Avvenire, il quotidiano della CEI, riporta i dati del 2007-2008 relativi al numero di studenti italiani che si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica.
“Con la crescita della presenza di studenti con cittadinanza non italiana – osserva il quotidiano cattolico – il dato totale di chi sceglie l’Irc registra una costante erosione complessiva, pur rimanendo su livelli elevatissimi”.
Nelle scuole dell’infanzia la percentuale di bambini che si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica è pari al 94,1%; nella scuola primaria è addirittura del 94,6%.
Gli studenti della secondaria di I grado se ne avvalgono nel 92,7% dei casi, ma quelli delle superiori optano, più degli altri, per soluzioni alternative, tanto che mediamente solo l’84,5% sceglie l’ora di religione (nei professionali la media scende all’82,9%).
La percentuale più bassa di studenti degli istituti superiori che scelgono religione è imputabile – secondo Avvenire – a diversi fattori, tra cui l’assenza di una vera e propria ora alternativa e un carico orario maggiore.
Sono ipotesi, queste ultime, che, a nostro avviso, dovrebbero invece rinforzare anziché indebolire la scelta della religione.
Il quotidiano cattolico, oltre a riportate in via esclusiva i dati (che non possiede nemmeno il Miur) sugli studenti che scelgono l’insegnamento della religione, raccoglie una serie di episodi dai quali si ricava un generale rapporto poco sereno dei docenti nei confronti del collega di religione, spesso vittima di pregiudizi.
Gli insegnanti denunciano, secondo Avvenire, una campagna ostile nei loro confronti.
“Contro di noi – sostengono – solo bugie; offesa la nostra dignità”.
Non sappiamo quanto davvero sia diffuso nelle scuole questo atteggiamento ostile o pregiudiziale verso gli insegnanti di religione, ma non vi è dubbio che, se davvero vi è questo poco felice rapporto, l’atteggiamento di scarsa simpatia tenderà ad aumentare nel momento in cui gli altri docenti, colpiti dalla manovra finanziaria degli organici, constateranno che i colleghi di religione, unici tra tutti, saranno esclusi da qualsiasi contrazione di posti.
Categoria: Didattica
Classe seconda – Aprile
2) Liturgia e preghiera in musica Dalle origini al gregoriano Il termine greco “leiturghia”, nella “Bibbia dei Settanta” (la più antica raccolta, in greco, di testi dell’Antico Testamento) traduce un termine ebraico che significa “culto prestato a Dio”.
La liturgia cristiana comprende tutti i mezzi della comunità per comunicare con Dio, lodarlo, lasciarsi trasformare da Lui.
È un incontro trasformante tra il Risorto, invisibile ma presente, e la sua Chiesa attraverso i Sacramenti, la preghiera comunitaria, la Messa con il rinnovarsi dell’Eucaristia.
Il Risorto dona lo Spirito, Forza di Dio per amare e vincere il male nel quotidiano…
Le origini del rapporto tra liturgia cristiana e musica risalgono all’usanza ebraica di eseguire canti durante le cerimonie religiose; tale usanza, o meglio tale esigenza di pregare con maggiore intensità e coinvolgimento popolare, venne confermata presso i primi cristiani, come già attestano alcuni passi degli “Atti degli Apostoli” e delle Lettere di San Paolo.
L’espansione del cristianesimo vide affermarsi una musica liturgica unicamente vocale, memorizzata e influenzata da tradizioni mediorientali; soprattutto l’ordine monastico benedettino avrebbe conservato gli inni più antichi, costruiti ancora in base alle teorie musicali greche secondo un sistema di otto “modi” o scale, ispirati agli antichissimi “tetracordi”.
Quando, dopo Costantino, il culto divenne più solenne, il canto non si limitò alla recitazione cantata dei Salmi biblici e ad alcuni inni che esprimevano lode e semplici sintesi della dottrina: entrò anche nelle parti delle cerimonie liturgiche dedicate alla lettura del Vangelo, per sfociare in esuberanti vocalizzi sulla parola “Alleluia” (Lodate Dio).
Così si espresse S.
Agostino ricordando momenti di musica e preghiera: «Le voci fluivano e la verità penetrava nel cuore.
Allora traboccava l’agitarsi della mia fede e scorrevano le lacrime; mi sentivo benedetto nel mio intimo».
La Chiesa, consapevole della sua missione universale, volle unificare il culto stabilendo una lingua comune, il latino; diede un vasto repertorio di libri sacri cui attingere per preghiere e meditazioni e cercò di dare a tutti i fedeli le stesse melodie con cui cantare le lodi del Signore; il canto venne delegato a cantori ben istruiti e organizzati.
Il papa S.
Gregorio Magno, monaco benedettino, fu pontefice nel 590 d.C.: fu una figura straordinaria di uomo contemporaneamente attivo e contemplativo; fondò monasteri, distribuì ai poveri i suoi beni e fu un grandissimo riformatore e coordinatore della liturgia musicale cristiana.
Nell’“Antifonarium Cento” raccolse gli inni ordinando la difficile materia della musica liturgica in forme nuove; il canto gregoriano ebbe enorme diffusione per otto secoli.
Unicamente vocale e monodico, voleva elevare l’uomo a Dio, staccandolo da ogni passione negativa; la parola era sovrana, la musica era al suo servizio per esaltarla; la leggerezza e la fusione delle voci e la solennità della melodia avevano il compito di trasportare l’uditore in una dimensione priva di spazio e tempo, che avvicinasse a Dio e lasciasse emergere la parte migliore, spirituale e interiore, della persona.
La coralità era espressione di profonda unione dei cuori, della stessa comunità Chiesa.
Nacquero i canti strofici, con variazione delle strofe del testo su una melodia sempre uguale; i canti salmodici, su testi a versi liberi in cui la prima parte di ogni frase viene ripetuta; i canti commatici, su testi liberi e i canti “a dialogo” tra celebrante e coro o fedeli (Litanie)…
Lo studio accanito dei maestri di gregoriano fece sì che si giungesse alla “musica scritta”: alla notazione “neumatica”, basata sugli accenti, si sostituì la notazione “quadrata”, che già teneva conto della durata delle note e del ritmo.
Il monaco benedettino Guido d’Arezzo (997-1050 d.C.) diffuse il primo rigo musicale (tetragramma) e sempre a lui si deve l’attribuzione dei nomi moderni alle note.
Dai tempi della prima polifonia all’epoca del Concilio Vaticano II Presso la scuola di Notre Dame di Parigi, nacquero melodie ricche e complesse…
quanto, in architettura, le cattedrali gotiche.
Le preghiere in musica invariabili della Messa rimasero nei secoli il genere più prestigioso tra le composizioni di musica sacra; la polifonia divenne sontuosa, maestosa grazie anche alla presenza di strumenti a fiato accanto all’organo, utilizzato a partire dal Medioevo come strumento liturgico per eccellenza.
In ambiente protestante luterano fiorirono i “lieder”, canti spirituali popolari in tedesco e le “cantate”, vere brevi rappresentazioni drammatiche con soli, coro e strumenti.
I grandi compositori tedeschi del periodo barocco lasciarono un patrimonio di “arte spirituale” straordinario: ricordiamo Bach! Le sue “cantate” valorizzano l’elemento narrativo attraverso brevi rappresentazioni di episodi biblici, esaltando la vocalità di solisti e coro e utilizzando un’orchestrazione molto varia.
La sua musica sacra ebbe un respiro vertiginoso, fu perfetta nell’equilibrio di ogni elemento ma quasi “popolare” nel vigore drammatico.
Egli seppe esaltare musicalmente gli elementi essenziali del cristianesimo, sintetizzandoli nel suo messaggio musicale (ricordiamo le “Passioni” secondo San Matteo e San Giovanni…).
Già dopo il Concilio di Trento (1546-63) la Chiesa cattolica aveva indicato la necessità di eliminare dalla musica liturgica un’eccessiva grandiosità che la rendeva sempre più concertistica e sempre meno spirituale; il grande Palestrina ritrovò lo spirito gregoriano utilizzando contemporaneamente le possibilità tecniche del suo tempo: ottenne melodie serene e distese, la fusione anche di cinque o sei voci, una bellezza nuovamente al servizio della preghiera.
Ancora con il “movimento ceciliano” ottocentesco della Chiesa cattolica italiana, tedesca e francese si tentò di porre un freno allo stile concertistico utilizzato in chiesa e si ebbero personalità come il direttore della Cappella Sistina, Lorenzo Perosi, sacerdote, che nelle sue “Messe” e in tutte le sue composizioni introdusse spunti “veristi” abbinati a una toccante esaltazione dei sentimenti migliori dell’uomo.
Nella tradizione della musica sacra “non liturgica” risalta l’“oratorio”, fin dai tempi del grande Haendel.
Si tratta di una specie di melodramma sacro, privo di scenografia ma estremamente coinvolgente per gli uditori.
La Costituzione del Concilio Vaticano II (grande momento di rinnovamento della Chiesa cattolica che approfondirai nel terzo anno) “Sacrosanctum Concilium” è dedicata alla musica sacra, definita “un patrimonio di inestimabile valore”; il canto sacro è “parte necessaria e integrante della liturgia” come espressione di preghiera intensa, soprattutto comunitaria, capace di far emergere ciò che, dell’animo umano, le sole parole non possono esprimere; è mezzo per arricchire di solennità i riti…
Occorrono, tuttavia, alcune condizioni: le lingue nazionali devono trovare più ampio spazio accanto al latino; è necessario il maggior coinvolgimento possibile dei fedeli nel canto, pur senza rinunciare alla ricerca di “bellezza “ nelle esecuzioni, con il supporto di maestri, cantori e strumentisti (soprattutto organisti) ben preparati.
Musica classica e nuove composizioni, opera di autori sensibili e attenti alle esigenze della liturgia, possono coesistere in momenti opportuni.
(Nella seconda parte: attività di ascolto e approfondimento inerenti specifici brani musicali) Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida Unità di Lavoro di approfondimento interdisciplinare (religione, educazione musicale).
Prima parte OSA di riferimento (Irc) Conoscenze – Conoscere e saper descrivere vari modi di interpretare il messaggio di Gesù nell’arte.
– Conoscere e saper descrivere dati, inerenti la storia della musica, di supporto allo studio sulla storia e l’“identità” della Chiesa (aspetti liturgici).
Obiettivi Formativi ipotizzabili (Irc, educazione musicale) – Conoscere e saper descrivere elementi basilari di storia della musica sacra e il loro significato religioso.
– Conoscere le “intenzioni espressive” di alcuni compositori di musica sacra.
– Dopo averli ascoltati, descrivere i messaggi spirituali di alcuni brani di musica sacra, cogliendo in modo personale il collegamento tra espressione musicale e sentimento religioso.
Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale: – Comprendere e/o utilizzare espressioni artistiche in relazione all’esperienza e alla ricerca religiosa.
Prima fase dell’attività L’insegnante di religione presenta i testi-guida unitamente all’insegnante di educazione musicale; quest’ultimo potrà approfondire alcuni aspetti tecnici riguardanti la musica sacra, mentre l’insegnante di religione approfondirà gli aspetti teologico-spirituali.
1) Il linguaggio musicale e l’esperienza umana L’arte può essere definita perfezione raggiunta in un campo, compatibilmente con i limiti umani.
Tramite il linguaggio verbale (pensiamo alla poesia) e non verbale (arti figurative, musica), l’artista “produce bellezza”, porta alla luce con la sua opera la verità del suo essere – e la verità non può che essere bella – comunicando ciò che per lui è importante condividere sul senso della vita.
Egli comunica sentimenti ed emozioni – gioia, dolore –, desideri fondamentali, addirittura convinzioni sul bene e sul male.
Ascoltando un brano di musica che ci coinvolge, aggiungiamo a quelli dell’autore i nostri sentimenti, le nostre certezze, i nostri desideri…
tutto è destato in noi dal “racconto musicale” che a un certo punto sembra raccontare tutto anche di noi.
Proviamo gioia nel ritrovarci in quella melodia, nel ritrovare descritta con le note, per esempio, una nostra grande speranza, narrato “quel” nostro sogno che ci fa battere il cuore…
La musica, come le altre arti, può facilitare la ricerca di pace e fratellanza perché esprime sentimenti, speranze e intuizioni comuni a tutti gli esseri umani, in ogni tempo.
Per questo, la musica esprime anche e soprattutto il sentimento religioso, racconta l’esperienza del rapporto con Dio: la gratitudine della creatura amata da Lui, la lode, la ricerca del suo sostegno, speranza e certezze.
La musica narra comunque e sempre la sete di Bellezza, Verità e Infinito della persona umana.
In questa sete può esistere anche inconsapevolmente la ricerca di Qualcuno a cui affidarsi.
Classe terza – Aprile
Quarta fase dell’attività L’insegnante propone agli allievi le seguenti attività.
a) Scegli la “frase d’autore” che ti convince maggiormente; motiva la tua scelta.
– «Niente vale quanto la preghiera: essa rende possibile ciò che è impossibile, facile ciò che è difficile» (S.
Giovanni Crisostomo) – «Meglio pregare con il cuore senza trovare le parole, che trovare belle parole senza metterci il cuore» (Gandhi) – «Coloro che pregano sono più utili al mondo di coloro che combattono; se il mondo va di male in peggio, è perché ci sono più guerre che preghiere!» (D.
Cortes) b) Dividetevi in i piccoli gruppi (due-tre persone) con un portavoce e inventate brevi racconti in cui compaiano esperienze di preghiera (di ascolto, domanda, intercessione, pentimento, adorazione …) che conducano al cambiamento positivo di persone e situazioni.
Il portavoce leggerà il racconto del gruppo alla classe, fornendo le dovute spiegazioni.
c) Descrivi in breve, con parole tue, le varie forme di preghiera presentate.
Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per la classe terza e Guida.
Seconda fase dell’attività L’insegnante propone agli allievi il seguente questionario, seguito da confronto e dibattito, dopo la lettura dei testi-guida della prima parte.
– Quali sono gli insegnamenti di Gesù come “Maestro di preghiera”? – In che senso il rapporto con Lui è il primo modo di pregare, per un cristiano? – Leggi la “parabola dell’amico importuno” (Lc 11,5-13) e quella della “vedova importuna” (Lc 18,2-8) – “In diretta dai Vangeli” Come deve avvenire una “preghiera di domanda”? Con quali aspettative? – Leggi “Marta e Maria” (Lc 10,38-42).
Qual è la “parte migliore” scelta da Maria? – Leggi la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14).
Perché la “preghiera di ringraziamento” del fariseo non può essere gradita a Dio? Quale atteggiamento del pubblicano ottiene invece, per lui, il perdono? Che cosa può significare “esaltarsi” e “umiliarsi”? 6) Forme di preghiera – Chiedere Talvolta pare assurdo “chiedere” a Dio: non ci conosce forse, non provvede già a noi nel modo migliore? Eppure, se Gesù “chiede” al Padre, chiedere è giusto.
Chi chiede qualcosa a Dio, si mette nelle sue mani perché ciò che è “il meglio” avvenga; esprime anche la propria disponibilità a collaborare perché ciò si realizzi.
Se ciò che a noi sembra giusto chiedere non viene concesso, certamente il meglio per noi è altro…
e ci verrà dato, perché Gesù ha detto: «Bussate, e vi sarà aperto».
La risposta potrà essere diversa da quella che ci si aspetta: sarà importante cercarla con attenzione negli incontri, negli avvenimenti.
Il cristiano convinto non sta fermo a lamentarsi, se una porta si chiude: va dietro l’angolo, dove il Signore gli ha preparato un portone da aprire.
Si può chiedere a Dio per se stessi e per gli altri, con la preghiera di intercessione che è anche una personale decisione di impegno nell’aiuto.
– Adorare e ringraziare Dio dona gratuitamente e abbondantemente, secondo i cristiani: veste addirittura i gigli del campo, rinvigorisce i fili d’erba (Lc 12,13-21).
Saper ricevere i suoi doni significa riconoscere, pieni di sollievo, di essere fragili, ma anche di essere…
in buone mani! Avvicina a Dio pensare con stupore alla sua forza e alla sua bellezza, alle meraviglie della sua creazione, riconoscere la grandezza delle sue opere…
«Oggi abbiamo parlato, ascoltato, guardato, camminato con tutta naturalezza.
Ma è difficile che abbiamo detto grazie per il dono della parola, dell’udito, della vista, della salute.
Ogni cosa che toccano le nostre mani, ogni cosa che vedono i nostri occhi, ogni oggetto raggiunto dai nostri sensi, è un dono di Dio.
In ogni cosa su cui si ferma un attimo la fantasia c’è un dono di Dio.
Ogni oggetto del mio pensiero è un dono di Dio.
Ogni battito dei miei polsi, ogni respiro dei miei polmoni…» Soprattutto, si può ringraziare Dio per le persone che ci fanno crescere, per gli avvenimenti lieti o duri che ci fanno imparare, maturare…
«Ogni volta che la bontà di Dio occupa i nostri pensieri più di quanto la occupino le nostre preoccupazioni, noi sbocciamo maggiormente alla realtà della fede.
La preghiera di ringraziamento ha proprio questo ruolo: spostare il nostro centro d’interesse da noi a Dio…» (Padre Andrea Gasparino) – Pentirsi, riconoscere gli errori, rivedere la propria vita mettendocela tutta, con l’aiuto di Dio, per sconfiggere l’egoismo con le sue schiavitù, i “lati oscuri”…
7) Ascolto e Bibbia «La pretesa che Dio ci ascolti cresce con l’età; Dio deve ascoltare le nostre delusioni, i nostri tradimenti, le offese ricevute e quelle restituite, la paura di diventare grandi, l’emozione di esperienze nuove e tutto ciò che il nostro cuore è capace di contenere.
Pregare, però, non è solo rivolgersi a Gesù per affidargli tutti i nostri guai; è vero, il Signore ascolta e accoglie ogni secondo della nostra vita.
Ma chi prega è soprattutto l’amico a cui Dio vuole parlare: secondo i cristiani, Egli chiede il nostro ascolto soprattutto; non vuole solo la preghiera del “Signore, girati qui che ti devo parlare”, ma anche quella di Samuele il profeta: “Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta” (a cura dell’Azione Cattolica Ragazzi, Marta e Maria, Ed Ave, p.
28, Collana “Il seme della Parola”) I cristiani chiedono a Dio: “Che cosa vuoi che faccia?” Essi sentono che soltanto chi ci ha voluti vivi e ci conosce perfettamente potrà svelarci il nostro mistero di persone, quali siano per ciascuno il bene e il male, quale compito portato a termine ci farà gustare il sapore dell’esistenza.
Qual è la sua volontà per ciascuno di noi? La preghiera di ascolto è il tentativo del cristiano di fare silenzio in sé…
per lasciar parlare Lui.
«Nella preghiera porto tutta la mia realtà di cattiveria e di bontà, di superficialità e di profondità e questo lo dico al Signore, lo faccio presente, lo accetto.
Allora sono “vero” di fronte a lui e divento discepolo, gli faccio spazio.
Vedo poi i fratelli in modo diverso, gli antipatici in modo diverso.
Non vuol dire che cambierò subito…
Vuol dire che comincerà a insinuarsi in me lo Spirito del Signore, che è spirito di pacificazione, amore, servizio…
Continuando e perseverando nel cammino di preghiera, le idee si fanno chiare e si agisce in modo diverso» (Padre F.
Peyron).
Ponendosi in un atteggiamento di ascolto, si potrà leggere la Sacra Scrittura mettendo da parte le proprie idee e le proprie emozioni, facendo tacere l’Io in uno spazio di silenzio che Dio possa riempire.
Dio non ci chiede di essere nuovi Mosé, ma di diventare noi stessi, affrontando il “nostro” Esodo.
Pregare con la Bibbia e in particolare con i Vangeli, per il cristiano, significa lasciarsi interpellare personalmente dalla Parola.
Guidato da Sacerdoti e da libri e “veicoli” che possano aiutare a comprendere il significato fondamentale dei testi, il cristiano cerca di comprendere il messaggio della Parola “per lui” in particolare, ponendosi di fronte a Gesù come gli Apostoli, i miracolati, il popolo che lo ascoltava e lo seguiva…
Terza fase dell’attività L’insegnante presenta i seguenti testi-guida.
8) Le conseguenze della preghiera Pregare significa dunque coltivare una “vita interiore”, mirando a un rapporto personale con Dio, mantenendo aperto un “canale interiore” di comunicazione con Lui.
Come un atleta che si allena sistematicamente, la persona che coltiva la preghiera con costanza ottiene dei risultati: – il suo “orecchio interiore” avverte la Presenza di Dio, i suoi consigli che orientano la vita, la sua tenerezza che riempie la solitudine e consola; – si abitua a essere sincera e senza maschere di fronte al Dio con cui non si può mentire; più facilmente lo sarà anche con gli altri.
– impara ad affrontare situazioni, rapporti, difficoltà ponendosi “dal punto di vista di Dio”: in quest’ottica, la vita è un’avventura sensata ed entusiasmante, inserita in un grande Progetto; – di fronte alle difficoltà, riceve forza e le affronta con coraggio; – il rapporto con Dio-Amore insegna soprattutto…
a mettere l’amore al primo posto.
5) Giovani voci tra disimpegno e nostalgia Gloria: «Studio tutto il giorno e alla sera sono stanca morta.
Non ho certo voglia di pregare…
ma poi, per pregare bisognerebbe trovare il posto giusto, il momento giusto…» Giovanna: «Al mattino sono sempre di corsa.
Faccio fatica ad alzarmi e ad arrivare puntuale a scuola…
E poi per pregare bisognerebbe ripensare tutto il mio rapporto con Dio, che oggi è il grande assente della mia vita, anche se una volta o l’altra dovrò pensarci».
«Non trovare il momento giusto» indica in realtà la tendenza a rimandare…
la propria crescita; a non prendere in mano la propria vita decidendo sulle «cose importanti» e dirigendola verso una meta.
Pino: «A volte si sente un gran bisogno di pregare.
Quasi sempre per chiedere, non tanto per lodare o ringraziare Dio.
Ma si deve pregare per conservare la fede…
Chi non prega rischia di perdere la fede.» Daniele: «Fino a qualche anno fa i miei mi trascinavano in chiesa contro voglia.
E guardavo quella gente che pregava senz’anima.
Ripeteva formule, canti, si alzava e si sedeva…
ma non vedevo nel volto di nessuno la gioia di incontrarsi con Dio.
Adesso non prego più, ma se dovessi tornare a pregare, vorrei che prendesse tutta la mia vita».
Pino e Daniele si sono «persi per strada», ma hanno nostalgia di una preghiera sincera e autentica, che trasformi realmente l’esistenza.
(Esperienze in Dossier Adolescenti «Ma perché pregare?», U.
De Vanna, Ed Elledici, pp.
2-3) Unità di Lavoro-Riflessione sull’esperienza, con approfondimenti biblici e teologici Seconda parte OSA di riferimento Conoscenze – La fede, alleanza tra Dio e l’uomo, vocazione e progetto di vita.
– Gesù, via, verità e vita per l’umanità.
Abilità – Riconoscere le dimensioni fondamentali dell’esperienza di fede.
– Individuare l’originalità della speranza cristiana.
Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e saper descrivere aspetti vari della preghiera cristiana.
– Conoscere e saper descrivere l’azione trasformante della preghiera secondo i credenti.
– Conoscere e saper spiegare il significato essenziale di alcuni passi biblici riguardanti la preghiera.
– Elaborare e saper esprimere opinioni personali motivate inerenti l’importanza della preghiera nell’esperienza umana.
Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale – Consolidare o almeno avviare percorsi di introspezione, in vista di una sempre più approfondita conoscenza di sé e dello sviluppo di opinioni personali.
– Prendere in considerazione il progetto di vita cristiano e la visione cristiana dell’esistenza.
– Possedere essenziali conoscenze bibliche e dottrinali inerenti il cristianesimo.
C’è bisogno di maestri, non di facilitatori
Giorgio Israel, ordinario di matematica alla Sapienza di Roma, intervenendo al IX Forum del Progetto culturale dedicato all’emergenza educativa, ha messo a nudo il ruolo e la figura attuale dell’insegnante nel suo rapporto umano con gli alunni.
Vi è una concezione del ruolo del docente, secondo Israel, che “sembra volerli trasformare sempre più in facilitatori, in animatori culturali, quasi non si avesse più bisogno di maestri, di testimoni della società in cui i giovani stessi si apprestano ad entrare”.
La scuola non sembra essere consapevole del rischio di una visione meccanicistica dell’apprendimento.
L’intervento del prof.
Israel assume maggiore rilievo in considerazione del fatto che egli è coordinatore del gruppo di lavoro costituito con decreto 30 luglio 2008 dal ministro Gelmini per definire requisiti e modalità per la formazione iniziale del personale docente delle istituzioni scolastiche, l’attività procedurale per il suo reclutamento, nonché per definire gli ordinamenti didattici universitari per la formazione degli insegnanti.
Nel documento generale del gruppo, emerge il pensiero del prof.
Israel laddove si afferma che “il futuro insegnante, oltre a possedere sicure e imprescindibili conoscenze delle discipline da insegnare, deve avere l’opportunità di riflettere sulle modalità di trasmissione delle conoscenze e di acquisizione delle competenze e sulle complesse e articolate problematiche della mediazione didattica.
La sua formazione socio-psico-pedagogica deve renderlo capace di orientarsi nelle diverse fasce di età e permettergli di operare al meglio sia nell’ambito dei problemi legati alle relazioni interpersonali a scuola (lavoro di gruppo, rapporti tra studenti, rapporti con le famiglie, ecc.) sia all’individuazione delle modalità educative (motivazioni allo studio, partecipazione, ecc.) adeguate a promuovere il successo didattico”.
tuttoscuola.com
Un primo quadro di sintesi sulla situazione della scuola
Il decreto conferma la cancellazione dei 42.102 posti previsti dal Piano programmatico, ripartiti in 31.485 unità in meno in organico di diritto, 5.616 posti in meno di seconda lingua comunitaria nella scuola secondaria di primo grado, e 5.001 posti in meno in sede di definizione degli organici di fatto.
Sul fronte delle istituzioni scolastiche, risultano 245 autonomie scolastiche soppresse.
La scuola dell’infanzia non subisce nessun ridimensionamento, vedendo integralmente confermati tanto gli organici, quanto i 610 posti relativi agli anticipi; l’organico della primaria diminuisce di 9.969 unità, ma trova la conferma dei 2.550 posti assegnati per effetto degli anticipi; la secondaria di primo grado subisce i tagli più cospicui, 15.542 posti in meno, derivanti dalla somma di 9.926 docenti in meno in organico, cui si aggiungono i già menzionati 5.616 posti di per la seconda lingua comunitaria; infine, sono 11.347 i posti in meno nella secondaria di secondo grado.
L’organico di sostegno viene confermato in 90.469 posti complessivi e si prevede che l’organico di diritto venga incrementato di nuovi 4.882 posti per l’anno scolastico 2009/2010 e di altri 4.885 nel 2010/2011.
Nel 2009/2010 le autonomie scolastiche saranno 245 in meno rispetto ad oggi.
75 istituzioni scolastiche saranno soppresse nella sola Calabria, 33 in Sardegna e 23 in Sicilia.
Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Marche e Puglia non registreranno invece nessun taglio di posti di dirigenti e di DSGA.
Questo un primo quadro di sintesi.
Tuttoscuola approfondirà in giornata i contenuti piuttosto complessi dei documenti fin da ora all’attenzione di tutti i lettori, e li riprenderà con commenti nelle tradizionali newsletter TuttoscuolaNEWS e TuttoscuolaFOCUS del fine settimana.
tuttoscuola.com I siti della Cisl Scuola e della Flc Cgil pubblicano da ieri sera i provvedimenti del Miur relativi alla determinazione della dotazione organica di diritto del personale docente.
Sono: 1) la Circolare n.
38 del 2 aprile 2009 relativa alla trasmissione dello schema di decreto interministeriale – organici per l’anno scolastico 2009/2010; 2) lo Schema di Decreto interministriale e tabelle allegate contenenti gli organici del personale docente per l’anno scolastico 2009/10; 3) il Decreto ministeriale n.
37 del 26 marzo 2009 relativo alle nuove classi di abilitazione e alla composizione delle cattedre della scuola secondaria di I grado.
L’ultima pagina delle tabelle dello schema di decreto riepiloga come si sia arrivati alle “riduzioni di posti da operare in organico di diritto e di fatto con interventi strutturali sulla formazione delle classi e sulle dotazioni organiche”.
Rappresentazione sociale dell’infanzia in TV
1.
Introduzione Il processo di tutela del minore include le conoscenze, le idee, le credenze socialmente condivise che concorrono alla costruzione di una realtà comune in un insieme sociale (Jodelet, 1992).
Le rappresentazioni sociali, con la duplice funzione di organizzare la percezione del mondo e di servire da codice condiviso per la comunicazione sociale, possono portare spesso alla creazione di un’immagine non reale, distorta, dell’infanzia, anche perché frutto di schemi culturalmente condivisi, lontani, il più delle volte dalla realtà.
La complessità della formazione delle credenze e la profondità delle ragioni sociali della loro organizzazione escludono che se ne possa attribuire l’origine a una sola causa (Chombart de Lauwe, 1989).
Le rappresentazioni sociali sono costruzioni mentali di cui ci serviamo per comprendere gli eventi del mondo: per «ordinare» le esperienze.
Nella nascita di una nuova rappresentazione sociale, di un nuovo oggetto condiviso tra gli attori sociali, quel che assume importanza è il successo cognitivo di un emergente modo di vedere la realtà.
Per misurare il successo cognitivo di una nuova rappresentazione, la modalità più semplice e immediata è la misura della sua diffusione nella collettività: si parla di opinioni quando le rappresentazioni non superano la dimensione della soggettività; di atteggiamenti quando le rappresentazioni vengono assunte come proprie da un gruppo sociale; di stereotipi quando esse giungono alla collettività (Moscovici, 2005).
C’è un equilibrio non definitivo tra stabilità, irrigidimento e cambiamento delle rappresentazioni.
La rappresentazione però è chiaramente visibile solo dall’esterno, in quanto i soggetti che la condividono agiscono all’interno di essa e ne sono «dominati».
Arruda (2003) sostiene che una rappresentazione sociale è costituita da ragione ed emozione; è un processo attraverso il quale si associa la memoria con l’aspirazione ed esprime sia la nostra curiosità che la nostra ambizione; qualcosa in divenire, che si basa sia sul bagaglio culturale, accumulato da chi la produce, che sulle influenze esterne.
Tutti i ricercatori che si sono occupati di questo argomento hanno messo in evidenza che la rappresentazione di qualcosa è anche la rappresentazione di chi le dà vita (Bijmolt, Claasen e Brus, 1998).
Da un punto di vista strettamente metodologico, questo significa che il «costruttore di rappresentazioni» basa la sua costruzione su tutta una serie di simbolismi ed esperienze di vita, che provvedono alla creazione della sua interpretazione del mondo (Brucks, Armstrong e Goldberg, 1988; Buijzen e Valkenburg, 2003).
La condivisione che alimenta la rappresentazione sociale è causa ed effetto sia della sua vitalità che del suo cambiamento.
Il passaggio del nuovo oggetto «rappresentato» attraverso i singoli soggetti è fonte infatti di trasformazioni che infinitamente piccole all’inizio del processo, cresceranno attraverso i molteplici legami sociali con esiti mano a mano di coesistenza di barriere e limitazioni che insieme vanno a costruire un nuovo equilibrio (Moscovici e Farr, 1984).
L’ipotesi che le rappresentazioni sociali siano presenti nei mezzi di comunicazione di massa è condivisa da molti studiosi.
Sembra che in televisione si proponga una sorta di simulazione delle interazioni socialmente fondate presenti nella vita quotidiana.
È come se si vivesse in un ambiente in cui i soggetti scelti (casalinghe, bambini ecc.), si facciano di volta in volta sostenitori di credenze al posto degli spettatori, facendosi portatori delle rappresentazioni sociali moderne (Buijzen e Valkenburg, 2000; D’Alessio e Laghi, 2006).
Lo sforzo dei media è quello di agire come se fosse possibile farsi capire da tutti allo stesso modo (D’Alessio, Laghi e Froio, 2007).
Di fatto quel che succede all’interno dei programmi televisivi, non è altro che il tentativo di alimentare un serbatoio di senso comune in cui si propongono di volta in volta modelli «giovanili», «familiari», «infantili», «femminili» e così via: rappresentazioni a loro volta condivise o meglio, condivisibili (Atoum e Al-Simadi, 2000).
Lo slittamento tra condiviso e condivisibile è lo spazio che, privo dell’esperienza personale, della luce dei valori sociali, realizza spesso il più famoso «salto nel buio».
Quei modelli si cristallizzano come null’altro che luoghi comuni, perché si trovano rappresentati in un contesto in cui sono privi di esperienza «reale» e sono presentati in un’esperienza «mediatica» che non è oggettiva, e, al contrario, produce un argomento di uso corrente e per questo, dozzinale.
I bambini, spesso considerati poco competenti, o addirittura «adultizzati», non vengono quasi mai considerati spettatori da tutelare, essendo inseriti nella categoria “pubblico” (D’Alessio, 1990; Miljeteig, 1994).
Le ricerche svolte (D’Alessio, 2003; D’Alessio, Baiocco e Laghi, 2007) mettono in evidenza, inoltre, due atteggiamenti fondamentali dei telespettatori: 1) insoddisfazione e scetticismo sulla qualità dei programmi televisivi; 2) incapacità a riconoscere gli atteggiamenti e i comportamenti a rischio per l’infanzia all’interno dei programmi.
Anche genitori consapevoli, iscritti ad associazioni di telespettatori, hanno difficoltà a riconoscere l’ammiccamento sessuale, la volgarità, la rozzezza, la manipolazione dell’infanzia.
Nessuna trasmissione, in particolare quelle che contengono bambini, annuncia un intento di manipolazione, disconferma, frustrazione e mancanza di rispetto (Buckingham, 1997).
Così il telespettatore non potendo tornare indietro, rivedere, confrontare ed esaminare va avanti con la visione ricevendo alla fine al massimo un sentimento di frustrazione e di disagio.
Questi sentimenti sono difficili da elaborare perché richiedono un costante distacco da quanto è trasmesso.
Il più delle volte il telespettatore è spinto dalle caratteristiche del mezzo a partecipare.
L’interazione di questi fattori può portare spesso, nello specifico, a una immagine del bambino determinata da stereotipi, credenze e opinioni anche fortemente in contrasto tra loro.
Può accadere che i bambini siano giudicati poco competenti (Qvortrup, 1990; Archard, 1993; D’Alessio, Laghi e Baiocco, 2007), piccoli e tuttavia messi in situazioni ambigue e difficili da interpretare e gestire.
Inoltre, tali convinzioni non sono costruite su base oggettiva, ma ideologica: la rappresentazione sociale dell’infanzia è in buona parte frutto di schemi culturalmente condivisi, spesso lontani dall’effettiva realtà, risultato di processi culturali, sociali e economici che hanno dato origine a modelli di allevamento del bambino che si sono alternati e sovrapposti nel corso della storia dell’umanità (Casas, 1997).
Tali schemi sono poco sensibili all’esperienza, ma spesso a essa precedenti (pregiudizi).
Anche la legge e i codici non aiutano il monitoraggio televisivo.
È vero che essi lo prevedono ma sulla base di segnalazioni: le autorità interpretano il loro ruolo come arbitri delle segnalazioni che il telespettatore dovrebbe far notare.
1.1.
Obiettivi della ricerca La ricerca ha l’obiettivo di esplorare le rappresentazioni sociali di avvocati, giudici, genitori, ecclesiastici e insegnanti in relazione alla tutela del minore rispetto alla programmazione televisiva e agli spot pubblicitari.
Sono state scelte categorie di soggetti in cui l’elaborazione della “norma” non è un caso, ma piuttosto l’obiettivo della professione: gli avvocati e i giudici, rappresentativi di come i soggetti si rapportano con la “norma giuridica”; gli ecclesiastici con la “norma ideologica” e i genitori e gli insegnanti con la “norma socio-educativa”.
L’obiettivo principale della presente ricerca è indagare le rappresentazioni sociali di categorie di soggetti che si trovano ad elaborare una linea di condotta che collega il modello ideale dell’ infanzia con i comportamenti e le esperienze quotidiane e verificare come essi risolvano il problema della norma e della rappresentazione individuale in termini di concordanza/discordanza tra norma reale e ideale.
Ci proponiamo, inoltre, di verificare se avvocati, giudici ed ecclesiastici con differenti anni di servizio e con un diverso livello di competenza riguardo al Codice di autoregolamentazione Tv e minori (2002) e alla recente Legge Gasparri (2004) abbiano una rappresentazione condivisa della televisione e dei modelli cognitivi e affettivi proposti.
2.
Metodo e tecniche 2.1.
Soggetti e procedura La ricerca è stata condotta su un campione totale di 614 soggetti: 214 avvocati (M=124 e F=90), 100 giudici (M=70 e F=30), 100 ecclesiastici (M=60 e F=40) impegnati in attività di catechesi per bambini, 100 genitori (M=45 e F=55) con figli di età compresa tra gli otto e i dieci anni e 100 insegnanti di scuola elementare (M=25 e F=75), con un’età media di 35,6 (ds=0.84).
A tutti i soggetti è stata somministrato il questionario La TV e l’infanzia; la durata media di ogni somministrazione è stata di 35 minuti.
2.2.
Descrizione dello strumento Lo strumento di indagine, La TV e l’infanzia (D’Alessio e Laghi, 2006), è un questionario costituito da: A.
21 item con scala Likert a 5 passi (da1= Per nulla a 5= Moltissimo) che misurano: a) la valutazione dell’utilità o del danno per i bambini che partecipano alle trasmissioni e per quelli che guardano la TV a casa; b) la rappresentazione sociale del bambino protagonista o destinatario delle trasmissioni; c) la presenza di contenuti espliciti (sesso, violenza, volgarità) nella fascia oraria protetta di programmazione televisiva; d) la rappresentazione e la complessità dei sentimenti infantili e delle competenze cognitive infantili in relazione agli spot pubblicitari; B.
due stralci in versione cartacea di programmi televisivi per bambini: “Genius”, condotto da Mike Buongiorno, e “Chi ha incastrato Peter Pan” condotto da Paolo Bonolis; C.
8 domande aperte che consentono di valutare: a) la capacità del soggetto di riconoscere le dimensioni stereotipiche all’interno dei programmi presentati; b) la capacità di individuare la presenza di contenuti televisivi nocivi per i bambini; c) la consapevolezza e il grado di conoscenza del Codice di autoregolamentazione in materia di tutela del minore e della sua immagine.
2.3.
Metodologia statistica utilizzata Le elaborazioni statistiche effettuate sono state eseguite con il pacchetto statistico SPSS 11.0 per Windows, calcolando i parametri di statistica descrittiva Curtosi e Asimmetria e il Coefficiente di Variazione per verificare il carattere gaussiano della distribuzione dei dati.
La struttura fattoriale della prima sezione del questionario (item 1-21) è stata indagata mediante l’Analisi delle Componenti Principali (ACP) e la rotazione Oblimin degli assi fattoriali.
L’attendibilità delle dimensioni emerse dall’ACP è stata verificata mediante il coefficiente Alfa di Cronbach.
Per verificare la presenza di differenze statisticamente significative ai punteggi medi delle diverse dimensioni della scala, è stata condotta un’Analisi della Varianza Multivariata (con metodo Wilks di Lambda) considerando come variabile indipendente il gruppo (avvocati, giudici, ecclesiastici, insegnanti e genitori) e come variabili dipendenti i punteggi alle singole sottodimensioni della scala.
Per verificare la presenza di differenze statisticamente significative tra i giudici e avvocati con diversa anzianità di servizio e livello di competenza ai punteggi medi delle diverse dimensioni della scala, è stato computato un disegno di analisi della varianza fattoriale 2x3x2.
Le risposte alle domande aperte sono state indagate mediante il programma NUDIST VIVO; sono state individuate in ogni singolo item delle unità di analisi definibili come simboli-chiave caratterizzati da pregnanza semantica e in seguito sono state calcolate le frequenze differenziate per categoria (avvocati, giudici, genitori e insegnanti).
Dopo aver individuato le categorie è stata verificata la concordanza tra giudici con la statistica Kappa, utilizzata per valutare l’accordo tra siglatori con variabili categoriali.
Tale statistica è stata applicata alle assegnazioni fatte da tre valutatori al fine di individuare l’eventuale accordo o disaccordo nell’attribuire ogni aspetto caratteristico a una determinata categoria oppure no.
Per verificare le differenze tra i gruppi rispetto alle variabili categoriali emerse dall’analisi del contenuto sono state computate analisi del Chi2.
3.
Risultati 3.1.
Analisi delle Componenti Principali La matrice di correlazione relativa ai primi 21 quesiti del questionario è stata sottoposta ad analisi fattoriale mediante l’Analisi delle Componenti Principali (ACP) al fine di individuare eventuali dimensioni latenti.
La misura dell’adeguatezza (indice di Kaiser) della matrice di correlazione è .86; la matrice può quindi ritenersi appropriata per l’analisi fattoriale.
Successivamente all’analisi dello scree test e a considerazioni di natura teorica, è stato deciso di estrarre cinque fattori che spiegano il 59,44 % della varianza totale.
Numerose prove con diversi algoritmi di estrazione e rotazione, hanno evidenziato una struttura fattoriale stabile; poiché alcuni fattori estratti mostrano tra loro una correlazione si è deciso di applicare la rotazione obliqua Oblimin.
La struttura fattoriale evidenziata coincide con la definizione operativa che si è fornita per le dimensioni indagate: gli item afferenti a ognuna delle cinque dimensioni hanno infatti (nella maggioranza dei casi) una saturazione elevata su un unico fattore e saturazioni vicino allo zero sugli altri fattori (Tab.
1).
per la consultazione dei dati vedi allegato La rappresentazione sociale dell’infanzia in TVi risultati della ricerca Lo studio indaga le rappresentazioni sociali dell’infanzia in TV.
La ricerca si è svolta su un campione di 614 soggetti (214 avvocati, 100 giudici, 100 ecclesiastici, 100 insegnanti e 100 genitori).
Metodo: lo strumento utilizzato indaga la rappresentazione sociale del bambino protagonista o destinatario delle trasmissioni e degli spot pubblicitari.
Risultati: sono state riscontrate differenze statisticamente significative tra i gruppi ai punteggi medi delle dimensioni Carattere educativo dei programmi, Contenuto degli spot inadatti ai bambini, Accordo sulla presenza dei bambini negli spot.
Sono emerse differenze anche tra avvocati e giudici differenziati in base al livello di competenza e all’anzianità di servizio.
Conclusioni: i risultati emersi suggeriscono la necessità di approfondire la relazione tra le diverse variabili implicate nella rappresentazione sociale dell’infanzia nei programmi televisivi e negli spot pubblicitari.
Numeri e fede/8: Senza assoluto la scienza dove va?
Esordiamo con la domanda di rito: ma è proprio vero che solo un ateo può divenire un buon matematico? Nel corso dell’inchiesta sulla compatibilità tra scienza e fede, Avvenire intervista il professor Alberto Strumia, ordinario di Fisica matematica all’Università di Bari e docente incaricato di Teologia fondamentale alla Facoltà teologica dell’Emilia Romagna.
«Non sono io ma la storia a rispondere di no.
L’elenco dei grandi matematici credenti (e in particolare cattolici) è ben più lungo di quello dei matematici dichiaratamente avversi alla fede.
Ma non mi sembra questo il punto decisivo.
Vorrei quasi capovolgere la domanda, spingendola più avanti.
È possibile alla matematica, e in generale alla scienza, proseguire oggi il proprio cammino senza un “fondamento” assoluto, comunque lo si voglia chiamare? Ai tempi di san Tommaso d’Aquino (XIII secolo) non si aveva timore di chiamare il fondamento ultimo con il suo nome universale che è “Dio”.
Oggi si è molto più condizionati ideologicamente e non si usa volentieri questo nome, ma il problema dei ‘ fondamenti’ della matematica, e più in generale della scienza, rimane la grande questione».
L’intervista al professor Alberto Strumia, Non è una questione filosofica più che scientifica? «Sì e no.
No, perché, si tratta di un problema “interno” alla scienza e non di una sorta di aggiunta che i filosofi, o i teologi, vogliono imporle dall’esterno.
Può la matematica e tutta la scienza, decidere da sola se è nella verità, essere “completa” ( il problema del matematico David Hilbert) oppure ha bisogno di un fondamento assoluto? E di questo fondamento si può sapere qualcosa, e come? Senza un fondamento assoluto – non arbitrario – anche la matematica e la scienza finiscono per cadere nel relativismo della cultura di oggi ( additato da Benedetto XVI come il grande problema del mondo contemporaneo) in cui tutto è opinione e niente è verità sicura, neppure il classico 2+ 2 fa 4.
Kurt Gödel, uno dei più grandi logici matematici del XX secolo – proprio lui che aveva dimostrato nel 1931, con il suo teorema più famoso, che la matematica non è “completa” come invece sperava Hilbert – sosteneva che devono esserci addirittura delle proposizioni matematiche che sono valide in senso assoluto, senza alcuna ipotesi ulteriore.
Proposizioni cosiffatte devono esistere, perché altrimenti non esisterebbero neppure i teoremi ipotetici’.
Questa è la sfida di oggi: la questione dei fondamenti.
Perché evitarla e procedere come se non ci fosse il problema, lasciando che la “macchina scientifica” vada avanti con la ‘ benzina’ che ha ancora nel serbatoio, ma che prima o poi finirà? O, peggio ancora, consegnando la scienza alla strumentalizzazione da parte dei grandi poteri e dell’ideologia, che impongono un’etica sempre meno umana?» E invece in che senso si tratta di una questione anche filosofica? «È anche una questione filosofica nel senso che ormai la matematica non è più solo una teoria dei numeri come un tempo, ma ad esempio con la teoria degli insiemi è diventata una teoria che si occupa di ‘ oggetti’ qualunque ( quelli che i filosofi chiamano ‘ enti’) che non sono per forza solo i numeri.
Certo il passaggio dagli “insiemi” agli “enti” nel senso pieno del termine richiede un lavoro ulteriore, ma è sempre più vicino e indispensabile.
Oggi sono gli ingegneri che lavorano con i computer a parlare di “ontologia formale”! Si cerca di mettere a punto una “teoria degli enti”, quella che i filosofi chiamano una metafisica, elaborata con gli strumenti della logica matematica odierna.
E questo per far funzionare il computer e non per fare teologia! Ma forse un giorno questo lavoro darà frutti utili anche ai teologi… Però gli studi teologici dovranno recuperare un po’ più di teologia sistematica e non limitarsi alle opinioni degli autori contemporanei».
La questione è essenziale per tutti, oltre che per gli specialisti? «Forse fino a una quindicina di anni fa si poteva anche pensare che la questione dei fondamenti non avesse a che fare con la vita di tutti i giorni e dei non specialisti.
Oggi le cose cominciano a mostrare proprio il contrario.
Pensiamo, ad esempio, alla difficoltà di stabilire che cosa sono i diritti della persona umana.
Senza la base di una “metafisica” che abbia rigore scientifico, cioè sia riconoscibile da tutti come valida, che fondi quella che un tempo era chiamata la “legge morale naturale”, non c’è speranza di mettersi d’accordo per varare una normativa che non sia frutto di un’operazione di potere di una parte dominante su un’altra, o almeno di un condizionamento culturale e ideologico.
E questo vale su scala locale, nazionale e internazionale.
La stessa democrazia, oggi, fatica a darsi delle regole condivise e non basta fare un referendum per stabilire se una norma è per l’uomo o è contro l’uomo.
Ormai si vede bene che i vecchi meccanismi cominciano a incepparsi e la vita diventa sempre meno vivibile per i singoli e per la società civile.
Perfino la finanza e l’economia di mercato, che sembravano inattaccabili, entrano in crisi».
Ma come si fa ad orientarsi in una questione così difficile come quella dei fondamenti? «C’è molto da imparare, oltre che dai geni più vicini a noi, anche dai grandi geni del passato.
Tra gli antichi Aristotele e Tommaso d’Aquino, e i moderni Cantor e Gödel ci sono molti più punti d’incontro di quanto si possa immaginare» .
Il disegno complessivo del Governo e del Ministro Gelmini
Credo che l’editoriale di questo numero di OP sia quasi scontato e che si debba concentrare sui cosiddetti «decreti Gelmini».
Sarebbe, però, riduttivo limitarsi solo a queste misure che, tra l’altro, non sono una riforma ma solo una razionalizzazione dell’esistente, promossa peraltro anche dall’intero governo di cui il ministro Gelmini fa parte; pertanto, farò riferimento a tutto il disegno complessivo del Governo e del Ministro, stando anche a quello che emerge dalle sue dichiarazioni programmatiche del 10 giugno del 2008.
Trattandosi di un editoriale mi concentrerò sulle problema-tiche essenziali, rimanendo nei limiti dello spazio a esso concesso nella nostra rivista.
Nel suo intervento programmatico, il Ministro correttamente richiamava tutti a superare vi-sioni ideologiche contrapposte, a lasciare lo scontro politico fuori della scuola, ad adottare soluzioni condivise.
Al contrario ci si dovrebbe far guidare dal pragmatismo e puntare sulla buona ammini-strazione e sul buon governo.
L’invito a una politica della scuola «bipartisan» e al buon senso è senz’alto giusto perché è in gioco il futuro della nostra gioventù, la risorsa più importante del Paese; sfortunatamente il Ministro sembra averlo dimenticato appena qualche mese dopo, proprio in occa-sione dell’approvazione delle misure estive sulla scuola, anche se non si può ignorare che l’opposizione non è stata da meno e ha preferito il muro contro muro.
Un clima più “bipartisan” si è creato nell’iter di approvazione delle misure sull’università, anche se è intervenuto dopo un periodo di grandi manifestazioni di piazza e di violenta contestazione: in questo caso diversi emendamenti dell’opposizione sono stati accolti, sebbene il suo voto finale sia stato negativo perché il provvedi-mento è stato giudicato manchevole e minimale, mentre la Conferenza dei Rettori, Crui, ne ha ap-prezzato gli elementi di positività.
Sul merito del testo ricordo le disposizioni volte a colpire la fi-nanza allegra di università che spendono troppo e male, ma anche a premiare le università virtuose, quelle mirate a colpire i «baroni» che non producono lavori scientifici e quelle finalizzate ad aiutare gli studenti veramente meritevoli con borse di studio e alloggi più numerosi..
A parere della Gelmini – e non lo si può contestare – il sistema educativo di istruzione e di formazione si presenta mediocre nei risultati, un sistema in cui sembra tramontata la cultura del me-rito e che ha assunto sotto molto aspetti le caratteristiche di ammortizzatore sociale.
Due logiche perverse hanno alimentato questa situazione: per favorire gli studenti si è ritenuto opportuno abbas-sare il livello della qualità dei processi di apprendimento-insegnamento e si è creduto che una mag-giore sicurezza potesse consentire di pagare poco i docenti e potesse compensare lo scadimento del loro ruolo e dello loro status senza tenere presente che uno Stato che retribuisce malamente i suoi insegnanti, non può esigere molto da loro in termini di qualità dell’educazione offerta.
Come il Ministro ha affermato nelle dichiarazioni programmatiche, queste derive pericolose vanno ribaltate, puntando alla rivalutazione delle funzioni degli insegnanti, a iniziare dal completo riconoscimento della loro condizione professionale.
Questo tra l’altro richiede l’identificazione di nuove risorse attraverso uno sforzo di riqualificazione della spesa pubblica che, non bisogna dimen-ticarlo, si pone in un contesto di gravi difficoltà economiche e finanziarie.
Inevitabilmente il Ministro ha collegato i suoi interventi al piano triennale di contenimento delle spese promosso dal suo governo.
Non si può neppure ignorare che il rapporto insegnan-ti/alunni che si riscontra in Italia è uno dei più bassi in Europa, cioè è evidente l’eccedenza di do-centi rispetto al corpo studentesco: pertanto, dal punto di vista del Ministro la riduzione degli inse-gnanti deve essere considerata come un allineamento del rapporto docenti/studenti alle medie euro-pee in modo da salvare risorse da impiegare al servizio di una più elevata qualità educativa; al con-trario, dagli oppositori tale intervento è visto come una grave riduzione del corpo insegnante con pericolo per l’efficacia dell’azione della scuola.
Tuttavia l’entità della razionalizzazione della rete scolastica e del ridimensionamento del numero dei docenti, l’aver previsto il reinvestimento nell’istruzione solo di un 30% dei risparmi e non di tutto il risparmio e il non aver chiarito le finalità in positivo dei tagli hanno scatenato le contestazioni dei sindacati e della piazza.
Un’altra delle misure che ha trovato molta opposizione riguarda il ritorno alla figura del ma-estro unico nelle primarie, anche se sarà affiancato dai docenti di inglese e di religione.
Gli opposi-tori hanno fatto notare che nel contesto della crescita enorme del sapere una figura unica di docente sembra un vero impoverimento; inoltre, essendo le elementari italiane l’unico ordine e grado di scuole riconosciuto valido anche a livello internazionale, pare del tutto illogico abbandonare il si-stema di una pluralità di docenti, che sembra aver dato buoni risultati negli ultimi diciotto anni.
Per il Ministro, al contrario, il suo provvedimento favorirebbe l’unitarietà dell’insegnamento e le rela-zioni tra scuola e famiglia in quanto sia l’alunno sia la famiglia sentirebbero il bisogno di una figura unica di riferimento con cui instaurare un rapporto continuo e diretto.
A essere completi va pure precisato che l’attivazione di classi affidate a un unico docente e funzionanti per un orario di 24 ore settimanali non è la sola opzione organizzativa possibile, ma rimangono percorribili anche quella delle 27 ore con esclusione però delle attività opzionali facoltative, e quella delle 30 ore comprensi-va dell’orario opzionale facoltativo.
Probabilmente la questione «maestro unico o pluralità di mae-stri» poteva essere risolta facendo perno sull’autonomia delle scuole e stabilendo solo degli stan-dard minimi e massimi.
Le intenzioni del Ministro sono condivisibili quando si tratta di rafforzare la gestione delle scuole, di attribuire loro poteri, competenze e risorse adeguate e fare dell’autonomia il perno del si-stema di valutazione.
A sua volta, questa rinvia a una valutazione che attesti in maniera trasparente i modi in cui vengono utilizzate le risorse economiche di tutti e gli obiettivi che sono raggiunti.
La valutazione richiede la responsabilizzazione dell’istituto e dei vari attori: altrimenti i risultati non possono essere attribuiti in bene o in male a persone e a gruppi.
Come si sa, i «decreti Gelmini» hanno ripristinato la valutazione del comportamento com-plessivo tenuto durante l’anno scolastico da parte dello studente.
Tale disposizione potrebbe contri-buire a superare la logica della separazione tra l’aspetto conoscitivo e la complessiva maturazione della personalità.
Ma occorrerà pensare e trattare la cosa nella intrinseca connessione degli aspetti, magari nella linea di una teoria dell’apprendimento che coniuga in maniera valida ed efficace cono-scenza e azione, comportamenti e atteggiamenti, individualità e socialità, personalizzazione e colla-borazione; e in un quadro di scuola-comunità democratica dell’apprendimento, qual è prefigurata nello Statuto degli studenti.
Il medesimo provvedimento ha reintrodotto i voti numerici espressi in decimi.
In questo caso molto dipenderà dall’equilibrio che verrà raggiunto tra questo strumento di valutazione e il giudizio analitico sul livello globale di maturazione dell’alunno.
I dati mettono in evidenza che la mobilità sociale in Italia è limitata e che la scuola tende a svolgere una funzione riproduttiva delle diseguaglianze piuttosto che di lotta alle disparità sociali.
Una prima strategia per affrontare questo nodo problematico consiste nell’assicurare a tutti gli stu-denti i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali in tema di istruzione e di formazione.
Nella società della conoscenza questo non può che consistere nella elevazione della preparazione di base a livello di diritto-dovere di istruzione e di formazione e di obbligo di istruzio-ne; al tempo stesso è necessario evitare lo spezzettamento dei saperi.
Un’altra strategia fa capo alla personalizzazione del processo di insegnamento-apprendimento.
Quanto al nodo del secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e di formazione, la fi-nalità pienamente condivisibile del Ministro è di elevare tutta l’offerta alla «serie A».
Il dibattito tanto accesso sulla scelta precoce a 14 anni tra secondaria di 2° grado da una parte e istruzione e formazione professionale dall’altra dovrebbe evitare le contrapposizioni ideologiche e misurarsi in maniera convergente con la sfida di elaborare percorsi capaci di aiutare tutti gli studenti a trovare la strada più adeguata.
La soluzione del Ministro è di dare a ogni allievo la sua scuola in modo che ogni persona trovi nella sua scuola le ragioni per frequentarla con profitto perché l’indifferenziazione dei percorsi è la strada più sicura verso gli abbandoni e le ripetenze.
Tale orientamento del Ministro ha trovato da subito un’attuazione importante.
Uno dei suoi primi interventi è consistito nella conferma della presenza di un canale di istruzione e formazione professionale nel nuovo obbligo di istruzione elevato di due anni (fino cioè a 16).
Il problema è che a oggi non ci sono nella Legge Finanziaria le cifre necessarie per realizzare questa misura del tutto positiva.
Riguardo alla libertà di scelta educativa, il Ministro parte correttamente dalla legge n.
60/00 e richiama la novità fondamentale di una normativa che ha sancito il principio di un sistema nazio-nale di istruzione del quale sono parte integrante scuola statale e non statale e in cui le paritarie svolgono un servizio pubblico.
Da questi principi scaturiscono però solo degli impegni piuttosto vaghi e, anche se all’ultimo momento è stata evitata (ma mentre scrivo, non del tutto) l’illogicità della legge finanziaria per il 2009 che prevedeva tagli per 133,4 milioni di euro, pari al 25% in me-no rispetto al 2008 (534 milioni rispetto agli oltre 6 miliardi che le paritarie fanno risparmiare allo Stato con le loro scuole), tuttavia non si sono volute aumentare le risorse ferme ai livelli del 2000; inoltre, per i comportamenti negativi non solo del centro-destra, ma anche del centro-sinistra, si è trasformato un obbligo di finanziamento strutturale come quello previsto dalla 60/00 in una benevo-la concessione del governo di turno.
Guglielmo Malizia
Laicità in pericolo.
Bianchi è personaggio con largo seguito, in Italia e in altri paesi.
È autore di libri di grande diffusione, predica ritiri a sacerdoti e vescovi, scrive su giornali laici ma anche su “Avvenire”, il giornale della conferenza episcopale italiana, il più impegnato nella campagna in difesa della vita di Eluana, e quindi anche il maggiore imputato di “indegnità”.
Alle tesi di Enzo Bianchi ha replicato implicitamente – senza farne il nome – il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, in un editoriale su “Avvenire” del 20 febbraio.
Ma in questo stesso editoriale il cardinale Scola ha analizzato la questione della “laicità” a più largo raggio, in quanto rapporto generale tra la Chiesa e la sfera pubblica.
E lo stesso ha fatto nei medesimi giorni – nella forma più estesa e più argomentata di una conferenza – un altro cardinale di spicco della Chiesa italiana, Camillo Ruini, già presidente della CEI e vicario del papa per la diocesi di Roma dal 1991 al 2007.
Sulla rivista sono pubblicati (nella rubrica: sapere religioso) , integrali, entrambi gli interventi: l’editoriale del cardinale Scola su “Avvenire” del 20 febbraio e la conferenza tenuta dal cardinale Ruini a Genova il 18 febbraio.
Sulla questione della “laicità” – con le variazioni intervenute negli ultimi tempi – i due testi sono quanto di più autorevole e rappresentativo si possa leggere oggi da parte di due alti uomini di Chiesa, entrambi culturalmente molto vicini a papa Joseph Ratzinger.
In più, il lettore italiano troverà di seguito altri due testi su una questione strettamente connessa: la configurazione concreta che ha preso in Italia il dialogo tra laici e cattolici.
A giudizio del professor Ernesto Galli della Loggia questo dialogo ha avuto un momento felice agli inizi degli anni Novanta, ma poi è praticamente fallito.
Mentre a giudizio del professor Pietro De Marco le cose non stanno affatto così.
Ha aperto la disputa Galli della Loggia con un editoriale sul “Corriere della Sera” del 15 febbraio.
E De Marco gli ha replicato sul giornale on line “l’Occidentale”.
Mercoledì 18 febbraio, al termine dell’udienza generale, Benedetto XVI ha incontrato brevemente Nancy Pelosi.
Pelosi è cattolica, e ha tenuto a rimarcarlo: ha mostrato al papa le foto di una sua visita con i genitori in Vaticano negli anni Cinquanta e si è complimentata per l’azione della Chiesa nel combattere la fame e la povertà.
Ma al termine dell’incontro, il comunicato diffuso dalla sala stampa vaticana è stato di tutt’altro tenore: “Il papa ha colto l’occasione per illustrare che la legge morale naturale e il costante insegnamento della Chiesa sulla dignità della vita umana dal concepimento alla morte naturale impongono a tutti i cattolici, e specialmente ai legislatori, ai giuristi e ai responsabili del bene comune della società, di cooperare con tutti gli uomini e le donne di buona volontà per promuovere un ordinamento giuridico giusto, inteso a proteggere la vita umana in ogni suo momento”.
Nancy Pelosi, infatti, come altri cattolici della nuova amministrazione americana, è attiva sostenitrice di politiche pro aborto.
E il papa non ha esitato a rivolgerle questo richiamo pubblico, incurante di dare esca con ciò alle ricorrenti accuse di “invadenza” del campo politico che tanti difensori della “laicità” lanciano contro la Chiesa.
Il secondo fatto è di dimensioni più ampie.
Ed è la sorte inflitta in Italia a Eluana Englaro, una giovane donna in stato vegetativo persistente, privata di cibo e di acqua per sentenza di tribunale e così fatta morire, lo scorso 9 febbraio.
Come quattro anni fa per Terri Schiavo negli Stati Uniti, anche per Eluana c’è stato in Italia un crescendo di azioni tese a salvarne la vita, sia da parte di cattolici che di non credenti, sia sul terreno religioso che su quello civile e politico.
La battaglia ha naturalmente portato a una fase acuta la polemica sulla “laicità”.
Da più parti si è accusata la Chiesa di prevaricare sulla libertà delle scelte individuali.
Ma non solo.
La polemica ha diviso anche il campo cattolico.
Per alcuni, il parlare e l’agire in difesa della vita di Eluana erano “indegni dello stile cristiano”, uno stile che dovrebbe essere fatto di silenzio, di riserbo, di misericordia, di non invasione dello spazio più intimo e personale di ciascuno.
La voce più emblematica di questa tendenza è stata quella del fondatore e priore del monastero di Bose, Enzo Bianchi, in un articolo sul quotidiano “La Stampa” di domenica 15 febbraio: > Vivere e morire secondo il Vangelo Il dovere dei laici: misurarsi col cattolicesimo nella sua integrità di Pietro De Marco Improvvisamente, almeno per me (ve ne saranno state avvisaglie, ma mi sono sfuggite), Ernesto Galli della Loggia ha annunciato il tramonto della “stagione che è andata sotto il nome di incontro o dialogo tra laici e cattolici”.
L’ha fatto sul “Corriere della Sera” di domenica 15 febbraio.
Si tratta naturalmente di una prognosi ragionata, su cui vorrei anch’io ragionare.
Galli della Loggia evoca due date: i primi anni Novanta (per comodità, la scomparsa della DC storica) e l’11 settembre 2001, come acceleratore del convergere dialogico.
Eventi e soglie storiche che “aprirono o catalizzarono una serie di interrogativi…
riguardanti l’Italia e il mondo”, dalla rivoluzione delle tecnoscienze alle nuove situazioni geopolitiche, tali da far “immaginare una nuova collocazione e una nuova missione politica”, per i cattolici e per quei laici.
Una nuova libertà nel rivolgersi ai problemi critici accomunava quei cattolici e laici; per la prima volta nella storia italiana, l’intreccio tra “la tradizione liberale e il cristianesimo cattolico” vi è stato, e produttivo.
Galli della Loggia rileva però, da un lato, stanchezza e ripetitività, dall’altro il sopraggiungere, congiunturale ma potenzialmente distruttivo, di “nuove ostilità” tra le parti.
Così appare a lui irraggiungibile, oggi più di ieri, l’obiettivo di “una cultura civica capace di coniugare quotidianamente, senza contrasti ultimativi, una dimensione pubblica della religione e un ethos democratico condiviso”.
Quello che a Galli della Loggia sembra una seria crisi avrebbe, però, origine interna, il che spiegherebbe la vulnerabilità dell’incontro tra laici e cattolici nella recente congiuntura bioetica (qualcuno dice piuttosto biopolitica).
Cos’è avvenuto? A suo giudizio, sul lato cattolico gli interlocutori sono stati, nel laicato, prevalentemente i “giovani intellettuali dei movimenti”, spesso radicali e instabili nel loro contributo al dialogo.
Sarebbe prevalsa in effetti una partnership ecclesiastica, gerarchica.
Galli della Loggia non fa nomi, ma tutti pensiamo al ruolo di primo rilievo, in questo “incontro”, del cardinale Camillo Ruini.
La prevalente partnership gerarchica avrebbe implicato due effetti negativi per l’incontro: non avrebbe ricevuto “l’apporto di energie vaste e profonde”, fatte salve appunto quelle ecclesiastiche, e lo avrebbe trasformato in un confronto diretto con la Chiesa, etichettabile come politico e tale da suscitare un fuoco di interdizione (che Galli della Loggia giudica “alla fine efficace”) da settori del mondo cattolico e dalle sinistre.
Devo proseguire la mia parafrasi, perché possono sfuggire al lettore dei passaggi importanti dell’argomentazione.
Il ruolo preponderante assunto nel dialogo dalla Chiesa come tale, dice Galli della Loggia, in realtà da pochi uomini della gerarchia cattolica, sarebbe sintomo di un “ulteriore fattore negativo”: “l’autoreferenzialità con la quale il mondo cattolico è abituato da un paio di secoli ad improntare il suo rapporto con chi non ne fa parte storicamente”.
L’autoreferenzialità si manifesterebbe nella troppo variabile e contraddittoria disponibilità della gerarchia ora a colloquiare con i “laici di orientamento liberale”, ora a dare visibilità e voce in convegni e giornali (persino con maggiore convinzione, pensa Galli della Loggia) ai loro aspri critici ed avversari di sinistra, critici ed avversari dei laici liberali proprio per il loro dialogo con la Chiesa! Avversari trasversali, potrei aggiungere, perché ad essi si sommano dei cattolici, e non solo entro il laicato, critici della stessa gerarchia coinvolta nel dialogo.
Tale “autoreferenzialità”, indotta dalle condizioni di storica separatezza della Chiesa e del “retroterra sociale che fa capo ad essa” nella società nazionale, avrebbe oggi una evidenza ed un costo proprio nella manifesta impossibilità della stessa Chiesa “di fare politica davvero, cioè di avere una visione strategica, di fare scelte nette e conseguenti, di scegliere chi sono i propri amici culturali e chi no”.
Su questa mancata scelta della Chiesa a favore di un mondo laico (quello liberale, dialogico e favorevole) rispetto ad un altro (ostile e scarsamente dialogico), una mancata scelta che all’editorialista del “Corriere” pare anzitutto espressione di spregiudicatezza politica, il dialogo tra cattolici e laici liberali starebbe naufragando.
La diagnosi e la prognosi di Galli della Loggia mi trovano, una volta tanto, in dissenso.
Potrei essere d’accordo su dettagli che però, rispetto alla questione centrale, ritengo poco rilevanti, o contingenti.
Propongo quindi un mio riesame dei termini, che riguardi, nei seguenti tre punti: il laicato cattolico italiano, la Chiesa come “societas” e nella società, e i laici liberali e la loro precomprensione dell’interlocutore cattolico.
1.
IL LAICATO CATTOLICO ITALIANO Negli anni Novanta, la formula dell’incontro tra laici e cattolici si presentava, concettualmente, ambiziosa e indeterminata.
Lo dico avendo seguito la vicenda in riviste, incontri, libri.
Se la chiamata non poteva non essere per tutti, forze e uomini in campo erano ben circoscritti.
Penso alla terna composta da Ferdinando Adornato, Galli Della Loggia, Giorgio Rumi, e agli interlocutori delle prime annate di “Liberal”.
Si trattava di alcuni laici liberali e di alcuni cattolici, dunque, prevalentemente uomini di cultura.
E quelli che avevano accolto l’iniziativa e frequentato gli spazi di “Liberal” erano singoli cattolici “conservatori” (nel senso di Roger Scruton), non “i cattolici” in senso lato.
Galli della Loggia sa bene, ma non dà alla cosa giusto peso nell’articolo, che i cattolici eredi delle antiche sinistre, di quella già democristiana come di quella già del partito comunista (i numerosi cattolici “berlingueriani”), giudicarono gli intellettuali e le tesi di “Liberal”, come le personali tesi di Galli della Loggia, marcate a destra, “revisionistiche”, confinanti e presto coincidenti con lo spirito del nuovo centrodestra politico.
Il compianto Rumi collaborava a “Liberal” per la sua grande libertà e intelligenza, coraggioso outsider.
In quell’incontro tra laici e cattolici, di fatto tra due minoranze uscite a fatica da maggioranze molto condizionanti, operò una comune geometria di distacchi e di revisioni.
Per i cattolici il distacco dall’eredità democristiana, l’emancipazione dalle derive culturali del postconcilio, l’affinità col programma di Giovanni Paolo II; per i laici liberali l’emancipazione da mezzo secolo di Italia repubblicana a metamorfica dominante gramsciana (nel senso di Augusto Del Noce).
Ma un dialogo tra queste minoranze, dotate di una insorgente forza critica, poteva ragionevolmente porsi obiettivi di breve periodo? Galli della Loggia attribuisce il “fallimento” dell’incontro al mancato intervento del laicato intellettuale cattolico e alla spregiudicatezza della parte ecclesiastica.
Ma chiedo: le attese laico-liberali, ed anche quelle in certo modo cattolico-liberali presenti, erano per parte loro ben registrate sulla complessità cattolica? Devo insistere su un chiarimento (ne ho scritto in www.chiesa dell’11 settembre 2008).
Se per “laici cattolici” si intendono i quadri del laicato di Azione Cattolica o simili, non era pensabile, proprio allora, in quegli anni Novanta di mobilitazione per la “difesa della costituzione” e di risorgente dossettismo, trovare in essi dei dialoganti con Galli della Loggia o con Adornato, o con iniziative autonome ma non divergenti, come quelle di Marcello Pera! In più, e più profondamente, va ricordato che l’incontro del laicato cattolico “qualificato” con la laicità dei tempi moderni, avviato negli anni del Concilio, si era già consumato negli anni Settanta, sotto i traumi e i vincoli del dopo Sessantotto.
Sappiamo tutti, e non fu mai nascosto, che per tanti cattolici il riconoscimento dei valori laici ebbe allora i caratteri della scoperta dei “valori moderni” e dell’immersione in essi.
Le opzioni prevalenti ed esemplari di quel laicato furono sempre a sinistra, entro, fuori e oltre la DC, prima e dopo della sua scomparsa.
Per questo laicato la proposta di “Liberal”, l’incontro tra liberali e cattolici erano e appaiono tuttora anacronistici, e segnati per di più dall’incombere di un nuovo “rischio di destra”.
Ma il laicato cattolico non è esclusivamente quel laicato “qualificato”, ordinariamente definito da un rapporto di collaborazione unitaria, diretta, organizzata, con i pastori.
E non tanto perché vi sono altre forme di pratica cattolica intensa, di comunità, di movimenti.
Ma perché, costitutivamente, il laicato cattolico è la totalità dei “christifideles”, sia militanti (nel senso di un’attiva disponibilità e mobilitazione) che non militanti.
La maggioranza degli italiani costituisce tuttora il laicato; o, se si preferisce, una costellazione di laicati cattolici “sui generis”, composti o meno di “virtuosi” (nel senso weberiano) comunque diversi tra loro, ma portatori di pratica, spiritualità e ethos cattolici.
Da questa costellazione, che permea la stratificazione sociale e generazionale, vengono anche gli uomini e donne che sono oggi fulcro del voto di centrodestra.
Sono, naturalmente, gli “strani cristiani” deprecati dalle sinistre anticlericali; ma la ricerca sociologica sulla religiosità degli italiani, se non viene messa a servizio della sindrome “minoritaria”, parla diversamente.
Per gli “strani cristiani”, un orizzonte di “nuovi compiti per cattolici e laici” (parole di Galli della Loggia) diversi da quelli della stagione democristiana e del dissenso cattolico è, infatti, banco di prova dell’avvenuta emancipazione dal blocco culturale dell’Italia postbellica.
Ma, osserverebbe Galli della Loggia, questi laicati cattolici non conformi alla tipologia “catto-comunista”, questi cattolici non “clericali” (nel senso che tale parola ha in Del Noce) e non “progressisti”, come si manifestano? Ai fini del dialogo appaiono a lui assenti.
A ben vedere, no.
Direi anzitutto: non sono questo laicato cattolico “sui generis” molti uomini e donne dei quadri politici e intellettuali del centrodestra? Non sono cattolici, e quindi laicato, parte degli uomini e delle donne che operano con “Magna Carta”, che scrivono su “il Foglio”, sull’attuale “Liberal” e su vari altri periodici oppure scrivono, intervengono, dibattono sui tanti forum on line? Senza contare la morfologia di piccoli gruppi, centri di cultura, associazioni, riviste, bollettini, che confermano l’originalità storica con cui l’ecclesiosfera (bella formula di Émile Poulat) si dispone negli interstizi delle società complesse.
Questo mondo è laicato cattolico attivo e permeabile nell’incontro che sta a cuore a Galli della Loggia.
Questo differenziato interlocutore, nelle sue varietà estranee alla classica formazione di Azione Cattolica ma spesso anche a quella di altri movimenti o associazioni, è oggi capace di esistere politicamente e di conservare una conformità cattolica fuori dell’unità politica e associativa dei cattolici “qualificati”.
Ma va saputo riconoscere e legittimare come interlocutore.
Ho arrischiato altrove il giudizio che queste culture e generazioni, questi soggetti dell’ecclesiosfera, sono spesso più in sintonia con l’episcopato e con Roma dei laicati “virtuosi” che prestano opera nelle parrocchie, plasmati nei decenni dalla “vague” postconciliare; dei laicati, cioè, che si alimentano alla diuturna lettura di Enzo Bianchi o del cardinale Carlo Maria Martini.
Insomma, è una ecclesiosfera (meglio, un vasto sottoinsieme della ecclesiosfera totale) al di là del movimento cattolico.
Ritenere che questo laicato cattolico non abbia consistenza intellettuale, non faccia cultura, non partecipi al dibattito pubblico, è un errore simmetrico a quello dei “cattolici democratici”, anzi, indotto dalla loro diagnosi: secondo la quale ci sarebbe un generale “silenzio del laicato” che in realtà è solo il loro silenzio, conseguenza della loro perdita di autorità e influenza.
La stessa gerarchia ecclesiastica non ha sempre il polso di questa complessità cattolica.
I dati delle ricerche socioreligiose vengono letti con le lenti di un pastoralismo pessimistico associato a dubbie ecclesiologie microcomunitarie, che considerano il praticante discontinuo e di modesta formazione religiosa qualcosa come un’entità non più cattolica, perduta.
Con la conseguenza di indurre i vescovi a muoversi nella direzione di una specie di nichilismo minoritarista.
Come non bastasse lo spettacolo delle rovine di quelle grandi Chiese nazionali europee che hanno battuto questa strada.
Forse l’incontro tra cattolici e laici liberali può servire anche su questo fronte.
2.
LA CHIESA COME “SOCIETAS” E NELLA SOCIETÀ Se la configurazione del laicato cattolico risulta complicata, un’altra dimensione del ragionamento autorizza ad un giudizio inequivoco.
Galli della Loggia ritiene che una secolare autoreferenzialità strategica e tattica renda ancora oggi impossibile alla Chiesa una decisa, univoca, scelta di strategia culturale e politica.
Direi di no.
Anzitutto, quella che egli chiama autoreferenzialità e che sarebbe in corso “da due secoli” è forse piuttosto la condizione di fatto e di diritto di un corpo ecclesiastico spinto dagli ordinamenti e dalle ideologie moderne verso una condizione formale di marginalità rispetto all’ordinamento statuale, ai suoi poteri e valori, nell’attesa che tale marginalità, dettata unilateralmente da un ordinamento, divenisse un fatto.
Questo tentativo della modernità politico-giuridica non ha avuto successo con la Chiesa cattolica, che non solo ha conservato la sua “perfectio” e la sua peculiare giurisdizione sui fedeli, sviluppando contemporaneamente l’alta dottrina dello “ius ecclesiasticum publicum”, ma ha nel tempo stesso ridefinito e rafforzato la sua missione universale, “erga omnes”.
Anche per ragioni sostanziali, dunque, il termine “autoreferenziale” non va.
Se la Chiesa cattolica degli ultimi due secoli si riconfigura come una vasta forma militante certamente coesa e gerarchica, vigile su quanto avviene al proprio interno, la sua azione resta essenzialmente ordinata “ad extra”.
La stessa Chiesa militante di Pio XI e Pio XII, le cui fondazioni sono nell’età di Leone XIII e di Pio X, è sotto questo aspetto tutt’altro che rivolta su di sé.
Appare molto più autoreferenziale, piuttosto, la Chiesa delle insofferenti autonomie parrocchiali di oggi.
La contemporanea condizione ecclesiastica è cosciente di sé, ordinata e ordinante, universalistica.
La fine della stagione del partito e del movimento cattolico ha liberato la Chiesa anche dalla pressione proveniente da una sua cultura interna, la quale, negli anni Settanta e oltre, la spingeva a presentarsi illuministicamente come una forza mondiale di progresso e giustizia, magari di rivoluzione: una suggestiva drammatica tentazione alla perdita di sé.
L’uscita dal Novecento ha rafforzato entro l’ecclesiosfera la manifestazione della varietà, quella che insisto a chiamare, con i classici, la “complexio oppositorum” cattolica, che è tutt’altra cosa dal pluralismo istituzionale, che in linea di diritto è incompatibile con la natura della Chiesa.
Siamo oggi a mio avviso in una imprevista situazione di nuova cristianità: una cristianità postmilitante (almeno finché non vengano dal moderno sovrano attentati ai princìpi), entro una società complessa ossia ad alta differenziazione sociale.
È una tale recuperata “complexio” cattolica sul terreno sociale e politico-religioso che richiede alla gerarchia la riproposizione pubblica diretta e immediata di paradigmi di fede, criteri di giudizio, implicazioni di condotta, a “christifideles” così variamente radicati nella fede cattolica e diversi (o in conflitto) tra di loro nello spazio pubblico.
Le implicazioni di questo modello sul ragionamento di Galli della Loggia mi paiono evidenti.
Poiché né lui né io siamo interessati all’aneddotica, non importa veramente chi e in quali contesti particolari abbia oggi promosso il dialogo tra cattolici e laici liberali e domani dato voce ai suoi oppositori, siano questi laici anticlericali oppure provenienti dal laicato cattolico e ideologicamente parenti dei primi (i cattolici, ad esempio, che nella discussione pubblica militano dal lato di Eugenio Scalfari e Gustavo Zagrebelsky).
Importa, piuttosto, capire quanto sia incompatibile con la struttura profonda della Chiesa l’obbligo di darsi un’unica “visione strategica” nella sfera pubblica, consistente nel “fare scelte nette e conseguenti”, nello “scegliere chi sono i propri amici culturali e chi no”, per usare le parole stesse di Galli della Loggia.
Persino la Chiesa di Pio XII, dotata per vitale necessità di visione strategica unitaria e di nette alleanze, non fu univoca nello scegliere “i propri amici culturali”.
Quanto ai recenti, critici, anni Novanta e oltre, Galli della Loggia sa che neppure la grande personalità che ha guidato l’episcopato italiano nella transizione, cioè il cardinale Ruini, ha scelto univocamente.
Ha invece aperto innovativamente la riflessione cattolica anche ad “amici culturali” nuovi, quali appunto i laici liberali non legati alle “sociétés de pensée” laiciste e di sinistra.
Lo stesso Galli della Loggia e altri sono stati e sono oggi ascoltati con attenzione.
Così il lavoro di Giuliano Ferrara è seguito e accolto spesso con ammirazione.
Ad alti livelli il dialogo tra Joseph Ratzinger, cardinale poi papa, e Marcello Pera è stato davvero importante.
Tutto questo non è senza conseguenze, già avvertibili, nella formazione dell’ethos cattolico.
Ce ne danno prova, in negativo, i modi sprezzanti, assieme alla mancata riflessione teorica e storica, con cui i laici liberali aperti al dialogo sono stati trattati dai due fronti d’avanguardia del cattolicesimo della conclusa stagione del secondo Novecento, quello sociale-politico e quello “critico” della milizia postconciliare.
Un trattamento di disprezzo che si è mosso in parallelo con l’opposizione al governo del cardinale Ruini, col festeggiamento della presunta “irreversibile fine” della stagione ruiniana della Chiesa italiana, insomma, con la complessiva “damnatio” di quanto ho descritto fino qui.
3.
I LAICI LIBERALI E LA LORO PRECOMPRENSIONE DELL’INTERLOCUTORE CATTOLICO Un ultimo punto, appena un poco “ad hominem”.
Galli della Loggia perdonerà, conosce la mia stima.
Avvezzo com’ero a un sostanziale accordo con lui, mi colpì un suo intervento sul “Corriere della Sera” del 23 marzo del 2000, dal titolo “Il mea culpa dimenticato”.
L’editoriale si rammaricava di una mancata richiesta di perdono (nella congiuntura giubilare del grande rito del mea culpa, celebrato da Giovanni Paolo II il 12 marzo) per la condanna nel 1907 dei modernisti, e riprendeva con accenti personali un giudizio non nuovo sulle conseguenze di quella condanna: “L’Italia [cui aveva attribuito, qualche riga prima, una ‘povertà di vita religiosa e il suo essere storicamente soverchiata dalla gerarchia’] è rimasta un paese privo di una vera cultura religiosa, dove a lungo la coscienza moderna si è fatta un vanto di sottrarsi all’indispensabile dialogo con la voce misteriosa che viene dal fondo dei tempi e che pretende all’eterno”.
Ho trovato sintomatica in Galli della Loggia, nonostante l’esibito realismo storiografico, questa valorizzazione delle potenzialità dei modernismi cattolici e di una “riforma religiosa” (che giudico una ancora inguaribile sindrome dei liberali, laici e cattolici).
Conosco l’autorità e l’influenza del modello di Arturo Carlo Jemolo: “riforma religiosa e laicità dello stato”, anche se dubito sia pertinente invocarlo oggi (di Jemolo l’editrice Morcelliana ha riproposto di recente in un piccolo volume, “Coscienza laica”, a cura di Carlo Fantappiè, pagine importanti e poco accessibili).
Ma l’incontro con i cattolici non può pretendere la “riforma” della Chiesa: non lo può pretendere di diritto, ovviamente, ma nemmeno di fatto, e questo è per uno storico l’argomento principe.
Il dialogo con un cristianesimo riformato è già avvenuto, ed è stato quello del liberalismo con il protestantesimo nelle sue diverse espressioni.
Quella vicenda è conclusa, e possiamo giudicarla: le eredità protestanti liberali sono oggi indistinguibili dalle laicità etico-politiche agnostiche; il loro richiamo a Cristo e alla Chiesa è talmente impoverito nei suoi fondamenti cristologici e trinitari (sono una “fides qua” senza “fides quae”) da poter essere condiviso da chiunque senza conseguenze che dichiarino la differenza cristiana.
A conclusione del percorso si dovrebbe dire: “reformata reformanda”.
Quando nei titoli di un giornale laico come “la Repubblica” si vede comparire la formula polemica: “la Chiesa del dogma”, come se il rimando al canone della fede fosse una strana reviviscenza di qualcosa andato in desuetudine, non si può non sorridere.
Cosa ha autorizzato questi laici a pensare che la Chiesa cattolica abbia abbandonato il Credo, la tradizione dei Concili, la dottrina dei suoi dottori (intelletti tra i più alti della storia mondiale) e dei suoi spirituali? E credono davvero questi laici che sarebbe stato meglio così? Che ne è dell’Europa protestante e della cattolica che ne segue le tracce, dove i cristiani balbettano solo il credo del politicamente corretto e dei diritti individuali? Galli della Loggia non ha niente a che fare col pensiero di Scalfari e Zagrebelsky, né con la concezione ottocentesca di una Chiesa che nel suo stesso esistere, come istituzione e dottrina, tradirebbe la predicazione di Gesù.
Ma nell’elogio delle istanze modernistiche pare non intendere, neppure lui, la necessità cristiana della “Chiesa del dogma”.
Infatti, è essenzialmente sul fronte del dogma, della “fides quae”, che i seguaci odierni della battaglia modernistica appaiono disorientati e vulnerabili; così come i loro maestri (i Tyrrell, i Loisy) furono decisamente nell’errore.
Condannandoli, Pio X fece ciò che doveva, secondo l’imperativo della funzione di Pietro: il “confirma fratres tuos”.
Il dialogo con i cattolici, quindi, non può oggi essere condotto dai laici nell’attesa di trovarsi ancora di fronte cattolici “della riforma”, ennesimi “sempiterni riformatori”, come scriveva tra ironia e irritazione Delio Cantimori, di fronte a questo inguaribile topos storiografico, concomitante con quello ideologico della “riforma mancata”.
Non perché dei “sempiterni riformatori” in campo cattolico non ve ne siano; hanno anzi influenzato la cultura ecclesiale per decenni.
Ma proprio perché cattolici di questo tipo non hanno alcun interesse a dialogare con dei laici liberali.
Sono loro i primi ad essere ostili, come lo è sempre stata la cultura laica di sinistra, a ciò che Galli della Loggia va proponendo da decenni.
Più a fondo, se vuole dialogare, la modernità liberale deve darsi il compito nuovo, cui si è sottratta negli ultimi due secoli, di misurarsi sul cattolicesimo nella sua ingtegrità, che è anche la compiutezza del canone occidentale; non sulle sue semplificazioni modernizzanti.
Deve misurarsi su di un cristianesimo che è Tradizione e “confessio fidei” pubblica, con un patrimonio di fede determinato e fondante, non “liquido”, e con una gerarchia che presiede alla trasmissione e interpretazione autentica.
Deve misurarsi su enunciati di fede che sono enunciati di realtà, congeniali al “Logos” e non bei simboli e buoni sentimenti.
È naturalmente un impegno che si può desiderar di evitare, poiché esige un riesame critico della struttura profonda del paradigma liberale moderno.
Ma è l’unico impegno utile, e credo vitale, per il liberalismo presente e per il suo futuro.
Tutto il resto è già stato sperimentato, e nei laici delle correnti radicali ha come pietrificato obiettivi e convincimenti irreversibili.
La strada di Galli della Loggia e di altri è aperta e promettente, per tutti.
Ma dobbiamo tornare, nell’incontro tra laici e cattolici, sulla frattura moderna più insidiosa, che individuo nella “Lettera sulla tolleranza” di Locke.
Là dove si affianca, e di fatto si condiziona, la neutralità del magistrato al carattere congregazionale (“a free and voluntary society”) di una Chiesa e alla sua “innocuità” sociale, di cui il magistrato civile sarebbe giudice.
La Chiesa cattolica non è questo per essenza, né è riducibile a questo; né come mistero dell’incorporazione in Cristo (il dono trinitario della “historia salutis” non dipende davvero dalla nostra “libera volontà”), né come istituzione conforme alla sua originaria chiamata universalistica.
Non lo è stata quando ha innervato di sé l’Europa e l’Occidente, non lo è divenuta dopo Lutero o dopo Locke, né dopo la Rivoluzione francese o sotto la minaccia delle religioni politiche e delle rivoluzioni totali del Novecento.
Non lo è oggi, con un’evidenza tanto più forte quanto più alcuni sviluppi postconciliari volgerebbero, senza il saldo governo di Roma, verso “autonomie” congregazionalistiche e privatistiche.
Attenzione, dunque, al paradosso per cui i cattolici che dispiacciono a Galli della Loggia sono per l’appunto i cattolici più ratzingeriani e sono ad un tempo quelli che già hanno dialogato con i liberali.
Altri cattolici, i più “laici” ad esempio sul fronte della legislazione in materie bioetiche, non hanno interesse al dialogo da lui proposto.
Non si tratta del “fallimento” del dialogo; si tratta di capire che i cattolici con cui dialogare non possono essere dei neomodernisti; né si può accettare che la norma del credere sia un “bonum” sociale definito da altri (che è il significato autentico della “religione civile” di Locke e Rousseau).
Si tratta di capire, anche, che un certo attraente neomodernismo cristiano odierno non è liberale ma “laico” alla maniera delle grandi firme di “la Repubblica” e sostanzialmente invisibile nella sfera pubblica.
La “ratio” di un dialogo con esso è già risolta, dissolta.
È preferibile attraversare francamente il terreno indicato dal patriarca di Venezia, Angelo Scola, anche in questi giorni.
__________ Il giornale on line su cui Pietro De Marco ha pubblicato, con alcune varianti, la sua replica a Ernesto Galli della Loggia: > L’Occidentale __________ 23.2.2009 Due fatti recenti hanno riacceso la controversia sulla “laicità”, ossia sull’azione dei cristiani nella società civile.
Due fatti accomunati da un’identica questione, riguardante la vita umana “dal concepimento alla morte naturale”.
Il primo di questi fatti, apparentemente minore, è l’incontro al termine dell’udienza generale, tra Benedetto XVI e Nancy Pelosi speaker della camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, e il secondo è la grande mobilitazione contro la morte di Eluana Englaro per sentenza di un tribunale.
La battaglia ha naturalmente portato a una fase acuta la polemica sulla “laicità”.
Da più parti si è accusata la Chiesa di prevaricare sulla libertà delle scelte individuali.
Ma non solo.
La polemica ha diviso anche il campo cattolico.
L’INCONTRO TRA LAICI E CATTOLICI Una stagione al tramonto di Ernesto Galli della Loggia Tutto sembra indicare che una stagione italiana sta finendo: la stagione che è andata sotto il nome di incontro o dialogo tra laici e cattolici.
Si capisce a quale stagione, a quale incontro mi riferisco: a quella che si aprì intorno agli inizi degli anni Novanta, nel momento della crisi della Prima Repubblica e con essa della Democrazia cristiana, del centro sinistra, ma anche del Partito comunista colpito a morte dalla fine dell’Urss, e che ricevette una spinta decisiva dall’attentato newyorkese dell’11 settembre.
Quegli eventi, nonché la sensazione più generale che si stesse chiudendo un’intera epoca storica, aprirono o catalizzarono una serie di interrogativi e di problemi riguardanti l’Italia e il mondo: immaginare una nuova collocazione e una nuova «missione» politica sia per i cattolici che per le forze laiche non attratte nell’ orbita del vecchio Partito comunista; elaborare l’avvicinarsi di una temperie culturale nuova aperta dai progressi impressionanti della tecnoscienza in settori quali l’ingegneria genetica; affrontare le inedite tensioni geopolitiche, vieppiù dominate da componenti fondamentalistiche, che sembravano imporre un ripensamento/rilancio della categoria di Occidente.
Dunque un dialogo tra laici e cattolici che però aveva poco a che fare con quello tradizionale della storia politica italiana, a suo tempo avviato dal Pci togliattiano, e proseguito per decenni, con la sinistra cattolica poi ribattezzata con il nome di «cattolicesimo democratico».
Diversi i contenuti, ancora più diversi i protagonisti.
I risultati non sono mancati: soprattutto, direi, la nascita di quotidiani, riviste, libri, iniziative culturali varie, dove, per la prima volta in modo così continuo e sistematico nella storia italiana, la tradizione liberale e il cristianesimo cattolico hanno intrecciato analisi, rilevato coincidenze e scambiato punti di vista; dove si sono stabiliti importanti rapporti e consuetudini anche personali.
Da tempo però tutto sembra avviato verso una ripetitività sempre più stanca, i contenuti non si rinnovano, non si aggiungono energie nuove mentre all’opposto si sommano nuove ostilità.
E mentre continua ad apparire sempre assai lontano, quasi irraggiungibile, il traguardo della nascita nel nostro Paese di una cultura civica capace di coniugare quotidianamente, senza contrasti ultimativi, una dimensione pubblica della religione e un ethos democratico condiviso.
Qui mi limiterò a indicare alcuni motivi che a mio giudizio hanno reso sempre più difficile e sempre meno produttivo il dialogo di cui sto dicendo.
Innanzi tutto tale dialogo, che aveva una natura sostanzialmente culturale (anche se con possibili, evidenti, conseguenze politiche), si è trovato fortemente squilibrato per la scarsissima presenza in campo cattolico di un’opinione pubblica colta non orientata a sinistra.
Sul versante cattolico i pochi interlocutori disponibili sono stati perlopiù figure di giovani intellettuali, quasi sempre cresciuti nei movimenti, e alcuni di quegli stessi movimenti (penso specialmente a Comunione e Liberazione).
Dominati tuttavia, gli uni e gli altri, da un fortissimo spirito di parte, orientati a un forte radicalismo, pronti assai spesso a perdere repentinamente interesse, e magari a guardare con sospetto, proprio coloro dell’altro campo con i quali fino al giorno prima si erano trovati a discutere insieme.
E’ accaduto così che il dialogo ha finito per vedere protagonisti, da parte cattolica, soprattutto gli esponenti della gerarchia, la Chiesa.
Molti prelati vi hanno visto un’occasione, nel caso migliore per uscire dal proprio ruolo intellettualmente non troppo appagante, nel caso peggiore per mettersi in mostra, per acquistare un’immagine pubblica di maggior rilievo.
Ne sono derivate due conseguenze negative intrecciate insieme.
Che l’incontro tra laici e cattolici, non avendo visto alcun impegno di parti significative del laicato cattolico, non ha potuto ricevere l’apporto di energie culturali vaste e profonde che non fossero quelle di qualche vescovo o cardinale (pochi per la verità, ben pochi!).
Con il che, però, esso è divenuto di fatto un incontro con la Chiesa, caricandosi in tal modo di un significato immediatamente e inevitabilmente politico, o comunque potendo facilmente essere così etichettato.
E dunque facilmente suscitando, da parte dei laici intransigenti e della sinistra, un fuoco d’interdizione rivelatosi alla fine efficace.
Il ruolo assunto dalla Chiesa ha evidenziato un ulteriore fattore negativo.
Ha infatti reso ancora più chiara l’autoreferenzialità con la quale il mondo cattolico è abituato da un paio di secoli a improntare il suo rapporto con chi non ne fa parte storicamente, e che nel caso dell’organizzazione ecclesiastica raggiunge l’apice.
Autoreferenzialità significa difficoltà di stabilire rapporti realmente paritari con chi è fuori da quel mondo, difficoltà di farsi persuaso che perché ci sia una reale interlocuzione con chiunque è necessario dare nella stessa misura in cui si riceve, non lesinare riconoscimento e visibilità, capire che se si vogliono conseguire obiettivi di rilievo non si può prendere come bussola solo se stessi, solo il proprio immediato tornaconto.
E’ così accaduto tante volte, per esempio, che pur mostrandosi molto interessata al dialogo con i laici di orientamento liberale la Chiesa e i suoi esponenti fossero pronti, però, con lo stesso interesse (anzi assai spesso di più), a incontrarsi con i più aspri avversari di quelli, con quei laici intransigenti che magari vituperavano gli altri proprio a causa — colmo dei paradossi — del dialogo da essi intrattenuto con il mondo cattolico: fossero pronti a invitarli, a scrivere sui loro giornali, a chiederne la collaborazione.
Forse qualcuno potrebbe giudicare tutto ciò una manifestazione di quella malizia e spregiudicatezza talvolta considerate proprie della più sofisticata abilità politica.
Sono convinto del contrario.
A ben vedere, infatti, l’autoreferenzialità — di cui tanto spesso la Chiesa e il suo mondo ancora non riescono a liberarsi, e che è emersa con chiarezza nel dialogo con i laici interessati ad avviare un rapporto nuovo con il cattolicesimo — non è che la conseguenza della separatezza a cui la vicenda storica ha costretto la Chiesa stessa insieme al retroterra sociale che fa capo ad essa.
Una separatezza che costituisce un grave ostacolo proprio rispetto alla possibilità di fare politica davvero, cioè di avere una visione strategica, di fare scelte nette e conseguenti, di scegliere chi sono i propri amici culturali e chi no, magari perfino di farsi arricchire da essi (non oso dire cambiare).
E’ su questi scogli che il dialogo tra laici e cattolici si è incagliato e forse sta naufragando.
Di sicuro non sarà qualche progetto di legge disposto a recepire per intero il punto di vista della Santa Sede che cambierà le cose.
EDITORIALE DEL “CORRIERE DELLA SERA” DEL 15 FEBBRAIO 2009
Il vissuto dei ragazzini dai sette anni in poi sul web,
A raccontare i bambini nella rete, è un’indagine di Eurispes e Telefono Azzurro che verrà presentata oggi in occasione del Safer Day, la giornata per la sicurezza di Internet quest’anno dedicata ai social network.
Dati che illustrano il mondo vissuto dai ragazzini dai sette anni in poi sul web, con l’aiuto di esperti tra i quali Google, Microsoft, Facebook, E-bay. Nel dettaglio i numeri spiegano che il 33 % dei bambini tra i 7 e gli 11 anni che a casa hanno un computer parlano con gli amici via rete.
Il 24 partecipa a giochi di ruolo sul web, mentre il 56 fa videogiochi, il 49 scarica musica, film, video, il 22 legge dei blog e il 45 cerca nei vari siti materiale utile allo studio e il 78% guarda abitualmente Youtube.
A sette anni chattano in rete con amici e sconosciuti.
Non hanno ancora finito le elementari, eppure 33 bambini su cento già frequentano abitualmente Facebook, le communities e i blog.
Usano il web per giochi di ruolo, per minacciare coetanei come dei veri cyber bulli, pronti ad insultare, impaurire, escludere usando la rete.
Amicizie e incontri, violenze e soprusi corrono ormai più su internet che sul marciapiede sotto casa o ai giardini del quartiere.
Scontri e dissidi decisi con un semplice clic e passa la paura del confronto.
Perché a volte è più facile parlare e dichiararsi, deridere, accusare a chilometri di distanza, nascosti davanti ad un video che affrontare il “rivale” in carne e ossa.
Tra giochi casalinghi e sfide a portata di mouse, i giovanissimi vivono sempre di più in un mondo a parte dai genitori.
A raccontare i bambini nella rete, è un’indagine di Eurispes e Telefono Azzurro che verrà presentata oggi in occasione del Safer Day, la giornata per la sicurezza di Internet quest’anno dedicata ai social network.
Dati che illustrano il mondo vissuto dai ragazzini dai sette anni in poi sul web, con l’aiuto di esperti tra i quali Google, Microsoft, Facebook, E-bay.
E confrontando i numeri raccolti negli ultimi anni è impressionante come cresca vertiginosamente, l’universo di bambini e adolescenti che vive la sua vita di relazione soprattutto attraverso la rete.
Nel dettaglio i numeri spiegano che se nel 2005 era solo il 13 % dei bambini tra i 7 e gli 11 anni che comunicava tramite chat, ora è il 33 % di quelli che a casa hanno un computer a parlare con gli amici via rete.
Il 24 partecipa a giochi di ruolo sul web, mentre il 56 fa videogiochi, il 49 scarica musica, film, video, il 22 legge dei blog e il 45 cerca nei vari siti materiale utile allo studio e il 78% guarda abitualmente Youtube.
Non solo vita di relazione virtuale trascorsa sullo schermo tra emoticon e fotografie, ma anche piccole e grandi vendette, gelosie, ripicche e minacce su consumano tramite il computer per gli adolescenti dai 12 ai 19 anni.
Il 13,2 per cento infatti ammette di aver diffuso su internet false informazioni su coetanei, mentre l’11% ha molestano, infastidito, minacciato altri adolescenti usando il web.
E tornano alla memoria le tante le storie di questi mesi che raccontano di ragazzine ricattate da ex fidanzati pronti a mettere in rete, alla portata di tutti come una gogna mediatica, le loro foto ingenuamente osée scattate col telefonino quando le amavano ancora.
Mentre il 5 % racconta di aver diffuso messaggi foto e video minacciosi e quasi l’11 % ha utilizzato la rete per escludere volontariamente una persona dal gruppo.
E se usano Facebook soprattutto per contattare vecchi amici, e non tanto per trovarne di nuovi, gli adolescenti che subiscono molestie in rete sembrano capaci di gestirle.
Il 7,7 % ha detto di aver incrociato sul web dei molestatori ma di aver chiuso la faccenda troncando ogni rapporto, evitando di rispondere, 45%, evitando quella chat (13%) o semplicemente invitando il molestatore a non dare più fastidio.
Solo il 3% ne ha parlato con un adulto.
(10 febbraio 2009)