età compresa fra i 12 e i 14 anni.
Che il Web stai modificando abitudini e stimoli è sancito dal sorpasso di Internet sulla tv e soprattutto dall’inarrestabile ascesa di Facebook: il 67% degli interpellati da dichiarato di avere il profilo sul sociale network, contro il 50% dell’anno scorso. Il boom di Facebook avviene a discapito di messenger e dei blog personali, crollati in un solo anno dal 41,2% al 17% quasi a indicare che quella del diario personale online era solo una moda passeggera.
Il rapporto rivela poi in netto calo la percentuale di navigazione su internet per cercare informazioni utili per lo studio e che le attività principali dei ragazzi sono ‘chattare’ e navigare su Youtube.
Se da un lato i social network promuovono le relazioni all’esterno, dall’altro il mezzo – il pc, ma ovviamente anche la tv – aumenta l’isolamento in famiglia: più della metà die ragazzi intervistati ha detto infatti di avere televisore e computer nella propria cameretta; oltre l’80% (con una nettissima prevalenza dei maschi) gioca ai videogiochi; circa uno su due guarda la tele e oltre il 20% naviga in Internet la sera tardi prima di dormire.
Si conferma diffusissima (86%) la cattiva abitudine di guardare la tv durante i pasti.
Nel rapporto col web crescono però i comportamenti a rischio come inviare foto, fornire dati e informazioni personali, farsi vedere tramite webcam, accettare incontri con sconosciuti.
Oltre il 16% (contro il 12,8% del 2009) dichiara di aver dato il proprio numero di telefono a un estraneo, e uno su quattro (il 24,6% contro il 20,7% del 2009) non ha esitato a inviare una sua foto.
E’ vero che nella stragrande maggioranza dei casi gli ‘sconosciuti’ sono altri adolescenti, ma non sono rari gli episodi in cui l’interlocutore è un adulto.
Categoria: Didattica
Religione e attività alternative a scuola
Il regolamento sulla valutazione (dpr 122/2009) aveva previsto che, a differenza dei docenti di religione che potevano partecipare a pieno titolo allo scrutinio finale, i docenti di attività alternative, invece, potevano soltanto fornire preventivamente ai docenti della classe elementi conoscitivi sull’interesse e sul profitto degli studenti.
A seguito di ricorso presentato da diverse associazioni laiche e religiose (Cidi, Consulta romana della laicità, Federazione delle Chiese evangeliche, l’Ucei e altre), il Tar Lazio ha emesso la sentenza n.
33433 del 14 ottobre scorso (deposita il 15 novembre) con la quale ritiene discriminatorio il trattamento riservato ai docenti di attività alternative, in quanto “il dpr 122/2009 determina un irragionevole trattamento deteriore dei docenti di attività alternative, rispetto alla previgente disciplina dettata con o.m.
44/2009” che assegnava analoga posizione ai docenti di religione cattolica e di attività didattica e formativa alternativa.
“Un conto è sedere a pieno titolo nel consiglio di classe – recita la sentenza – e concorrere alle sue deliberazioni in ordine alle attribuzioni del credito scolastico, un conto è fornire preventivamente al consiglio di classe elementi conoscitivi; un conto è presenziare e porsi in posizione dialettica nell’ambito dell’organo consiliare, un conto è rassegnare dei meri elementi conoscitivi che dovranno essere apprezzati dai docenti della classe”.
In conseguenza della pronuncia, sono di fatto annullati il comma 2 dell’art.
4 e il comma 3 dell’art.
6 del Regolamento sulla valutazione.
«Neoassunti a Fort Alamo».
Assunti, finalmente.
Con quel contratto a tempo indeterminato in tasca che li salva dalla roulette delle supplenze e dall’ansia per le graduatorie.
Uno se li aspetterebbe carichi di entusiasmo, almeno fiduciosi, come minimo sereni.
E invece i nuovi insegnanti d’Italia giocano già in difesa, avvertono un senso di isolamento, addirittura di arroccamento.
Al punto che la Fondazione Giovanni Agnelli ha scelto un titolo western per lo studio che ne spiega le sensazioni: «Neoassunti a Fort Alamo».
È il terzo anno che la fondazione «interroga» gli insegnanti che hanno appena terminato il primo anno in cattedra dopo l’immissione in ruolo.
Grazie alla collaborazione con gli uffici regionali, hanno risposto in 7.700, dagli asili ai licei, il 96% in dodici regioni.
Un lavorone ma pagina dopo pagina non c’è nemmeno una risposta che indichi un miglioramento.
Rispetto ai loro colleghi entrati in ruolo negli anni precedenti, i neoassunti 2010 faticano di più a mantenere la disciplina: lo ammettono i professori delle superiori (il 53,1% contro il 32,2% di due anni fa) e anche quelli degli asili, raddoppiati in due anni e arrivati al 48,6%.
Moltiplicati per due pure gli insegnanti che non riescono a spingere i ragazzi a studiare: in due anni siamo passati alle elementari dal 20,5 al 42,4%, alle medie dal 36,2 al 53,4%.
Se poi si chiede qual è la causa di questi guai, sembra di sentire una sola voce: tre insegnanti su quattro dicono che la colpa è tutta dello scarso interesse dei ragazzi per lo studio e dell’ancor più scarso valore che le famiglie danno al successo scolastico.
Sul ruolo dei genitori il giudizio è davvero severissimo.
Quattro insegnanti su cinque dicono che è diminuita la stima e la fiducia dei genitori.
E praticamente tutti, si oscilla tra il 96% al 98% a seconda delle regioni, dicono che mamma e papà sono più interessati a proteggere i figli piuttosto che a sapere come vanno a scuola.
«Chiedono di non farli lavorare troppo – sintetizza il direttore della fondazione Agnelli, Andrea Gavosto -, di non dare troppi compiti d’estate o nel fine settimana.
Ma per il resto…».
Insomma, baby sitter e distributori di pezzi di carta più che insegnanti.
In queste condizioni non è certo facile trovare l’entusiasmo necessario.
Anche perché quelli della scuola sono neoassunti molto particolari.
Al momento del passaggio di ruolo in media hanno già lavorato nelle scuole per 10 anni.
Naturalmente da precari, un percorso non sempre formativo e una vera tortura sul piano umano.
C’è il rischio che in alcuni casi, una volta assunto e finito il calvario, l’insegnante possa tirare i remi in barca? «A volte succede» dice Laura Gianferrari, curatrice della ricerca insieme a Stefano Molina e dirigente dell’ufficio scolastico dell’Emilia Romagna.
Secondo lei, però, il vero problema è un altro: «Ormai i ragazzi apprendono seguendo le modalità del pensiero veloce usato con il computer mentre gli insegnanti hanno sempre la stessa cassetta degli attrezzi di una volta: spiegazione, interrogazione, compito in classe…».
Così i ragazzi smanettano con il cellulare sotto il banco.
E i professori si chiudono a Fort Alamo.
Lorenzo Salvia Per la consultazione Fondazione_Agnelli_-_Indagine_Neoassunti_2010_-_Anticipazione.pdf
Don Milani
Non ricordo con precisione il mio primo incontro con don Milani; nella fase che ha preceduto il servizio militare mi è capitato di approfondire il discorso sull’obiezione di coscienza e credo di averlo incontrato a quell’epoca, leggendo un volumetto postumo, L’obbedienza non è più una virtù, scritto da don Milani insieme ai suoi alunni della scuola popolare di Barbiana.
Confrontandomi con quei contenuti ho scelto poi di farlo, il servizio militare, perché ritenevo di non essere ispirato da passioni sincere per fare obiezione di coscienza.
Forse mi mancavano argomenti sufficienti per sostenere una scelta che a quell’epoca era molto rigorosa.
Un giorno, all’inizio degli anni Novanta, di ritorno da Roma, in un viaggio assieme ad alcuni amici, abbiamo deciso di uscire all’uscita Mugello e di salire a Barbiana: è stato un momento molto forte dopo il quale ho iniziato a leggere e a informarmi maggiormente sull’argomento.
Poi ho incrociato Lettere ad una professoressa.
Quando mi chiedono che libro voglio ricordare sopra ogni altro io non ho nessun dubbio, cito sempre Lettere ad una professoressa; per me è ancora uno stimolo fortissimo.
Leggendolo, capisco che la sostanza diventa vita e le teorie diventano sangue e carne; mi ritrovo ogni volta commosso dall’esperienza di vita di una persona e di questi ragazzini che, insieme, scrivono un testo capace di azzerare ogni certezza e ogni precisa posizione, e così facendo riescono a costruire un’idea fatta di vissuto e di esistenza autentica, che porta dritti all’essenza del ruolo dell’insegnante e della formazione, visti come possibilità di riscatto dei più poveri.
La dedizione totale alla propria missione è, a mio avviso, una testimonianza spendibile da ognuno di noi, a prescindere dalla questione religiosa, che mi interessa relativamente.
In qualità di progettista mi capita spesso di coprire il ruolo del docente, sebbene non sia per me una cosa continuativa; ogni anno ho un corso d’esame e capitano altri lavori presso il Politecnico o altre strutture universitarie.
In queste situazioni la mia tensione è quella di trattare le persone con lo sguardo che potrebbe avere don Milani.
Trovo che sia molto semplice stigmatizzare il difetto, il problema, la mancanza, l’incapacità, l’insufficienza ma è più ardimentoso e più appassionante cogliere il buono da ogni idea, anche se mal espressa.
Questa è la sfida di sempre: credo che nessuno di noi abbia diritto di bocciare e di rimandare gli alunni, come non aveva diritto la professoressa del libro.
All’epoca c’era una scuola classista, nella quale per i figli dei poveri o per chi abitava in montagna era preclusa ogni possibilità di proseguire gli studi; don Milani lo spiega molto chiaramente, dati alla mano, in termini di giornate scolastiche perse da coloro che non avevano accesso.
Gli scolari si perdevano, non andavano più a scuola e interrompevano in anticipo gli studi, spesso venivano bollati come inadatti allo studio, respinti e rimandati nelle fabbriche e nei campi.
Adesso, forse, la situazione del diritto allo studio, grazie anche all’azione di don Milani, è cambiata; purtroppo è cambiata in peggio anche la qualità della scuola italiana.
Le sue passioni avevano a che fare con situazioni molto concrete, dall’organizzazione della scuola popolare, dove quelli più grandi insegnavano a quelli più piccoli, al suo odio verso la ricreazione, vissuta come una forma di impegno che portasse a dimenticarsi il dovere della formazione e per poter affrontare bene il mondo.
Aveva anche scritto a un regista francese per proporgli la trama di un film su Gesù Cristo, per dimostrare che la vita di Gesù Cristo era simile alla vita degli operai; non era solo una questione di fatti evangelici e sacri ma una vita di tristezza e restrizione.
Sosteneva che i poveri, i suoi contadini e operai, andando al cinema potevano uscire con l’idea che Gesù Cristo aveva a che fare con la loro vita.
Aveva scritto a Bernabei, allora presidente della Rai, per chiedere che in televisione fossero insegnate le lingue straniere, perché diceva che i figli degli immigrati che tornavano in Italia non sapevano governare bene la lingua che avevano imparato e voleva che fosse forma di riscatto anche l’insegnamento della lingua inglese o tedesca.
Salendo sulla montagna che porta a Barbiana all’inizio si è molto baldanzosi, la strada è bella, in mezzo ai cipressi; poi c’è un ultimo tratto da fare a piedi.
Di recente mi è capitato di arrivarci all’ora del crepuscolo, cominciava a fare freddo e quella tipica energia da gita in montagna, allegra, si era smarrita, lasciando il posto a una desolazione completa.
Si vedono la canonica e il piccolo cimitero in cui è sepolto.
Così ci si può ricondurre veramente allo spirito della sua lezione, alla volontà di mantenere tutto inalterato.
Il suo allievo prediletto, che lui ha accolto come un figlio, Michele Gesuardi, in seguito diventato presidente della provincia di Firenze, ha voluto mantenere Barbiana inalterata; per fortuna don Milani non è diventato un’icona nel mondo della chiesa cattolica, ma è rimasto una figura scomoda, scomoda per tutti.
A Barbiana non ci sono chioschi che vendono bibite, non c’è la santificazione che si percepisce quando si va in pellegrinaggio a Pietrelcina.
Ancora oggi è un paese difficile da raggiungere, proprio come il suo ispiratore.
Visitando la terra in cui ha vissuto e operato, e naturalmente leggendo i suoi libri, si producono sempre dei dubbi.
Don Milani, per me, resta un meraviglioso generatore di dubbi.
in “Il Sole 24 Ore” del 14 novembre 2010
Quattro priorità per la scuola del XXI secolo
l 4 e 5 novembre 2010 si è svolta a Parigi la riunione dei ministri dell’educazione dei 33 Paesi attualmente membri dell’OCSE, cui hanno partecipato anche rappresentanti di altri Stati (tra cui la Russia) candidati a far parte della prestigiosa organizzazione intergovernativa creata nel 1947 per promuovere la cooperazione e lo sviluppo economico tra le nazioni industrialmente più avanzate.
“Investing in Human and Social Capital: New Challenges” era il tema dell’incontro, i cui esiti sono stati riassunti in un breve documento predisposto dalla presidenza a tre (Austria, Messico, Nuova Zelanda) ma ovviamente, come sempre accade in riunioni del genere, concordato con tutte le rappresentanze nazionali.
I temi discussi corrispondono alle quattro priorità individuate: fronteggiare gli effetti della crisi sui sistemi educativi; adeguare le competenze lavorative ai nuovi bisogni; formare insegnanti preparati per il XXI secolo; rafforzare le positive ricadute sociali dello sviluppo dei sistemi educativi.
Sul primo punto l’accento è caduto sulla prevenzione della dispersione, un obiettivo che va raggiunto non tanto aumentando la spesa quanto concentrando i piani di studio sulle competenze chiave e rendendo più efficaci i metodi di insegnamento e i sistemi di valutazione.
Sul secondo punto si è insistito sulla necessità di prevedere per tempo e anticipare i fabbisogni di nuove competenze adeguando tempestivamente i contenuti dei curricoli.
Sulla formazione di buoni insegnanti molti Paesi hanno evidenziato l’ostacolo costituito dalla più difficile educabilità dei giovani di oggi, accompagnata dal declino del prestigio sociale dei docenti.
Problemi che l’OCSE suggerisce di fronteggiare migliorando la formazione iniziale (essenziale il tirocinio) ma soprattutto incrementando le opportunità di carriera dei docenti.
Quanto alle ricadute sociali del miglioramento dei sistemi educativi, che l’OCSE da tempo considera assai importanti (più produttività, minore criminalità, maggiore partecipazione e impegno politico, più tolleranza e così via), il documento insiste sulla necessità di sistemi più inclusivi e che offrano reali opportunità a tutti.
Da questo punto di vista, conclude l’OCSE, non basta rafforzare le competenze di base (Literacy and foundation skills).
Occorre valorizzare anche le competenze a carattere non cognitivo (non-cognitive skills) come la creatività, il pensiero critico, il problem solving e la capacità di lavorare in gruppo: competenze importanti sia per lo sviluppo economico che il buon funzionamento delle società.
tuttoscuola.com
lo scultore giapponese Etsuro Sotoo che lavora alla Sagrada Familia
L’intervista “Ho iniziato a guardare Gaudí per imparare ad essere uno scultore, finché ho capito che per raggiungerlo dovevo guardare dove guardava lui” spiega Etsuro Sotoo, lo scultore giapponese che dal 1978 lavora alla Sagrada Familia.
Ha completato la facciata della Natività, l’unica costruita in vita dall’artista e, guardando dove guardava il maestro, ha abbracciato la fede cattolica.
Questa intervista per “L’Osservatore Romano” ci permette di conoscere dalla voce di uno dei suoi protagonisti, la vita di questo tempio in costruzione, gioiello dell’architettura mondiale ed espressione preziosa della fede nel terzo millennio.
Come è arrivato alla Sagrada Familia? Nel 1977, appena laureato in Belle Arti dall’università di Kyoto, insegnavo arte in sei scuole di Osaka e Kyoto.
Costretto a spostarmi da un posto all’altro, non avevo tempo per la scultura.
Un giorno, mentre stavo mangiando un panino in macchina fermo ad un semaforo, ho visto un operaio che montava sul cordolo del marciapiede dei pezzi di pietra.
Quell’episodio è stato un capovolgimento nella mia vita; sentivo una chiamata particolare dalla pietra, che mi rubava l’anima e mi costringeva a cambiare direzione.
Qualunque oggetto in pietra mi attirava.
Ho deciso di lasciare l’insegnamento e di cercare un luogo dove dominasse una “cultura scolpita nella pietra”.
Andai in Europa.
Quando sono arrivato a Barcellona e ho visto la Sagrada Familia per la prima volta mi ha fortemente attratto.
Volevo lavorare in quel posto! L’allora direttore dei lavori, Isidre Puig Boada, mi ha fatto fare una prova e mi hanno assunto.
Desideravo conoscere a fondo quel maestro dell’architettura che lavorava la pietra in modo così affascinante.
Come è cresciuta questa conoscenza lungo questi 32 anni? Ho conosciuto poco a poco Gaudí realizzando sculture, cercando, chiedendomi il significato delle cose.
Il primo lavoro che feci fu il coronamento delle mura dell’abside, i pinnacoli.
Dovevo costruire una ringhiera di foglie.
Secondo i miei calcoli, il muro avrebbe dovuto avere lo spessore di un centimetro, che a me sembrava troppo poco.
Ho dovuto affrontare due problemi: una struttura così sottile era troppo debole e dovevo decidere dove collocare le foglie.
Avevo appena iniziato ed ero totalmente inesperto sul senso del simbolismo.
Osservando i pinnacoli fatti in vita da Gaudí trovai la soluzione: collocare le foglie nei punti deboli della struttura, in modo che venisse rinforzata.
Questo fu il mio primo incontro con lui, perché Gaudí sempre cercava un’unica soluzione a diversi problemi, sintetizzando in una forma la struttura, il simbolismo e la funzione.
Con l’espressione estetica dei frutti e delle foglie ci parla di come la Parola di Dio accompagna la storia degli uomini: i frutti nascono grazie alla luce del sole che arriva alle foglie di ogni pianta.
Più tardi ha scolpito gli scudi che sorreggono i finestroni.
Gaudí volle raffigurare in queste pietre le iniziali JMJ (Jesús, María, José).
Come ha impostato la loro realizzazione? Non esistevano disegni di questi scudi, ho dovuto inventarli.
Per esempio, per lo scudo dedicato alla carpenteria ho deciso di rappresentare gli arnesi, ma disordinati, con i trucioli.
Volevo riflettere l’ambiente reale di ogni mestiere, qual- cosa di vivo.
Questo l’ho imparato da Gaudí: non inventava niente, usava modelli esistenti e cercava sempre di plasmare un momento della vita.
Nel 1980 Puig Boada le chiese di restaurare il Portale del Rosario, distrutto nel 1936, durante la guerra civile.
È l’unico portale di accesso al chiostro che l’architetto fece in vita: con esso voleva indicare come dovevano essere gli altri.
Come ha affrontato questo compito? Presiedono il portale l’immagine della Madonna con Gesù Bambino in braccio e le immagini di santa Caterina da Siena e di san Domenico di Guzman ai lati.
Il Portale del Rosario è anche conosciuto come “la cappella delle tentazioni”, poiché a destra e sinistra sono rappresentate le tentazioni del potere e del denaro.
Sulla destra del Portale, guardando verso l’immagine della Madonna, Gaudí collocò la scultura di un anarchico, simbolo della tentazione del potere.
Dietro di lui, un lucertolone con la bocca aperta, raffigurante il demonio, lo induce alla violenza.
Ho dovuto rifarla perché era distrutta.
Gaudí ci invita – è uno dei suoi “testamenti” – a porci delle domande sul bene e sul male.
Mi sono chiesto il perché di quella figura ed ho immaginato una storia.
Il demonio gli dice: “Tu lavori più di dieci ore al giorno e non riesci a mangiare, ma c’è gente che senza lavorare, mangia e vive bene.
Non è giusto! Prendi questa bomba e distruggi questo mondo per costruirne un altro”.
È la tentazione di voler cambiare la società usando la violenza.
Gaudí ha sofferto su di sé le conseguenze di questa violenza, poiché la donna che amava è morta al Teatro del Liceu di Barcellona a causa di una bomba.
Rappresentò la tentazione di conquistare il potere con la violenza in questa piccola scultura, senza rancore, senza odio.
Il lavoratore tocca la bomba soltanto con il mignolo e guarda verso la Madonna come se si chiedesse “faccio bene o faccio male?”.
Gaudí ci rende coscienti del fatto che la nostra libertà decide.
Di fronte a tutte le tentazioni c’è una possibilità più umana, che ci salva dalla tentazione: l’umiltà è lo scudo più forte.
Nel 1983 Puig Boada le chiese di realizzare la sua prima scultura per la facciata della Natività (per mancanza di fondi, solo una): la figura di un angelo intento a suonare uno strumento.
Poi le affidarono anche le sculture dei bambini del coro, che completano la Facciata della Natività.
Era un compito difficile perché mancavano i dati di riferimento, neppure era chiaro il numero dei bambini da collocare.
Nelle fotografie che ho trovato non c’era nessun gruppo completo.
Ho deciso di farne nove perché nella facciata della Natività tutto gira intorno alla Sacra Famiglia, tre persone; quindi le figure che li lodano e li adorano dovevano essere multipli di tre: sei angeli che suonano strumenti musicali, nove angeli che cantano il Gloria in excelsis Deo e così via.
Quando avevo finito l’opera ed era già stata collocata, nell’ultimo Natale del ventesimo secolo, sono state ritrovate delle fotografie (appartenenti all’architetto Sugrañes, discepolo di Gaudí) di modelli completi di questi bambini del coro.
Erano nove! La mia intuizione, cercando di seguirlo, si è rivelata giusta.
Una volta individuato il numero delle figure, ciò che ho curato di più nella rappresentazione di questi bambini è stata la naturalità e la vita, che i bambini esprimono più di tutti, perché non fingono, sono spontanei.
Se vogliono cantare, cantano.
Ho immaginato che in quel momento uno dei bambini avesse voglia di accarezzare Gesù Bambino e l’ho rappresentato cercando di scendere verso il Bambino, cantando.
Una bambina più grande lo prende dalla spalla; anche lei continua a cantare, ma ha l’aria di dirgli: “Non scendere”.
Le figure hanno movimento, sorridono.
Attraverso Gaudí è arrivato al “Maestro interiore”.
Lavorando alla Sagrada Familia ho iniziato a sentire un profondo bisogno di conoscere il senso del simbolismo cattolico che mi trasmetteva, poiché le sue idee architettoniche nascono dalla sua fede.
Con un amico architetto, José Manuel Almuzara, abbiamo iniziato ad incontrarci assiduamente per studiare i suoi insegnamenti attraverso la sua opera, il simbolismo delle sue forme e figure, leggendo attentamente sia i testi biblici sia i commenti ed i testi dei collaboratori.
Durante un viaggio in aereo ho notato una donna con un bambino in braccio e mi sono commosso vedendo l’amore con cui lo curava.
Ho pensato: “Se questo è l’amore umano, cosa non sarà l’amore divino?”.
Fu la spinta di cui avevo bisogno: volevo ricevere il Battesimo per essere partecipe di questo amore.
(©L’Osservatore Romano – 7 novembre 2010)
Viaggio all’origine dell’Universo
Nel superacceleratore Lhc del Cern di Ginevra sono riusciti a riprodurre le condizione dell’Universo quando aveva appena 10 milionesimi di secondo; cioè un battito di ciglia dopo il Big Bang, il grande scoppio iniziale da cui tutto ha avuto origine.
«È un autentico record mondiale», spiega Paolo Giubellino, dell’Istituto nazionale di fisica nucleare alla guida dell’esperimento Alice, «perché mai prima d’ora si erano realizzate condizioni simili».
Si tratta di un plasma formato da gluoni e quark, costituenti di protoni ed elettroni, e l’hanno ottenuto scontrando fra loro 208 nuclei di piombo riuniti in due fasci che correvano l’uno contro l’altro ciascuno con un’energia di 2,75 Tev.
Nell’impatto i nuclei si sono schiantati così violentemente da sbriciolarsi nei loro componenti di base, quark ed elettroni appunto, creando il plasma osservato registrando una temperatura centomila volte superiore a quella esistente nel cuore del nostro Sole.
Questo passaggio i fisici lo chiamano «transizione di fase»; un processo analogo a quello che possiamo realizzare anche noi quando mettiamo l’acqua nel freezer per formare i cubetti ghiaccio.
L’ESPERIMENTO – «In passato si era prodotto qualcosa di simile nei laboratori americani di Brookhaven», precisa Giubellino, «ma l’energia da noi raggiunta è stata 14 volte superiore la loro e ciò è determinante perché consente di riprodurre e di conseguenza vedere più in dettaglio quel mondo primordiale che vogliamo indagare per comprendere le fasi iniziali della nascita del cosmo».
Le prime immagini dovrebbero essere diffuse lunedì assieme ai comunicati ufficiali dopo una seconda notte di test compiuti in modo più completo con tutti i rilevatori in funzione.
E si continuerà così per altre quattro settimane raccogliendo dati che saranno analizzati approfonditamente nei mesi prossimi.
Ma intanto il risultato è stato conquistato ed è quello che volevano gli scienziati impegnati con Alice, che è uno dei quattro esperimenti installati nell’anello sotterraneo di 27 chilometri a cavallo del confine franco-svizzero e che forma l’acceleratore Lhc.
Anche gli altri due esperimenti Atlas e Cms hanno ricavato le stesse informazioni, ma per loro l’obiettivo è diverso dovendo arrivare alla stessa meta scontrando fra loro solo protoni.
E poi giungere all’identificazione del bosone di Higgs, vale a dire la famosa «particella di Dio».
<a href=”http://oas.rcsadv.it/5c/corriere.it/scienze/L19/1142319844/Bottom1/RCS/CONSUME15_COR_ALL_RCT_081110/CONSUME15_COR_ALL_RCT_081110.html/57574878776b734367486f4144443873?http://clk.atdmt.com/MII/go/271700617/direct/01/1142319844″ target=”_blank”><img border=”0″ src=”http://view.atdmt.com/MII/view/271700617/direct/01/1142319844″ /></a> OBIETTIVO – «Il nostro obiettivo, invece», nota Paolo Giubellino, «è un altro.
Alice è stato concepito e costruito proprio per riprodurre e studiare le proprietà della materia nello stato in cui si trovata immediatamente dopo il big bang».
Al Cern si lavora a ritmi sostenuti prima di doverlo spegnere per interventi di sistemazione.
«Ma gli ultimi passi compiuti già ci proiettano», sottolinea Sergio Bertolucci, direttore delle ricerche al centro ginevrino, «in una eccitante nuova frontiera».
Da Berlinguer a Gelmini. La scuola che (non) cambia.
Esce oggi, pubblicato da Tuttoscuola, un volume di Orazio Niceforo dedicato all’analisi delle vicende della politica scolastica dal 1996 al 2010, intitolato Da Berlinguer a Gelmini.
La scuola che (non) cambia.
L’opera, corredata di schede e grafici, passa in rassegna l’attività dei sette governi, con cinque diversi ministri dell’istruzione, succedutisi a partire dal primo governo Prodi del 1996 per arrivare alla riforma dell’istruzione secondaria attuata dal ministro Gelmini (settembre 2010).
Il volume, oltre a ricostruire la storia della scuola italiana nel periodo considerato, offre una chiave interpretativa delle difficoltà e delle resistenze che hanno finora bloccato le riforme della scuola sia con i governi di centro-sinistra che con quelli di centro-destra, espressione di schieramenti alternatisi alla guida del Paese per circa sette anni ciascuno. Niceforo, redattore di Tuttoscuola e docente di ‘Sistemi scolastici contemporanei’ presso l’università di Roma – Tor Vergata, ha dedicato alla politica scolastica italiana numerosi articoli, saggi e volumi.
Il libro può essere acquistato, al prezzo di 13 euro, direttamente presso l’Editoriale Tuttoscuola, in via della Scrofa 39 – 00186 Roma, oppure chiedendone l’invio a domicilio, (attraverso questo buono d’ordine) con addebito delle spese postali, oppure ancora ordinandolo tramite il sito di Tuttoscuola www.tuttoscuola.com (a questo indirizzo).
Per informazioni telefonare al n.
06.68307851.
intervista a Jean-Louis Tauran: “Nessuno scandalo dirsi la verità aiuta il confronto”
«E dove è la novità? Da sempre si sa che nel Corano è prevista anche l’uccisione di cristiani con la spada.
Il vescovo Raboula Antoine Beylouni lo ha semplicemente ricordato senza tradire nessuna verità.
Non sono questi i motivi che mettono a rischio i rapporti cristiano-islamici».
Il cardinale francese Jean-Louis Tauran (67 anni), presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, non sembra preoccupato che nel Sinodo si sia ricordato che è lo stesso libro sacro dei musulmani a prevedere l’eliminazione dei cristiani.
«Purtroppo è così e se si fa finta di niente si fa un cattivo servizio alla verità storica», puntualizza il porporato che in Vaticano, dopo il Papa, è la massima autorità sull’Islam.
Cardinale Tauran, ma lei non teme che il dialogo con l’Islam ora sia più difficile? «No.
Chi conosce il Corano sa che in quelle pagine c’è veramente scritto che i cristiani possono essere uccisi.
Basta semplicemente leggere il testo sacro ai musulmani.
Per questo non penso che il dialogo con l’Islam possa essere compromesso da quanto è stato ribadito al Sinodo.
Non è la conoscenza della verità che può mettere in crisi i rapporti tra fedeli di religioni diverse».
Eppure, quando Benedetto XVI nel 2006 in Germania toccò gli stessi argomenti i musulmani si sentirono offesi e fu costretto a chiedere scusa.
«Sono due vicende diverse.
A Ratisbona il Santo Padre fu vittima di un colossale equivoco amplificato dai lanci di agenzie stampa che si limitarono a diffondere solo brevi stralci della sua lectio magistralis.
Equivoco prontamente chiarito dallo stesso Santo Padre, come in seguito hanno preso atto tanti leader musulmani ricevuti in Vaticano o incontrati durante i viaggi apostolici.
Altra cosa è l’intervento di monsignor Beylouni al Sinodo, dove il presule ha semplicemente ricordato quanto realmente è scritto nel Corano».
Lei non crede che rilanciando verità storiche tanto scomode il dialogo tra cristiani e musulmani si complichi a vantaggio di estremisti e fanatici? «Mi rendo conto che toccare certi argomenti a volte può far male.
Ma se si vuole veramente promuovere il dialogo interreligioso le verità, anche quelle scomode, non vanno nascoste.
L’importante è conoscersi e dialogare.
La vera sfida è un’altra: quanti in Medio Oriente hanno saputo che al Sinodo sono intervenuti un sunnita e uno sciita? E chi è a conoscenza degli sforzi comuni che leader cristiani e musulmani fanno in difesa della vita? La vera sfida è far conoscere alle masse islamiche tutti questi piccoli importanti passi.
Solo così il dialogo potrà crescere e fruttificare».
in “la Repubblica” del 23 ottobre 2010
Cristiani nel Medio Oriente
Il sinodo speciale per il Medio Oriente che è in corso da dieci giorni in Vaticano getta luce su una porzione di cristianità in drammatico movimento, in più direzioni e dal futuro incerto.
L’esodo dei cristiani da quelle terre è una parte importante di questo movimento.
Ma non è un fenomeno nuovo.
Nella prima metà del Novecento lo sterminio e la cacciata degli armeni, e poi dei greci, dalla Turchia furono di colossali proporzioni.
Oggi l’esodo continua da più luoghi e in varia misura.
Sta di fatto che a fronte dei dodici milioni di fedeli delle antiche Chiese d’Oriente che oggi vivono tra l’Egitto e l’Iran, circa sette milioni vivono ormai fuori.
Gli armeni sono da molti decenni più numerosi nella diaspora che nella terra d’origine.
I maroniti libanesi hanno diocesi di loro emigrati negli Stati Uniti, in Canada, Messico, Brasile, Argentina, Australia.
I siro ortodossi hanno una eparchia in Svezia.
Gli iracheni hanno creato una “Chaldean Town” nell’area metropolitana di Detroit.
I cristiani di Betlemme emigrano per la gran parte in Cile.
Contemporaneamente, però, è in atto nel Medio Oriente anche un movimento inverso.
Nella sola penisola arabica – stando a quanto hanno detto in sinodo i due vicari apostolici della regione, Paul Hinder e Camillo Ballin – i cattolici venuti da fuori in cerca di lavoro sono già tre milioni, per la maggior parte dalle Filippine e dall’India.
I paesi arabi del Golfo “hanno grande bisogno di manodopera”, ha spiegato il vescovo indiano di rito siro-malabarese Bosco Puthur, dalla cui regione sono partiti in 430 mila.
Ma l’avventura di questi emigranti è molto amara, se misurata sulle libertà religiose e civili.
L’arcivescovo di Addis Abeba, Berhaneyesus Demerew Souraphiel, ha detto che le migliaia di donne che partono ogni anno dall’Etiopia per il Medio Oriente, come lavoratrici domestiche, per ottenere i visti d’ingresso “cambiano i loro nomi cristiani in nomi musulmani e si vestono come musulmane, così indirettamente forzate a rinnegare le loro radici”, e in ogni caso vanno incontro a una vita di “sfruttamento e abusi”.
Nel descrivere la condizione in cui vivono i cristiani nei paesi musulmani del Medio Oriente i vescovi hanno usato parole comprensibilmente prudenti.
Con poche eccezioni.
Uno dei più crudi è stato il rappresentante in Giordania del patriarcato dei caldei iracheni.
Ha detto che c’è “una deliberata campagna per cacciare i cristiani.
Ci sono piani satanici dei gruppi fondamentalisti estremisti contro i cristiani non solo in Iraq ma in tutto il Medio Oriente”.
L’iraniano Thomas Meram, arcivescovo di Urmya del Caldei, non ha esitato a citare il salmo di Davide: “Per te ogni giorno veniamo massacrati”.
E ha proseguito: “Ogni giorno i cristiani si sentono dire, dagli altoparlanti, dalla televisione, dai giornali, che sono infedeli e per questo vengono trattati come cittadini di seconda categoria”.
Tutto l’opposto di quanto ha asserito in aula lo stesso giorno, giovedì 14 ottobre, l’ayatollah iraniano Seyed Mostafa Mohaghegh Ahmadabadi, ospite del sinodo, secondo il quale “in molti paesi islamici, soprattutto in Iran, i cristiani vivono fianco a fianco in pace con i loro fratelli musulmani.
Essi godono di tutti i diritti legali come ogni altro cittadino ed esercitano liberamente le proprie pratiche religiose”.
Ma il sinodo è più che una semplice ricognizione sullo stato di vita dei cristiani nel Medio Oriente.
Dal dibattito sono emersi giudizi critici sulla Chiesa cattolica in quei paesi e proposte di cambiamento.
CRISTIANI DIVISI Un primo giudizio critico riguarda la disunione della Chiesa cattolica nel Medio Oriente.
Le cinque grandi tradizioni a cui essa si richiama – alessandrina, antiochena, armena, caldea, bizantina – e gli ancor più numerosi riti in cui si articola producono spesso divisione, incomprensioni e chiusure, invece che arricchimento reciproco.
“Una Chiesa etnica e nazionalistica si oppone all’opera dello Spirito Santo”, ha ammonito l’arcivescovo iraniano di Teheran dei caldei, Ramzi Garmou.
E ne aveva i motivi.
Il vescovo egiziano di Assiut dei copti, Kyrillos William, si è scagliato in aula contro i confratelli di rito latino poiché, celebrando anch’essi in arabo le loro liturgie, “attirano i nostri fedeli e li distaccano dalla nostra Chiesa”.
Anche il vescovo dei greco-melchiti d’Australia, Issam John Darwich, ha lamentato la “crescente intolleranza fra le Chiese cattoliche orientali”.
E ha portato ad esempio “la triste situazione del Libano, dove ogni Chiesa sembra essere interessata a ottenere benefici politici per se stessa e più delle altre Chiese”.
In effetti il Libano è sì un paese nel quale i cristiani godono di libertà maggiori che in altri paesi del Medio Oriente, ma è anche quello così descritto in sinodo da un suo vescovo greco-melchita, Georges Nicolas Haddad: “La libertà di religione e di coscienza resta appannaggio delle 18 comunità storicamente riconosciute (12 cristiane, 4 musulmane, una drusa e una ebrea).
Chiunque non ne faccia parte è escluso da ogni diritto all’esercizio delle sue libertà.
Ogni tentativo caratterizzato da un proselitismo da parte dell’una o dell’altra comunità può provocare reazioni estreme e talvolta violente.
Ogni conversione è percepita come un colpo profondo inferto alla comunità d’origine del convertito e costituisce una rottura sociale”.
Muhammad Al-Sammak, consigliere del Gran Mufti del Libano e altra personalità musulmana invitata a parlare nel sinodo, non ha detto molto di diverso quando ha dichiarato – in aula – che “la presenza cristiana in Oriente è una necessità sia cristiana che islamica” e – fuori dall’aula, in una conferenza stampa – che “il credere è materia di coscienza ma quando il cambiare religione è anche cambiare ‘parte’ diventa un atto di tradimento dello stato e così deve essere trattato”.
Su questo sfondo, numerose voci si sono levate nel sinodo per raccomandare più unità tra le Chiese cattoliche della regione, e tra queste e le Chiese ortodosse e le confessioni protestanti.
In particolare, si è proposto di concordare al più presto una data comune per la celebrazione della Pasqua.
Alcuni hanno esortato al dialogo con i musulmani “illuminati”, disposti a una “lettura critica del Corano” e a una “interpretazione delle leggi musulmane nel loro contesto storico”.
PIÙ POTERI AI PATRIARCHI Una seconda serie di proposte ha riguardato la cura pastorale dei fedeli delle Chiese cattoliche del Medio Oriente emigrati all’estero, il ruolo dei patriarcati e il loro rapporto con la sede di Roma.
Di norma, i patriarchi e i vescovi hanno giurisdizione sui rispettivi territori, non sui fedeli emigrati in paesi lontani.
Ma in alcuni casi questi ultimi sono ormai più numerosi dei fedeli rimasti in patria.
E se lasciati senza cura, tendono ad abbandonare le tradizioni delle loro Chiese d’origine.
Parecchie voci, nel sinodo, hanno quindi chiesto di dare autorità ai patriarchi e ai vescovi sull’intero gregge dei loro fedeli, dovunque essi siano, in patria e all’estero.
Assieme a questa richiesta, alcuni hanno anche rivendicato la libertà di inviare dei sacerdoti sposati per la cura pastorale dei fedeli orientali in diaspora.
In Occidente, infatti, dove il clero è celibe, non è consentita la presenza con incarichi pastorali di sacerdoti orientali sposati.
Ma aumentando il numero degli emigrati ed essendo il basso clero delle Chiese orientali quasi tutto sposato, è sempre più difficile per i patriarchi e i vescovi orientali trovare dei sacerdoti celibi da inviare all’estero per la cura dei loro fedeli.
Da cui la richiesta di far cadere il divieto.
Quanto al ruolo dei patriarcati, è affiorata più volte nel sinodo la richiesta di “restituire” loro l’autorità che avevano nei primi secoli della Chiesa, in rapporto al papa.
In particolare dando loro più autonomia nel nominare i vescovi del luogo.
E anche associandoli “ipso facto” al collegio che elegge il sommo pontefice, “senza la necessità di ricevere il titolo latino di cardinali”.
Insomma, assegnando al papa “una nuova forma di esercizio del primato ispirata alle forme ecclesiali del primo millennio”, con il ruolo dei patriarchi rafforzato.
Tutto questo anche al fine di avvicinare le posizioni della Chiesa cattolica a quelle delle Chiese ortodosse d’Oriente.
IN MISSIONE TRA I MUSULMANI Un terzo blocco di proposte ha riguardato la “necessità di ricuperare l’aspetto missionario della Chiesa”.
Una proposta nuova e coraggiosa in paesi a dominante musulmana, da parte di Chiese che per ragioni storiche e per motivi di sopravvivenza si sono in larga misura chiuse su se stesse.
Il vescovo egiziano di Luqsor dei copti, Youhannes Zakaria, ha detto che nonostante le difficoltà e i pericoli “la nostra Chiesa non deve avere paura né vergogna, e non deve esitare a obbedire al mandato del Signore, che le chiede di continuare la predicazione del Vangelo”.
E l’arcivescovo iraniano di Teheran dei caldei, Ramzi Garmou, è andato ancora più al fondo di questa esigenza.
Dopo aver detto che “un nuovo soffio missionario” è vitale “per far cadere le barriere etniche e nazionaliste che rischiano di asfissiare e rendere sterili le Chiese d’Oriente”, ha richiamato “l’importanza fondamentale della vita monastica per il rinnovamento e il risveglio delle nostre Chiese”.
E così ha proseguito: “Questa forma di vita, nata in Oriente, è stata all’origine di un’espansione missionaria straordinaria e di una testimonianza ammirevole delle nostre Chiese nei primi secoli.
La storia ci insegna che i vescovi venivano scelti tra i monaci, vale a dire tra uomini di preghiera e di vita spirituale profonda, con una grande esperienza delle ‘cose di Dio’.
Oggi purtroppo la scelta dei vescovi non obbedisce agli stessi criteri e ne constatiamo i risultati, che non sempre sono positivi.
L’esperienza bimillenaria della Chiesa ci conferma che la preghiera è l’anima della missione; è grazie a essa che tutte le attività della Chiesa sono rese feconde e danno molti frutti.
D’altronde, tutti coloro che hanno partecipato alla riforma della Chiesa e le hanno restituito la sua bellezza innocente e la sua giovinezza eterna sono stati fondamentalmente uomini e donne di preghiera.
Non per nulla nostro Signore ci invita a pregare incessantemente.
Constatiamo con rammarico e amarezza che i monasteri di vita contemplativa, fonte di abbondanti grazie per il popolo di Dio, sono quasi scomparsi dalle nostre Chiese d’Oriente.
Che grande perdita! Che peccato!”.
È facile ravvisare in queste parole l’eco della tesi di papa Joseph Ratzinger secondo cui il segreto del buon governo della Chiesa – e della sua riforma – è il “pensiero illuminato dalla preghiera”.
ISRAELE “CORPO ESTRANEO”? In un sinodo dedicato al Medio Oriente c’era infine da aspettarsi un importante riferimento a Israele e agli ebrei.
Quasi nessuno, invece, ne ha parlato.
L’unico padre sinodale che vi ha dedicato l’intero intervento è stato, l’11 ottobre, il vicario patriarcale di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica, il gesuita David Neuhaus, il quale ha auspicato più comunione, in Israele, tra i cattolici di lingua araba e quelli ebreofoni.
Questi ultimi, si sa, sono considerati da molti confratelli arabi un corpo estraneo.
E la Santa Sede non li aiuta, rinunciando a nominare un vescovo che si dedichi alla loro cura.
Il 13 ottobre ha preso la parola nel sinodo, in qualità di invitato, il rabbino David Rosen, consigliere del Gran Rabbinato di Israele.
Il suo è stato un intervento di ampio respiro, molto positivo e di grande apprezzamento dell’opera dell’attuale papa e del suo predecessore.
Ma dopo di lui nessuno, nel sinodo, ha dato seguito alle sue parole di dialogo tra ebrei e cristiani.
Rimanendo l’aula in quasi totale silenzio sul tema, ha così avuto maggior risonanza un documento fatto circolare fuori dell’aula sinodale: un documento intitolato “Kairòs – Un momento di verità” e sfrenatamente anti-israeliano nei contenuti.
In esso l’occupazione da parte di Israele dei territori è definita “un peccato contro Dio e l’umanità” e la stessa fondazione dello stato ebraico è fatta risalire a un senso di colpa dell’Occidente a motivo dell’Olocausto, per sanare il quale si sarebbe occupata la terra dei palestinesi.
Il documento termina con l’invito a boicottare Israele.
La genesi di “Kairòs” risale a diversi mesi fa.
Quando fu reso pubblico per la prima volta, l’11 dicembre 2009 a Betlemme, il documento recava le firme del patriarca emerito di Gerusalemme dei latini, Michel Sabbah, dell’arcivescovo greco-ortodosso Atallah Hanna (acerrimo rivale del patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme Teofilo III), del vescovo luterano di Gerusalemme Munib Younan e di tredici altri esponenti arabo-cristiani.
Il suo più attivo propagatore era il luterano Younan.
Questi coinvolse con successo il Consiglio Ecumenico delle Chiese, che raggruppa 349 denominazioni cristiane di tutto il mondo, con sede a Ginevra.
E infatti, quando il 15 ottobre è stato letto nel sinodo un messaggio del segretario generale del CEC, Olav Fykse Tveit, il documento “Kairòs” vi era citato e raccomandato.
Ma Younan e gli altri autori del documento fecero pressione, nei giorni successivi alla sua pubblicazione, anche su tutti i leader delle Chiese cristiane a Gerusalemme, per ottenerne l’appoggio.
Quello che ottennero, il 15 dicembre 2009, fu una dichiarazione di poche righe, senza alcun riferimento esplicito a “Kairòs”, che iniziava con queste parole: “Noi, i patriarchi e capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme, abbiamo ascoltato il grido di speranza che i nostri figli hanno lanciato in questi tempi difficili che stiamo vivendo in questa Terra Santa.
Noi li sosteniamo”.
Niente di più.
Ma da lì in poi il documento “Kairòs” è stato fatto sempre circolare con in testa questa dichiarazione, come se fosse il suo prologo, e con le firme di tutti i leader delle Chiese cristiane a Gerusalemme, compreso il patriarca latino Fouad Twal e il custode di Terra Santa, il francescano Pierbattista Pizzaballa, come se fossero loro i veri autori dell’intero documento Per chi conosce e ha letto gli scritti di padre Pizzaballa, una sua adesione alle tesi di “Kairòs” e al boicottaggio di Israele è semplicemente impensabile.
Eppure anche la Custodia di Terra Santa, da lui presieduta, ha contribuito assieme ad altre associazioni cattoliche, come Pax Christi, e al patriarca emerito di Gerusalemme Sabbah a dare pubblicità al documento, il 19 ottobre, in un salone di proprietà del Vaticano, a pochi passi dall’aula del sinodo.
Non solo.
Il 14 ottobre è intervenuto nel sinodo l’arcivescovo maronita Edmond Farhat, già nunzio apostolico e rappresentante ufficiale della politica vaticana.
E i giudizi da lui espressi fanno pensare che per la Santa Sede – che pure accetta l’obiettivo di due stati per ebrei e palestinesi – continua a valere il presupposto che la causa ultima di tutti i mali del Medio Oriente sia proprio quel “corpo estraneo” che è Israele.
Ha detto il nunzio Farhat: “La situazione del Medio Oriente oggi è come un organo vivente che ha subito un trapianto che non riesce ad assimilare e che non ha avuto specialisti che lo curassero.
Come ultima risorsa l’Oriente arabo musulmano ha guardato alla Chiesa credendo, come dentro di sé pensa, che sia capace di ottenergli giustizia.
Non è stato così.
È deluso, ha paura.
La sua fiducia si è trasformata in frustrazione.
È caduto in una crisi profonda.
Il corpo estraneo, non assimilato, lo corrode e gli impedisce di occuparsi del suo stato generale e del suo sviluppo.
Il Medio Oriente musulmano nella sua schiacciante maggioranza è in crisi.
Non può farsi giustizia.
Non trova alleati né sul piano umano né sul piano politico, meno ancora sul piano scientifico.
È frustrato.
Si rivolta.
La sua frustrazione ha avuto come effetto le rivoluzioni, il radicalismo, le guerre, il terrore e l’appello (da’wat) al ritorno agli insegnamenti radicali (salafiyyah).
Volendo farsi giustizia da solo il radicalismo ricorre alla violenza.
Crede di fare più scalpore se si attacca ai corpi costituiti.
E il più accessibile e il più fragile è la Chiesa”.
Se un proposito delle autorità vaticane era di “moderare” l’intransigente avversione a Israele delle Chiese arabe del Medio Oriente, le parole del nunzio Farhat hanno fatto l’opposto.
__________ I documenti del sinodo nel sito del Vaticano: > Assemblea speciale per il Medio Oriente, 10-24 ottobre 2010