Il mito della ferrovia

Ma c’è di più.
L’intera cultura americana, come ha mostrato Leo Marx, è attraversata dallo sforzo di riassorbire la potente esplosione del progresso nell’immagine pastorale di una natura incontaminata, per arrivare “all’unione violenta di arte progredita e natura selvaggia”, di macchina e natura.
“La locomotiva, associata al fuoco, al fumo, alla velocità, all’acciaio e al rumore” diventa così “il simbolo principale della nuova forza industriale”.
Il simbolo di una rivoluzione che non solo plasma il paesaggio, ma schiude agli americani il regno della possibilità illimitata, incarnata nella promessa di movimento offerta dal treno.
Ritroviamo così una costante della civiltà a stelle e strisce: investire del senso del sacro e della trascendenza, realtà – come l’intero arco dei mezzi tecnologici – decisamente terrene.
Il movimento per l’americano è sempre liberatorio, e la “liberazione” che esso fa balenare è sempre spirituale oltre che fisica.
Ma se il treno irrompe come occasione di liberazione, tale possibilità resta preclusa a una parte della popolazione: gli afro-americani.
L’accesso alla libertà simboleggiata dai binari è una chimera per i neri anche dopo la fine della schiavitù e, al tempo stesso, il desiderio di esplorare le nuove libertà è più potente in persone che solo da poco ne avevano riconquistato il diritto a goderne.
John Michael Giggie intravede in questo spazio simbolico la più importante differenza tra i bianchi e i neri nell’accostarsi al treno.
“Anche se i bianchi e neri raccontano le stesse storie sulle ferrovie, gli afro-americani riempiono le loro parole, le loro immagini, le loro memorie con significati tratti dall’esperienza storica della segregazione.
Quando i neri cantano o rappresentano l’esperienza della salvezza – raggiungere il paradiso su un treno – essi concepiscono quest’ultimo come un veicolo di trasformazione spirituale e razziale che li trasporta in un tempo e in uno spazio nel quale la salvezza decreta anche la fine del razzismo”.
Una delle più antiche metafore del treno in chiave religiosa appare nel brano I’m going home to die no more: in esso i binari congiungono “la terra alla vita eterna”, la stazione alla quale vengono fatti salire i passeggeri è “il pentimento”.
Nell’inno Life’s railway to heaven la vita è assimilata “a una ferrovia che corre tra le montagne”.
A guidare il Gospel train, altro celebre spiritual, “è Gesù in persona”: “Il treno gospel sta arrivando / lo sento è proprio qui / sento le ruote che sferragliano/ tutti a bordo / tutti a bordo / tutti a bordo figlioli / c’è ancora posto”.
Nel brano compare un topos che verrà continuamente ripreso: l’idea che la salvezza non conosce distinzioni di censo o di razza, “non c’è seconda classe” sul gospel train.
In This train, brano che sarà riadattato anche da Woody Guthrie, uno dei padri della canzone folk americana, il treno è “diretto verso la gloria”: “Questo treno non trasporta speculatori, questo treno / neppure imbroglioni o ladri o pezzi grossi a zonzo // questo treno non trasporta bugiardi questo treno”.
Anche nel blues ricorre il motivo del treno come figura di un transito di natura religiosa.
In All I want is that pure religions, Blind Lemon Jefferson grazie “al treno che arriva dalla curva”, è pronto “a lasciare questo mondo pieno di sofferenze”.
E in When the train comes along, interpretato da Henry “Rag time Texas” Thomas, l’incontro con Gesù “si compie alla stazione”.
Il fischio del treno riecheggia anche nel rock e nella canzone d’autore.
Sul treno di Down there by the train, cantato da Tom Waits, non sale solo chi non si è mai macchiato.
Il treno conduce alla redenzione dei peccatori.
Il treno ammette tutti: “Non ho mai chiesto il perdono / mai pronunciato una preghiera / mai donato me stesso / non mi sono mai veramente preoccupato delle persone che mi amavano e che ho lasciato / sono sempre un Caino / ho preso quella lenta strada / e se farai lo stesso / mi incontrerai lì con il treno”.
Anche in Land of hope and dreams di Bruce Springsteen, il treno non è riservato ai pochi, non è esclusiva degli eletti.
Il treno che corre verso “la terra della speranza e dei sogni” trasporta “santi e peccatori”, “vinti e vincitori”, “prostitute e giocatori d’azzardo”, “anime perse” e “cuori spazzati”, “ladri e anime trapassate”, “pazzi e regnanti”.
E che si tratti di una realtà “altra”, di una prefigurazione del Regno, lo confermano le parole del protagonista che – alla donna che lo accompagna – assicura: “Questo giorno sarà l’ultimo”.
Nel ritornello del brano, assieme all’incedere del treno, trova spazio la certezza che “la fede sarà ricompensata”.
E in People get ready di Curtis Mayfield, una delle personalità più complesse del rhythm and blues, il treno che “prende su passeggeri da costa a costa”, “corre verso il Giordano”: “non serve biglietto / solo ringraziare il Signore”.
Chi ha continuamente cantato di treni è Bob Dylan.
Come ha scritto Bryan Cheyette, “il mondo – eternamente in movimento ed eternamente uguale a se stesso – dei treni, è una potente metafora delle tante trasformazioni e dei tanti io che affollano l’artista Dylan”.
Se sono molteplici i significati di cui si carica il simbolo del treno nella musica di Dylan, è in Slow train coming che esso diventa figura del Giudizio e del suo inesorabile avvicinarsi.
(©L’Osservatore Romano – 2 settembre 2009) Il treno è tra i simboli più potenti con i quali la canzone americana – questo ricchissimo intreccio di reminiscenze africane e innodia europea, di ballata popolare di origine anglo-scozzese e tradizione afro-americana – ha narrato l’irruzione della salvezza.
Un simbolo le cui prime codificazioni risalgono alla stagione degli spiritual, i canti degli schiavi neri e che, grazie a continue riprese e rielaborazioni, attraversa l’intera storia della canzone statunitense.
Ma perché il treno occupa tanto spazio nell’immaginario americano, e non solo religioso? Cosa il suo “sferragliare”, il suo “spuntare dalla curva”, continuamente rievocato in mille canzoni, fa vibrare nell’animo americano? Come ha scritto Joel Dinerstein, “il treno contribuì a unificare il Paese geograficamente, tecnologicamente, musicalmente, psicologicamente.
Per gli americani il suono dei treni era la musica del progresso stesso: insieme vettore del cambiamento tecnologico e promessa di mobilità”.
Niente si accordava meglio della velocità del treno all’uomo americano, “senza radici, perennemente in movimento, affamato di velocità e accelerazione”.
Se, come ha notato Cecilia Tichi, è proprio degli americani essere “catturati proprio nel mezzo, sospesi in viaggi a cui non possiamo porre una fine, costretti a correre da e verso posti che ci sfuggono continuamente”, se l’americano vive in uno stato di continua sospensione tra la casa e la strada, se il viaggio costituisce l’ordito di una nazione che non ha mai smesso di “percepire se stessa in modo mitico” (Francesco Dragosei), allora si può comprendere l’attenzione quasi ossessiva accordata al treno dalla musica statunitense.

Testimoni del nostro tempo: Pavel Florenskij

Pavel Florenskij fu per molti versi un personaggio eccezionale: grandissimo matematico, fisico, inventore, filosofo, linguista, teologo, studioso dell’iconografia, poeta; non c’è quasi disciplina che non abbia almeno in parte affrontato, e in quelle a cui si dedicò più a lungo lasciò comunque un segno.
Di lui Sergij Bulgakov, un altro genio enciclopedico – prima di essere filosofo e teologo fu economista – ebbe a scrivere: “Di tutti i contemporanei che ho avuto la ventura di conoscere nel corso della mia lunga vita è il più grande.
E tanto più grande il delitto di chi ha levato la mano su di lui, di chi lo ha condannato a una pena peggiore della morte, a un lungo e tormentoso esilio, a una lenta agonia”.
Una figura eccezionale, con un destino non meno eccezionale nella sua tragicità; quando padre Bulgakov scriveva il commosso ricordo da cui abbiamo tratto le righe appena citate, le notizie sulla morte di Florenskij erano ancora avvolte nel mare di oscurità, imprecisioni e menzogne di cui il regime sovietico si compiaceva di circondare la fine delle proprie vittime, per cancellarne dopo l’esistenza fisica anche la memoria.
Accanto alle inesattezze sulla data della morte – nel 1974, la prima edizione italiana de La colonna e il fondamento della verità (Milano, Rusconi) portava ancora la data ufficiale del 15 dicembre 1943 – fiorì così ogni sorta di leggenda e di mito anche pittoresco: si raccontava per esempio che fosse morto perché, assorto nelle sue meditazioni, non si sarebbe reso conto di essere entrato in una zona proibita ai detenuti e una guardia gli avrebbe immediatamente sparato; altre versioni, al contrario, lo facevano vivere molto più a lungo e lavorare in un laboratorio segreto alla costruzione della bomba atomica sovietica.
Oggi di questa fine, molto meno teatrale, sappiamo invece quasi tutto: la condanna alla fucilazione venne pronunciata il 25 novembre 1937, mentre era già detenuto alle Solovki, ed eseguita l’8 dicembre, non alle Solovki, ma sul continente, nei pressi di Leningrado, dove padre Pavel era stato inviato tra il 2 e il 3 dicembre con un gruppo di altri 509 condannati; lui, uno dei tanti anonimi “casi” da liquidare alla svelta, portava il numero 368.
Non sappiamo ancora con assoluta certezza il luogo della sepoltura, e probabilmente non lo sapremo mai, ma in compenso conosciamo alcuni particolari che, fuori da ogni mito o leggenda pia, rendono la fine di padre Pavel ancor più eccezionale: caso, se non unico, rarissimo, Florenskij andò al martirio dopo aver ripetutamente rifiutato durante la detenzione la possibilità di essere liberato e inviato all’estero con la famiglia.
Una prima serie di rifiuti a proposte simili risalirebbe al periodo del primo arresto, avvenuto il 21 maggio 1928 e culminato in una condanna a tre anni di confino, relativamente mite per quel periodo e oltre tutto annullata dopo poche settimane; il principio che avrebbe ispirato questi rifiuti era quello che padre Pavel condivideva con i suoi figli spirituali e con chiunque gli chiedesse consiglio in quegli anni tremendi: “Quelli tra voi che si sentono abbastanza forti da resistere devono restare, e quelli invece che hanno timore e non si sentono saldi e sicuri possono andare”.
Un principio di grande realismo e sobrietà, ma può sempre sorgere il dubbio che sia facile dare simili consigli parlando del destino altrui e vivendo ancora in una condizione di relativa libertà.
Tutto diventa evidentemente ben più spinoso e sofferto dopo il secondo arresto, avvenuto nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 1933.
L’accusa è quella di aver fondato un partito per la rinascita della Russia, che gli organi inquirenti definiscono sinistramente “un’organizzazione controrivoluzionaria nazionalfascista”.
Si tratta di una colossale montatura, ma la condanna arriva ugualmente, il 26 luglio del 1933, e questa volta è a dieci anni di campo di concentramento, una misura che non lascia molto spazio a facili eroismi.
Eppure nell’estate del 1934, tra la fine di luglio e i primi di agosto, Florenskij rifiuta nuovamente l’offerta di uscire dall’Unione Sovietica con la propria famiglia; è la stessa moglie che gli presenta questa proposta, durante una visita che gli può fare nel campo dove è detenuto.
Approfittando dell’incontro gli presenta il caso di due sue figlie spirituali, Ksenija Rodzjanko e Tat’jana Saufus, che erano già state arrestate tre volte e nel 1930-1933 erano state mandate al confino in Siberia: le due donne chiedono se restare in patria o cercare salvezza espatriando e padre Pavel benedice la loro partenza; andranno in Cecoslovacchia.
Contemporaneamente la moglie lo informa che il Governo cecoslovacco si è detto disposto a offrire asilo a lui e alla sua famiglia, ma ha bisogno della sua disponibilità per iniziare contatti ufficiali con il Governo sovietico; come abbiamo già anticipato Florenskij risponde con un netto rifiuto.
La cosa non finisce però qui; la Saufus, dopo essere arrivata in Cecoslovacchia ed essere entrata nella segreteria dell’ex presidente Masaryk, nell’autunno del 1936 fa in modo che la questione venga riproposta ancora una volta attraverso la ex moglie di Gor’kij, Ekaterina Peskova, un personaggio insospettabile per il suo passato rivoluzionario, e che inoltre sapeva farsi ascoltare dal regime e già altre volte era intervenuta a favore di Florenskij e di altri intellettuali caduti in disgrazia.
A questo punto, fuori da qualsiasi abbellimento agiografico, e a conferma di questa storia quasi incredibile, abbiamo la testimonianza della stessa Peskova, conservata negli archivi di Gor’kij presso l’Istituto di Letteratura mondiale dell’Accademia delle scienze russa; in un suo appunto indirizzato al Commissariato del popolo degli Affari interni (Nkvd) leggiamo: “C’è stata la richiesta di Masaryk, trasmessami dal console ceco Slavek, nella quale si proponeva per Florenskij, come eminente scienziato, la commutazione del lager con l’esilio in Cecoslovacchia, dove gli si offriva la possibilità di un lavoro scientifico.
In seguito ai contatti avuti con la moglie di Florenskij, che mi ha comunicato che il marito non intende andare all’estero, mi sono limitata a chiedere la liberazione di Florenskij “qui””.
Questa rinuncia alla libertà è un fatto già di per sé straordinario, ma per rendersi conto sino in fondo della sua eccezionalità dobbiamo tornare ancora brevemente alle condizioni in cui avviene: quando Florenskij oppone questo ennesimo rifiuto alla proposta di espatriare non è in libertà o al confino o in un lager “sopportabile”; nel 1936 è già alle Solovki, le “isole dell’inferno”, e su quello che sta vivendo ormai non si fa più alcuna illusione, come risulta dalle lettere alla famiglia – la cui edizione italiana, col titolo Non dimenticatemi, è stata curata da Natalino Valentini e Lubomír Zák (Milano, Mondadori, 2006, pagine 420, euro 10,40).
La tragedia è percepita in tutta la sua atrocità, nella sua realtà completamente disumanizzante e nella desolazione che tutto questo comporta.
È sì vero che nonostante tutto e persino in queste condizioni padre Pavel riesce a conservare una integrità spirituale che gli consente di essere ancora un punto di riferimento e un esempio per i suoi compagni di detenzione: lavora in modo encomiabile, aiuta chiunque abbia bisogno di lui, è sempre disposto a qualsiasi sacrificio pur di soccorrere i suoi compagni di sventura.
Ma questo comportamento esemplare non toglie minimamente il dolore e la sofferenza, anzi rende l’insensatezza di questo destino ancora più bruciante.
Ci sono delle lettere dalle Solovki nelle quali questa percezione si fa quasi disperata: riesce ancora a dare dei contributi scientifici, ma lo fa in condizioni così assurde che deve concludere: “Quanto al lavoro scientifico, per svolgerlo non c’è proprio niente, almeno di ciò che serve a me”; a ben vedere, poi, non è tanto il lavoro scientifico a essere difficile, ma qualsiasi attività intellettuale in quanto tale: “Non ho tempo, né luogo, non solo per fare qualcosa, ma neanche per pensare”, dice in una lettera e poi aggiunge “anche la lettura è diventata per me una cosa estranea, una occupazione del tutto passiva”.
L’esito è una quasi totale estraniazione dalla realtà e dalla vita: “È così che mi sento, soprattutto in questi ultimi giorni: tagliato fuori da tutto ciò che è vivo”.
Florenskij sembra aver toccato l’estremo nulla, il nichilismo nel suo senso estremo, dove le cose non valgono e non dicono più nulla, soprattutto dove le cose non dicono più la loro bellezza e non rimandano più al loro creatore.
Di fronte allo spettacolo delle isole e del loro monastero (una delle meraviglie del panorama storico e naturale russo), non scatta in Florenskij alcuna commozione; per quanto quello che vede possa essere bello, “In queste condizioni non fa piacere (…) So che questo è molto bello, ma l’anima è quasi sorda a questa bellezza”, anzi riesce a cogliere esattamente il suo contrario: “Il monastero-fortezza ha un aspetto fatiscente, estremamente sgradevole, malgrado il suo interesse storico e archeologico.
Io non ho neanche voglia di guardarlo”.
Sono osservazioni tanto più sorprendenti quanto più ci si ricorda che vengono da un uomo che proprio nella natura e nella sua bellezza misteriosa aveva trovato una traccia del mistero di Dio; sin da bambino, la natura era stata per lui innanzitutto il luogo del mistero e dell’eternità: “Sulla riva del mare mi sentivo faccia a faccia con l’Eternità amata, solitaria, misteriosa e infinita dalla quale tutto scorre e alla quale tutto ritorna.
L’Eternità mi chiamava e io ero con lei”.
Qui invece la natura sembra non dire più nulla e l’uomo sembra gridare di nuovo come Cristo sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
L’eccezionalità del rifiuto a espatriare si capisce proprio alla luce di questa situazione esterna: là dove sembra che sia rimasto soltanto il non senso, là dove si è preda soltanto dell’apparente abbandono di Dio e tutto sembrerebbe dover spingere alla fuga, questo stesso Dio si fa misteriosamente presente proprio nella forza che consente a Florenskij non solo di non cercare la fuga, ma di rifiutare la liberazione che gli viene offerta; quali che siano le tragedie vissute e sperimentate sulla propria pelle, per quanto possa essere reale e potente la sensazione della tempesta che sta per travolgerlo e per cancellare non solo la sua esistenza e i frutti del suo lavoro ma la sua stessa memoria, altrettanto reale è un’altra esperienza: c’è qualcosa, un luogo, qualcuno in cui nulla va perduto.
In un passo straziante di una lettera al figlio Kirill, Florenskij scrive: “La mia unica speranza è che tutto ciò che si fa rimane.
Spero che un giorno, in qualche modo pur a me sconosciuto, sarete ricompensati di tutto ciò che ho tolto a voi, miei cari.
La cosa più orribile della mia sorte è la cessazione del lavoro e la sostanziale distruzione dell’esperienza di tutta la mia vita.
Ebbene, se non fosse per voi non mi lamenterei di aver subito questa sorte.
Se la società non ha bisogno dei frutti del lavoro della mia vita, rimanga pure senza di essi: bisogna ancora vedere chi subisca il maggior danno, se io o la società, per il fatto che non darò ciò che potrei dare.
Ma mi dispiace di non poter far voi partecipi della mia esperienza e soprattutto di non potervi accarezzare”.
Tutto sembra perduto ma non è mai così: Florenskij vive sino in fondo tutto quello che gli è dato di vivere, sapendo che “non sono gli affanni del presente a oscurare l’eternità, ma che l’eternità ci guarda dalle profondità degli affanni del presente”; non è l’uomo a dover abbattere ostacoli insormontabili e a dover vincere tenebre paurose per potersi avvicinare alla luce e scorgerne qualche raggio, è questa stessa luce che gli viene incontro e lo avvolge, rendendolo a sua volta luminoso e fonte di luce per tutti proprio nel cuore del buio più profondo.
Nella tradizione cristiana il testimone dell’eterno e della luce è quello che si chiama il santo o il martire, quello per il quale fede e vita sono ormai diventati una cosa sola, come Florenskij aveva detto molti anni prima della propria fine: “Il santo è testimone, è testimonianza non a causa delle parole che dice, ma perché egli è santo, perché vive nei due mondi, perché vediamo in lui con i nostri occhi i flussi puri della vita eterna, indipendentemente dal fatto che essi scorrono in mezzo alle nostre torbide e terrestri acque che rovinano la vita.
In mezzo alle acque morte – ma anche vive – della storia, nonostante la presenza delle potenze negative del mondo.
Ed è per questo che il santo testimonia con il suo stesso essere l’esistenza della Sorgente di forza contraria: la Vita”.
Nelle lettere non poteva dirlo, ma Kirill e tutti gli altri suoi figli sapevano benissimo da dove venisse e in cosa consistesse questa vita; glielo aveva scritto nel proprio testamento spirituale: “Vi prego, miei cari, quando mi seppellirete, di fare la comunione in quello stesso giorno, o se questo proprio non dovesse essere possibile, nei giorni immediatamente successivi.
E in genere vi prego di comunicarvi spesso dopo la mia morte.
La cosa più importante che vi chiedo è di ricordarvi del Signore e di vivere al suo cospetto.
Con ciò è detto tutto ciò che voglio dirvi, il resto non sono che dettagli o cose secondarie, ma questo non dimenticatelo mai”.
Del resto era proprio questo che aveva detto per motivare il suo rifiuto di espatriare: “Tutto posso in colui che mi dà la vita”, “Tutto posso in colui che mi dà la forza”.
Anche in questo caso Florenskij realizzava una cosa che aveva scritto molti anni prima, addirittura nel 1906: “La vita non ci aspetta, la vita reclama le sue esigenze, e ora non si potrà più restare semi-credenti o semi-ortodossi come la maggior parte di noi, ma è necessario raccogliere tutte le forze dell’anima in vista di un unico fine: per servire la Chiesa, per difendere la Chiesa e chi lo sa, forse per il martirio”.
Là dove l’umano abbandonato a se stesso sembrava non poter vedere più nulla, la luce della fede aveva illuminato la ragione e, radicandola nella Chiesa e nel suo servizio, le aveva fatto cogliere la verità ultima delle cose: che l’uomo, in Cristo, diventa capace di resistere anche alle potenze apparentemente più invincibili, si compie come altrimenti gli sarebbe impossibile anche solo immaginare.
Era in fondo l’esperienza vissuta dallo stesso Florenskij, scienziato e filosofo, per il quale l’incontro con la fede non aveva escluso la ragione e neppure esentato dal suo uso, come se l’uomo, una volta incontrata la fede, potesse fare a meno della ragione, ma anzi l’aveva potenziata; la fede, con il mistero al quale continuamente rimandava, non solo non aveva impedito alla ragione di procedere, ma l’aveva spinta anzi a un ricerca continua, secondo quello che per Florenskij era il dinamismo stesso della ricerca scientifica: “Tutte le idee scientifiche che mi stanno a cuore sono sempre state suscitate in me dalla percezione del mistero”.
Nella prima lettera di Florenskij a uno dei suoi due grandi padri spirituali, il vescovo Antonij Florensov (1847-1918), quello che è ancora un giovane matematico alla ricerca della sua definitiva vocazione mostra già di aver intuito quale sia il centro della vita: Cristo, un Cristo che è irriducibile a dogmi e a valori astratti, ma che non può neppure essere ridotto alle azioni compiute per Lui, neppure alle buone azioni e alla bontà; tutto ciò infatti non basta ancora, come Florenskij aveva imparato dalla storia della sua famiglia, un’ottima famiglia, con un padre una madre di grande generosità, ma che proprio per generosità, per un rispetto umano mal inteso, per evitare imposizioni, avevano tenuto lontano il proprio figlio dalla religione e così lo avevano privato, come avrebbe detto lui stesso “del sostegno più forte, della più fidata delle consolazioni”.
Presentiamo alcuni brani della lettera dell’11 luglio 1904: “Ci sono degli istanti e dei periodi (anche di qualche giorno) in cui cesso di sentire Cristo, la Sua gioia e la Sua leggerezza.
È difficile spiegarlo a chi non l’abbia provato: non è che vengano fuori dei dubbi, i dubbi hanno i loro rimedi, ma ti senti sordamente insensibile, indifferente, né freddo, né caldo, tiepido verso ciò che è fondamentale; e la preghiera poi diventa formale, solo parole; e vedi chiaramente tutto l’orrore di una situazione in cui guardi a Cristo come a qualcosa di passato, che se n’è andato (…) Ho cercato a lungo di capire da dove nascesse questa situazione e alla fine credo di aver capito.
Quando agisci in nome di Cristo senti la Sua presenza, ma appena smetti di lavorare in questo modo, chissà perché, per motivi indipendenti dalla tua volontà, è come se Cristo se ne fosse andato chissà dove (…) I miei genitori sono persone con una buona formazione secolare, ma assai scarsa da un punto di vista filosofico-religioso e comunque non si considerano credenti.
Sono caratterizzati da una grande bontà e da una costante disponibilità ad aiutare gli altri; so da altri (da altri perché di questo loro non parlano) che mio padre ha aiutato e aiuta molto il prossimo, spesso rinunciando anche alle più normali comodità.
Ma l’oggetto principale dei loro pensieri e dei loro sentimenti è la famiglia.
Tutto è per lei, per noi, per i figli.
(…) I genitori non hanno e non hanno mai avuto del tempo per loro, dei divertimenti e degli svaghi (teatro o cose simili) per loro soli, delle comodità.
Decisamente tutte le forze dei genitori sono sempre state spese per noi, e tutti i loro pensieri sono sempre stati rivolti a come far sì che noi potessimo avere la migliore istruzione, la migliore educazione, i migliori divertimenti, e via dicendo (…) Non conoscerei una famiglia più perfetta della nostra (per quel che riguarda i genitori) se non fosse per un particolare: la vita religiosa ne era assolutamente esclusa.
I miei genitori, essendo non credenti, o per lo meno non cristiani nel senso pieno della parola, erano però assolutamente tolleranti nei confronti di qualsiasi convinzione religiosa, a patto che restasse pura teoria.
Questo li indusse a non infonderci le loro convinzioni, ma non permise neppure loro di esercitare su di noi una qualsiasi influenza religiosa.
Ed ecco, dopo che tutta la vita era stata interamente spesa per fare della famiglia qualcosa di unico, perché questo era il sogno dei genitori, dopo che fummo cresciuti, i genitori videro, con il più totale sconforto, che la famiglia si disfava, oltretutto (…) per dei motivi assolutamente incomprensibili.
Si dice che questo sia uno dei frutti dell’individualismo contemporaneo, ma mi pare che questo sia soltanto un altro modo di chiamare lo stesso fatto e che non spieghi nulla (…) Non è che ci fossero litigi; questo proprio non c’era, semplicemente non c’era unità, non c’era nulla che unisse dall’interno; non c’era una famiglia, ma un gruppo di persone, ed era come se ciascuno facesse per conto suo.
Dentro di me penso: “Qui non c’è Cristo””.
(©L’Osservatore Romano – 2 settembre 2009)

E se il voto di religione facesse media?

In questa estate non certamente avara di polemiche sulla scuola (dialetto, test di accesso ai docenti da fuori regione, “aiutino” agli alunni nelle prove di esame, libri di testo), la questione del potere di intervento dei docenti di religione nelle classi del triennio delle superiori non è ancora definitivamente risolta.
E tra pochi giorni ci saranno gli scrutini finali per i 220 mila studenti “rimandati” a settembre.
Come è noto, ai primi di agosto una sentenza del Tar del Lazio (n.
7076) ha ridimensionato la partecipazione dei docenti di religione agli scrutini finali, disponendo che essi non possono, alla pari degli altri docenti, concorrere alla determinazione dei crediti scolastici.
Dopo l’annuncio del ministro Gelmini di impugnativa della sentenza davanti al Consiglio di Stato per ottenerne l’annullamento, è arrivata la pubblicazione in Gazzetta ufficiale, dopo un lungo percorso iniziato a marzo, del regolamento sulla valutazione degli alunni (dpr 122/2009), che ha riconfermato la disposizione annullata dal Tar.
C’è chi sostiene che il Regolamento è di rango superiore all’ordinanza annullata e, quindi, dovrebbe valere oltre gli effetti della sentenza che, a questo punto, molti ritengono di fatto annullata.
E lo ritiene, forse, anche lo stesso Ministero, visto che non si è avuta conferma della presentazione del ricorso.
Ma è proprio così? Non è forse opportuno un chiarimento immediato da parte del Miur per evitare che tra pochi giorni ogni consiglio di classe dia la propria “interpretazione autentica”, scegliendo tra la sentenza e il regolamento (con un solo risultato sicuro: aumento esponenziale del contenzioso giurisdizionale)? A parte questa urgenza, sembra però che a Viale Trastevere si stia studiando una soluzione alla radice del problema, che determinerebbe, questa volta sì, la piena e completa “pari dignità” del docente di RC (non solo riguardo al credito scolastico): l’introduzione del voto in decimi (anziché il giudizio) per la valutazione di questo particolare insegnamento, come per tutte le altre materie.
Con quale conseguenza? Che il voto di religione farebbe media a tutti gli effetti.
Questa soluzione è più di un’ipotesi di studio, tanto che , come riportato da “Avvenire”, è stato già richiesto un parere al Consiglio di Stato sulla sua percorribilità.
Non può sfuggire il peso che potrebbe avere una decisione del genere, specie in una fase così burrascosa dei rapporti tra le due sponde del Tevere, che potrebbe quindi essere utilizzata dal governo per ricucire i rapporti con le gerarchie cattoliche.
Con quali reazioni nella scuola?

La Chiesa, Obama e Berlusconi

Con Barack Obama, la linea della Santa Sede diverge talmente da quella di una parte cospicua dei vescovi americani, che ha indotto più volte alcuni di questi a protestare vivacemente con le stesse autorità vaticane.
Suscitò scandalo, ad esempio, in alcuni vescovi americani, l’editoriale con cui “L’Osservatore Romano” commentò il 30 aprile 2009 i primi cento giorni del nuovo presidente.
Il quotidiano della Santa Sede non solo formulò sull’avvio della presidenza Obama un giudizio nell’insieme positivo, ma vi vide addirittura un “riequilibrio a sostegno della maternità”, cioè là dove le critiche dei vescovi erano e sono più pungenti.
Un altro elemento di conflitto è stata la decisione dell’Università di Notre Dame – la più famosa università cattolica degli Stati Uniti – di conferire il 17 maggio ad Obama una laurea ad honorem.
Un’ottantina di vescovi, un terzo dell’episcopato degli Stati Uniti, si espresse contro l’opportunità di dare quell’onorificenza a un leader politico le cui posizioni bioetiche erano manifestamente contrarie alla dottrina della Chiesa.
Tra i critici della presidenza Obama vi sono figure di grande rilievo nella gerarchia americana: dal cardinale Francis George, presidente della conferenza episcopale, al vescovo di Denver Charles Chaput.
George, come arcivescovo di Chicago, è concittadino di Obama e successore di Joseph Bernardin, l’arcivescovo e cardinale morto nel 1996 che l’attuale presidente degli Stati Uniti ricorda spesso con grande simpatia e commozione, come maestro di un cristianesimo non di conflitto ma di dialogo.
Prima e dopo la laurea di Notre Dame, vari vescovi americani espressero il loro disappunto per aver visto le loro critiche quasi ignorate dal Vaticano.
Non solo.
A irritarli ancora di più era il fatto che il Vaticano non si limitava a trascurare le critiche dei vescovi, ma elevava a Obama addirittura elogi entusiastici, quasi fosse un nuovo Costantino, capo di un moderno impero provvido per la Chiesa.
A dare questa impressione era stato un articolo del teologo emerito della casa pontificia, il teologo e cardinale svizzero Georges Cottier, pubblicato la vigilia della visita di Obama a Benedetto XVI, su una rivista legata ai circoli diplomatici della curia vaticana, “30 Giorni”.
A tranquillizzare un poco i vescovi americani più critici intervenne poi Benedetto XVI, che nel corso dell’udienza con il presidente degli Stati Uniti, avvenuta il 10 luglio, mise al primo posto proprio “la difesa e la promozione della vita ed il diritto all’obiezione di coscienza” e gli diede in dono i documenti della Chiesa in materia.
Ma ancora in queste ultime settimane il conflitto tra i vescovi e Obama appare tutt’altro che pacificato.
Un’ulteriore materia di disputa è diventata la proposta di riforma del sistema sanitario, che essi temono includa un finanziamento con denari pubblici dell’aborto.
E poi resta sempre vivace, dentro la stessa gerarchia, la controversia aperta dalla laurea di Notre Dame.
“America”, la rivista “liberal” dei gesuiti di New York, ha pubblicato sul suo ultimo numero di agosto due commenti contrapposti: il primo, criticissimo con Obama e con i cattolici con lui solidali, del vescovo John M.
D’Arcy, titolare della diocesi di Fort Wayne-South Bend nell’Indiana, in cui sorge l’università; il secondo dell’arcivescovo emerito di San Francisco, John R.
Quinn, capofila del cattolicesimo progressista, sostenitore di una “policy of cordiality” con l’amministrazione Obama.
Il cuore della controversia è venuto di nuovo alla luce alla fine di agosto in occasione della morte del senatore Ted Kennedy, un cattolico il quale – come scrisse egli stesso in una lettera a Benedetto XVI resa pubblica nei giorni scorsi – si battè tutta la vita per l’aiuto ai poveri, la cura dei malati, l’accoglienza dei migranti, l’abolizione della pena di morte.
“Avesse incluso tra queste buone cause la protezione del nascituro nel grembo materno, avesse dato più forte testimonianza a una coerente etica della vita, credo che il compianto e la preghiera della comunità cattolica sarebbero stati più pieni e accorati”, ha commentato un sacerdote e teologo di Boston che conosceva bene Ted Kennedy, Robert Imbelli.
Padre Imbelli è anche commentatore per “L’Osservatore Romano” e vi ha scritto cose simili anche a proposito di Obama.
Fosse per lui, i vescovi americani critici non avrebbero avuto ragione per protestare con il giornale vaticano.
Da alcuni mesi due leader politici di prima grandezza sono sotto osservazione critica da parte delle gerarchie della Chiesa, in due paesi chiave del cattolicesimo mondiale: Barack Obama negli Stati Uniti e Silvio Berlusconi in Italia.
Sia con l’uno che con l’altro, la Santa Sede e i rispettivi episcopati nazionali non adottano il medesimo approccio.
Le autorità vaticane appaiono più inclini a un rapporto pacifico e distensivo, mentre gli episcopati nazionali appaiono più critici e combattivi.
In entrambi i casi, nel conflitto entrano in gioco anche due giornali di Chiesa: “L’Osservatore Romano”, organo del Vaticano, e “Avvenire”, il quotidiano di proprietà della conferenza episcopale italiana.
Col capo del governo italiano Silvio Berlusconi i motivi di attrito con la Chiesa sono principalmente due, da qualche mese a questa parte.
Il primo è l’immigrazione.
Il governo Berlusconi applica regole molto severe nel selezionare gli ingressi e respingere i clandestini.
E ciò provoca le reazioni critiche di una larga parte delle organizzazioni di Chiesa, per le quali “l’accoglienza” è il primo precetto, se non l’unico.
La linea ufficiale della conferenza episcopale, secondo cui l’accoglienza deve invece essere sempre accompagnata e bilanciata dalla legalità e dalla sicurezza, viene di conseguenza tacciata – dal clero e dal laicato cattolico più impegnati nel “sociale” e da alcuni degli stessi vescovi – come eccessivamente moderata, o peggio, subalterna al governo Berlusconi.
Lo stesso avviene per il quotidiano di proprietà dei vescovi, “Avvenire”.
Ma se si confronta “Avvenire” con “L’Osservatore Romano”, è semmai quest’ultimo che appare di gran lunga il più rispettoso delle decisioni del governo, in materia di immigrazione.
Giovanni Maria Vian, il professore di storia che dirige il giornale vaticano, in un’intervista del 31 agosto scorso al “Corriere della Sera” ha detto che alcuni articoli di “Avvenire” sono stati così “esagerati e imprudenti”, nel criticare il governo, da destare sconcerto in Vaticano.
Ne ha denunciati due in particolare: un editoriale nel quale si paragonava un caso di naufragio di migranti africani nel Mediterraneo allo sterminio degli ebrei nell’indifferenza di tutti; e un altro articolo nel quale si contestava l’affermazione del ministro degli esteri italiano secondo cui l’Italia è il paese europeo che ha soccorso in mare più immigrati.
Neppure in Vaticano, propriamente, mancano le voci discordi.
Anzi.
L’arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del pontificio consiglio per i migranti, è criticissimo della linea del governo italiano ed è il prediletto dei giornali di opposizione, nonostante la segreteria di Stato abbia fatto sapere più di una volta che egli parla a titolo personale e rappresenta solo se stesso.
Un altro dirigente di curia che parla a ruota libera contro la politica del governo sull’immigrazione è il cardinale Renato Martino.
Ma è stato da poco sostituito, come presidente del pontificio consiglio per i migranti, dall’arcivescovo Antonio Maria Vegliò, che viene dalla diplomazia ed è la prudenza in persona.
Insomma, “i rapporti tra le due sponde del Tevere sono eccellenti”, ha affermato il professor Vian nella stessa intervista, intendendo con le due sponde il governo italiano e la Santa Sede.
A conferma di ciò il direttore de “L’Osservatore Romano” ha citato e difeso il totale silenzio del suo giornale sul secondo elemento dell’attuale scontro tra Berlusconi e la Chiesa.
*** Questo secondo elemento riguarda la vita privata del premier, in particolare gli svaghi da lui riassunti così: “In Italia ci sono tante belle figliole e io non sono un santo”.
Ad accendere, a metà giugno, la campagna di accuse contro la vita privata di Berlusconi sono state dapprima la sua seconda moglie – dalla quale si sta separando – e soprattutto “la Repubblica”, il giornale leader della sinistra italiana, quello che, per paradosso, da sempre predica la liberazione dai vincoli della morale cattolica.
Da allora, questa curiosità sulla vita sessuale di Berlusconi occupa continuativamente le pagine di molta stampa non solo italiana ma mondiale.
Non però quelle de “L’Osservatore Romano”.
Neppure una riga.
E “per ottime ragioni”, ribadisce Vian, che rifiuta di mischiare il giornale del papa con un giornalismo “che pare diventato la prosecuzione della lotta politica con altri mezzi”.
Anche su “Avvenire”, il giornale dei vescovi italiani, all’inizio era così.
Silenzio.
O al massimo il misuratissimo auspicio al premier di eliminare “ombre” e “situazioni disagevoli per tutti”.
Intanto però, tra i vescovi e dentro il clero e il laicato, la spinta a elevare una fiera protesta contro Berlusconi per certi suoi comportamenti contrari alla morale cattolica si faceva sempre più forte.
E si scaricava soprattutto su “Avvenire”.
A fine giugno, per due volte consecutive, il giornale pubblicò a fianco a fianco una coppia di pareri: nel primo caso di due editorialisti del giornale, Marina Corradi e Piero Chinellato; nel secondo caso di due commentatori esterni, Antonio Airò e il professor Pietro De Marco.
La partita finì 3 a 1.
Solo Chinellato si schierò per la denuncia pubblica “ad personam”.
Gli altri, con diversi argomenti, sostennero che si denuncia il peccato ma non il peccatore e che un uomo politico va valutato per quello che fa politicamente: per l’occupazione, la famiglia, la scuola, l’immigrazione, eccetera; non per la sua vita privata, che è di “foro interno”.
E l’editore di “Avvenire”, cioè la conferenza episcopale? Il 6 luglio, festa di santa Maria Goretti, giovanissima martire morta in difesa della sua verginità, il segretario della CEI, Mariano Crociata, si scagliò contro “lo sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile” che la totalità dei media interpretarono – non smentiti – come allusivo a Berlusconi.
Questa omelia fu come la rottura di un argine.
Quello che vari vescovi, preti e laici facevano già per conto proprio, cioè criticare la vita sessuale del premier, dovette farlo da lì in avanti anche il direttore di “Avvenire”, Dino Boffo, nel rispondere alle sempre più numerose pressioni dei lettori, anche altolocati.
Boffo diceva qualcosa, e puntualmente arrivavano altri a dirgli che doveva dire di più.
Esemplare di questa travolgente pressione al rialzo è stata la lettera di un parroco di Milano, pubblicata il 12 agosto con l’ennesima risposta di Boffo.
A questo spettacolo – messo involontariamente in scena da “Avvenire” – di una conferenza episcopale priva di una guida autorevole ed energica, in cui comanda chi grida più forte contro un governo pur così attento agli interessi della Chiesa sulla vita e la famiglia, ha cercato di porre rimedio il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone, concordando un incontro con il premier Berlusconi all’Aquila il 28 agosto, in occasione della festa della “Perdonanza” istituita da papa Celestino V.
Alla vigilia dell’incontro, il cardinale Bertone ha dato a “L’Osservatore Romano” un’ampia intervista, molto rasserenante nel tratteggiare i rapporti tra la Chiesa e il governo italiano.
Lo stesso giorno, su “la Repubblica”, l’editorialista-teologo Vito Mancuso accusò il segretario di Stato di voler pranzare alla mensa di Erode, invece che denunciarne le malefatte.
Ma “L’Osservatore Romano” immediatamente gli rispose che la Chiesa non accetta un “coinvolgimento partigiano in vicende politiche contingenti”, poiché ad essa preme “la cura individuale delle coscienze” e non la pubblica condanna del peccatore.
A far saltare, all’ultimissima ora, l’incontro tra Berlusconi e il cardinale Bertone è stato l’inatteso attacco contro il direttore di “Avvenire”, Boffo, da parte de “il Giornale”, il quotidiano di proprietà del fratello dello stesso Berlusconi.
Così titolava a tutta pagina il 28 agosto “il Giornale” diretto da Vittorio Feltri: “Incidente sessuale del direttore di ‘Avvenire’.
Il supermoralista condannato per molestie.
Dino Boffo, alla guida del giornale dei vescovi italiani e impegnato nell’accesa campagna di stampa contro i peccati del premier, intimidiva la moglie dell’uomo con il quale aveva una relazione”.
L’attacco si è rivelato poi, nei giorni successivi, di dubbio fondamento.
Boffo si è proclamato innocente.
Il presidente in carica della CEI, il cardinale Angelo Bagnasco, l’ha difeso in pieno.
E così il suo predecessore, il cardinale Camillo Ruini, che aveva voluto Boffo come direttore di “Avvenire” e gli aveva confermato fiducia anche dopo che, dal 2002, erano cominciate a circolare accuse contro di lui.
Accuse fatte di foglietti anonimi, messi in giro ogni volta che si voleva attaccare, attraverso Boffo, la presidenza della CEI, ad esempio durante la contesa per la nomina del rettore dell’Università Cattolica di Milano, quando contro Lorenzo Ornaghi, l’uomo di Ruini, si batterono strenuamente l’allora segretario di Stato cardinale Angelo Sodano, l’ex presidente della Repubblica italiana Oscar Luigi Scalfaro, l’ex presidente del consiglio Emilio Colombo e l’allora direttore amministrativo dell’università, Carlo Balestrero, tutti membri dell’Istituto Giuseppe Toniolo che sovrintende alla Cattolica, del quale fa parte anche Boffo.
Di recente, queste carte anonime sono tornate in circolazione anche ai fini di un cambio di direzione delle testate giornalistiche, televisive e radiofoniche della Chiesa italiana, attualmente tutte concentrate nelle mani di Boffo.
Si è fatto portavoce di queste istanze, il 31 agosto, il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, già sottosegretario della CEI e ora presidente del consiglio per gli affari giuridici, secondo cui “per il bene della Chiesa e del suo giornale” Boffo “potrebbe vautare se non è il caso di dimettersi”.
Circa l’attacco a Boffo fatto da “il Giornale” – contro l’interesse del suo stesso editore, Berlusconi, a un rapporto pacifico con la Chiesa – è comparsa su “L’Osservatore Romano” solo una brevissima citazione del cardinale Bagnasco.
Quanto alla confusione che si osserva nella Chiesa italiana, il cardinale Bertone sarà ora tentato di riprendere in mano la lettera che scrisse il 25 marzo del 2007 al cardinale Bagnasco, in occasione della sua nomina a presidente della CEI, nella quale rivendicava “la rispettosa guida della Santa Sede, nonché mia personale […] per quanto concerne i rapporti con le istituzioni politiche”.
Scritta quando la straordinaria leadership del cardinale Ruini era ancora all’apogeo, quella lettera fu interpretata dalla CEI come uno schiaffo.
E di fatto respinta al mittente.
Oggi essa ritorna stranamente attuale.
Sul caso Berlusconi si veda l’intervista del cardinale Tarcisio Bertone a “L’Osservatore Romano” del 28 agosto 2009, poco prima dell’incontro con il capo del governo italiano, poi annullato: > Il progetto di Chiesa e di società di Benedetto XVI Come pure il quotidiano di proprietà della conferenza episcopale italiana: > Avvenire __________ Sul caso Obama, ecco i due commenti contrapposti pubblicati da “America” nel numero datato 31 agosto 2009.
Quello “contro” del vescovo di Fort Wayne-South Bend, John M.
D’Arcy: > The Church and the University.
A pastoral reflection on the controversy at Notre Dame
E quello “pro” dell’arcivescovo emerito di San Francisco, John R.
Quinn: > The Public Duty Of Bishops.
Lessons from the storm in South Bend
Sui precedenti della controversia, vedi in www.chiesa: > Benvenuto Obama.
Il Vaticano gli suona un preludio di festa
(5.7.2009) > Obama laureato a Notre Dame.
Ma i vescovi gli rifanno l’esame
(26.5.2009) > Angelo o demonio? In Vaticano, Obama è l’uno e l’altro (8.5.2009) __________

Quelle distanze con la Chiesa

Il mutamento di cui sto parlando ha un effetto so­prattutto: quello di rendere progressivamente inattuale la vecchia distinzione antago­nistica laici-cattolici.
Una lun­ga fase della storia italiana è stata percorsa da questo anta­gonismo.
Esso aveva il pro­prio epicentro nella periodi­ca disputa circa la legislazio­ne dello Stato in alcune mate­rie «sensibili» (istruzione, matrimonio, ecc.), ma era per così dire tenuto sotto controllo dall’esistenza nel Paese di un’opinione assolu­tamente maggioritaria circa un punto decisivo: il ricono­scimento dell’imprescindibi­le carattere istituzionale del­la Chiesa cattolica.
Cioè che questa, per svolgere la sua missione, ha bisogno di una totale e piena autonomia che in pratica solo la riconosciu­ta sovranità nei propri ambi­ti può assicurarle, nonché di adeguati strumenti (anche fi­nanziari) di presenza e d’in­tervento nella società.
È da ta­le opinione diffusa che è di­scesa per tutti i decenni della prima Repubblica la presso­ché unanime accettazione del Concordato come stru­mento regolativo dei rappor­ti tra Stato e Chiesa.
Alla cui base, difatti, non c’è una que­stione di oggettiva «libertà» della Chiesa (a tal fine baste­rebbe qualunque Costituzio­ne democratica), ma la que­stione della sua «sovranità»: per cui essa si «sente» libera solo se in qualche modo è an­che «sovrana».
Ciò che sta mutando (e ve­nendo meno) è proprio la pressoché unanime accetta­zione di cui ora ho detto.
Sia tra i credenti che tra i non credenti va facendosi strada, infatti, l’idea che la Chiesa non debba possedere un ca­rattere istituzionale di segno forte.
I primi lo pensano per il rinnovato sogno di una fe­de capace di vivere e di affer­marsi nel mondo per la sola forza dello Spirito e della Pa­rola; nonché per la sempre rinnovata paura di contami­nare l’altezza dei «principi» con la miseria della «realtà».
Tra i secondi, invece, va dif­fondendosi la convinzione — fatta propria in preceden­za da pochi laici doc — che una Chiesa istituzionalizzata e «sovrana», e dunque il Con­cordato che ne è il riconosci­mento, non solo rappresenti­no un attentato all’eguaglian­za dei cittadini e all’esercizio di una sfera dei diritti sem­pre più ampia e orientata soggettivisticamente, ma configurino altresì un’indebi­ta presenza della religione nello spazio pubblico.
La di­stinzione si sta appunto spo­stando su questo piano: non più tra «laici» e «cattolici» ma tra chi è favorevole e chi è contrario al riconoscimen­to del carattere istituzionale della Chiesa e di un suo spa­zio sociale.
Il che comporta una completa dislocazione dei vecchi schieramenti: sic­ché così come credenti e non credenti possono tran­quillamente trovarsi da una medesima parte contro la Chiesa ufficiale considerata « autoritario- temporalisti­ca », egualmente sul versante opposto può avvenire lo stes­so, considerando comunque la religione, anche i non cre­denti, un contributo prezio­so all’identità collettiva e alla definizione dei valori di fon­do della società.
Ernesto Galli della Loggia 30 agosto 2009 È certamente un fatto nuovo nel dopo­guerra lo scontro al calor bianco che si registra in queste ore tra una parte delle alte gerar­chie cattoliche e il centrode­stra.
Non è certo un dato da sottovalutare, anche se è probabile che nel giro di qualche tempo esso sarà in un certo modo riassorbito, non convenendo una rottu­ra a nessuna delle due parti in causa.
E allora emergerà in tutta evidenza un dato so­stanziale: il mutamento del­l’opinione pubblica circa i rapporti tra Chiesa e Stato e tutto ciò che essi significa­no e comprendono.
Si trat­ta di un mutamento di fon­do.
Questa svolta dell’opi­nione pubblica comincerà a far sentire sempre di più il suo peso.
È certamente un fatto nuovo nel dopo­guerra lo scontro al calor bianco che si registra in queste ore tra una parte delle alte gerar­chie cattoliche e il centrode­stra.
Non è certo un dato da sottovalutare, anche se è probabile che nel giro di qualche tempo esso sarà in un certo modo riassorbito, non convenendo una rottu­ra a nessuna delle due parti in causa.
E allora emergerà in tutta evidenza un dato so­stanziale: il mutamento del­l’opinione pubblica circa i rapporti tra Chiesa e Stato e tutto ciò che essi significa­no e comprendono.
Si trat­ta di un mutamento di fon­do.
Questa svolta dell’opi­nione pubblica comincerà a far sentire sempre di più il suo peso.

Cultura e Religione: Unità 2

Schema  1.
L’esperienza
        Elaborazione.          Il problema per l’adolescente – Integrazioni Autori  Barbiellini Amidei – Integrazioni dei collaboratori OF: Comprendere che la scoperta della dimensione di mistero che avvolge l’esistenza umana apre alla ricerca di alcuno che possa illuminare la realtà  2.
L’interpretazione
        Elaborazione:          Cosa significa meraviglia         Documentazione proposta:          Kant e Ries – integrazioni degli Autori:      Berger                                               – integrazioni dei collaboratori  3.
Il progetto
        Elaborazione          Sorpresa e meraviglia aprono alla dimensione religiosa – integrazioni degli Autori          Tagore – integrazioni dei Collaboratori 4.
Inserisci un tuo commento     Nel riquadro in fondo:      Osservazioni, suggerimenti, critiche all’elaborazione proposta Per consultare l’intera unità        UdA 2..

Scuola: bilancio di un anno che si chiude

  In coincidenza con l’intervento di Mariastella Gelmini al Meeting dell’Amicizia, lo scorso 28 agosto, l’ufficio stampa del MIUR ha diffuso un ampio e dettagliato resoconto dell’azione svolta dal governo e dal ministro in previsione dell’inizio del nuovo anno scolastico 2009-2010.
Si tratta di una parte soltanto della attività sviluppata dalla Gelmini in poco più di un anno di lavoro (non si parla, per esempio, del secondo ciclo, perché la riforma decorrerà dal 2010-2011), ma non c’è dubbio che il catalogo delle novità riferite all’anno scolastico che sta per cominciare è assai consistente.
Eccone una sintesi della parte che riguarda gli ordinamenti.
Scuola dell’infanzia: Anche i bambini di due anni e mezzo potranno iscriversi alla scuola dell’infanzia.
Scuola Primaria: Maestro unico prevalente (i due aggettivi sono utilizzati in sequenza): nelle classi prime della scuola primaria si passerà al modello educativo del maestro unico prevalente, un’unica figura di riferimento per i bambini.
Ogni quadro orario, da 24, 27, 30 o 40 ore, prevederà il maestro unico di riferimento.
Successivamente il modello si estenderà alle altre classi.
Abolite le compresenze.
Tempo pieno confermato: con l’introduzione del maestro unico, l’eliminazione delle compresenze ed alcuni risparmi dovuti alla razionalizzazione degli organici e al dimensionamento delle scuole (circa 350 scuole sono state accorpate grazie anche all’impegno delle Regioni) si libereranno più maestri per aumentare il tempo pieno.
Scuola secondaria di I grado: Riformulazione dell’orario della scuola media L’orario scolastico della scuola media sarà di 30 ore settimanali, consentendo una distribuzione più razionale delle lezioni, senza insegnamenti facoltativi e opzionali che avevano allungato l’orario senza migliorare la qualità del servizio.
Tempo prolungato da 36 a 40 ore solo in presenza di requisiti strutturali e di servizio che rispondano alle aspettative delle famiglie.
Esami di terza media Il voto finale dell’esame di terza media sarà calcolato facendo la media aritmetica delle prove orali, di quelle scritte (inclusa la prova nazionale Invalsi) e del voto di ammissione.
Scuola secondaria di II grado Ammissione alla Maturità A partire dall’anno scolastico 2009/10 saranno ammessi all’esame di Stato solo gli studenti che  conseguiranno almeno 6 decimi in tutte le materie e in condotta.
Ecco gli altri provvedimenti che diventeranno operativi nel nuovo anno scolastico indicati nel comunicato stampa del MIUR del 28 agosto 2009.
Scuola digitale Pagelle on line: in molti casi  sarà possibile consultare  on line sul sito delle scuole le pagelle degli studenti.
Sms per segnalare assenze ai genitori: tutte le scuole potranno organizzare sistemi per avvisare via sms i genitori quando i ragazzi sono assenti, come avviene già in molte scuole del Paese.
Assunzioni nella scuola Per l’anno scolastico 2009-2010 vengono immessi in ruolo 8.000 docenti e 8.000 unità di personale ATA, nonché 647 dirigenti scolastici.
Contenimento della spesa per i libri di testo Introduzione dei tetti di spesa per le scelte dei libri da parte degli insegnanti: gli insegnanti devono scegliere libri di testo che abbiano un prezzo inferiore ai tetti di spesa fissati dal Ministero.
Mantenimento degli stessi libri per 5 anni: i testi scelti non potranno essere cambiati per almeno 5 anni nella primaria e 6 nella secondaria.

Le nuove regole di valutazione

Giro di vite sull’ammissione alla maturità, superbravi alla media in via d’estinzione e docenti di religione che dopo lo stop del Tar Lazio ritornano in pista per l’attribuzione del credito scolastico.
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del decreto del presidente della Repubblica numero 122, il Regolamento sulla Valutazione degli alunni è legge.
Un provvedimento che conferma una serie di cambiamenti introdotti già quest’anno (come i voti numerici sin dalla scuola primaria e il voto di condotta) ma che contiene almeno tre importanti novità.
La prima, che susciterà certamente polemiche, è quella sui docenti di religione, recentemente estromessi dal Tar Lazio dal computo del credito.
Il regolamento non tiene affatto conto della sentenza e siccome ha valore di legge a tutti gli effetti potrebbe “sanare” definitivamente la questione relativa ai crediti e rendere superfluo anche il ricorso al Consiglio di stato annunciato dal ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini.
Se così fosse la frequenza della religione cattolica potrebbe garantire agli alunni che se ne sono avvalsi, alla stessa stregua di altre attività anche extrascolatiche, un punticino di credito in più.
Il tutto, a partire dai prossimi esami di riparazione di settembre e a discrezione dei singoli collegi dei docenti.
In questo modo, le insistenti pressioni dei vescovi sul ministero dell’Istruzione, con buona pace di coloro che hanno sostenuto a gran voce la laicità dello Stato e dell’istruzione pubblica, avrebbero ottenuto il risultato sperato.
E l’impegno della Gelmini sarebbe stato mantenuto.
Altra novità che è destinata a fare discutere è la stretta, peraltro annunciata, sull’ammissione agli esami di stato della scuola secondaria superiore.
Dal prossimo mese di giugno, per essere ammessi alla maturità occorrerà avere almeno 6 in ogni disciplina.
Cosicché un buon voto in condotta o in educazione fisica non servirà a colmare lacune e brutti voti in altre materie.
Già quest’anno, con l’introduzione soft della media del 6 per l’ammissione, il numero di “caduti” prima delle prove d’esame è cresciuto del 25 per cento.
E l’ulteriore stretta rischia di decimare gli aspiranti agli esami.
Novità in vista anche per la scuola media.
Dal prossimo anno scolastico, il voto finale degli esami di licenza scaturirà da un conteggio matematico: la media aritmetica dei voti conseguiti all’ammissione, nelle singole prove scritte (tre o quattro), nelle prove Invalsi (i due test di italiano e matematica) e nel colloquio.
Tanto per avere un’idea, quest’anno i licenziati con dieci decimi sono stati quasi otto su 100.
Ma dalla prossima tornata avere il massimo dei voti diventerà quasi impossibile, perché basta avere soltanto quattro 9 e per il resto tutti 10 per vedersi sfuggire il diploma con 10.
E per i più bravi le commissioni avranno a disposizione anche la lode.
(20 agosto 2009) Pubblicato in Gazzetta ufficiale il decreto del presidente della Repubblica.
La normativa non tiene conto della recente sentenza del Tar del Lazio.
Nelle nuove regole di valutazione i prof di religione daranno i crediti.
Per l’ammissione alla maturità servirà la sufficienza in tutte le materie.
All’esame di terza media sarà quasi impossibile ottenere il massimo dei voti.