Il papa in Israele.

“I loro nomi sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio” di Benedetto XVI “Io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome… darò loro  un nome eterno che non sarà mai cancellato” (Isaia 56, 5).
Questo passo tratto dal libro del profeta Isaia offre le due semplici parole che esprimono in modo solenne il significato profondo di questo luogo venerato: “yad”, memoriale, “shem”, nome.
Sono giunto qui per soffermarmi in silenzio davanti a questo monumento, eretto per onorare la memoria dei milioni di ebrei uccisi nell’orrenda tragedia della Shoah.
Essi persero la propria vita, ma non perderanno mai i loro nomi: questi sono stabilmente incisi nei cuori dei loro cari, dei loro compagni di prigionia, e di quanti sono decisi a non permettere mai più che un simile orrore possa disonorare ancora l’umanità.
I loro nomi, in particolare e soprattutto, sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio Onnipotente.
Uno può derubare il vicino dei suoi possedimenti, delle occasioni favorevoli o della libertà.
Si può intessere una insidiosa rete di bugie per convincere altri che certi gruppi non meritano rispetto.
E tuttavia, per quanto ci si sforzi, non si può mai portar via il nome di un altro essere umano.
La Sacra Scrittura ci insegna l’importanza dei nomi quando viene affidata a qualcuno una missione unica o un dono speciale.
Dio ha chiamato Abram “Abraham” perché doveva diventare il “padre di molti popoli” (Genesi 17, 5).
Giacobbe fu chiamato “Israele” perché aveva “combattuto con Dio e con gli uomini ed aveva vinto” (cfr.
Genesi 32, 29).
I nomi custoditi in questo venerato monumento avranno per sempre un sacro posto fra gli innumerevoli discendenti di Abraham.
Come avvenne per Abraham, anche la loro fede fu provata.
Come per Giacobbe, anch’essi furono immersi nella lotta fra il bene e il male, mentre lottavano per discernere i disegni dell’Onnipotente.
Possano i nomi di queste vittime non perire mai! Possano le loro sofferenze non essere mai negate, sminuite o dimenticate! E possa ogni persona di buona volontà vigilare per sradicare dal cuore dell’uomo qualsiasi cosa capace di portare a tragedie simili a questa! La Chiesa cattolica, impegnata negli insegnamenti di Gesù e protesa ad imitarne l’amore per ogni persona, prova profonda compassione per le vittime qui ricordate.
Alla stessa maniera, essa si schiera accanto a quanti oggi sono soggetti a persecuzioni per causa della razza, del colore, della condizione di vita o della religione: le loro sofferenze sono le sue e sua è la loro speranza di giustizia.
Come vescovo di Roma e successore dell’apostolo Pietro, ribadisco – come i miei predecessori – l’impegno della Chiesa a pregare e ad operare senza stancarsi per assicurare che l’odio non regni mai più nel cuore degli uomini.
Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio della pace (cfr.
Salmo 85, 9).
Le Scritture insegnano che è nostro dovere ricordare al mondo che questo Dio vive, anche se talvolta troviamo difficile comprendere le sue misteriose ed imperscrutabili vie.
Egli ha rivelato se stesso e continua ad operare nella storia umana.
Lui solo governa il mondo con giustizia e giudica con equità ogni popolo (cfr.
Salmo 9, 9).
Fissando lo sguardo sui volti riflessi nello specchio d’acqua che si stende silenzioso all’interno di questo memoriale, non si può fare a meno di ricordare come ciascuno di loro rechi un nome.
Posso soltanto immaginare la gioiosa aspettativa dei loro genitori, mentre attendevano con ansia la nascita dei loro bambini.
Quale nome daremo a questo figlio? Che ne sarà di lui o di lei? Chi avrebbe potuto immaginare che sarebbero stati condannati ad un così lacrimevole destino! Mentre siamo qui in silenzio, il loro grido echeggia ancora nei nostri cuori.
È un grido che si leva contro ogni atto di ingiustizia e di violenza.
È una perenne condanna contro lo spargimento di sangue innocente.
È il grido di Abele che sale dalla terra verso l’Onnipotente.
Nel professare la nostra incrollabile fiducia in Dio, diamo voce a quel grido con le parole del libro delle Lamentazioni, così cariche di significato sia per gli ebrei che per i cristiani: “Le grazie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue misericordie; Si rinnovano ogni mattina, grande è la sua fedeltà.
Mia parte è il Signore – io esclamo –, per questo in lui spero.
Buono è il Signore con chi spera in lui, con colui che lo cerca.
È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore” (3, 22-26).
Cari amici, sono profondamente grato a Dio e a voi per l’opportunità che mi è stata data di sostare qui in silenzio: un silenzio per ricordare, un silenzio per sperare.
__________ Il programma, i discorsi, le omelie del viaggio di Benedetto XVI: > Pellegrinaggio in Terra Santa, 8-15 maggio 2009 Appena arrivato lunedì in terra d’Israele, Benedetto XVI ha immediatamente preso di petto le questioni più controverse: prima la pace e la sicurezza, poi la Shoah e l’antisemitismo.
Su entrambi i fronti era atteso al varco.
Sottoposto a pressioni incessanti e non sempre leali.
Per molti suoi critici il copione era già scritto, ed essi aspettavano solo di giudicare se e come il papa l’avrebbe osservato.
Invece Benedetto XVI s’è mosso con sorprendente originalità.
In un caso e nell’altro.
L’avvento della pace l’ha legato indissolubilmente a quel “cercare Dio” che era già stato il tema dominante del suo memorabile discorso di Parigi al mondo della cultura: uno dei discorsi capitali del suo pontificato.
Mentre il tema della sicurezza – nevralgico per Israele – l’ha svolto a partire dalla parola biblica “betah”, che vuol dire sì sicurezza ma anche fiducia: e l’una non può stare senza l’altra.
Nella visita allo Yad Vashem – il memoriale delle vittime della Shoah con incisi i loro nomi a milioni – il papa ha poi illuminato il senso di un’altra parola biblica: il “nome”.
I nomi di tutti “sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio Onnipotente”.
E quindi “non si può mai portar via il nome di un altro essere umano”, nemmeno quando gli si vuol toglier tutto.
Il grido degli uccisi sale dalla terra come dai tempi di Abele, contro ogni spargimento di sangue innocente, e Dio tutti ascolta, perché “non sono esaurite le sue misericordie”.
Queste ultime parole, tratte dal libro delle Lamentazioni, il papa le ha scritte firmando il libro d’onore.
Il discorso di Benedetto XVI allo Yad Vashem, e prima di questo l’altro pronunciato su pace e sicurezza durante la visita al presidente Shimon Peres, sono riprodotti qui di seguito.
Entrambi sono di lunedì 11 maggio 2009, primo giorno della sua visita in Israele.
__________ ”Cercate Dio e la pace vi sarà data” di Benedetto XVI Signor presidente, […] oggi desidero assicurare a lei […] come pure a tutti gli abitanti dello Stato di Israele che il mio pellegrinaggio ai Luoghi Santi è un pellegrinaggio di preghiera in favore del dono prezioso dell’unità e della pace per il Medio Oriente e per tutta l’umanità.
In verità, ogni giorno prego affinché la pace che nasce dalla giustizia ritorni in Terra Santa e nell’intera regione, portando sicurezza e rinnovata speranza per tutti.
La pace è prima di tutto un dono divino.
La pace infatti è la promessa dell’Onnipotente all’intero genere umano e custodisce l’unità.
Nel libro del profeta Geremia leggiamo: “Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore – progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza”.
Il profeta ci ricorda la promessa dell’Onnipotente che “si lascerà trovare”, che “ascolterà”, che “ci radunerà insieme”.
Ma vi è anche una condizione: dobbiamo “cercarlo”, e “cercarlo con tutto il cuore” (Geremia 29, 11-14).
Ai leader religiosi oggi presenti vorrei dire che il contributo particolare delle religioni nella ricerca di pace si fonda primariamente sulla ricerca appassionata e concorde di Dio.
Nostro è il compito di proclamare e testimoniare che l’Onnipotente è presente e conoscibile anche quando sembra nascosto alla nostra vista, che Egli agisce nel nostro mondo per il nostro bene, e che il futuro della società è contrassegnato dalla speranza quando vibra in armonia con l’ordine divino.
È la presenza dinamica di Dio che raduna insieme i cuori ed assicura l’unità.
Di fatto, il fondamento ultimo dell’unità tra le persone sta nella perfetta unicità e universalità di Dio, che ha creato l’uomo e la donna a propria immagine e somiglianza per condurci entro la sua vita divina, così che tutti possano essere una cosa sola.
Pertanto, i leader religiosi devono essere coscienti che qualsiasi divisione o tensione, ogni tendenza all’introversione o al sospetto fra credenti o tra le nostre comunità può facilmente condurre ad una contraddizione che oscura l’unicità dell’Onnipotente, tradisce la nostra unità e contraddice l’Unico che rivela se stesso come “ricco di amore e di fedeltà” (Esodo 34, 6; Salmo 138, 2; Salmo 85, 11).
Cari amici, Gerusalemme, che da lungo tempo è stata un crocevia di popoli di diversa origine, è una città che permette ad ebrei, cristiani e musulmani sia di assumersi il dovere che di godere del privilegio di dare insieme testimonianza della pacifica coesistenza a lungo desiderata dagli adoratori dell’unico Dio; di svelare il piano dell’Onnipotente, annunciato ad Abramo, per l’unità della famiglia umana; e di proclamare la vera natura dell’uomo quale cercatore di Dio.
Impegniamoci dunque ad assicurare che, mediante l’ammaestramento e la guida delle nostre rispettive comunità, le sosterremo nell’essere fedeli a ciò che veramente sono come credenti, sempre consapevoli dell’infinita bontà di Dio, dell’inviolabile dignità di ogni essere umano e dell’unità dell’intera famiglia umana.
La Sacra Scrittura ci offre anche una sua comprensione della sicurezza.
Secondo il linguaggio ebraico, sicurezza – “batah” – deriva da fiducia e non si riferisce soltanto all’assenza di minaccia ma anche al sentimento di calma e di confidenza.
Nel libro del profeta Isaia leggiamo di un tempo di benedizione divina: “Infine in noi sarà infuso uno spirito dall’alto; allora il deserto diventerà un giardino e il giardino sarà considerato una selva.
Nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino.
Praticare la giustizia darà pace, onorare la giustizia darà tranquillità e sicurezza per sempre” (32, 15-17).
Sicurezza, integrità, giustizia e pace: nel disegno di Dio per il mondo esse sono inseparabili.
Lungi dall’essere semplicemente il prodotto dello sforzo umano, esse sono valori che promanano dalla relazione fondamentale di Dio con l’uomo, e risiedono come patrimonio comune nel cuore di ogni individuo.
Vi è una via soltanto per proteggere e promuovere tali valori: esercitarli! viverli! Nessun individuo, nessuna famiglia, nessuna comunità o nazione è esente dal dovere di vivere nella giustizia e di operare per la pace.
Naturalmente, ci si aspetta che i leader civili e politici assicurino una giusta e adeguata sicurezza per il popolo a cui servizio essi sono stati eletti.
Questo obiettivo forma una parte della giusta promozione dei valori comuni all’umanità e pertanto non possono contrastare con l’unità della famiglia umana.
I valori e i fini autentici di una società, che sempre tutelano la dignità umana, sono indivisibili, universali e interdipendenti.
Non si possono pertanto realizzare quando cadono preda di interessi particolari o di politiche frammentarie.
Il vero interesse di una nazione viene sempre servito mediante il perseguimento della giustizia per tutti.
Gentili Signore e Signori, una sicurezza durevole è questione di fiducia, alimentata nella giustizia e nell’integrità, suggellata dalla conversione dei cuori che ci obbliga a guardare l’altro negli occhi e a riconoscere il “tu” come un mio simile, un mio fratello, una mia sorella.
In tale maniera non diventerà forse la società stessa un “giardino ricolmo di frutti” (cfr.
Isaia 32, 15), segnato non da blocchi e ostruzioni, ma dalla coesione e dall’armonia? Non può forse divenire una comunità di nobili aspirazioni, dove a tutti di buon grado viene dato accesso all’educazione, alla dimora familiare, alla possibilità d’impiego, una società pronta ad edificare sulle fondamenta durevoli della speranza? Per concludere, desidero rivolgermi alle comuni famiglie di questa città, di questa terra.
Quali genitori vorrebbero mai violenza, insicurezza o divisione per il loro figlio o per la loro figlia? Quale umano obiettivo politico può mai essere servito attraverso conflitti e violenze? Odo il grido di quanti vivono in questo paese che invocano giustizia, pace, rispetto per la loro dignità, stabile sicurezza, una vita quotidiana libera dalla paura di minacce esterne e di insensata violenza.
So che un numero considerevole di uomini, donne e giovani stanno lavorando per la pace e la solidarietà attraverso programmi culturali e iniziative di sostegno pratico e compassionevole; umili abbastanza per perdonare, essi hanno il coraggio di tener stretto il sogno che è loro diritto.
Signor presidente, la ringrazio per la cortesia dimostratami e la assicuro ancora una volta delle mie preghiere per il governo e per tutti i cittadini di questo Stato.
Possa un’autentica conversione dei cuori di tutti condurre ad un sempre più deciso impegno per la pace e la sicurezza attraverso la giustizia per ciascuno.
Shalom! __________

Quei ragazzi privi di educatori

Isabella Bossi Fedrigotti, editorialista del Corriere e nota scrittrice, traccia un quadro preoccupante dei ragazzi d’oggi e, in particolare, di quella parte di loro (e non sono pochi) che con freddezza, cinismo e indifferenza salgono quotidianamente agli onori delle cronache per fatti criminosi, segnati da incredibile violenza.
Di loro, dei ragazzi, quando li arrestano, – osserva la giornalista – si co­glie per lo più la freddez­za e l’indifferenza, non so­lo per le vittime ma an­che per i propri cari e il proprio destino, quasi che qualsiasi cosa – com­preso il carcere – fosse preferibile all’insopporta­bile noia che li affligge.
La giornalista svolge una lunga analisi sui comportamenti di tanti giovani, sul loro ambiguo conformismo, sulla loro vita priva di progetti e di speranze per il futuro; poi si chiede: Ma da dove vengono e chi sono questi alieni crudeli e indifferenti? La risposta è disarmante: Da case normali per lo più; anche dal degrado, dalla miseria e dall’emargina­zione, ma altrettanto, da case belle, quartieri buo­ni e famiglie per bene.
Po­trebbero essere figli di tut­ti noi, incappati per insi­curezza, per solitudine, per noia nell’amico più forte, nel gruppo sbaglia­to; e si sa che il gruppo or­mai conta più della fami­glia, per il semplice fatto che la famiglia, nonostan­te il gran parlare che se ne fa, è oggi più debole che mai.
I ragazzi sono privi della costante ed equilibrante presenza di entrambi i genitori, la famiglia non è più come un tempo affiancata e sostenuta nel suo magistero dagli inse­gnanti e da altre figure di educatori come, per esempio, i parroci.
Poveri ragazzi – conclude l’editorialista – però è questo il piatto che abbiamo preparato per loro, gli esempi che abbiamo fornito, i modelli che abbiamo fabbricato.
Ed è un serpente che si morde la coda perché se famiglia, scuola e istituzioni varie oggi si rivelano così deboli, così inascoltate e incapaci di educare è anche perché per prime sembrano aver smarrito nel tempo le ragioni forti del loro essere.
I maestri, insomma, i tanto invocati maestri grandemente scarseggiano perché non credono più al loro magistero.
I RAGAZZI E I SILENZI DEGLI ADULTI I nostri figli senza maestri di Isabella Bossi Fedrigotti Della politica, di ogni suo minimo sussulto, controversia o screzio, si discute per giorni, si ragiona, si polemizza.
Dei giovani e giovanissimi, dei loro problemi, dei loro allarmi, della loro violenza, dei terrificanti crimini che riescono a commettere quando ancora, almeno in teoria, devono rispettare l’orario di rientro dettato dai genitori, dopo un momentaneo commento incredulo e sbigottito, si tende, invece, a tacere.
E così gli accoltellamenti, le rapine, le aggressioni, gli stupri di gruppo, gli assassini per opera di adolescenti o poco più transitano veloci, giorno dopo giorno, negli spazi delle cronache nere senza che ci prendiamo la briga di riflettere davvero su cosa sta succedendo nella nostra società.
Di loro, dei ragazzi, quando li arrestano, si coglie per lo più la freddezza e l’indifferenza, non solo per le vittime ma anche per i propri cari e il proprio destino, quasi che qualsiasi cosa—compreso il carcere — fosse preferibile all’insopportabile noia che li affligge.
E sembra specchiarsi, quest’indifferenza, nel loro abbigliamento, sempre uguale, jeans, scarpe sportive e felpa, del tutto indifferente a diversi luoghi e occasioni: casa, scuola, lavoro, pub, sport oppure discoteca.
Vanno e rubano, vanno e accoltellano, vanno e dan fuoco a un barbone, vanno e uccidono un compagno di scorribande, quasi sempre in gruppo, per farsi forza, naturalmente, perché da soli forse non oserebbero; e noi ce la sbrighiamo parlando di «fenomeno delle baby gang», come se il termine straniero minimizzasse la tragicità dei fatti.
Ma da dove vengono e chi sono questi alieni crudeli e indifferenti? Da case normali per lo più; anche dal degrado, dalla miseria e dall’emarginazione, ma altrettanto, da case belle, quartieri buoni e famiglie per bene.
Potrebbero essere figli di tutti noi, incappati per insicurezza, per solitudine, per noia nell’amico più forte, nel gruppo sbagliato; e si sa che il gruppo ormai conta più della famiglia, per il semplice fatto che la famiglia, nonostante il gran parlare che se ne fa, è oggi più debole che mai.
Oltre a essere spesso dimezzata, per cui i ragazzi sono privi della costante ed equilibrante presenza di entrambi i genitori, non è più come un tempo affiancata e sostenuta nel suo magistero dagli insegnanti e da altre figure di educatori come, per esempio, i parroci, per ragioni che a volte risalgono paradossalmente proprio alla famiglia.
Se, infatti, padri e madri—come spesso succede — prendono sistematicamente le parti dei figli contro maestri e professori, è difficile che si crei quell’alleanza di intenti preziosa per l’educazione.
E rinunciare a qualsiasi forma di istruzione religiosa è, ovviamente, una scelta rispettabilissima che però priva la famiglia di un supporto non indifferente.
Moltissimi sono naturalmente i padri e le madri forti abbastanza per farcela da soli a insegnare ai figli cos’è bene e cos’è male, ma molti sono anche quelli che, invece, non ce la fanno.
Ma c’è dell’altro, ed è la profondissima infelicità dei giovani.
Perché è certo che sono infelici, lo gridano dietro i loro indecifrabili silenzi, che non sempre riflettono soltanto il comodo, rilassante oppure stanco silenzio degli adulti.
È un’infelicità chiusa e senza desideri, peraltro, secondo il geniale titolo del romanzo di Peter Handke, perché non può esserci desiderio dove non c’è speranza.
Ecco, quel che atterra i nostri figli, quel che toglie loro qualsiasi energia positiva, quel che li rende tetri e annoiati e, dunque, disponibili alle trasgressioni più atroci, è la mancanza di speranze condivise.
Speranze che molto prima di essere di natura economica sono di natura ideale, nutrimento e carburante indispensabile per i giovani.
Anche per noi adulti, ovviamente, perché l’uomo non può vivere senza aspettarsi per domani una sia pur minuscola luce, ma in modo molto meno assoluto e radicale, perché abbiamo ormai imparato bene a difenderci dal vuoto.
Speranze —condivise — che una volta riguardavano la politica, per esempio, oppure la religione o la cultura e che adesso, mediamente, s’innalzano fino ai successi della squadra di calcio del cuore o al sogno di finire in tv oppure alla conquista di un certo tipo di abbigliamento firmato e uniforme.
Poveri ragazzi, viene da dire, però è questo il piatto che abbiamo preparato per loro, gli esempi che abbiamo fornito, i modelli che abbiamo fabbricato.
Ed è un serpente che si morde la coda perché se famiglia, scuola e istituzioni varie oggi si rivelano così deboli, così inascoltate e incapaci di educare è anche perché per prime sembrano aver smarrito nel tempo le ragioni forti del loro essere.
I maestri, insomma, i tanto invocati maestri grandemente scarseggiano perché non credono più al loro magistero.
Corriere  della sera 30 aprile 2009

nasce la biblioteca digitale online

Le ricchezze culturali del mondo raccolte in un solo sito, alla portata di tutti.
È questo l’obiettivo principale che ha portato alla nascita della World Digital Library.
La neonata biblioteca digitale online è un progetto portato avanti dalla statunitense Library of Congress con il supporto dell’Unesco.
Raccoglie contributi da tutto il mondo, significativi per ricchezza e varietà culturale.
Il materiale disponibile comprende manoscritti, mappe, libri rari, registrazioni, film, stampe, fotografie e disegni architettonici.
I documenti sono disponibili gratuitamente e possono essere ricercati a partire da riferimenti di luogo o tempo, per argomento e tipologia di contributo o inserendo l’istituzione che ha reso il singolo apporto disponibile online.
Gli strumenti di navigazione e le descrizioni dei contenuti presenti possono essere visualizzati nelle lingue dell’Unesco (arabo, cinese, inglese, francese, russo, spagnolo) e in portoghese, dato il grande contributo del Brasile nella fase di realizzazione del progetto.
È stata presa in considerazione la possibilità di fornire anche altre lingue, ma, quanto meno per il momento, non è tra le priorità del progetto.
I singoli contenuti, invece, non sono stati tradotti e sono quindi accessibili solo nella lingua originale.
Per rendere possibile la digitalizzazione di materiale proveniente da tutto il mondo, sono stati creati dei centri appositi dotati delle tecnologie necessarie a disposizione delle istituzioni, come nel caso di Brasile, Egitto, Iraq e Russia.
L’inaugurazione del sito web è un passo importante, ma non segna la conclusione del progetto.
Ci si sta infatti muovendo per continuare ad estendere la quantità di materiale digitalizzato e disponibile online, in modo da comprendere un giorno materiali di tutti i paesi in tutte le lingue.
World Digital Library http://www.wdl.org/en/

Secondo biennio – Maggio/Giugno

 IX unità di apprendimento:  ”Chi sono i missionari?”  OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO  Conoscenze  Abilità  * La Chiesa popolo di Dio nel mondo: avvenimenti, persone e strutture.
* Rendersi conto che nella comunità ecclesiale c’è una varietà di doni, che si manifesta in diverse vocazioni e ministeri.
OBIETTIVI FORMATIVI • Scoprire l’origine derlla missione • Comprendere che ogni cristiano è un “missionario” • Conoscere la vita e le attività di alcuni missionari di ieri e di oggi  Suggerimenti operativi   • Leggere il brano evangelico dell’invio degli apostoli e poi il brano della conversione di Saulo.
Attraverso la figura di Paolo avvicinarsi all’idea di missionario, l’”apostolo dei gentili”.
• Scoprire che con il sacramento del battesimo ogni cristiano diventa “missionario” nel proprio ambito di vita, anche senza percorrere migliaia di chilometri.
• Su un cartellone compilare insieme “la carta d’identità” di ogni missionario (aiutare, far conoscere Gesù, incontrare…), far riflettere i bambini prima in gruppi piccoli di 4 o 5 e poi ogni gruppetto spiegherà alla classe le proprie idee.
• Svolgere una ricerca su alcuni missionari (madre Teresa, Daniele Comboni, Giuseppe Allamano…) grazie all’aiuto di internet (a scuola o come compito a casa).
Scegliere il materiale a disposizione e costruire un libretto da lasciare in biblioteca con le informazioni raccolte.
• Se possibile, invitare a scuola un missionario per far raccontare la sua esperienza.
I bambini potrebbero preparare una vera e propria intervista.
Evidenziare le differenze/somiglianze fra la vita di un bambino di altri paesi e quella di uno italiano.
Sottolineare che si diventa missionari per seguire Gesù e per farlo conoscere agli altri, riprendere l’idea che ogni cristiano è missionario.  Raccordi con altre discipline Italiano, ed.
alla convivenza, ed.
all’immagine, informatica, storia, geografia.
Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”:  Art.
2: ogni bambino ha dei diritti, non importa il colore della pelle, chi sono i suoi genitori, la religione che professa…
Art.
3: ogni bambino ha il diritto di essere amato.
Art.
14: ogni bambino ha il diritto di seguire la propria religione.

Primo biennio – Maggio/Giugno

 IX unità di apprendimento:  ”Quante regole!”  OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO  Conoscenze  Abilità  * Gesù, il Messia, compimento delle promesse di Dio.
* La Chiesa, il suo credo e la sua missione.
* Ricostruire le principali tappe della storia della salvezza, anche attraverso figure significative.  * Cogliere, attraverso alcune pagine evangeliche, come Gesù viene incontro alle attese di perdono e di pace, di giustizia e di vita eterna.
OBIETTIVI FORMATIVI • Riconoscere che in ogni momento della vita sono necessarie delle regole • Comprendere la nuova alleanza fra Dio e il suo popolo attraverso il Decalogo • Scoprire che Gesù ha riassunto i 10 Comandamenti nel “comandamento dell’amore”  Suggerimenti operativi   • Portare in classe il tabellone di un gioco da tavolo (gioco dell’oca, cluedo, tabù…) e dire ai bambini di iniziare a giocare.
Alcuni proveranno, altri resteranno un po’ stupiti…
alla fine è importante arrivare a scoprire che senza regole condivise non è possibile giocare.
• Scoprire che le regole sono indispensabili nella vita di ogni giorno, in tutti gli ambienti di vita.
Discutere collettivamente sulle regole di un ambiente a scelta: la famiglia, la scuola, lo sport…
• Leggere il racconto di Mosè e il decalogo da una Bibbia per bambini (con un linguaggio semplificato); sottolineare che Dio con i Comandamenti stabilisce una nuova alleanza con il popolo ebraico.
Scoprire che per i cristiani non si tratta di divieti, ma di un patto di amicizia con le persone.
• Attualizzare le parole dei Comandamenti con un linguaggio più semplice, ricercare il messaggio che trasmettono ancora oggi.
• Scrivere al computer un messaggio segreto da decifrare (utilizzare l’alfabeto symbol); alla fine, risolvendo il gioco, i bambini leggeranno la frase: “ama Dio e le altre persone”.
Riflettere su questa frase e sottolineare che riassume tutto il Decalogo.
• Ricercare esempi di cristiani che si impegnano nel mettere in pratica il “comandamento dell’amore” nei vari ambiti della loro vita.   Raccordi con altre discipline Italiano, storia, ed.
alla convivenza, informatica.
Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
14: Ogni bambino ha il diritto di seguire la propria religione.  Art.
17: Ogni bambino ha il diritto di ricevere informazioni dai libri. 

Classe prima – Maggio/Giugno

 IX unità di apprendimento:  ”I cristiani: gli amici di Gesù”  OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO  Conoscenze  Abilità  * La Chiesa, comunità dei cristiani aperta a tutti i popoli.   * Riconoscere la Chiesa come famiglia di Dio che fa memoria di Gesù e del suo messaggio.
OBIETTIVI FORMATIVI • Scoprire che i cristiani sono la comunità di persone riunite nel nome di Gesù  • Comprendere che la famiglia dei cristiani si ritrova in una “casa speciale”: la chiesa • Individuare i luoghi di incontro per i credenti di altre religioni  Suggerimenti operativi   • Riflettere sui luoghi di vita di ogni giorno: la famiglia, la scuola, il gruppo sportivo.
Far comprendere ai bambini che sono “insiemi di persone”, cioè comunità, riunite per un determinato scopo.
Disegnare sul quaderno degli insiemi con le persone che fanno parte delle varie comunità.
• Le comunità in cui si vive la quotidianità hanno un luogo di ritrovo; con una discussione collettiva scoprire in quali luoghi trascorriamo il nostro tempo, sottolineare somiglianze e differenze.
A lato degli insiemi costruiti in precedenza aggiungere il disegno del luogo di ritrovo specifico.
• Far comprendere ai bambini come anche le persone che credono in Gesù, fanno parte di una comunità: i cristiani.
Il luogo di ritrovo degli amici di Gesù è la chiesa, una casa speciale fra le altre casa di una città o di un paese.
Chiedere agli alunni se sanno dove si trova la chiesa vicina alla scuola o alla loro casa.
In una discussione collettiva scoprire se sono già entrati in una chiesa e sottolineare gli elementi che si possono trovare al suo interno.
•  Ricercare attraverso internet l’immagine di una chiesa con gli elementi essenziali e darne una fotocopia a ogni bambino, da colorare e incollare sul quaderno.
•  Scoprire che le religioni del mondo hanno luoghi diversi in cui le persone si riuniscono per pregare Dio.
Procurare immagini di una sinagoga e di una moschea per notare alcune differenze con la chiesa (naturalmente soffermarsi su elementi semplici da cogliere anche per bambini così piccoli).
Se in classe ci sono bambini di altre religioni chiedere a loro di dare informazioni ai compagni e individuare su un planisfero il luogo del mondo di cui sono originari e di cui parlano.
Raccordi con altre discipline Italiano, informatica, ed.
alla convivenza, ed.
all’immagine.
Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
14: ogni bambino ha diritto di seguire la propria religione. 

La pari dignità degli insegnanti di religione.

Le dichiarazioni del ministro Gelmini al meeting degli insegnanti di religione cattolica promosso a Roma dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI), secondo cui “l’insegnamento della religione deve avere la stessa dignità delle altre materie”, possono avere anche un valore concreto che travalica le questioni di principio.
Di valutazione dell’insegnamento della religione cattolica non si è parlato, ma potrebbe essere una delle conseguenze di quelle dichiarazioni.
Prima dell’emanazione della legge 169/2008 che ha reintrodotto la valutazione con voto in decimi, la religione, per esplicita previsione normativa (art.
309 del Testo Unico sulle norme per l’istruzione) era valutata con un giudizio sintetico.
Ma dopo sono sorti dubbi: voto o giudizio? In occasione dell’espressione di parere sullo schema di regolamento per il coordinamento delle norme sulla valutazione, il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione (CNPI) nel dicembre scorso è intervenuto nel merito della valutazione delle diverse discipline di studio affermando che “Il CNPI rivendica, altresì, la necessità di garantire la pari dignità di tutti gli insegnanti, concorrendo ciascuno alla crescita dello studente nel rispetto delle sue vocazioni ed attitudini , in modo da evitare inaccettabili differenziazioni, tra gli insegnanti di educazione fisica e religione e gli altri insegnanti”.
Nello schema definitivo di regolamento sulla valutazione – attualmente al vaglio del Consiglio di Stato – la questione del voto in decimi per l’insegnamento della religione cattolica è rinviato ad apposita intesa, a meno che il ministro Gelmini, in coerenza con quanto affermato, non ne voglia anticipare l’applicazione correggendo subito il testo del regolamento.
TuttoscuolaFOCUS lunedì 27 aprile 2009

Istituti professionali

Il modello elaborato dalla commissione De Toni, confermata dal ministro Gelmini, si fondava su una netta distinzione di identità e ruolo tra gli istituti tecnici – tutti confermati nei loro indirizzi fondamentali – e quelli professionali, drasticamente sfrondati nel numero (sei in tutto) e soprattutto relegati a compiti di tipo marcatamente operativo, quasi “serventi” nei confronti dei compiti riservati ai diplomati degli istituti tecnici nelle macroaree professionali individuate.
La nuova bozza di regolamento conferma in pieno questa impostazione, che prevede una forte flessibilità dei piani di studio degli IP (dal 25% del primo biennio al 40% del quinto anno), in funzione delle caratteristiche del territorio, e definisce in termini spesso generici – probabilmente per la stessa ragione – il contenuto dei vari laboratori e tecnologie.
In questo modo la futura IP si troverà a svolgere essenzialmente un “ruolo integrativo e complementare rispetto al sistema di istruzione e formazione professionale”, come si afferma nella bozza, e potrà rilasciare qualifiche (al terzo anno) e diplomi (al quarto) in regime di sussidiarietà, “sulla base di specifici accordi stipulati dal MIUR e le singole Regioni”.
In questa prospettiva si colloca l’accordo stipulato con la Lombardia, con la sottoscrizione di una formale Intesa, operativa già dal 2009-2010.
Se il modello lombardo, per ora sperimentale, si consoliderà e si estenderà, nascerà in Italia sull’anomalo asse Prodi-Berlusconi (Fioroni-Gelmini), che ha scolarizzato e centralizzato l’istruzione professionale, il sistema di istruzione e formazione di competenza esclusiva delle Regioni, alternativo ai licei, che la Moratti aveva teorizzato, ma non realizzato.
——————————————————————————– TuttoscuolaFOCUS domenica 26 aprile 2009 Dopo una prima versione di cui si era avuta notizia alla fine dell’anno scorso, mai ufficializzata dal Ministero, torna ora a circolare una bozza di regolamento per gli Istituti professionali, anch’essa ufficiosa.
L’impostazione del regolamento è rimasta la stessa, e discende dal modello messo a punto dalla commissione De Toni, istituita a suo tempo dal governo Prodi nell’ambito delle procedure di attuazione della legge n.
40/2007 (Bersani), il cui art.
13 aveva provveduto a sopprimere i licei tecnologico ed economico della riforma Moratti e a ripristinare gli istituti tecnici e quelli professionali.

“Nuove tecnologie, nuove relazioni”

Pubblichiamo ampi stralci della relazione del direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali e sottosegretario della Conferenza episcopale italiana, tenuta presso la Pontificia Università Lateranense nell’ambito del convegno “Nuove tecnologie, nuove relazioni”.
”Quando nel 1854 il commodoro Perry regalò una locomotiva a vapore allo shogun Ieyasu per celebrare l’apertura ufficiale degli scambi commerciali americano-nipponici – racconta Derrick De Kerckhove ne La pelle della cultura lo shogun mandò il suo artista di corte perché riproducesse la locomotiva su un dipinto dato che gli era impossibile andare a vederla di persona.
L’artista giapponese trovò così difficile rappresentare il nuovo oggetto che aggiunse un poscritto per l’imperatore: “Temo di avere fatto molti errori nel mio schizzo”.
Noi tendiamo a trovare sorpassati o buffi questi episodi che avvengono al punto di incrocio di culture diverse, ma non va dimenticato che quando una nuova tecnologia viene introdotta, essa ingaggia una guerra sotterranea con la cultura preesistente”.
L’ammissione dell’artista giapponese sembra fotografare l’incertezza diffusa che si sperimenta di fronte all’incalzante cambiamento che la tecnologia sta producendo sotto i nostri occhi.
Un ritmo che diventa insostenibile per chi proviene da ben altre velocità e che rischia di trasformarsi in un handicap culturale perché impedisce la descrizione esatta di questo oggetto misterioso dalle dimensioni e dalle prospettive indefinite.
Non si riesce a fare senza errori uno schizzo del mondo, ai tempi del web 2.0, perché la realtà della comunicazione sembra sfuggire da ogni lato, quasi che ogni sua rappresentazione sia carente.
L’uscita di sicurezza da questo imbarazzante stato di cose è – come sempre – dissimulare tutto: atteggiandoci a ingenui spettatori o a critici pregiudiziali, apocalittici o integrati.
In entrambi i casi, non dovendo esprimersi in modo circostanziato perché o già d’accordo o solo contrari, si manifesta la sostanziale incapacità di reagire all’altezza delle sfide.
Ma non è questo, a mio parere, il danno più cospicuo.
Quel che è più grave e che sfugge la questione decisiva che è poi sempre la stessa e cioè: ogni cambio tecnologico ha qualcosa di “gattopardesco” nei suoi esiti.
Cambia tutto in effetti, ma per rispondere agli stessi bisogni di sempre dell’uomo.
La guerra che si ingaggia prelude a un modo nuovo di rispondere ai bisogni di sempre.
Questa convinzione, che dà corpo a un atteggiamento né ingenuo né pregiudiziale ma criticamente aperto, mi pare ben interpretata da Benedetto XVI, per il quale le nuove tecnologie rispondono al desiderio fondamentale delle persone di entrare in rapporto le une con le altre.
Questo desiderio di comunicazione e amicizia è per altro radicato nella nostra stessa natura di esseri umani.
Anzi scrive in uno dei passaggi-chiave del suo Messaggio per la xliii giornata mondiale delle comunicazioni sociali: “Il desiderio di connessione e l’istinto di comunicazione, che sono così scontati nella cultura contemporanea, non sono in verità che manifestazioni moderne della fondamentale e costante propensione degli esseri umani ad andare oltre se stessi per entrare in rapporto con gli altri”.
Niente di nuovo sotto il sole? Non propriamente, perché il cambio è epocale; tuttavia potrebbe anche solo trattarsi dell’ennesima trasformazione che cambia la pelle, ma non il cuore che va comunque alla ricerca dei bisogni di sempre.
Una cosa è certa: il dialogo, il rispetto e l’amicizia sono valori assolutamente antichi che oggi chiedono di essere vissuti in forme inedite a motivo dell’ambiente mass-mediale che è stato così radicalmente trasformato.
Per attenuare l’impatto del nuovo che rischia di annullare le nostre capacità di reazione, dobbiamo forse rimuovere anche un diffuso pregiudizio che fa del virtuale l’equivalente di ciò che non è reale.
La ricorrente guerra tra virtuale e reale rischia di inscenare una farsa che allontana dalla vita spicciola della gente, specie dei giovani, in nome di un fatale fraintendimento.
Forse ci può essere di aiuto Pierre Lévy che nei suoi studi – prima ancora dell’esplosione del web 2.0 – nel volume intitolato Il virtuale definisce come segue questa realtà: “La parola virtuale proviene dal latino medievale virtualis, derivato a sua volta, da virtus, forza, potenza.
Nella filosofia scolastica virtuale è ciò che esiste in potenza e non in atto.
Il virtuale tende ad attualizzarsi, senza essere tuttavia passato a una concretizzazione effettiva o formale (…) il virtuale non si contrappone al reale ma all’attuale: virtualità e attualità sono solo due diversi modi di essere”.
Dunque il virtuale – o se si preferisce alludervi mediante la sua controparte tecnica, il digitale – non crea una nuova umanità (o sociologia, o antropologia, o biofisiologia), ma amplifica e potenzia quella esistente.
Ciò significa che approssima le capacità agli obiettivi, e assottiglia il legame che sempre esiste tra possibile e reale: in altri termini, rende approcciabile tutto ciò che confiniamo abitualmente nella sfera del desiderio (usando questo termine come sinonimo di “onirico” e quindi, spesso, di puramente fantastico, evanescente, irraggiungibile e irreale), rende “capaci di ciò che si spera” e, in questo senso, rende la speranza – forse ogni speranza, anche la più ardita e utopica – in un certo senso più solida, più credibile, più vera.
Questa possibilità che è il virtuale spiega pure perché ancora una volta il discorso da intraprendere non sia asettico o puramente tecnologico, ma sempre legato a doppio filo alla libertà e alla responsabilità dell’uomo.
È l’uomo quello che fa la differenza e che decide del passaggio dal virtuale al reale, sta nella scelta di ciascuno rendere possibile questo slittamento.
Per questa ragione – se è lecita una piccola digressione – nel manifesto per la prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (24 maggio) che viene recapitato in questi giorni a tutte e 26.000 le parrocchie italiane si è scelto di mettere al centro un giovane scalatore di fronte a una parete.
Accessoriato come si deve: scarpette e un sacchetto di magnesio per facilitare le mani nude nella presa.
E soprattutto proteso visibilmente nel suo sforzo fisico.
Al di là delle tecniche e degli ausilii tecnici, che sono certo un grosso potenziale, di cui non si potrebbe fare a meno, ciò che conta è la forza di volontà che si trasforma in energia, resistenza, agilità.
E rende possibile la scalata.
Accanto a questa possibilità così intesa c’è pure una possibilità problematica da considerare con realismo.
Non vi è dubbio infatti che le nuove tecnologie informatiche possono deformare, possono causare dipendenza, possono creare effetti di ritorno nel momento in cui – cessato il loro effetto di alterazione – sbalzano il soggetto nel mondo reale e ne lasciano percepire, per contrasto, la durezza e la limitatezza; possono in questo senso indurre distorsioni percettive e perdita del controllo nelle fasi critiche.
Ma al di là di tutte queste possibilità, la domanda valida in tutti i casi esplicativi della relazionalità umana non è se questa cosa sia buona o cattiva, ma se siamo in grado di controllarla o se rischiamo di esserne sopraffatti.
Siamo consapevoli dei suoi effetti collaterali o al pari di un drogato o di un ubriaco ce ne accorgiamo solo a sbornia o a effetto finiti? Come si intuisce resta all’uomo il compito di colmare il divario tra virtuale e reale, trasformando il potenziale tecnologico in una effettiva crescita umana.
Non senza tenere conto, nel caso di internet, la sua estrema versatilità, che “si presta in egual misura a una partecipazione attiva e a un assorbimento passivo in un mondo di stimoli narcisistico e autoreferenziale, sì da poter essere utilizzata per rompere l’isolamento degli individui e dei gruppi oppure per intensificarlo” (Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Etica in internet, 22 febbraio 2002, 7).
Venendo ora nello specifico ai tre grandi valori che Benedetto XVI evoca per declinare l’umano da risvegliare dentro il nuovo contesto massmediale, l’amicizia si impone da subito come una sfida esigente.
La questione si gioca attorno al rapporto tra connettività e riconoscimento dell’identità.
Nessuno può negare che le protesi informatiche fungano da facilitatori dell’amicizia, ma si può anche dire che Msn, Facebook, Linkedin, riconoscano e facciamo realisticamente conoscere tra loro i partner? O sono solo espedienti e catalizzatori di un incontro più accelerato, agevole (in quanto abbattono le barriere comunicative e i preliminari classici della relazionalità) ma non per questo esente da ambiguità? In altre parole: i media offrono amicizia, o solo nuove opportunità di amicizia? Sono ovviamente per la seconda possibilità.
E non solo per realismo, ma per rispetto dei linguaggi che non possono sostituirsi alla libera elezione umana che fa dell’amicizia non una scelta semplicemente indotta, ma una scelta gelosamente personale.
Così è sempre stato e credo che non si possa fare diversamente neanche oggi.
Nel concreto, mentre da un lato la multimedialità è in grado di metterci in comunicazione con tanti volti che altrimenti non avremmo mai incontrato, dandocene una rappresentazione immensamente più efficace di qualunque strumento di comunicazione, dall’altro è proprio l’essenziale – cioè la forza spiazzante – del volto che rischia di essere eliminato o ridotto a inoffensivo spettacolo.
Tornino i volti e non semplicemente le facce, vuol dire confrontarsi con l’altro da sé e non semplicemente con una sua riproduzione addomesticata.
Occorre di conseguenza guardarsi da facili scorciatoie che tendono a esasperare false intimità in relazioni virtuali e rispettare invece i tempi e le forme reali dell’amicizia.
Quello del tempo è obiettivamente un indicatore con cui fare i conti per non essere sopraffatti dalla velocizzazione che toglie al ritmo interpersonale la sua condizione di possibilità.
Se ciò accade non è impossibile allora “promuovere l’amicizia” secondo l’auspicio del Papa.
Infatti nelle tipologie estremamente varie di comunità che nascono in rete, la condivisione più importante è il self sharing.
Al di là degli interessi infatti la motivazione più forte alla base delle relazioni virtuali sembra essere quella di condividere emotivamente i propri vissuti.
Si tratta di un’urgenza accresciuta dall’assenza del corpo, per cui alla fine lo strumento di espressione sono le parole che in rete si trasformano in atti.
Forse per questo, secondo Manuel Castells, internet costituisce un mezzo attraverso cui si va diffondendo un nuovo modello di socialità, la cui nascita è anteriore a quella della rete e va rintracciata nelle trasformazioni che hanno segnato la fine della modernità.
La nuova forma di socializzazione che internet permette di rappresentare è definita dal sociologo spagnolo, trapiantato in America, networked individualism.
Si tratta di un nuovo modello di interazione sociale che ha come cellula minima non più il gruppo, ma l’individuo e che si struttura attraverso la messa in rete di singoli soggetti che sempre meno hanno una comunità tradizionale di riferimento, ma non per questo vivono in maniera isolata.
Il pontificato di Benedetto XVI coincide di fatto con una evoluzione ulteriore del mondo della rete: la sua decisa trasformazione in un network sociale.
Internet non è più un agglomerato di siti web isolati e indipendenti tra loro, ma sempre più un luogo di partecipazione e di condivisione.
Tutta la grande stampa ha enfatizzato l’approccio positivo del Papa nel suo Messaggio, rafforzato anche dall’annuncio del suo “sbarco” su “youtube”.
Probabilmente non ha colto a sufficienza che tra psychè e tèchne, tra reale e virtuale non c’è necessariamente uno scontro, se di mezzo si inserisce la persona umana, cioè quella tensione etica a essere se stessi, senza lasciarsi manipolare.
Sarà per questo che con fiducia Papa Ratzinger si rivolge proprio ai giovani, cui affida il compito di evangelizzare il continente digitale, consapevole che la comunicazione ben fatta è una via per avvicinarsi a Dio, anzi – per dirla con le sue stesse parole: “Un riflesso della nostra partecipazione al comunicativo e unificante amore di Dio, che vuol fare dell’intera umanità un’unica famiglia”.
(©L’Osservatore Romano – 25 aprile 2009)

Classe prima – Aprile

Seconda fase dell’attività a) L’insegnante propone agli allievi le seguenti attività, seguite dal confronto tra loro e dalle sue conclusioni.
– Confronta le “visioni di Dio” ebraica e islamica: quali sono gli aspetti comuni e quali le divergenze? – Leggi i brani biblici della “storia dei Patriarchi” riguardanti: · la chiamata di Abramo (Gn 12,1-9) e il suo incontro con gli angeli (Gn 18,1-10); · la “ scala” e la “lotta con l’angelo” di Giacobbe (Gn 28,10-12; Gn 32,23-29); · la storia di Giuseppe (Gn 41).
Rispondi.
Quali comportamenti di Dio corrispondono a quelli evidenziati nel primo testo-guida? Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida.
Unità di Lavoro di approfondimento storico-biblico-teologico Prima parte OSA di riferimento Conoscenze – Ricerca umana e Rivelazione di Dio nella storia: il cristianesimo a confronto con l’ebraismo e le altre religioni.
– Il libro della Bibbia, documento storico-culturale e Parola di Dio.
Abilità – Evidenziare gli elementi specifici della dottrina, del culto e dell’etica delle altre religioni, in particolare dell’ebraismo e dell’islam.
– Individuare il messaggio centrale di alcuni testi biblici, utilizzando informazioni storico-letterarie e seguendo metodi diversi di lettura.
– Riconoscere le caratteristiche della salvezza attuata da Gesù in rapporto ai bisogni e alle attese dell’uomo.
Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e saper descrivere “il volto di Dio” secondo ebrei, musulmani e cristiani, evidenziando aspetti comuni ed eventuali divergenze.
– Individuare il messaggio centrale di testi biblici inerenti l’argomento trattato.
Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale – Possedere essenziali conoscenze bibliche, storiche e dottrinali inerenti il cristianesimo, soprattutto sulla base della tradizione cattolica.
– Sapersi esprimere nell’ambito del linguaggio specifico.
– Saper cogliere i messaggi fondamentali di passi biblici basilari.
1) Il Dio di Israele: nessuno come Lui Ai tempi dell’Antica Alleanza tra Dio e uomo narrata nell’Antico Testamento, gli ebrei, circondati da popoli politeisti e dediti alla magia, cominciarono a credere, a partire dall’epoca dei Patriarchi, in un Dio che si rivelò unico, Onnipotente, presente nella vita della comunità e degli individui…
senza paragoni presso le antiche civiltà.
In quali modi descriverlo? Gli israeliti non avrebbero potuto descrivere Dio con concetti astratti, assenti nella loro forma mentale; non pretesero di capirne la sostanza, “di cosa fosse fatto”: ne compresero i comportamenti.
Come si conosce un musicista dalle composizioni, conobbero e definirono Dio considerando soprattutto i risultati del suo agire nell’esistenza umana.
– Il Dio di Israele è invisibile: qualsiasi tentativo di raffigurarlo sarebbe per gli ebrei una “riduzione” che lo renderebbe simile agli antichi idoli del politeismo.
– È soprannaturale: al di sopra della natura, suo creatore, non parte di essa.
Dio può essere paragonato a forze naturali in modo soltanto simbolico: «Il Signore, vostro Dio, è come un fuoco che divora….» (Dt 4,24) – È il Dio dell’Alleanza e della Salvezza, un Dio-persona con un’identità precisa, con cui è possibile comunicare; si relaziona attraverso le promesse mantenute, rivela gradualmente all’uomo il proprio volto e il senso della vita attraverso parole profetiche ed eventi.
A partire dall’epoca dei Patriarchi, con Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe Dio si rivela all’uomo (Egli “parla”), si fa conoscere essenzialmente come Colui che chiama all’esistenza e al rapporto con Lui per amore, che desidera un’Alleanza in cui mette in gioco il desiderio di “salvare” l’uomo, proponendo obiettivi da raggiungere all’interno di un grande Progetto, partendo dal piccolo popolo ebraico (dono del figlio ad Abramo, della patria al popolo).
In cambio, Egli chiede la fede-fiducia totale, l’accettazione della sua volontà di bene.
Già nell’Alleanza con Adamo è simboleggiato il suo chiamare ogni singolo essere umano alla vita, alla somiglianza con Lui (Gn 2,5-7)…
Al Sinai, con Mosé, nell’Alleanza Egli mette in gioco il dono di nuove vie, quelle del Decalogo, per rivoluzionare il rapporto con se stessi, gli altri, Lui…
La Legge riflette le qualità di Dio: santità, giustizia, bontà.
– È un Dio-Provvidenza per l’intera umanità.
I termini consegnati a Mosé, “Io sono” e “Io sono Colui che è”, indicano un Dio immutabile e fedele, sempre attivo nel sostenere gli uomini (Es 9,1-15).
«Ti proteggerò dovunque andrai», dice Dio a Giacobbe.
Liberati dalla schiavitù d’Egitto, gli israeliti vengono dissetati, nutriti e continuamente salvati durante il loro peregrinare in terre selvagge…
Nonostante i loro tradimenti dell’Alleanza, Dio si comporta come un Genitore che non abbandona il figlio scapestrato, come lo sposo fedele del profeta Osea, che perdona le infedeltà…
Gli stanno a cuore le vicende e le esigenze del popolo e degli individui, uno per uno.
«Sei stato un rifugio per il debole, un sostegno per il povero nell’angoscia, un riparo contro la tempesta, un’ombra contro il calore infuocato del giorno» (Is 25,4).
Scelti da Dio per primi, gli ebrei talvolta non si accorsero dell’ampiezza del suo progetto: se ne accorsero i Profeti, che parlarono di Lui come del Dio di tutti gli uomini.
– È un Dio grande ed è la forza e la perfezione del bene e della giustizia.
All’epoca di Davide e Salomone, un nuovo senso della grandezza di Dio traspare dal tempio e dalla liturgia, soprattutto nei Salmi: Egli è “il Dio potente” e ciò viene proclamato con esultanza: «Il Signore è re! Terra, rallegrati! Gioite, o isole dei mari!» La grandezza dei re terreni è vista come un pallido riflesso della sua grandezza.
Il suo potere è inteso, nei Salmi, come un’immensa forza di bene: Egli “è” Bene, “è” Verità.
– È il Dio del cammino: conduce la storia dei singoli e delle comunità a un risultato di salvezza, proponendo un percorso.
– È un Dio che affida missioni a individui e gruppi, che “lavora con l’uomo”.
– È un Dio educatore, talvolta severo nel consentire prove e difficoltà come mezzi per maturare (per esempio, l’esilio di cinquant’anni in Babilonia…) e per scoprire i valori autentici.
Con il tempo e l’evoluzione del pensiero, gli ebrei avrebbero considerato in quest’ottica anche le punizioni e le sconfitte subite dai loro nemici, abbandonando l’idea di un Dio vendicatore alla maniera umana: pensiamo alle “dieci piaghe d’Egitto”…
Nell’attuale ebraismo, l’uomo di fede si sente…
nella stessa situazione di Abramo: è in ascolto dell’Unico Dio e vive nella speranza di un definitivo trionfo della giustizia e della pace, legato soprattutto alla venuta di un Messia: gli ebrei non hanno riconosciuto Gesù come tale e lo aspettano ancora.
Prima fase dell’attività L’insegnante presenta i “testi-guida” riguardanti l’Antico Testamento e il pensiero islamico.
2) Dio nell’islam «In nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso…» La parola “Allah” è il riflesso dell’unico concetto che l’islam associ a Dio.
È un termine indeclinabile, senza plurale o genere, inapplicabile a qualsiasi altra entità.
Per un musulmano, Allah è l’Onnipotente, il Creatore e il Sostenitore dell’universo, niente è simile a Lui e nessuno è paragonabile a Lui: nei 114 capitoli del Corano, viene anche continuamente ricordata la sua misericordia.
In uno dei detti del profeta Maometto, si dice: «Dio è più misericordioso verso i suoi servitori di una madre verso l’amato figlio».
Tuttavia, Dio è anche il Giusto: nella vita dopo la morte, i peccatori devono avere la punizione che spetta loro e i virtuosi la legittima ricompensa, in seguito a un inflessibile giudizio di Allah.
– Dio è eterno, autosufficiente, Colui che “si prende cura”.
«Non c’è animale sulla terra, cui Allah non provveda il cibo: Egli riconosce la sua tana e il suo rifugio, perché tutto è scritto nel Libro chiarissimo» (Corano 11,6).
La natura del Creatore deve essere diversa da quella della creatura; nulla è simile a Lui.
Oltre a creare, Dio “conserva” ciò che crea.
– Dio vuole «la fede del cuore, dimostrata negli atti» (Maometto); vuole la gratitudine, che è la migliore forma dell’adorazione.
Abramo è un esempio perfetto di fedele che seppe abbandonarsi alla volontà di Dio.
Per quanto riguarda Gesù, i musulmani affermano, in contrasto con il cristianesimo, che Dio «non ha generato»: essi rifiutano il concetto di “Trinità”, ritenendolo in contraddizione con una visione religiosa monoteista.
Tuttavia, ritengono Gesù il più grande profeta escluso Maometto; la Vergine Maria è onorata come la Benedetta e rappresenta un modello di comportamento per le persone di fede.
L’islam accetta l’annunciazione angelica e la nascita miracolosa di Gesù; i musulmani ritengono i suoi miracoli reali e voluti da Dio e ritengono ispirata la sua predicazione; non lo accettano come Figlio di Dio, Dio e Uomo, né accettano la resurrezione: ritengono addirittura che un altro uomo sia morto sulla croce al posto di Gesù.