L’etica nell’orizzonte del pluralismo culturale

 

 

Il 9 – 10 aprile si è tenuto a Roma  un Corso di aggiornamento per insegnati di Religione su L’etica nell’orizzonte del pluralismo culturale. Il corso è stato promosso dall’Istituto di Catechetica della Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’UPS.

 

IL PROGRAMMA DEL CORSO


Presentazione

La realizzazione di una propria identità è l’assillo che il giovane vive. E rischia pure di risultare il  processo più occasionale e dispersivo: la personalità di ciascuno si attua in un clima di improvvisazione e di incertezza.      
E’ possibile offrirle bussola e timone per un orientamento morale credibile?   E’ la domanda che muove il Convegno.

 

Sabato, 9 aprile 2011

Ore  9.00                               Introduzione e Lodi

0re   9.30                              Etica in contesto cristiano. Quale proposta? Prof. Paolo Carlotti

Ore 11.00                             Intervallo

Ore 11.30                             Fasi e processi della vita morale. Il giovane fra adesione e rifiuto: Prof. Massimo Diana

Ore 13.00                             Pranzo

Ore 15.00                             Crisi ecologica e responsabilità morale:  Prof. Johstrom Kureethadam

Ore. 16.00                            La formazione della coscienza morale. Dalla contraffazione alla vita autentica:

Prof. Michele Marchetto

Ore 17.00                             Intervallo

Ore 17.30                             Impatto dei media sul mondo giovanile : Prof. Pier Cesare Rivoltella

Ore 20.00                             Cena

 

Domenica, 10 aprile

Ore   9.00                               Lodi

Ore   9.15                              Un’etica a misura giovane. Dalla norma all’utopia: Prof. Zelindo Trenti

Ore   10.15                            Intervallo

Ore 10.45                             Coscienza morale nell’apprendimento dell’IRC. Elaborazione didattica

Prof. Roberto Romio

Un’ipotesi applicativa: L’Ospite Inatteso: Proff. C. Carnevale, G. Cursio, R. Astuto

Ore 12.00                            Conclusioni.

 


 

GLI INTERVENTI DEI RELATORI

Di seguito si possono consultare gli interventi dei relatori:

relazioni fotocopiate

 

 

 


 

Il crocifisso e le nostre radici

Il crocifisso di stato Sergio Luzzato Einaudi editore Senza il crocifisso sul muro, dicono, l’Italia non sarebbe piú la stessa.
Lo dicono tanti cattolici, ma anche tanti laici.
Io penso che gli uni e gli altri abbiano ragione.
Senza il crocifisso negli edifici statali l’Italia non sarebbe piú la stessa: sarebbe piú giusta, piú seria, migliore.
Perché in Italia alle pareti di scuole, ospedali e perfino tribunali stanno appesi dei crocifissi? E perché non dovrebbero? Molte persone non li vedono nemmeno, molte altre ritengono che sia questa una consuetudine innocua.
Ma il crocifisso di Stato ha anche fieri nemici, e strenui difensori.
Se periodicamente si riaccende la polemica attorno a un simbolo cosí ingombrante, è perché la discussione non può essere fatta soltanto di regole europee, principî astratti, conflitti identitari.
Quel «pezzo di legno» non è lí da sempre e per sempre: ha tutta una storia, ricca di sorprese, trasformazioni, manipolazioni.
«Sta su quelle pareti perché là lo ha preparato a giungere un passato remoto, perché là lo ha imposto un passato prossimo, perché là lo mantiene una specie di presente storico».
Il crocifisso sul muro è un problema di storia.
Una storia da conoscere, e da raddrizzare.
Quel saggio che attacca il “crocifisso di stato” di Carlo Galli in “la Repubblica” del 28 febbraio 2011 I luoghi pubblici statali possono, debbono, o non debbono, avere un crocifisso alle pareti? Vexata quaestio, ripresa con foga da Sergio Luzzatto nel suo ultimo pamphlet, Il Crocifisso di Stato (Einaudi), in cui lo storico non si fa mancare illustri bersagli, dal papa a Napolitano, da Cacciari a, soprattutto, Natalia Ginzurg (importante autrice della medesima casa editrice, bersagliata dalla polemica in quanto aveva difeso con argomenti laici l’esposizione del crocifisso).
Il punto centrale del libro è che togliere il crocefisso dagli spazi pubblici statali (non da quelli pubblico-sociali) non è un atto di anticlericalismo ma di laicità.
E questa non è cristofobia, come sostengono le gerarchie, perché la laicità non è una posizione di parte: è anzi l’obbedienza alle logiche della modernità politica, che vedono nello Stato il garante delle libertà di tutti, e quindi gli vietano di favorire l’una o l’altra parte; e l’esporre il crocifisso è certo attribuire il favore di Stato a una specifica religione (come afferma una sentenza del tribunale europeo di Strasburgo).
Un favore che, per di più, non è fondato su alcuna legge ma solo su circolari di epoca fascista, indifendibili e inapplicabili; e che viene giustificato, di solito, con due argomenti: il crocifisso è simbolo dell’umana sofferenza e non discrimina nessuno (la tesi di Ginzburg); è talmente intrecciato alla storia d’Italia e ha a tal punto plasmato l’identità nazionale che è simbolo laico (come ha affermato il Consiglio di Stato).
Al primo argomento Luzzatto replica che il crocifisso ha una storia non universale e neutra, ma particolare e polemica, che lo ha visto anche trasformato in oggetto di odio e in arma – certo, impropria – di odio.
Il secondo argomento, poi, è ingenuo e quasi blasfemo.
Ingenuo perché l’identità nazionale è dinamica, e non fissa; e oggi certamente l’Italia non è più esclusivamente e neppure maggioritariamente cattolica (i crocefissi sono sempre più rari nelle case); inoltre, per quanto il cattolicesimo abbia incrociato il formarsi storico della nazione, Paesi non meno cattolici dell’Italia, come la Francia e la Spagna, sono ben più coerenti del nostro rispetto all’intrinseca laicità della cosa pubblica.
Quasi blasfemo, infine, perché associa il Figlio di Dio al potere politico, facendone lo strumento di una strategia di ‘legge e ordine’, anziché di liberazione profetica, di promessa di un’altra vita.
La Chiesa costantiniana – protagonista del compromesso fra trono e altare – oggi non è più, ufficialmente, all’ordine del giorno.
Il cattolicesimo non è più la sola religione ufficiale dello Stato, come si leggeva nello Statuto albertino, recepito nei Patti lateranensi e quindi anche dalla costituzione repubblicana (e anche per questo nel 1984 i Patti furono riveduti).
L’Italia è sempre più secolarizzata, e sempre più ospita residenti e cittadini non cattolici.
Perché, allora, resta in questo limbo di indifferenza e, quando qualcuno pone la questione, di imbarazzo? Il silenzio come regola, e – quando è il caso – le corali manifestazioni, da parte di tutte le forze politiche, di adesione al crocifisso di Stato nascono certo dall’obiettivo di non inimicarsi la Chiesa.
Ma i cittadini? Il libro non risponde direttamente, ma si può avanzare un’ipotesi: che il loro tacito consenso alla presenza del crocifisso sia l’altra faccia della parallela e concomitante sfiducia nella statualità.
Insomma, senza crocifisso, e il suo uso improprio, gli italiani – che sanno bene che cosa pensare del loro Stato – si sentirebbero davvero soli.
E quindi se lo tengono.
Non per fede nella religione ma per mancanza di fede nella cosa pubblica.
Sul crocifisso un muro divide le aule d’Italia di Michele Ainis in “il Sole 24 Ore” del 27 marzo 2011 Poverocristo o povero Cristo? Dobbiamo prendere partito per Marcello Montagnana (l’insegnante di Cuneo che andò sotto processo per aver rifiutato l’ufficio di scrutatore alle politiche del 1994, protestando contro l’esposizione del crocifisso nei seggi elettorali) o è giusto schierarsi per il simbolo dolente che campeggia in tutti i nostri edifici pubblici? Sergio Luzzatto sceglie decisamente il primo, ma senza mancare di rispetto nei confronti del secondo.
Il rispetto del quale in Italia siamo orfani è piuttosto un altro: quello che andrebbe tributato al principio di laicità del nostro stato.
Lo professiamo a chiacchiere, però nei fatti ce lo mettiamo sotto i piedi.
E a tale riguardo la vicenda del crocifisso è la più dibattuta, ma non la più eloquente.
Ne è prova per esempio il finanziamento pubblico alle scuole private, che al 90 per cento sono scuole cattoliche: la Costituzione lo vieta espressamente, una legge del 2000 lo permette allegramente.
Sarà per questo, per la cifra di disperazione che ormai accompagna i laici nel paese in cui torreggia il Cupolone, che Luzzatto ha scritto un libro acre come zolfo, dove risuonano gli accenti del pamphlet.
E dove riecheggia la storia di Montagnana insieme a quella dei coniugi Lautsi, che hanno ingaggiato una lunga battaglia giuridica e civile contro l’esposizione del crocifisso nelle scuole.
Potremmo aggiungervi pure il giudice Tosti, che ha fatto altrettanto per espellere questo simbolo  ingombrante dai muri delle aule giudiziarie, guadagnandone in cambio una sfilza di processi e di castighi.
L’elenco è lungo.
Ma è lungo anche l’elenco dei paladini del crocifisso, dove figurano intellettuali insospettabili come Natalia Ginzburg, donna laica e di sinistra.
Nonché nomi importanti dell’intellighenzia cattolica italiana, quali Massimo Cacciari e Franco Cardini.
Luzzatto ricorda – con qualche grammo di perfidia – che il primo viene dall’operaismo sessantottesco, il secondo dal neofascismo degli anni Cinquanta, però l’approdo è identico.
E quale arma dialettica viene brandita in questi casi? Un coltello a doppia lama, benché le due lame siano poi tutt’altro che affilate.
In primo luogo – s’osserva – quella croce di legno non fa male a nessuno, è un dettaglio dell’arredamento pubblico sul quale i più passano via senza degnarlo d’uno sguardo.
Curiosa questa difesa della rilevanza pubblica del crocifisso in nome della sua irrilevanza pubblica.
Ma a sprezzo della logica, gli indomiti crociati ci rovesciano addosso una domanda: se è questione dappoco, allora perché tanto accanimento? Risposta: perché quand’anche fosse un solo uomo a sentirsene ferito, a venire sopraffatto da una religione dominante che lo esclude, uno stato democratico avrebbe l’obbligo d’aprire un ombrello in sua difesa.
I diritti valgono per i deboli, non per i forti.
Servono ai meno, non ai più. Specialmente quando entra in gioco la libertà di religione, che storicamente ha preceduto la stessa libertà di manifestazione del pensiero.
Se fossero libere soltanto le parole di chi canta nel coro, sarebbe come stabilire in una legge che hanno diritto al vino esclusivamente gli ubriachi.
D’altronde lo ha dichiarato pure la Consulta, attraverso un nutrito gruppo di pronunzie che s’affaccia sul volgere degli anni Settanta: il principio di maggioranza non si applica alla sfera religiosa, e dunque è “inaccettabile” ogni discriminazione basata sul numero degli appartenenti ai vari culti.
Non fu minoranza la stessa Chiesa cattolica? Venne fondata da Cristo alla presenza di non più di 12 discepoli, anche se adesso qualcuno lo ha un po’ dimenticato.
Ma si può ben essere cattolici senza pretendere d’imporre al prossimo le insegne del papato.
Ne è testimonianza don Milani, che tolse il crocifisso dalle pareti della scuola di Calenzano per cancellare ogni sospetto di pedagogia confessionale.
Ne è testimonianza il gesto di Cesare Ruperto, ex presidente della Corte costituzionale: benché cattolico, all’atto del suo insediamento fece eliminare il crocifisso dall’aula delle udienze alla Consulta.
Perché quello spazio è pubblico, di tutti.
E perché la nostra carta afferma l’eguaglianza delle confessioni religiose.
Qui però s’affaccia l’altro argomento inalberato dai crociati: non è per le nostre idee particolari che sosteniamo il crocifisso obbligatorio, lo facciamo per il vostro bene, per difendere la storia della quale anche voi atei o miscredenti siete figli, e dunque per difendere l’identità che vi appartiene.
Non è forse vero che riposate di domenica (“il giorno del Signore”), che contate gli anni a partire dalla nascita di Cristo? E allora il crocifisso è un simbolo civile, allora la laicità si nutre di valori religiosi: nel 2006 lo ha scritto anche il Consiglio di stato.
Dev’essere per questo, per la santificazione dell’ossimoro operata dai nostri tribunali, che Luzzatto dichiara in ultimo tutta la sua sfiducia nel diritto.
Dice: a breve arriverà un verdetto dalla corte di Strasburgo, ma tanto per noi non cambierà mai nulla.
Sbaglia, perché la querelle si vince o si perde sull’altare della legge.
Ma non è detto che la laicità reclami un muro nudo.
Non è detto che la difenderà un divieto, come nella Francia che nel 2004 ha proibito il velo in classe, nel 2010 il burqa.
Possiamo aggiungere, anziché togliere.
Possiamo allestire un muro colorato, dove campeggiano i simboli d’ogni religione, e anche lo stemma di chi non ha religione.
Quanto a noi laici, ci basterebbe il faccione corrugato di Voltaire.
Ma una civiltà senza segni è priva di vita di Davide Rondoni in “il Sole 24 Ore” del 27 febbraio 2011 A me, cristiano, il libro di Sergio Luzzatto non persuade, anche per la scelta del pamphlet come strumento di comunicazione.
Per affrontare un tema di così vasta portata occorreva un altro passo.
Mi pare che l’autore dimentichi come da quel giorno sul Golgota, fino ai giorni nostri per il fatto d’esser cristiani, in molte zone del mondo, c’è un sacco di gente che ha perso la vita.
A quest’odio che si fa più cupo non a caso quando fa i conti con la carnalità scandalosa del crocifisso, i cristiani han spesso risposto facendosi il segno della croce, graffiandoselo nel cuore o sui muri, tessendolo in segreto con misera canapa, con fili di ferro e di lacrime.
Come il nome di un amore.
O alzandolo su vessilli.
Mai nascondendolo dalla scena della storia.
Nelle più oscure fosse di dolore sono stati fatti crocefissi di ogni genere, minimi e segreti, per guardare il senso della pena.
Per la mia fede, stracciata e semplice che ci sia o no, Gesù esposto nelle aule di scuola non cambia niente.
So dove inginocchiarmi di fronte a Lui.
Ma a me, come italiano, fa piacere: significa che questo paese, dove da tutto il mondo vengono a vedere luoghi in buona parte legati alla storia e all’arte nate e sviluppate con il cristianesimo, è fatto non solo di istituzioni ma anche di anima e storia, di vita.
Così come sono soddisfatto di vedere esposti simboli di origine religiosa o no in tanti luoghi pubblici in giro per il mondo.
Secondo Il crocifisso di Stato invece la croce esposta è sintesi di tutti i mali italiani (a proposito, come la mettiamo con la bandiera della Svizzera, paese dove l’autore ha scelto di vivere, visto che ha la croce sulla bandiera nazionale stessa?).
Per Luzzatto ogni religione dovrebbe ritirarsi nello spazio del privato e se la prende quindi con chi non condivide la sua tesi.
Natalia Ginzburg, per esempio, viene definita “melensa”, poiché ricordò in un suo articolo su «l’Unità» che il crocifisso esposto non fa male a nessuno e mostra un elemento vitale della nostra civiltà: guardare alla vita con pietà.
Perché bollare come “melenso” il ragionare dell’esponente di una famiglia sfregiata con il sangue? Luzzatto poi ce l’ha con il presidente Giorgio Napolitano che, da ministro, non rispose ad alcuni di coloro che sollevarono il problema del crocifisso nei luoghi pubblici.
Prende di mira molti, da Travaglio a Mussolini, da Padre Pio a Giuliano Ferrara.
Il parlare in nome della “storia” e della “scienza” non lo esime da contraddizioni: rilancia l’idea che il crocifisso sia stato nel Medioevo segno di guerra a cui fedeli d’altre religioni han dovuto reagire e poi ricorda le ingiurie portate in epoca precedente da fanatici ebrei alla croce.
Racconta le vicende gravose di coloro che con tenacia han voluto portare davanti a giudici e presidenti il loro sentirsi offesi dalla presenza del crocifisso.
Storie rispettabili e comprensibili, ma con le quali l’autore stesso finisce per trovarsi in disaccordo.
Costoro, “offesi” dal crocifisso, non volevano nessun simbolo.
Luzzatto deve invece convenire con il mio amico professor J.
Weiler, insigne giurista ebreo di New York che ha difeso a Strasburgo il ricorso dell’Italia e d’altri paesi contro l’ingiunzione di togliere i crocefissi dai luoghi pubblici.
Weiler infatti – con brillantezza e humour, presentandosi con la kippah d’ortodosso ebreo per difendere il crocifisso – ha mostrato ai giudici che non è possibile in questo genere di faccende arrivare a un grado zero di problema.
I simboli religiosi non vanno “laicizzati”, ma letti per il valore che hanno a riguardo della storia di un popolo.
Cittadini britannici potranno sempre sentirsi offesi dal fatto che nel loro inno ci si rivolga a Dio.
Eliminando tali parole si sentirebbero offesi i credenti.
In ogni caso non si può negare il valore di tali parole per la storia di quel paese.
Insomma, la storia non sopporta l’inseguimento dell’attrito zero.
Inutile invocare simboli buoni che “uniscono” contro cattivi che “dividono”: ogni segno porta con sé la necessità della comprensione e della tolleranza.
Il muro bianco è solo negazione di ogni storia.
Una civiltà che non dà luogo a segni condivisi – come è il crocifisso – è civiltà morta.
Perciò Luzzatto finisce il pamphlet riproponendo l’idea di sostituire il crocifisso con l’elica del Dna, unico simbolo che ci accomunerebbe.
Ma non è proprio il Dna ci distingue? Dividendo i malati dai sani, i fortunati dagli imperfetti, i bassi dagli  pilungoni…
Il crocifisso e le nostre radici di Fulvio De Giorgi in “Appunti di cultura e politica” n.
3 del maggio-giugno 2010 Dopo le prime reazioni ‘a caldo’, segnate dalla foga (e non esenti da strumentalizzazioni), forse è possibile avviare una riflessione più serena sulla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo relativa al Crocefisso nelle scuole italiane: una riflessione controcorrente, ma non astiosamente provocatoria, e che dà una valutazione positiva della sentenza, se intesa in modo profondo e non superficiale o riduttivo.
Le diverse posizioni Vi sono posizioni serie e pensose, passate e presenti, che vedono nel Crocefisso unicamente un simbolo culturale, “interamente secolarizzato” (Carlo Ossola), una “testimonianza storica” (Piero Ostellino), ma di portata universale: segno rivoluzionario dell’uguaglianza tra gli uomini e del dolore umano (Natalia Ginzburg); simbolo della prevalenza dell’amore sul potere (Vito  ancuso), del disinteresse e del rifiuto di ogni compravendita della fede (Aurelio Mancuso), di pace e di amore (Carlo Cardia), di accoglienza e di donazione di sé (Massimo Cacciari), di libertà e di gratuità (Marco Travaglio); volto dell’umanità, della sofferenza e della carità che la riscatta (Claudio Magris).
È bello e consolante che ci siano questi giudizi, che dimostrano quale etica profonda sia presente nell’umanesimo laico italiano.
Ma c’è un consenso universale su questa universalità culturale del Crocefisso? Non c’è.
Vi sono infatti almeno due posizioni, altrettanto rispettabili, che vanno in senso opposto.
C’è chi lo considera sì simbolo secolare e culturale ma dell’identità nazionale (Carlo Azelio Ciampi e altri) o dell’identità ebraico-cristiana europea (Giorgio Israel), perciò non universale.
C’è pure chi lo considera non simbolo culturale secolarizzato (come la M di McDonald’s) ma unicamente o soprattutto simbolo religioso (Stefano Rodotà e Emilio Gentile tra i laici, Marinella Peroni e Massimo Fagioli e altri, tra i cristiani).
Ci sono poi i leghisti che lo considerano simbolo identitario (non è ben chiaro se dell’identità italiana o di quella padana), ma non certo simbolo dell’uguaglianza tra gli uomini e del dolore umano (cioè anche del dolore dei poveri immigrati): simbolo dunque di respingimento di altre identità culturali.
Simbolo del cristianesimo Ma cosa implica – sul piano istituzionale e giuridico – che sia un simbolo religioso? Consideriamolo nella vicenda dell’Italia unita.
La Costituzione dell’Italia unita, dalla sua nascita all’avvento della Repubblica, era lo Statuto albertino che sanciva, all’art.
1, che la religione cattolica, apostolica romana “è la sola religione dello Stato”.
Quindi il Regno d’Italia era una monarchia costituzionale e liberale ed era pure uno Stato confessionale (gli altri culti erano “tollerati”).
In conseguenza di tale assetto, il Regolamento attuativo della Legge Casati (che nel 1859 disegnava l’architettura del sistema scolastico italiano) per le scuole elementari prevedeva che ogni scuola dovesse essere fornita – tra le altre suppellettili – anche di un Crocefisso (RD n.
4336, 15 settembre 1860).
Lo Statuto albertino vigeva – ancorché stravolto nelle sue garanzie liberali – anche durante il fascismo.
Il Concordato del 1929 prevedeva dunque che l’insegnamento della religione cattolica dovesse essere fondamento e coronamento di tutta l’istruzione pubblica: accentuazione della confessionalità dello Stato, che già c’era e di cui il Crocefisso nelle aule era conseguenza.
Con la fine del fascismo e della monarchia e con l’avvento della Repubblica la situazione cambia.
La Costituzione del 1948 afferma l’uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (art.
3), la libertà di tutte le confessioni religiose (art.
8), la reciproca autonomia tra Stato e Chiesa cattolica (art.
7).
Dunque la Repubblica italiana non è più uno Stato confessionale (con un’unica religione ufficiale), ma uno Stato laico.
Tuttavia la Costituzione riconosce – come voleva allora la Chiesa cattolica – valore costituzionale ai Patti Lateranensi, dunque al Concordato del 1929, con le affermazioni che abbiamo visto (e che saranno recepite ancora nei Programmi della scuola elementare del 1955).
Il Crocefisso nelle scuole dunque resta: non più giustificato dalla Costituzione, ma dal residuo confessionalismo implicato nel Concordato.
Il Concilio Vaticano II porta però un grande rinnovamento nella Chiesa cattolica, che afferma la sua autonomia dalla comunità politica, la libertà religiosa, la rinunzia a mezzi contrari allo spirito evangelico.
Afferma: “la potestà civile deve provvedere che l’uguaglianza giuridica dei cittadini, che appartiene essa pure al bene comune della società, per motivi religiosi non sia, apertamente o in forma occulta, mai lesa, e che non si facciano fra essi discriminazioni.
[…] Inoltre, poiché la società civile ha il diritto alla protezione contro i disordini che si possono verificare sotto pretesto della libertà religiosa, spetta soprattutto alla potestà civile prestare una tale protezione; ciò però deve compiersi non in modo arbitrario o favorendo iniquamente un determinato partito, ma secondo norme giuridiche, conformi all’ordine morale obiettivo: norme giuridiche postulate e dall’efficace difesa dei diritti e della loro pacifica composizione a vantaggio di tutti i cittadini” (Dignitatis Humanae, nn.
6-7).
In ogni caso, la Chiesa cattolica “non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile.
Anzi essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre  disposizioni” (Gaudium et Spes, n.
76).
I principi della Costituzione e le affermazioni del Concilio portano dunque, nel 1984, alla revisione bilaterale del Concordato del 1929, sancendo in modo inequivocabile: “Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano” (Protocollo addizionale).
Non essendoci più dunque nessuna religione di Stato, nessun simbolo religioso può svolgere una funzione identitaria in uno spazio pubblico-istituzionale.
Ciò significa che è diritto individuale (di portata universale: cioè valido per tutti) rifiutare un simbolo religioso come simbolo identitario dello Stato.
Ciò significa, ancora, che oltre ai simboli identitari nazionali (il tricolore e lo stemma della Repubblica), c’è anche un simbolo valoriale della Repubblica che è – e non se ne vedono altri – il Testo della Costituzione.
Se vuole affermare questo, la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è indiscutibilmente giusta.
Integralismo o integrazione Ma oggi la nuova realtà multiculturale e multireligiosa porta pure a constatare che “nuove circostanze esigano altre disposizioni”.
Oggi una visione laicista che voglia difendere la laicità espungendo totalmente le religioni dalla scuola pubblica non andrebbe verso il bene comune di una cittadinanza condivisa, di una democrazia partecipativa, di una convivenza serena e pluralista.
La gestione di una società multiculturale può avvenire secondo due principi: o con un assimilazionismo degli individui, unito ad uno scontro di civiltà tra comunità religiose o valoriali (principio di integralismo); oppure con un universalismo individuale dei diritti, unito all’uguaglianza e fraternità delle comunità religiose o valoriali (principio di integrazione).
Ma, a sua volta, l’integrazione si può realizzare con due diverse forme di laicità: o con una laicità di disintegrazione che per integrare toglie dalle istituzioni tutti i riferimenti religiosi o valoriali, considerando l’ambito pubblico come un sottrattore religioso (o multireligioso); oppure con una laicità di integrazione che accoglie e armonizza nelle istituzioni tutte le comunità religiose o valoriali presenti, considerando l’ambito pubblico come un moltiplicatore interreligioso (che, cioè, non solo attrae e non sottrae, ma fa dialogare tra loro e perciò moltiplica la fraternità tra tutte le comunità religiose o valoriali).
Ecco allora che nella scuola pubblica, per rispettare il diritto di libertà di coscienza di ogni individuo, nessun simbolo religioso può avere una posizione ‘fisica’ preminente ed una funzione simbolico-identitaria dello spazio scolastico; ma pure, per favorire l’uguaglianza e la fraternità tra comunità religiose o valoriali, tutti i simboli religiosi o valoriali delle comunità a cui appartengono le famiglie degli scolari devono essere presenti.
Lo scopo è conoscitivo (non culturale: c’è una conoscenza religiosa che, come tale, è importante per tutti) e pedagogico: educare alla conoscenza delle religioni e delle opzioni areligiose, delle loro visioni, della loro storia, dei loro simboli.
Parentesi: in questo contesto, non è detto che in tutti i gradi di scuola il simbolo pedagogicamente più adeguato del Cristianesimo sia il Crocefisso (per esempio, nelle scuole dell’infanzia e primarie, potrebbe essere la Madonna con il Bambino, come voleva la Montessori per le sue Case dei Bambini).
Infine una conclusione, per i cristiani.
La nostra fede sarà riconoscibile non per le nostre radici, culturalmente esibite, ma per i nostri frutti, esistenzialmente vissuti come carità.
Per far questo non bisogna dissotterrare e sbandierare al cielo le radici, ma affondarle, nel nostro cuore, in Cristo.
Cristo risorto, Persona viva oggi (non statua inanimata di ieri, non figura mitologica culturale: come gli dei pagani per Monti e Foscolo), è la radice necessaria per portare frutti di Vangelo, secondo la via stretta indicata nel Discorso della Montagna.
Fulvio De Giorgi

L’annuario 2010 sull’IRC

L’annuario 2010 sull’IRC, curato dal Servizio Nazionale della Conferenza Episcopale Italiana per l’Insegnamento della Religione Cattolica, fotografa la situazione della scuola statale per l’anno 2009-10, dalla quale emerge il dato degli alunni che non si sono avvalsi dell’insegnamento RC.
Rispetto all’anno scolastico precedente sono aumentati di un punto percentuale, toccando complessivamente il 10% del totale alunni (gli avvalentesi dell’Irc sono passati dal 91% del 2008-09 al 90% del 2009-10).
Più esattamente nei diversi settori scolastici quel 10% di alunni non avvalentesi ha toccato queste percentuali: nella scuola dell’infanzia il 7,5% (+0,7 rispetto all’anno prima), nella scuola primaria il 6,3% (+ 0,5), nella secondaria di I grado l’8,4% (+ 1,0) e nella secondaria di II grado il 16,5% (+ 1,8).
Si tratta per tutti i settori delle percentuali più alte raggiunte dal 1993-94, con incrementi graduali e costanti che sono andati quasi di pari passo con l’aumento di alunni stranieri appartenenti ad altre religioni e che, in molti casi (non sempre), non si sono avvalsi dell’Irc.
Ma non avvalersi dell’Irc non significa avvalersi di attività didattiche e formative alternative.
Questa possibilità è in costante calo: 8,2%, il più basso in assoluto da anni; il resto degli studenti si è suddiviso tra studio assistito (18,5%), studio non assistito (25,5%) e poco meno della metà (47,8%) ha scelto l’uscita dalla scuola.
Prendendo in esame quel 16,5% di studenti non avvalentesi negli istituti di istruzione secondaria superiore, vi è però la sorpresa che riguarda i docenti di attività alternativa.
Infatti solo il 4% dei non avvalentesi ha partecipato ad attività didattiche e formative alternative, quelle, cioè affidate a docenti di attività alternative.
Il 4% del 16,5% vuol dire un magro 0,66% finale di studenti delle superiori che scelgono attività alternative.
E vuole dire anche che i docenti di attività alternative, proprio nel momento in cui ottengono il pieno titolo per partecipare alla valutazione degli studenti per i crediti scolastici, calano di numero e, forse, di importanza.
tuttoscuola.com  È iniziato da qualche giorno l’ultimo quadrimestre di questo primo anno scolastico di riforma delle superiori e milioni di ragazzi viaggiano già verso la conclusione del 2010-11 preparandosi ad affrontare le forche caudine dello scrutinio finale con alcune nuove regole sulla valutazione (validità dell’anno scolastico con la frequenza di almeno tre quarti del monte ore annuo), applicate per la prima volta anche per tutti gli studenti degli istituti superiori.
Recentemente il Tar Lazio, con una sentenza passata in giudicato e contro la quale il Miur non ha interposto ricorso al Consiglio di Stato, ha riconosciuto pieno titolo ai docenti di attività alternative a partecipare agli scrutini finali per la determinazione dei crediti scolastici nelle classi degli istituti superiori, allo stesso modo dei docenti di Irc (Religione cattolica).
Probabilmente, mancando i tempi necessari per correggere il Regolamento sulla valutazione (dpr 122/2009) che aveva, invece, previsto per quei docenti la non partecipazione di persona alla valutazione finale con la sola possibilità di inviare documentazione allo scrutinio, il ministero dovrà trovare un altro strumento amministrativo per recuperare il pieno titolo dei docenti di attività alternativa già dai prossimi scrutini finali.
Si parla, in proposito, di inserire il dispositivo in una prossima ordinanza sugli esami oppure in un decreto ministeriale ad hoc.
In ogni modo questo riconoscimento del pieno titolo sarà un modo per dare visibilità e riconoscimento ad una figura professionale poco definita e “semiclandestina” come il docente di attività alternative.
Attività alternative: Come? Dove? Quanti? Per saperne di più è possibile consultare l’Annuario, curato dal Servizio Nazionale della Conferenza Episcopale Italiana per l’Insegnamento della Religione Cattolica, da cui si rileva che per la prima volta la percentuale di alunni che non si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica ha toccato la percentuale complessiva del 10%.
tuttoscuola.com

Dispersione scolastica italiana: “disastro educativo”,

Recentemente il ministro del lavoro Sacconi non ha usato mezzi termini nel giudicare la dispersione scolastica italiana come un vero e proprio “disastro educativo”, quantificato, dallo stesso ministro, in 46 mila studenti all’anno, secondo fonti del ministero dell’istruzione.
Una quantità di “dispersi” che può sembrare alta, ma che, invece, purtroppo, è ben lontana dalla realtà, come ha potuto accertare Tuttoscuola, che a questo tema dedica uno speciale sul numero di marzo della rivista cartacea.
Se si prendono, ad esempio, i dati degli studenti negli istituti statali superiori degli ultimi due anni scolastici (ma il confronto si può fare anche su altre annate precedenti) e si calcola quanti di loro non risultano più presenti l’anno dopo nella classe successiva a quella frequentata, si ha questo dato: nel 2009-10 in seconda ci sono stati 71.957 studenti in meno di quelli che c’erano in prima dell’anno precedente in prima (2008-09); in terza ci sono stati 25.440 studenti in meno di quelli di seconda dell’anno 2008-09; in quarta 48.387 meno di quelli di terza dell’anno prima e, infine, in quinta 45.614 meno di quanti ce n’erano in quarta l’anno precedente, per un totale di 191.398 “dispersi”.
Tutti gli anni precedenti è stato più o meno così, tra i 208 mila e i 173 mila “dispersi”, e non ripetenti che comunque sarebbero arrivati prima o poi in ritardo.
Proprio dispersi, almeno per la scuola statale.
Di quei 190 mila che mediamente ogni anno nell’ultimo decennio scompaiono ogni anno dal percorso dell’istruzione statale, una quota non si perde del tutto, perché 60-70 mila passano alla non statale o alla formazione professionale.
Ma gli altri 120 mila (altro che i 46 mila di Sacconi!) sono usciti da qualsiasi percorso scolastico o formativo.
Volete la controprova? Prendiamo i dati Eurostat della Commissione europea, da cui emerge che nel 2008 il 19,7% dei nostri 18-24enni in possesso al massimo della licenza media si è disperso senza percorrere altri percorsi scolastici o formativi.
Nel 2008 i 18-24enni erano in tutto, secondo i dati Istat, quasi 4,3 milioni e il 19,3%, cioè i dispersi, sono stati quindi 847 mila che, distribuiti su ognuna delle annate 18-24 anni fanno una media annua di 121 mila dispersi.
Appunto.
Come abbiamo rilevato sopra con altra modalità di calcolo.
È davvero un disastro educativo, un’emergenza da allarme rosso, per il quale occorrerebbero presto riforme di strutture adeguate.
Ma il nostro Paese sembra in ben altre questioni affaccendato.
tuttoscuola.com

Lettura «distorta» dei dati relativi al numero di studenti che si avvalgono dell’IRC

Insegnamento di religione: il 90% degli studenti se ne avvale Ancora una volta l’Insegnamento della religione cattolica finisce agli onori della cronaca grazie a una lettura «distorta» dei dati relativi al numero di studenti che si avvalgono dell’insegnamento stesso.
«Un crollo» nella scelta dell’Irc, scriveva ieri il sito di un quotidiano nazionale, portando come fonte niente meno che l’annuale ricerca condotta dall’Osservatorio religione del Triveneto, l’Annuario dell’ora di religione».
Un crollo che, però, «non frena l’aumento degli insegnanti di religione».
Un fenomeno che porta addirittura una parlamentare radicale a presentare un’interrogazione al ministro della Pubblica Istruzione.
«In realtà quella ricerca andrebbe letta nella sua interezza – commenta Nicola Incampo, esperto di questioni legati all’Irc – e si scoprirebbe una situazione ben diversa».
In primo luogo l’Annuario (la cui prima edizione risale all’anno 1993/94), «ha visto crescere nel tempo la copertura del territorio nazionale, che nell’ultima edizione è salita al 92,4% delle diocesi».
Questo aumento di copertura ha comportato anche il fatto di evidenziare un fenomeno importante come quello della immigrazione e della presenza di studenti di cittadinanza non italiana, le cui famiglie spesso sono originarie di Paesi non cristiani.
«Un fenomeno che si è via via evidenziato partendo dalla scuola dell’infanzia e che ora si presenta anche in quella superiore» sottolinea Incampo.
E proprio la presenza di questi studenti porta spesso all’aumento (tra l’altro contenuto) dei non avvalentesi dell’insegnamento.
Del resto va ricordato che oggi ben il 90% complessivo degli studenti chiede di avvalersi dell’ora di religione.
Altra questione «l’incremento degli insegnanti di religione che riguarda solo la scuola primaria e quella dell’infanzia – spiega Incampo –.
Vorrei ricordare che la revisione del Concordato del 1984 ha previsto che il maestro di classe non fosse più obbligato a insegnare religione.
Questo significa che il maestro per impartire detto insegnamento, deve dichiarare la propria disponibilità all’inizio di ogni anno scolastico.
Già da qualche anno, con l’entrata in vigore della riforma della primaria, nelle classi dove il maestro dichiarava la propria indisponibilità all’insegnamento della religione cattolica entrava lo specialista di religione cattolica».
Ma anche in questo caso va ricordato che ben il 92,5% degli alunni nella scuola dell’infanzia, e il 93,7% di quella primaria si avvalgono dell’insegnamento.
Cifre che parlano da sole sull’importanza che la materia riscuote presso le famiglie, anche non italiane.
Enrico Lenzi Avvenire 18 02 2011

Dionigi Tettamanzi: «La politica è lontana dalle persone»

L’intervista «Da tempo la politica italiana appare più concentrata a far parlare di sé che non a occuparsi delle difficoltà che le persone concrete incontrano».
In un’intervista al Corriere, l’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, chiede a chi governa di dare «esempio di sobrietà».
Il cardinale Tettamanzi ha da poco concluso gli incontri con gli amministratori locali: nella diocesi di Milano i temi della crisi sono al centro di molte domande, i tempi sono difficili per tutti, la fatica di vivere investe i giovani senza speranza, gli stranieri senza cittadinanza, i lavoratori senza lavoro, le famiglie divise, le persone sole.
Per chi ha una responsabilità pubblica ci sarebbe molto da fare e molto da dare, ma in questi giorni la politica nazionale sembra rovesciare priorità e necessità.
Anche dal Duomo, oltre che dal Quirinale, si vede il rischio del baratro.
Tra risse istituzionali e personalismi, certe cronache sembrano uscire da uno stagno.
E non è ancora finita.
Eminenza, lei non crede che tutto questo aumenti il senso di sfiducia nei confronti di chi dovrebbe aiutarci a uscire dalla crisi? «Quello che leggiamo da troppi mesi nelle cronache politiche nazionali non rispecchia certo i veri problemi del Paese.
Da tempo la politica italiana appare più concentrata a far parlare di sé che non a occuparsi delle difficoltà che le persone concrete incontrano.
Gli amministratori, e i politici in genere, non devono perdere il legame vitale con la gente, con il Paese.
Solo così, se la gente si sentirà realmente ascoltata e rappresentata, il senso di sfiducia sempre più marcato si trasformerà nell’affidamento responsabile dei cittadini alle istituzioni e agli uomini che le animano, le rappresentano, le governano.
Sta poi ai politici rispondere adeguatamente a questa fiducia con un’azione che abbia di mira la ricerca e la costruzione del bene comune.
Dal mondo politico però «vengono esempi negativi da figure che dovrebbero avere un’alta responsabilità morale».
Condivide le parole del cardinal Bagnasco? «Come faccio a non condividerle? Il dovere dell’esemplarità non riguarda solo i politici, bensì tutte le persone che hanno incarichi pubblici, che sono chiamati a guidare il Paese, a essere un riferimento per le persone, che rappresentano la nazione, all’interno e all’esterno.
Gli uomini che governano le istituzioni sono il volto delle istituzioni.
Per questo la sobrietà deve essere una nota di stile caratteristica e visibile.
Deve emergere dal tipo di linguaggio che si usa, nell’esibizione di sé, nell’esercizio del potere, nello stile di vita.
I cittadini hanno il diritto di attendersi da chi li rappresenta la correttezza di comportamento, l’esemplarità nel pubblico e nel privato.
Condotta morale e vita pubblica, nel caso di chi abbia responsabilità istituzionali, non possono essere scisse.
Non c’è un po’ di disorientamento negli uomini di Chiesa davanti a certi fatti di moralità discutibile che anche una parte della stampa cattolica stigmatizza? «Compito della Chiesa in ambito sociale non è stigmatizzare o approvare, bocciare o promuovere.
La Chiesa è al servizio del bene autentico dell’uomo, desidera accompagnare ogni uomo all’incontro con Cristo, verità e pienezza dell’umano.
Un  accompagnamento che avviene mostrando i valori cui occorre tendere, testimoniandoli e vivendoli per primi, realizzando le condizioni affinché questi valori possano essere compresi, perseguiti, vissuti.
La Chiesa, quando interviene in ambito sociale, lo fa per domandare che si realizzino le condizioni affinché questi valori fondamentali dell’uomo — che gli permettono di essere quello che è — possano essere realmente perseguiti.
Quali sono queste condizioni? «Mi spiego: se una persona non gode delle condizioni minime per sostenersi, istruirsi, mantenere la propria famiglia, come potrà realmente e pienamente vivere quei valori in cui crede? Il compito che la Chiesa è bene oggi dia alla politica non è quello di un protagonismo da “soggetto partitico” bensì quello di richiamare, incoraggiare, sostenere gli uomini politici e delle istituzioni a occuparsi del bene comune, a essere veri uomini di Stato.
Il Papa ha usato un’immagine forte per dipingere questo clima di decadenza: ha evocato la caduta dell’impero romano.
Siamo davvero a un punto così basso? «Il Papa ci aiuta e ci sprona a prendere consapevolezza del momento presente, a comprendere la realtà oltre i fatti della cronaca.
La questione decisiva non è tanto misurare quanto siamo “caduti in basso”, bensì renderci conto che la situazione è grave, c’è scarsa consapevolezza del presente, non c’è una visione adeguata dei bisogni più veri delle persone, delle realtà sociali, economiche, produttive, educative… Mancando questa visione e tensione complessiva verso il bene comune il rischio è che ciascun soggetto, singolo o comunitario, si rinchiuda in se stesso, si arrangi come può, cerchi il proprio interesse a ogni costo, anche a danno degli altri, frammentando ulteriormente il Paese».
Sente il peso di un’eredità sempre più povera, anche dal punto di vista educativo, che viene lasciata ai giovani? «C’è un punto di partenza sicuro e irrinunciabile per superare questa povertà: la famiglia, il primo e potenzialmente il più potente luogo di educazione per i più giovani.
La famiglia va sostenuta: perché i genitori possano mettere al mondo i figli che desiderano, perché possano mandarli a scuola, perché possano conciliare il tempo del lavoro con quello da dedicare alle relazioni domestiche.
La Chiesa italiana per il prossimo decennio vuole porre l’attenzione proprio sulla questione educativa».
Poco più di un anno fa, lei chiedeva un sussulto morale a Milano, un cambio di marcia per reagire alla crisi economica e alla rassegnazione.
Per dare l’esempio, ha fatto qualcosa di concreto: ha creato un Fondo per i nuovi poveri.
Come ha reagito la città? «La propensione alla solidarietà dei milanesi non è una novità.
Di nuovo oggi vedo la crescente consapevolezza che tutti siamo responsabili di tutti, che la solidarietà è un dovere morale, una questione di giustizia, un’esigenza prima che un atto di bontà.
Uno dei picchi nelle donazioni al Fondo famiglia lavoro si è avuto nei giorni vicini all’ultimo Natale, proprio in corrispondenza del periodo più duro da quando siamo nella crisi economica.
I consumi si sono contratti, le spese per i doni sono diminuite, ma le offerte al Fondo sono aumentate».
Come se lo spiega? «Perché in molti è vivo il senso di responsabilità verso chi è in difficoltà, perché molti hanno capito che aiutare chi è nel bisogno non è solo compito dello Stato, ma di ciascuno.
Attorno al Fondo famiglia lavoro si sono mosse tante persone che non si sono tirate indietro e hanno voluto fare la propria parte, dimostrandosi consapevoli che la carità e la gratuità sono ciò che fonda e assicura una vita piena, vera, buona e bella.
Dal basso, Milano ha dimostrato di essere una città solidale.
C’è una società minuta che cerca di fare il proprio dovere, nonostante tutto.
Ma non le sembra che i tanti che si impegnano scarseggino di punti di riferimento? «Non mancano le persone che conducono un’esistenza all’insegna della responsabilità, verso di sé, verso la propria famiglia e verso gli altri: a ogni livello e in ogni situazione sociale.
Quello che scarseggia è la capacità di fare rete, di fare sistema, di rendere istituzione quel senso di responsabilità verso gli altri e che corre il rischio di essere solo un’ottima qualità personale.
In questo senso è da leggere la proposta di realizzare dei cantieri sociali, come proponevo nell’ultimo discorso di sant’Ambrogio».
Si parla di ricostruire i ponti, tra chi fa buone azioni e chi ha la possibilità di amplificarne la loro portata.
Ma chi sostiene oggi le tante formichine che non si arrendono? «C’è un’Italia che ce la fa, che ha coscienza della propria identità, che ha solidi legami con il territorio, che attraverso il proprio lavoro cerca la propria realizzazione, il soddisfacimento dei propri bisogni e, al tempo stesso, vuole offrire un contributo al bene complessivo del Paese.
Mi colpisce in particolare, quanto emerge da una ricerca dell’Istituto Sturzo coordinata dal professor Mauro Magatti che sta scoprendo, identificando e studiando un’Italia generativa.
Ci sono aziende, formichine ma anche leoni, che funzionano, persone che hanno idee imprenditoriali di successo, territori attivi: solo che non sono visti, non sono compresi, non entrano nelle reti sociali.
Mettiamo in relazione tra loro le forze positive del Paese.
L’Italia ha bisogno di ripartire».
Tra i suoi messaggi verso gli ultimi, c’è stata la visita al campo rom di via Triboniano, a Milano.
Il cardinale con i piedi nel fango è un’immagine forte: gli zingari sono materia che scotta.
Perché è andato in quel bivacco? «Sono stato al campo rom di via Triboniano nell’ambito di una serie di gesti che ho compiuto nei giorni di Natale per mostrare l’impegno e l’attenzione necessari nei confronti dei più piccoli.
Ho pregato in quel campo affinché si possa giungere a condizioni di vita più umane per quei bambini e per tutti i bimbi nella nostra città.
L’integrazione è possibile grazie all’impegno di tutti, nel rispetto della legge, nella tutela dei diritti di cui ogni persona è nativamente portatrice.
Ricordo in quel campo rom l’incontro con la piccola Tsara, tetraplegica dalla nascita, accudita in una baracca, che non può avere cure adeguate perché non ha accesso alla cittadinanza.
Che colpa ha lei? La questione dei rom, come le altre questioni spinose che colpiscono le nostre città, sono da affrontare insieme, responsabilmente, con tutte le parti, per iniziare a risolverle, non per agitarle strumentalmente per catturare consensi».
«Famiglia Cristiana» ha scelto lei come l’italiano del 2010: al servizio della verità, anche se costa.
Il suo impegno nel sociale le ha portato anche critiche, dal mondo politico.
Quali attacchi le hanno fatto più male? «Quando parlo dei bisognosi, degli ultimi, degli emarginati, di chi non ha una casa, di chi ha fame, non mi preoccupo di essere accusato o incensato.
Un cristiano, un vescovo deve seguire il Vangelo.
L’unico criterio del mio agire è la fedeltà alla parola del Signore, il Vangelo.
Anche quando fare ciò è scomodo, anche quando impone un prezzo da pagare».
in “Corriere della Sera” del 13 febbraio 2011

Ecumenismo: A che punto è il cammino?

Nonostante gli innegabili successi degli ultimi 50 anni di dialogo ecumenico – ha detto il 15 novembre mons.
Kurt Koch (cardinale dal 20) aprendo l’Assemblea plenaria del 50° anniversario del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, che presiede da luglio –, «ci ritroviamo, in un certo senso, al punto di partenza del concilio Vaticano II».
Il punto oggi più critico e prioritario, so prattutto nel dialogo con le Chiese na te dalla Riforma, attiene alla questione ecclesiologica, rispetto alla quale il neo-cardinale riscontra una maggiore vicinanza, viceversa, con le Chiese or todosse (salvo quanto al tema del primato del vescovo di Roma; cf.
in questo numero a p.
34).
Ne deriva una divergenza di fondo sull’obiettivo finale del movimento ecumenico: «È inevitabile giun gere… alla conclusione che le Chiese e comunità ecclesiali nate dalla Riforma abbiano rinunciato all’obiettivo ecumenico originario di un’unità visibile e lo abbiano sostituito con il concetto di un mutuo riconoscimento come Chiese, possibile fin da oggi».
Regno-doc.
n.1, 2011, p.23 Il testo dell’articolo è disponibile in formato pdf Visualizza il testo dell’articolo

L’apprendistato per i quindicenni

Il governo intende dare, come noto, piena operatività alla norma contenuta nel Collegato lavoro alla Finanziaria 2010, che consente ai giovani di completare l’ultimo anno dell’obbligo di istruzione anche con un contratto di apprendistato.
L’opposizione in Parlamento ha votato contro conducendo una polemica serrata, e duramente contraria è stata anche la posizione assunta dalla Flc Cgil.
L’opinione pubblica che guarda a sinistra non sembra però così graniticamente schierata contro il provvedimento voluto dal governo e in particolare dal ministro del welfare Sacconi, sostenitore del valore educativo delle esperienze pratiche.  La rivista telematica Education2.0, diretta dall’ex ministro Luigi Berlinguer, ha effettuato in proposito un sondaggio tra i propri lettori, verosimilmente orientati in buona parte a sinistra, con un esito sorprendente: la più alta percentuale dei rispondenti (30%) si è espressa a favore del contratto di apprendistato, in alternativa alla frequenza scolastica, come misura idonea a prevenire la dispersione scolastica “per gli studenti più deboli e meno motivati”, mentre solo il 24% ha dato la risposta più nettamente negativa, ma anche più allineata con quella della sinistra tradizionale e della Cgil: nessuna forma di apprendistato prima dei 16 anni di età.
Un altro 28% si è invece espresso per il potenziamento di tirocini e stage per gli “studenti più deboli e meno motivati” sia pure all’interno della scuola, mentre il residuo 17% ha optato per il potenziamento dei percorsi di alternanza scuola-lavoro “per tutti gli studenti in obbligo di istruzione”.
Nel complesso, dunque, il 58% dei rispondenti si è espresso per soluzioni differenziate per le fasce deboli (30% fuori della scuola, con l’apprendistato, 28% all’interno della scuola, con tirocini e stage), mentre il 42% è rimasto fermo al tradizionale modello unitario-inclusivo.
Una spiegazione dell’esito abbastanza inaspettato del sondaggio può essere costituita dal fatto che ad esso abbiano partecipato molti insegnanti che hanno vissuto in prima persona la difficoltà di attenersi a una didattica rigorosamente indifferenziata per tutti gli studenti del biennio iniziale di scuola secondaria superiore.  tuttoscuola.com

Musulmani nel mondo in crescita esponenziale

Nei prossimi vent’anni il numero dei musulmani nel mondo potrebbe arrivare a costituire un quarto della popolazione dell’intero pianeta:  questo è uno dei principali dati della recente ricerca statistica condotta dal Pew Research Center’s Forum on Religion & Public Life di Washington, negli Stati Uniti.
Secondo lo studio intitolato “The Future of the Global Muslim Population” e pubblicato sul sito in rete del Pew nei giorni scorsi, il numero dei musulmani potrebbe incrementarsi del 35 per cento nei prossimi vent’anni, portando il totale di questa popolazione da 1,6 miliardi registrato nel 2010 a probabili 2,2 miliardi nel 2030.
Anche il tasso d’incremento della popolazione musulmana risulta, secondo l’istituto statunitense, superiore al resto della popolazione mondiale.
Mentre i non musulmani hanno una media d’incremento pari allo 0,7 per cento annuo, il gruppo dei musulmani risulta crescere a un tasso più che doppio pari allo 1,5 per cento.
Se questo livello di crescita continuerà inalterato, i musulmani costituiranno il 26,4 per cento della popolazione mondiale nell’anno 2030 calcolata in 8,3 miliardi.
Questo rende evidente il progresso rispetto ai dati disponibili del 2010 quando si è registrato che i musulmani costituiscono il 23,4 per cento della popolazione mondiale che è di 6,9 miliardi di persone.
Benché i principali dati dimostrano la crescita dei musulmani a un ritmo doppio rispetto al resto della popolazione mondiale, il rapporto del Pew sottolinea che il tasso d’incremento della popolazione musulmana è tuttavia rallentato rispetto ai periodi precedenti.
Dal 1990 al 2010 il tasso medio di crescita annuale della popolazione musulmana è stato del 2,2 per cento, quindi ben superiore alle proiezioni per il periodo 2010-2030 dove si prevede un tasso medio d’incremento dei musulmani pari all’1,5 per cento.
Ripartendo la popolazione musulmana tra le principali aree geografiche, le previsioni statistiche pubblicate dal Pew indicano che nel 2030 sei musulmani su dieci vivranno nella regione Asia-Pacifico e che il Pakistan diventerà la nazione musulmana con il maggior numero di popolazione musulmana sorpassando così l’Indonesia che attualmente detiene il primato.
Un altro sorpasso avverrà in Africa dove i musulmani che vivono in Nigeria entro il 2030 diventeranno più numerosi di quelli dell’Egitto.
In Europa, l’istituto statunitense prevede che la popolazione musulmana avrà un incremento più graduale passando dagli attuali 44,1 milioni di abitanti attuali, pari al 6 per cento della popolazione totale, a 58,2 milioni nel 2030, pari a circa l’8 per cento.
Focalizzando l’attenzione sui singoli Paesi europei, il Pew di Washington prevede che la percentuale della popolazione musulmana passerà dall’attuale 6 per cento al 10,2 per cento nel 2030.
Un incremento un poco minore è invece previsto in Francia dove la percentuale dei musulmani salirà dall’attuale 7,5 per cento al 10,3 per cento vent’anni dopo.
(©L’Osservatore Romano – 28 gennaio 2011)

Come fare memoria della Shoah

Fare memoria della Shoah per noi cristiani significa anche rileggere l’atteggiamento tenuto per due millenni verso gli ebrei e, nel contempo, essere consapevoli della svolta storica cui abbiamo assistito in questi ultimi cinquant’anni, svolta cui non è certo stata estranea la tragedia del ‘male assoluto’.
Se infatti vi è stato nei secoli un antigiudaismo cristiano teologico e pratico che, pur distinto dall’antisemitismo, di fatto ha finito per favorire il silenzio, l’indifferenza e la passività di tanti cristiani nell’ora della Shoah, dobbiamo anche ricordare l’inatteso mutamento del rapporto tra Chiesa cattolica ed ebrei sopraggiunto con Giovanni XXIII: pochi mesi dopo l’elezione a papa, interviene sul testo della liturgia del Venerdì santo, abolendo dalla preghiera l’invocazione ‘ pro perfidis judaeis ‘ che era ripresa anche in occasione del battesimo degli ebrei convertiti; poi, in vista della preparazione del Concilio da lui indetto, affida al cardinal Bea l’incarico di preparare la bozza per una dichiarazione sui rapporti tra Chiesa e popolo ebraico.
Sarà la dichiarazione conciliare Nostra aetate: autentica svolta storica e teologica, avvenuta con l’autorevolezza massima per la Chiesa cattolica, quella di un concilio.
Così recita quel documento: «Quanto è stato commesso durante la passione [di Cristo] non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo.
E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti… La Chiesa inoltre deplora gli odii, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque» ( Nostra aetate 4,28).
Sulla scia di questa dichiarazione e della nuova consapevolezza che essa manifestava, monsignor  Elchinger, seguito dal cardinal Bea, osò suggerire che i cristiani avanzassero una richiesta di perdono agli ebrei, come Paolo VI aveva chiesto perdono ai cristiani non cattolici per le colpe imputabili alla Chiesa nelle dolorose divisioni, ma neanche in quella pur propizia ora conciliare si ebbe il coraggio per un’umile confessione di colpa.
Così trascorsero quasi vent’anni dal Concilio senza novità significative, durante i quali tuttavia la svolta fu confermata e mai smentita, finché Giovanni Paolo II, testimone diretto della barbarie antisemita, il 17 novembre 1980 a Magonza pronuncia una formula inedita, anzi contraddittoria a diciannove secoli di esegesi e teologia cristiana, in cui gli ebrei sono definiti «il popolo di Dio dell’antica alleanza che non è mai stata revocata» e in cui si afferma che «ebrei e cristiani, quali figli di Abramo, sono chiamati a essere benedizione per il mondo».
Si può notare la novità e l’audacia rispetto a tutto il magistero ecclesiastico precedente: il popolo di Dio comprende sia Israele che la Chiesa (popolo di Dio dell’antica e della nuova alleanza): la teologia della ‘sostituzione’ è così abbandonata per sempre.
Sigillo alla confessione delle colpe dei cristiani nei confronti di Israele sarà la liturgia penitenziale officiata da Giovanni Paolo II e dai cardinali della curia romana in occasione del Giubileo del 2000, in cui verrà proclamato con forza: «Noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli e, chiedendoti perdono, vogliamo impegnarci in un’autentica fraternità con il popolo dell’alleanza».
Dalla prece ‘pro perfidis judaeis’ alla richiesta del perdono; dal disprezzo e dall’odio al gesto di Giovanni Paolo II che infila un biglietto, contenente la richiesta a Dio di perdono, tra le fessure del Muro del pianto, quasi a scolpire nella pietra questa invocazione.
E gesti di portata analoga sono proseguiti con Benedetto XVI: si pensi al pellegrinaggio ad Auschwitz o alla visita alla sinagoga di Roma.
Il Giorno della memoria ci ricorda allora che non siamo immuni dalla tentazione di ridestare quella logica di inimicizia che crea il nemico, o quella pretesa di possedere la verità contro l’altro o senza l’altro.
Nessun cristiano però potrà più invocare l’ignoranza a propria scusante: ciascuno è e sarà responsabile in prima persona di una conferma o di una contraddizione a questa svolta… in “Avvenire” del 26 gennaio 2011