“Non smetteremo di danzare”.

GIULIO MEOTTI, Non smetteremo di danzare.
Le storie mai raccontate dei martiri di Israele” Lindau, Torino, 2009, ISBN: 978-88-7180-827-7, pp.
360, euro 24,00.
Quasi ogni giorno in Israele ci sono cerimonie funebri per le vittime del terrorismo.
Persone uccise per il solo fatto di essere ebree.
In banca, nei centri commerciali, in pizzeria.
Sul pullman, davanti a un cinema, per strada.
Da sole e in gruppo.
Giovani e vecchi.
Uomini e donne.
Tutti condannati dalla furia del fondamentalismo islamico, bersagli di un odio quotidianamente alimentato da decenni.
Questo lento e inesorabile stillicidio di morti – migliaia e migliaia – è il risultato di una guerra che ha avuto inizio nel 1972, alle Olimpiadi di Monaco, quando undici atleti della delegazione israeliana vennero trucidati da un commando di guerriglieri dell’organizzazione palestinese Settembre Nero.
Da allora ogni cittadino di Israele sa che può morire in qualsiasi istante.
Giulio Meotti racconta le storie dei «caduti in battaglia» di questa guerra condotta a fari spenti dal terrorismo islamico, abilmente dissimulata tra i fatti di cronaca della «questione palestinese», dietro la quale si cela la vera causa di una simile strage: l’antisemitismo.
Complice la distrazione dei media occidentali, queste storie ci appaiono sinistramente inedite, come se le leggessimo per la prima volta.
Come se neanche fossero vere.
Eppure nelle parole e nel dolore dei sopravvissuti – mogli, mariti, figli, padri, madri, nonni, sorelle, fratelli, amici, commilitoni, compagni di studi, conoscenti – ogni particolare suona autentico, definitivo, indimenticabile.
Parecchie di queste storie si intrecciano con quelle tristemente note della Shoah: chi muore oggi negli attentati è spesso figlio o nipote di un sopravvissuto ai campi di sterminio e diventa così parte di una sola, tragica, incomprensibile sequela.
L’ebraismo insegna che l’hazkarah, l’atto del ricordare, è l’unico modo per chi sopravvive di provare l’ingiustizia sofferta da ogni innocente e di opporsi al destino che molti vorrebbero riservare agli ebrei, anche in Israele: l’esilio, la fuga, il martirio.
Leggere queste pagine è quindi già un atto di resistenza alla barbarie.
L’AUTORE Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003.
Ha scritto per il «Wall Street Journal».
Con Lindau ha pubblicato Il processo della scimmia.
La guerra dell’evoluzione e le profezie di un vecchio biochimico (2006).
Può essere contattato scrivendo a meotti@ilfoglio.it I sommersi di Israele di Giulio Meotti Da “Non smetteremo di danzare”, pp.
26-36 Perché questo libro? Perché non vi era neppure una storia dei morti d’Israele.
È stato scritto senza alcun pregiudizio contro i palestinesi, è un racconto mosso dall’amore per un grande popolo e la sua meravigliosa e tragica avventura nel cuore del Medio Oriente e lungo tutto il XX secolo.
Ogni progetto di sterminio di una intera classe di esseri umani, da Srebrenica al Ruanda, ha avuto la sua migliore narrativa.
A Israele non sembra concesso, dalla storia si è sempre dovuto lavare via in fretta il sangue degli ebrei.
Ebrei uccisi perché ebrei e le cui storie sono state ingoiate nella disgustosa e amorale equivalenza fra israeliani e palestinesi, che non spiega nulla di quel conflitto e anzi lo ottunde fino ad annullarlo.
Il libro vuole salvare dall’oblio questo immenso giacimento di dolore, suscitando rispetto per i morti e amore per i vivi.
[…] Il più bel regalo, in questi quattro anni di ricerche, me lo hanno fatto gli israeliani che hanno aperto il loro mondo martoriato alla mia richiesta di aiuto, sono rimasti nudi con il proprio dolore.
Ero io a bussare alla loro porta, un estraneo, un non ebreo, uno straniero.
Ma mi hanno teso tutti una mano e parlato dei loro cari per la prima volta.
[…] Ho deciso di raccontare alcune grandi storie israeliane vivificate  dall’idealismo, dal dolore, dal sacrificio, dal caso, dall’amore, dalla paura, dalla fede, dalla libertà.
E dalla speranza che, nonostante tutto questo silenzio, Israele alla fine vinca.
[…] Ci sono persone incredibili come l’ostetrica Tzofia, che ha perso il padre rabbino, la madre e un fratellino, ma oggi aiuta le donne arabe a far nascere i loro bambini.
[…] C’è il copista di Torah, Yitro, che si convertì all’ebraismo e il cui figlio è stato rapito e giustiziato da Hamas.
C’è Elisheva, proveniente da una famiglia di pionieri agricoltori che ha perso tutti ad Auschwitz e una figlia incinta al nono mese per mano di terroristi spietati, perché “voleva vivere l’ideale ebraico”.
[…] A Tzipi hanno pugnalato a morte il padre rabbino e dove un tempo c’era la sua stanza da letto oggi sorge un’importante scuola religiosa.
Ruti e David hanno perso rispettivamente il marito e il fratello, un grande medico umanista che si prendeva cura di tutti, arabi ed ebrei.
C’è il rabbino Elyashiv, a cui hanno strappato un figlio seminarista ma che continua a credere che “nella vita tutto rafforza il forte e indebolisce il debole”.
Poi c’è Sheila, che parla sempre dell’arrivo del Messia e di come suo marito si prendeva cura dei bambini Down.
Menashe ha perso il padre, la madre, il fratello e il nonno in una notte di terrore, ma continua a credere nel diritto di vivere dove Abramo piantò la tenda.
[…] Elaine ha perso un figlio durante la cena di shabath e per oltre un anno non ha cucinato o emesso suoni.
Ci sono gli amici di Ro’i Klein, scudo umano che saltò su una mina recitando lo Shema’ Israel e salvando la vita dei compagni di brigata.
Yehudit ha perso la figlia troppo presto, al ritorno da un matrimonio assieme al marito.
Anche a Uri, che ha fatto alyah dalla Francia, hanno portato via la figlia, volontaria fra i poveri.
Orly ha vissuto felice in un caravan, ma suo figlio non fece in tempo a rimettersi in testa la kippah prima di essere ucciso.
C’è Tehila, una di quelle donne timorate ma moderne che popolano gli insediamenti, moglie di un idealista che “viveva la terra”, amava i ciuffi rosa e celesti dei fiori della Samaria.
[…].
C’è anche il meraviglioso Yossi, suo figlio ha sacrificato la propria vita per salvare quella degli amici e ogni venerdì andava a distribuire doni religiosi ai passanti.
Rina aveva creato una perla nel deserto egiziano, si credeva una pioniera e si è vista portare via un figlio con la moglie incinta.
[…] C’è Chaya, che ha abbracciato il giudaismo assieme al marito, la conversione per loro “era come sposarsi con Dio”.
[…] Tutte queste storie ci raccontano di questo Stato unico al mondo, nato da un’ideologia laica ottocentesca come il sionismo, che sulle ceneri dell’Olocausto radunò sulla sua terra d’origine un popolo esiliato duemila anni prima e sterminato per più della metà.
Storie che ci dicono del coraggio, della disperazione, della fede, della difesa della propria casa cercando, anche se a volte si sbaglia, di mantenere la “purezza delle armi” nell’unico esercito che consente di disubbidire a un ordine disumano.
[…] La storia di queste vittime ebree non è soltanto una storia di eroi.
È quasi sempre gente indifesa.
[…] Il Centro di Studi Antiterrorismo di Herzliya, il più importante istituto di analisi in Israele, ha calcolato che soltanto il 25 per cento delle vittime israeliane erano militari.
La maggioranza erano e sono ebrei in abiti civili.
Fra gli israeliani, le donne costituiscono il 40 per cento delle vittime totali.
Gli europei credono che Israele sia il soggetto forte, la patria e la guarnigione in armi che ha dalla sua il controllo del territorio, la tecnologia, i soldi, il sapere consolidato, la capacità di usare la forza, l’amicizia e l’alleanza con gli Stati Uniti.
E che contro di esso si erga la struggente debolezza di un popolo che rivendica i suoi diritti, disposto al martirio per ottenerli.
Ma non è così.
Le storie di questi nuovi “sommersi” lo dimostrano.
Gli israeliani hanno dimostrato di amare la vita più di quanto temano la morte.
I terroristi hanno ucciso centinaia fra insegnanti e studenti, ma le scuole non hanno mai chiuso.
Hanno ucciso medici e pazienti, ma gli ospedali hanno sempre funzionato.
Hanno massacrato esercito e polizia, ma la lista di chi si offre volontario non è mai diminuita.
Hanno preso a fucilate i bus di fedeli, ma i pellegrini continuano ad arrivare in Giudea e Samaria.
Hanno fatto stragi nei matrimoni e costretto le giovani coppie a sposarsi nei bunker sotto terra.
Ma la vita ha sempre vinto sulla morte.
Come quando, alla festa notturna al Sea Market Restaurant di Tel Aviv, Irit Rahamim festeggiava l’addio al celibato.
Quando il terrorista comincia a sparare e a lanciare granate sulla folla, Irit si butta a terra, e sdraiata sotto il tavolo chiama il futuro marito e gli dice che lo ama.
Fra le urla.
E la morte.
__________ Il libro: Giulio Meotti, “Non smetteremo di danzare.
Le storie mai raccontate dei martiri di Israele”, Lindau, Torino, 2009, pp.
360, euro 24,00.
Oggi gli ebrei di tutto il mondo commemorano i loro martiri della “notte dei cristalli”, cioè le vittime del pogrom nazista della notte tra il 9 e il 10 novembre 1938, in Germania.
Di quel massacro e poi del tremendo successivo sterminio degli ebrei ad opera del Terzo Reich oggi si fa universale e penitenziale memoria.
Non accade invece lo stesso, in Europa e in Occidente, per le numerose altre vittime ebree che cadono da anni in Israele, abbattute dal terrorismo musulmano.
Ogni volta che qualcuno di loro viene ucciso, entra nelle notizie e presto ne esce.
Finisce sommerso nell’indistinto della “questione palestinese”, letta da molti come prodotto della “colpa” di Israele.
Intanto, una famiglia israeliana su trecento è stata già colpita da un attentato.
Le azioni terroristiche si contano a migliaia.
Gli attentati suicidi andati a bersaglio sono più di 150 e per ogni attentato eseguito la polizia israeliana calcola di averne prevenuti altri nove.
A tutt’oggi, il totale dei morti è di 1723, di cui 378 donne.
I feriti sono più di diecimila.
Alla distrazione dell’occhio occidentale e cristiano di fronte a questo stillicidio di vittime, colpite sistematicamente nel tran tran quotidiano, sugli autobus, nelle caffetterie, nei mercati, in casa, reagisce un libro che per la prima volta racconta le loro storie.
Ci dice finalmente chi sono.
Il libro è uscito da un mese in Italia e presto sarà tradotto a New York e Londra.
Ha per titolo “Non smetteremo di danzare”.
E per sottotitolo: “Le storie mai raccontate dei martiri di Israele”.
L’autore, Giulio Meotti, è già noto ai lettori di www.chiesa per due suoi reportage che hanno avuto grande risonanza: sulla città più islamizzata d’Europa, Rotterdam, e sui “giovani delle colline”, i coloni israeliani dell’ultima generazione.
Questo suo ultimo libro si apre con una prefazione del filosofo inglese Roger Scruton e con una lettera di Robert Redeker, lo scrittore francese che vive in una località segreta da quando è stato minacciato di morte da islamisti fanatici.
Ecco qui di seguito un estratto del primo capitolo.

Il crocifisso, simbolo di sofferenza

Crocefissi in classe? Almeno non dite di essere liberali di Francesca Rigotti in l’Unità del 11 novembre 2009 Se alcuni settori del paese Italia non si riconoscono in uno stato laico e liberale, che lo facciano, ma abbiano almeno, se non il coraggio, la banale coerenza di dichiararlo e e di rinunciare all’ uso e all’abuso di termini quali libertà e liberalismo.
La battaglia del crocifisso.
Quella rivolta degli anni venti
di Filippo Ceccarelli in la Repubblica del 11 novembre 2009 “…
vale segnalare …quanto avrebbe risposto Antonio Gramsci, rinchiuso nel carcere di Turi, quando una guardia entrò imbarazzata in cella con l´ordine di apporvi il crocifisso: «Se fosse una roba che puzza, direi di no.
Ma come ci sto io, ci può stare anche lui».
Tra poveri Cristi, d´altra parte, ci si intende sempre.” Ma io difendo quella croce di Marco Travaglio in Il Fatto quotidiano del 5 novembre 2009 Dipendesse da me, il crocifisso resterebbe appeso nelle scuole.
E non per le penose ragioni accampate da politici e tromboni di destra, centro, sinistra e persino dal Vaticano.
Anzi, se fosse per quelle, lo leverei anch’io.” “le (alla chiesa) mancano proprio le parole.
Oggi i peggiori nemici del crocifisso sono proprio i chierici.
E i clericali.” Il crocefisso ridotto a bandiera nazionale di Filippo Gentiloni in il manifesto del 8 novembre 2009 “Non più il Gesù storico, dunque, ma un simbolo nazionale, portatore di unità tradizionale.
Un po’ come la lingua o il costume.
O la bandiera.
Uno spostamento di prospettiva che rappresenta una vera e propria degradazione del crocefisso.
Gesù destoricizzato perché sia «di tutti».
È il prezzo che l’autorità cattolica è pronta a pagare per mantenere la sua universalità? Se ne può discutere.” Il crocifisso addosso di Emilio Gentile in Il Sole 24 Ore del 8 novembre 2009 “Forse i giudici della Corte di Strasburgo…
sono stati inconsapevoli strumenti di un Disegno Superiore mirante a restituire la maestà del sacro al simbolo massimo della religione cristiana, sottraendolo ai molti usi che se ne fanno.
Infatti, il crocifisso lo si vede dondolare dai lobi, dalle narici…
ondeggiare su prosperosi seni…
pencolare da bracciali, portachiavi…
apparire stampigliato su indumenti e tatuato sulla pelle.
Chi lo esibisce…
probabilmente ha frainteso le parole di Gesù: «Se uno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Matteo, 16,24).
Molti che esibiscono il crocifisso hanno probabilmente scambiato “portare” per “indossare”…
l’hanno indossata.
Senza rinnegare se stessi.” Isteria senza fede intervista a Marinella Perroni a cura di Marco Politi in il Fatto quotidiano del 6 novembre 2009 “È terribile che la croce possa servire a fare violenza, anche solo verbale.
La croce è un testo, una narrazione della morte e resurrezione di Cristo, che invita ad un comportamento da tenere.
Guai se diventa un pretesto.
Perché non si riesce a fare una riflessione ad alto livello sulla sentenza della Corte di Strasburgo?” “vorrei che la Chiesa aprisse una riflessione con tutte le anime della cattolicità e del cristianesimo del nostro paese su ciò che significa essere testimoni della fede oggi in Italia” I vescovi, il premier e la partita del timer di Marco Politi in il Fatto quotidiano del 8 novembre 2009 “Per la Chiesa italiana la battaglia sul crocifisso è giunta come un’occasione insperata per cavalcare l’onda dell'”identità” e delle tradizioni popolari cattoliche.
Per presentarsi quale interprete nazionale di un simbolo, intorno al quale con maggiore o minore intensità si schiera gran parte del mondo politico…” La selva di croci sopra Strasburgo di Lorenzo Mondo in La Stampa del 8 novembre 2009 “Mi sembra distratta, avventata, e nella sostanza ingiusta (summum ius, summa iniuria) la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ritiene illegittima l’esposizione del Crocifisso nelle scuole italiane.
Nella dottrina e nella pratica corrente quell’icona non provoca conseguenze discriminatorie e persecutorie, come dimostra tra l’altro il fatto che sotto le sue braccia accoglienti sono cresciuti fior di anticlericali e laici catafratti.” Il giovane Sami Albertin — la cui madre ha chiesto la rimozione del crocifisso dalle scuole statali approvata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ricevendo per questo su forum e blog volgari insulti da chi, per il solo fatto di proferirli, non ha diritto di dirsi cristiano — dev’essere molto sensibile e delicato come una mimosa, se, com’egli dice, «si sentiva osservato» dagli occhi dei crocifissi appesi nella sua classe.
Se erano tre, come egli ricorda, erano un po’ troppi, ma provare turbamenti da giovane Werther o da giovane Törless è forse un po’ esagerato; fa pensare a quella prevalenza dei nervi sui muscoli irrisa da Croce, che preferiva studenti studiosi e gagliardi a precoci giacobini.
La sentenza e soprattutto i suoi strascichi provocheranno — ed è questa la conseguenza più grave — un passo indietro in quella continua lotta per la laicità che è fondamentale, ma che è efficace — ha ricordato Bersani, uno dei pochi a reagire con equilibrio a tale vicenda — solo se non travolge il buon senso e non confonde le inique ingerenze clericali da combattere con le tradizioni che, ancora Bersani, non possono essere offensive per nessuno.
La difesa della laicità esige ben altre e più urgenti misure: ad esempio — uno fra i tanti — il rifiuto di finanziare le scuole private, cattoliche o no, e di parificarle a quella pubblica, come esortava il cattolicissimo e laicissimo Arturo Carlo Jemolo.
Sono contrario a ogni Concordato che stabilisca favori a una Chiesa piuttosto che a un’altra anche se numericamente poco rilevante; ritengo ad esempio — è solo un altro esempio fra i tanti — che il matrimonio cattolico e il suo eventuale annullamento ecclesiastico non dovrebbero avere alcuna rilevanza giuridica, che dovrebbe essere conferita solo dal matrimonio e dal suo eventuale annullamento civile.
«Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato!», pare abbia detto Cavour in punto di morte al religioso che lo esortava a confessarsi.
Forse è una leggenda, ma esprime bene la fede nel valore della laicità — che non è negazione di alcuna fede religiosa e può anzi coesistere con la fede più appassionata, ma è distinzione rigorosa di sfere, prerogative e competenze.
L’obbligatoria rimozione del crocifisso è formalmente ineccepibile, in quanto la separazione fra lo Stato e la Chiesa — tutte le Chiese — non richiede di per sé la presenza di alcun simbolo religioso.
La legge tuttavia consente di temperare la formale applicazione del diritto con l’equità ossia con la giustizia nel caso concreto.
Ad esempio è giusto che i responsabili di istituzioni pubbliche non possano affidare lavori che riguardino quest’ultime senza indire pubbliche gare di appalto, perché altrimenti si favorirebbe la corruzione.
Confesso che trenta o quarant’anni fa, all’epoca in cui dirigevo a Trieste un minuscolo e fatiscente Istituto di Filologia germanica, quando in una gelida giornata invernale di bora si era rotto il vetro di una piccola finestra ed entrava il gelo, non ho indetto alcuna gara d’appalto bensì ho cercato nella guida telefonica il vetraio più vicino, l’ho chiamato e gli ho pagato la piccola cifra richiesta, facendola gravare sulle piccole spese destinate all’acquisto di cancelleria, gomme, carta igienica, gesso.
Formalmente sarebbe stato possibile incriminarmi, ipotizzando un mio illecito accordo col vetraio; ad ogni buon conto confesso il reato solo ora, in quanto caduto in prescrizione.
Credo tuttavia che, in quel caso come in altri, ciò avrebbe convalidato il detto, proclamato da rigorosi giuristi e non da teste calde, «summum ius, summa iniuria» — massimo diritto, massima ingiustizia.
E così forse è il caso del crocifisso.
Quella figura rappresenta per alcuni ciò che rappresentava per Dostoevskij, il figlio di Dio morto per gli uomini; come tale non offende nessuno, purché ovviamente non si voglia inculcare a forza o subdolamente questa fede a chi non la condivide.
Per altri, per molti, potenzialmente per tutti, esso rappresenta ciò che esso rappresentava per Tolstoj o per Gandhi, che non credevano alla sua divinità ma lo consideravano un simbolo, un volto universale dell’umanità, della sofferenza e della carità che la riscatta.
Un analogo discorso, naturalmente vale per altri volti universali della condizione umana, ad esempio Buddha, il cui discorso di Benares parla anche a chi non professa la sua dottrina ed è radicato nella tradizione di altre civiltà come il cristianesimo nella nostra.
Per altri ancora, scriveva qualche anno fa Michele Serra, quel crocifisso è avvolto dalla pietas dei sentimenti di generazioni.
Altri ancora possono essere del tutto indifferenti, ma difficilmente offesi.
Si può e si deve osservare che le potenze terrene di cui quel crocifisso è simbolo e sostanza ossia le Chiese si sono macchiate e talvolta si macchiano ancora di violenze, prepotenze, ipocrisie, che negano quell’uomo in croce e fanno del male agli uomini.
Tutte le Chiese, non solo la cattolica; anche i protestanti hanno i loro roghi di streghe e la consonante finale dell’orrenda sigla razzista wasp (bianchi anglosassoni protestanti, sprezzantemente contrapposti ai neri).
Naturalmente, siccome a noi stanno sullo stomaco le prepotenze della Chiesa cattolica, quando essa le commette, è giusto prendersela con essa prima che con le malefatte di altre confessioni in altri Paesi.
Ma come quella p di wasp non offusca la grandezza della Riforma protestante e del suo libero esame, i misfatti e le pecche delle Chiese cristiane d’ogni tipo non offuscano l’universalità di Cristo, che anzi le chiama a giudizio.
Su ogni bandiera e anche sulla croce ci sono le fetide macchie dei delitti commessi dai loro seguaci.
In nome della patria si sono perpetrate violenze feroci; in nome della libertà e della giustizia si sono innalzate ghigliottine e creati gulag; in nome del profitto svincolato da ogni legge si sono compiute inaudite ingiustizie e crimini.
Sulla bandiera dell’Inghilterra e della Francia c’è anche lo sterco della guerra dell’oppio, una guerra mossa per costringere un grande ma allora indifeso Paese a drogarsi in nome del profitto altrui.
L’elenco potrebbe continuare a piacere.
Ma le barbarie nazionaliste non cancellano l’amor di patria; la guerra dell’oppio non cancella l’universalità della Magna Charta e della Dichiarazione dei Diritti dell’89 e quelle bandiere, inglese e francese, restano degne di rispetto e d’amore; il gulag installato in uno Stato che si proclamava socialista non distrugge l’universalità del socialismo e la ghigliottina non ha decapitato l’idea di libertà e di repubblica.
E così tutto il negativo che si può e si deve addebitare alle Chiese cristiane non può far scordare anche il grande bene che loro si deve; la Chiesa cattolica non è solo Monsignor Marcinkus; è anche don Gnocchi e don Milani o padre Camillo Torres, morto combattendo per difendere i più miseri dannati della terra.
Quell’uomo in croce che ha proferito il rivoluzionario discorso delle Beatitudini non può essere cancellato dalla coscienza, neanche da quella di chi non lo crede figlio di Dio.
La bagarre creata da questa sentenza farà dimenticare temi ben più importanti della difesa della laicità, fomenterà i peggiori clericalismi; dividerà il Paese in modo becero su entrambi i fronti, darà a tanti buffoni la tronfia soddisfazione di atteggiarsi a buon prezzo a campioni della Libertà o dei Valori, il crocifisso troverà i difensori più ipocriti e indegni, quelli che a suo tempo lui definì «sepolcri imbiancati».
Il Nostro Tempo ha ricordato che Piero Calamandrei — laico antifascista, intransigente nemico della legge truffa dei governi democristiani e centristi di allora— aveva proposto di affiggere, nei tribunali, il crocifisso non alle spalle ma davanti ai giudici, perché ricordasse loro le sofferenze e le ingiustizie inflitte ogni giorno a tanti innocenti.
Evidentemente Calamandrei era meno delicatino del giovane Albertin.
In Italia, la sentenza è un anticipato regalo di Natale al nostro presidente del Consiglio, cui viene offerta una imprevista e gratissima occasione di presentarsi nelle vesti a lui invero poco consone, di difensore della fede, dei valori tradizionali, della famiglia, del matrimonio, della fedeltà, che quell’uomo in croce è venuto a insegnare.
È venuto per tutti, e dunque anche per lui, ma questo regalo di Natale non glielo fa Gesù bambino bensì piuttosto quel rubizzo, giocondo e svampito Babbo Natale che fra poche settimane ci romperà insopportabilmente le scatole, a differenza di quel nato nella stalla.
Claudio Magris 07 novembre 2009

VI edizione di ABCD

Dall’11 al 13 novembre 2009 la Fiera di Genova ospiterà la VI edizione di ABCD, Salone Italiano dell’Educazione.
ABCD è il luogo di confronto dove convergono ed interagiscono gli operatori e i fruitori del “sistema educazione” attraverso incontri, iniziative, seminari, dedicati ai temi di maggiore attualità: dalla prevenzione alimentare alla conoscenza del territorio, dall’orientamento all’uso delle tecnologie multimediali e digitali, dai temi dell’università e della ricerca alle nuove tecnologie.
La manifestazione di quest’anno si presenta arricchita da nuovi e stimolanti contenuti in grado di rispondere alle esigenze dei visitatori e delle aziende specializzate nella fornitura di prodotti e servizi per la scuola e l’educazione.
Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca è presente alla manifestazione con un proprio spazio espositivo all’interno del quale, in collaborazione con l’ANSAS, allestirà una piccola aula multimediale, dove docenti esperti condurranno esercitazioni sull’uso delle LIM.
Nello stand saranno presenti anche gli Uffici Scolastici Regionali della Liguria, del Piemonte, della Lombardia, dell’Emilia Romagna e della Toscana che presenteranno delle best practices prodotte dalle scuole del territorio di propria competenza.
Di particolare importanza è il convegno internazionale “LIM e contenuti digitali – modifica degli ambienti di apprendimento”, promosso dal Dr.
Giovanni Biondi – Capo Dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali del MIUR – che si terrà presso la Sala Liguria mercoledì 11 novembre 2009 dalle ore 10,30 alle ore 13,00.
La nota del 5 ottobre 2009 prot.n.
14940
prevede l’esonero dal servizio dei docenti interessati alla manifestazione.
Ulteriori informazioni possono essere reperite sul sito ABCD – Salone Italiano dell’Educazione

Avviare un percorso didattico sul sacro

SECODARIA DI SECONDO GRADO:  I ANNO                    I.
INTERVENTO: IL SACRO.
       1.      Brainstorming sulla parola sacro        2.      Ricerca di immagini sul tema:                Cosa io considero sacro?                                                 immagini di eventi naturali           3.      Brainstorming con immagini presentate da me:              Domanda: emozioni, sentimenti, sensazioni che ti suscitano le immagini.
     Immagine il Cristo di Dalì, il pensatore……       4.      Da un senso alle parole creando un testo 5.      Riflessione sul cammino fatto fino a questo momento:          dalla realtà sono nate emozioni , sentimenti, stati d’animo         Abbiamo trasformato il tutto in poesie, testi, racconti che ci appartengono, sono nostri.          Abbiamo fatto esperienza del sacro.
        Il sacro è in noi.          Ecco perché l’uomo da sempre ha manifestato questo rapporto con la realtà.
6.    Come lo ha manifestato?’’’  II.
INTERVENTO: IL SIMBOLO   1.   Il simbolo: realtà che ci riporta ad un’altra realtà   2.
Individuare e mettere a confronto i nostri simboli del sacro  3.
Ricercare  i simboli con i quali l’uomo  ha manifestato il sacro nella storia   4.
Confronto dibattito di gruppo: Quale significato hanno per noi i simboli del sacro?   5.
Esprimere la propria convinzione attraverso la produzione di un documento                                               

Il crocifisso e la scuola

Mi piacerebbe che il crocifisso esistesse nei cuori prima che sui muri pubblici, nelle coscienze prima che nei tribunali e nelle scuole.
  Di: Maria de falco marotta.
Ogni tanto, qualcuno ce l’ha con il crocifisso.
Da togliere assolutamente, altrimenti deconcentra le coscienze di chi lo guarda( magari, visto che oggi nessuno si turba più per niente).
Così ha deciso la Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo contro la presenza del crocifisso in classe.
Quel simbolo  è parte della nostra storia e della nostra cultura.
Non contrasta con la libertà di religione o di educazione(di fatto, ogni alunno può scegliere quale seguire).
Per i cristiani e’ un simbolo di fede, della vicinanza di Dio all’umanità’ fino ad assumerne fisicità, sofferenza, dolore e morte.
Per tutti indistintamente e’ segno di innocenza,mitezza, sacrificio di sé per gli altri.
Quella croce per nessuno e’ ragione di oppressione, costrizione o intolleranza.
Per tutti – anche per gli atei- e’ motivo di solidarietà e amore.
Tanto per far capire, provasse qualcuno a togliere il Corano dalle moschee che sono- prima di tutto scuole.
Si griderebbe allo scandalo e alla Fatwa.
Noi cristiani siamo proprio “deboli” come Gesù.
Oggi nessuno di noi alzerebbe la mano contro il fratello diverso.
E proprio non capisco il perché di questa sentenza della Corte di Strasburgo, anzi la capisco appieno.
Come si è tolto dal Documento fondativo della Comunità europea almeno un accenno alle radici cristiane d’Europa, oggi si pretende di imporre ad uno Stato quale è l’Italia, di estirpare le sue antiche fondamenta, solo per la ragione che ad una tizia disturba che i suoi figli( mi piacerebbe interrogarli…) vedono il crocifisso nelle loro classi.
In qualunque tempo il crocifisso significa questo: la potenza divina si è fatta inerme, rifiuta la spada  non solo per la conquista ma anche per l’autodifesa e sceglie di morire su un patibolo infame.
Un simbolo per la non violenza come fonte di storia.
Sono convinta anche che non sono i crocifissi esibiti a fare cristiana una società, ma i cristiani, se sono capaci di pace e di giustizia, di adorazione e di rivolta di fronte all’oppressione e al massacro dei più deboli.
Chi ha paura del Crocifisso?   C’è da chiedersi perché molti temono che il crocifisso stia lì su quella parete, non da oggi.
Non si tratta di accendere la miccia di una guerra di religione, né di affermare una supremazia della cultura cattolica sulle altre.
C’è solo di affermare che questa cultura c’è, che non si può pensare al futuro, ad un’integrazione di culture diverse, senza conoscere la propria storia e soprattutto senza amarla.
Ogni tanto in molte scuole il crocifisso è sparito dalla parete sulla quale era appeso.
La croce se ne stava buona ad assistere alle lezioni, appesa con un chiodo sopra alla lavagna e non aveva mai turbato la crescita degli alunni, né offeso i ragazzi di altre religioni.
Non si tratta di un simbolo di una supremazia, rappresenta la storia a cui apparteniamo.
Di seguito, propongo delle riflessioni pluraliste, sul perché e per come il Crocifisso debba essere o non essere sulle pareti delle istituzioni pubbliche italiane.
I pareri sono di ieri e di oggi, per tale motivo, possono apparire “superati”.
Ma le buone idee, non sono mai superate.
 Non togliete quel crocifisso  Dicono che il crocifisso deve essere tolto dalle aule di scuola.
Il nostro è uno Stato laico che non ha il diritto di imporre che nelle aule ci sia il crocifisso.
La signora Maria Vittoria Montagnana, insegnante a Cuneo, aveva tolto il crocifisso dalle pareti della sua classe.
Le autorità scolastiche le hanno imposto di riappenderlo.
Ora si sta battendo per toglierlo di nuovo, e perché lo tolgano da tutte le classi nel nostro paese.
Per quanto riguarda la sua classe ha pienamente ragione.
(…) I problemi sono tanti e drammatici, nella scuola e altrove, è questo è un problema da nulla.
È vero.
Pure a me dispiace che il crocifisso scompaia.
Se fossi un insegnante, vorrei che nella mia classe non venisse toccato.
Ogni imposizione delle autorità è orrenda , per quanto riguarda il crocifisso sulle pareti.
Non può essere obbligatorio appenderlo.
Però secondo me non può nemmeno essere obbligatorio toglierlo.
(…) Dovrebbe essere una libera scelta.
Sarebbe giusto anche consigliarsi con i bambini.
(…) Il crocifisso in classe non può che essere altro che l’espressione di un desiderio.
(…) L’ora di religione è una prepotenza politica.
È una lezione.
Vi si spendono delle parole.
La scuola è di tutti, cattolici e non cattolici.
Perché vi si deve insegnare la religione cattolica? Ma il crocifisso non insegna nulla.
Tace.
L’ora di religione crea una discriminazione fra cattolici e non cattolici, fra quelli che restano  nella classe in quell’ora e quelli che si alzano e se ne vanno.
Ma il crocifisso non genera nessuna discriminazione.
Tace.
È l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente.
La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo.
Vogliamo forse negare che ha cambiato il mondo? Siamo quasi duemila anni che diciamo “prima di Cristo” e “dopo Cristo”.
O vogliamo forse smettere di dire così? (…) Dicono che da un crocifisso appeso al muro, in classe, possono sentirsi offesi gli scolari ebrei.
Perché mai dovrebbero sentirsi offesi gli ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato, e non è forse morto nel martirio, come è accaduto a milioni di ebrei nei lager? Il crocifisso è il segno del dolore umano.
La corona di spine e i chiodi evocano le sue sofferenze.
La croce che vediamo alta in cima al monte, è il segno della solitudine nella morte.
(…) Tutti, cattolici e laici portiamo o porteremo il peso di una sventura,versando sangue e lacrime e cercando di non crollare.
Questo dice il crocifisso.
Lo dice a tutti, mica solo ai cattolici.
(…) Il crocifisso  fa parte della storia del mondo.
I modi di guardarlo e non guardarlo sono, come abbiamo detto molti.
(…) E’ tolleranza consentire  a ognuno di costruire intorno a un crocifisso i più incerti e contrastanti pensieri(Cfr: Natalia  Ginzburg, estratto da “Il Giornale” del  15/10/02.
Il pezzo uscì anche sull’”Unità “ del 25/03/1988).
False guerre di religione.
  …Il risultato è che l’anno scolastico si apre con un gesto inevitabilmente radicale, e non esattamente ospitale nei confronti delle sempre più numerose comunità non cattoliche che l’immigrazione ha infoltito.
Che le antipatie laiche per i residui confessionali nelle attività pubbliche si rafforzeranno.
E che il crocifisso tornerà a essere strumento di divisione e in qualche modo di potere  (potere di dissuasione nei confronti degli stranieri riottosi all’integrazione), e non per ciò che rappresenta, ma come è usato, “obbligatorio” per volontà ministeriale, sgradevole come tutte le imposizioni(Rosanna Angioi , Liceo Scientifico – Isili: estratto da “Repubblica” del 19/09/2002, p.
17).
 I druidi e il Crocifisso   Tranne, forse, pochi storici, i cattolici hanno dimenticato la vicenda inquietante dell’Action Française e del suo leader Charles Maurras.
Dichiaratamente agnostico se non ateo, gli sembrò di scoprire che una certa tradizione cattolica (quella dei cavalieri, dei crociati, dei “re cristianissimi”, dei grandi reazionari), poteva essere strumentalizzata a servizio del suo obiettivo, tutto politico, di nazionalismo e di conservatorismo, in lotta con la Gauche.
Da qui, la difesa a spada tratta della chiesa (o, meglio, di una certa idea di chiesa) da parte di chi in realtà non credeva in Cristo.
Anche l’Action Française, come certi movimenti odierni si batté – con rumorose campagne – a favore della “ricattolicizzazione” della società, con il recupero dei simboli: croci alle pareti dei luoghi pubblici o agli angoli delle strade, campane suonate il più possibile, processioni spettacolari.
Maurras e i suoi furono condannati severamente da Roma.
Sembrerebbe che oggi qualcosa della deformazione maurassiana rischi di reincarnarsi in politici che – appunto per fini meramente politici – alternano riti paganeggianti e chiusure ai bisognosi a grida di crociata per difendere, dicono, “l’eredità cristiana dell’Occidente”(Vincenzo Marras, estratto da Jesus, Ottobre 2002, p.
3).
No, certi simboli non s’impongono.
  Amos Luzzatto, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane: “Sono perplesso e preoccupato per quanto annunciato dal Ministro Moratti.
Per ragioni politiche, religiose, culturali, ma anche per motivi personali.
Non potrò mai dimenticare il senso di esclusione, di isolamento e di inferiorità imposta che provavo quando, alunno delle elementari, negli anni ’30, entravo in aula e vedevo il crocifisso esposto sulla cattedra.
Sono sensazioni che ti segnano per tutta la vita.
E’ vero che l’Italia è a grandissima maggioranza cattolica ed è giusto che abbia i suoi simboli.
Ma quando una maggioranza impone i suoi simboli alle minoranze, non è un buon segno e c’è da preoccuparsi (Estratto da “Repubblica” del 19/09/2002, pag.
5).
  Se non togliete quella croce infilata sul mappamondo… MOSUL (Nord Iraq) – La minaccia islamica è arrivata assieme ai volantini che chiamano alla conversione, ormai periodicamente infilati di notte sotto le porte delle abitazioni cristiane a Mosul.  Se non togliete quella croce infilata sul mappamondo, che sta sul tetto della chiesa di Nostra Signora di Fatima, ci penseremo noi a rimuoverla con la forza , ripetevano gli imam nelle moschee.
E così l’arcivescovo siro – cattolico, Georges Casmoussa, ha deciso di nascondere la croce sull’edificio appena restaurato l’anno scorso, coprendola in parte con una gran scritta nera su un pannello di plastica bianca che riporta il nome della chiesa.
Il motivo?  I musulmani affermavano che il sostegno sferico su cui poggia la croce sembrava simboleggiare la volontà del dominio cristiano sul mondo intero.
E qui ribadiscono che questa è terra islamica , spiegano nei corridoi dell’arcivescovado.
Il viaggio tra la provincia di più antica civilizzazione cristiana in Iraq rivela paure raccontate a bassa voce.  Una comunità in decadenza , ammettono al patriarcato caldeo di Bagdad.
.
Nel 1989 c’erano oltre 600.000 cristiani (l’80 per cento cattolici) in Iraq, ma dall’invasione del Kuwait nel 1990 hanno iniziato ad emigrare.
Oggi non arrivano ai 450.000 , afferma un alto prelato.
Ma con i timori di una nuova guerra il senso di insicurezza si è fatto piÿ acuto, alimentato da una serie di fatti gravi.
Il più misterioso è stato l’assassinio di Cecilia Hannamushi, una suora di 70 anni sgozzata nel suo letto a Bagdad a metà agosto.  Le hanno tagliato il collo con un coltellaccio da cucina, poi è stata legata seminuda mani e piedi, potrebbe anche esser stata violentata , raccontano.
Un delitto subito condannato dal regime.
I tre aggressori sono stati mostrati alla tv locale prima dell’esecuzione capitale.  Erano solo dei ladri , dicono i portavoce della polizia.
Ma nella vicina chiesa di Mar Yusef non sono convinti:  E’ stata un’esecuzione in pieno stile algerino, l’accanimento contro il cadavere si spiega solo con l’odio religioso .
La violenza ha raggiunto anche Mosul.
La seconda domenica di settembre, un gruppo di estremisti armati di pietre e coltelli si è scagliato contro i fedeli che uscivano dalla messa.
Se la sono presa in particolare con le ragazze che secondo loro portano le gonne troppo corte e non si coprono il capo , rivelano nella scuola vicino all’arcivescovado.
E’ una scuola mista per cristiani e musulmani, da qualche anno Saddam Hussein ha fatto chiudere in tutto il Paese quelle private finanziate dalla Chiesa.
Ma i professori cristiani accettano di bisbigliare qualche veloce testimonianza solo quando i colleghi e gli allievi musulmani si allontanano: Qui stanno crescendo i gruppi wahabiti finanziati e spalleggiati dall’ Arabia Saudita.
Vorrebbero che diventassimo tutti musulmani .
 Il paradosso è che in verità il Ba’ath, il partito di Saddam Hussein, ha una tradizione laica che privilegia la convivenza tra le fedi.
Prova ne è che il numero due del regime, Tarek Aziz, è un cristiano.
Qui in passato c’era più tolleranza che in Egitto o in Giordania.
Ma ora i cristiani in Iraq sono una minoranza che teme l’anarchia del dopo Saddam, nel caso di un attacco americano.
Vedono nel regime l’unico scudo contro il fondamentalismo islamico.
Negli ultimi anni però lo stesso Saddam ha voluto islamizzare la società per raccogliere il consenso contro il nemico esterno.
E i cristiani si trovano in una posizione sempre più fragile , analizzano nei circoli diplomatici occidentali nella capitale.
I segni del nuovo islamismo di Stato sono evidenti: ormai non si può costruire una nuova basilica senza che vicino non sorga una moschea.
I nomi dei neonati cristiani devono essere arabizzati.
Non si può più chiamare, per esempio, il proprio figlio Giuseppe, ma solo Yusef.
È accettata Miriam, ma non Maria.
Il Vaticano ha protestato all’inizio dell’anno presso il governo di Bagdad quando era arrivata la notizia per cui il ministero dell’Interno stava approntando una  lista dei nomi proibiti .
Ma la questione per ora resta aperta(Cfr.:Lorenzo Cremonesi, Corriere 10/11/02)   Crocifisso da abolirsi?   Non è la prima volta che la presenza del Crocifisso nelle Scuole pubbliche viene presa di mira all’insegna di un rispetto per l’altro e di una falsa concezione del ‘laicismo’ dello Stato.
Ultimo è l’intervento del Tribunale dell’Aquila che, acco­gliendo il ricorso presentato da Adel Smith, presidente dell’Unione Musulmani in Italia, ha ordinato la rimozione del Crocifisso esposto nelle aule della Scuola materna ed elementare ‘Antonio Silveri di Ofena’, frequentata dai figli dello stesso Smith.
Nella sentenza emessa dal giudice Mario Montanaro si legge tra l’altro: “Nell’ambito scolastico la presenza del simbolo della croce induce nell’alunno ad una comprensione profondamente scorretta della dimensione culturale della espressione di fede… La presenza del crocifisso nelle aule scolastiche comunica un’implicita adesione a valori che non sono realmente patrimonio comune di tutti i cittadini”.
Si tratta di un ultimo esempio che indica fin dove può giungere una ignoranza e miopia religiosa, dove può approdare il condizionamento da pregiudizi o visioni molto ristrette della realtà.
Alcune persone sono prigioniere di una ideologia che ha fallito.
Tuttavia continuano ancora a sostenerla con più deter­minazione ed esaltazione mistica.
Questo genere di cecità è davvero sconcertante.
Il Crocifisso, simbolo della fede cristiana da duemila anni, oggi si vuol rimuovere dalle aule scolastiche, dagli ospedali, dagli uffici pubblici in nome del pluralismo religioso ed all’insegna del rispetto per l’altro, della tolleranza, del dialogo religioso.
Oltre a questo si sta infiltrando l’uso di non celebrare più il Natale nelle scuole, non fare il presepio, evitare di far cantare inni natalizi.
Il dibattito sulla presenza del Crocifisso nei luoghi pubblici evidenzia un problema più profondo, cioè il rapporto tra coscienza religiosa e coscienza civile all’interno della nostra società pluralistica e secolarizzata.
Per comprendere questo si deve tener conto che oggi la cultura laica ha assimilato nel suo seno alcuni elementi di natura religiosa.
Infatti oggi molti valori originati da una cultura e sensibilità religiosa sono comunemente ritenuti ‘valori laici’ come: primato della persona umana, valore della solidarietà, principio di sussidiarietà, da cui scaturiscono i vari movimenti di volontariato.
Tutti di antica origine cristiana che ormai fanno parte anche della cultura civile.
La distinzione tra l’ambito laico dello Stato e quello religioso della Chiesa, che tuttavia non esclude una collaborazione, implica anche alcune conseguenze.
Da parte della chiesa: c’è la consapevolezza che la fede religiosa non può essere imposta a nessuno.
Da parte dello Stato: la sua laicità esclude ogni ingerenza in campo religioso; non può perciò né imporre, né proibire gli atti religiosi e l’ostensione dei simboli religiosi.
“Nell’ambito del bene comune (nel rispetto sempre dell’ordine pubblico, della legalità e della pubblica moralità), lo Stato ‘laico’ riconosce la rilevanza sociale del fatto religioso, tutela la libertà religiosa e ne garantisce l’esercizio”.
Le soluzioni vanno cercate in un clima di mutua collaborazione.
Certamente si dovrà evitare qualunque tentativo di strumentalizzazione della religione e dei suoi simboli per scopi politici.
Coloro che desiderano esporre il Crocifisso nei luoghi pubblici non devono farlo né per opportunismo, né per ipocrisia.
Ma come segno del dolore di ogni uomo.
In un mondo in cui i segni sono tanti, il segno della croce obbliga ad alzare lo sguardo, a riconoscere l’appartenenza ad una civiltà nata dal cristianesimo.
Anche coloro che non sono disposti ad accettare il Crocifisso per motivi religiosi, dovrebbero ugualmente condividerne l’ostensione almeno per evidenziare i contenuti umanitari che quella realtà esprime.
Ma: come può atteggiarsi a paladino del Crocifisso colui che non s’impegna a vivere almeno ‘laicamente’ questi valori, con i quali invece Colui che si è fatto crocifiggere ha voluto identificarsi? “La croce è per eccellenza il simbolo della universalità dell’amore di Dio e dell’accoglienza aperta a tutti i popoli e a tutte le razze, specialmente ai più diseredati.
Non può divenire il simbolo di una sola cultura o di una specifica identità… Pertanto fare del Crocifisso il simbolo esclusivo della civiltà occidentale, e – peggio ancora – usarlo a fini di discriminazione culturale, etnica e razziale, equivale a distruggere il significato stesso della croce e a rinnegare l’universalità del messaggio cristiano” .
Quando alla croce non si riconoscono più tali caratteristiche, si tende ad eliminarla ma nel contempo viene sostituita con altri simboli (di tremenda memoria la ‘croce uncinata’) che non esprimono questi valori ma esattamente l’opposto.
L’essere umano ha bisogno di simboli ai quali appellarsi.
Se viene privato di quelli veramente religiosi, viene inevitabilmente obbligato a credere in altri non forieri di vita ma di morte.
Per fermarsi alla scuola: da giustamente ‘laica’ sta orientandosi verso un cammino di laicizzazione.
Da ‘laica’ la si vuol trasformare in ‘laicista’.
In questa prospettiva è molto difficile riconosce quei valori umani dei quali il Crocifisso è l’emblema ed il portavoce.
Il Crocifisso, anche da un punto di vista semplicemente umano, è un simbolo altamente educativo.
Non è forse il Crocifisso che, in vita, ha insegnato ad amare il prossimo come noi stessi? Non è questa una lezione di umanità universale? Non ha detto di amare anche i propri nemici, al contrario di altre religioni che invece insegnano l’odio? La croce era il supplizio riservato agli schiavi, alle persone più spregevoli, a coloro che erano considerate ‘res’, ‘cose’, non persone, non degno di un cittadino romano.
Colui che è morto in croce, ha voluto riscattare il dolore umano, ridare personalità a coloro che il diritto romano privava di dignità umana; ha riabilitato i deboli, i poveri, il rifiuto della società.
Il Crocifisso è il simbolo di tutti coloro che nel mondo soffrono e muoiono per l’egoismo e la cattiveria di quelli che li schiacciano con la violenza delle armi e con la sopraffazione del loro potere economico e politico.
La croce è il supremo simbolo dell’amore.
Non sono forse questi aspetti condivisi anche dai laici? “Togliere da un’aula scolastica il Crocifisso significa, in fondo, privare gli studenti di un segno che potrebbe aiutarli a riflettere sulle cause profonde del peso immane e crudele di sofferenza e di morte che grava sui poveri, in particolare sui bambini, in tante parti del mondo; cause che sono l’egoismo e l’avidità del denaro e del potere” .
Questi sono i motivi che hanno convinto il legislatore a mantenere il Crocifisso.
“La Croce, a parte il significato per i credenti rappresenta un simbolo della civiltà e della cultura cristiana, della sua radice storica come valore universale, indipendente da una specifica confessione religiosa” .
La Corte di Cassazione (13 ottobre 1998) ha affermato che la presenza del Crocifisso nelle aule scolastiche non contrasta con la libertà religiosa sancita dalla Costituzione.
Ha inoltre rilevato che la Croce, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendentemente da specifica confessione religiosa.
Ha concluso osservando che la presenza dell’immagine del Crocifisso nelle aule scolastiche non può costituire motivo di costrizione della libertà individuale a manifestare le proprie convinzioni in materia religiosa .
L’Avvocatura di Stato di Bologna (16 luglio 2002) ha sostenuto che “le disposizioni che prevedono l’affissione del Crocifisso nelle aule scolastiche vanno ritenute ancora in vigore… L’affissione del Crocifisso va ritenuta non lesiva del principio della libertà religiosa”.
Nessuno che abbia un minimo di apertura culturale, può negare queste conclusioni.
Questo approccio non può essere frainteso con il proselitismo.
Quante volte si elogiano Martin Luthering, Gandhi per i valori universali che hanno espresso, Buddha per alcuni principi sulla mortificazione ed il superamento delle passioni! Eppure nessuno si permette di dire che si fa propaganda per l’Induismo o per il Buddismo! Perché l’unica eccezione dovrebbe farsi per gl’insegnamenti universali espressi dal Crocifisso? Non si tratta di una estrema miopia intellettuale? Non manifesta questo quanto siano ancora radicati certi pregiudizi storici e quanto sia difficile liberarsene? A meno che uno desideri eliminare anche il riferimento a questi valori che stanno invece a fondamento di una società laica.
Perché allora il Crocifisso come emblema umano, simbolo di una umanità sofferente, tradita e sfruttata, non dovrebbe essere accettato universalmente? Se non si vogliano accettare i contenuti religiosi che illuminano l’umana esistenza e danno un significato a tutto, si possono sempre condividere i contenuti umani, laici.
O forse c’è tanta cecità ed ostinazione da essere disposti a rifiutare anche i contenuti umani pur di non accettare quelli religiosi? Non è forse segno di limitatezza e di poca duttilità mentale il non essere capaci di distinguere i due ambiti? Compassione sarà il lievito dei secoli bui, la fratellanza degli oppressi, l’eguaglianza nel dolore, la libertà di chi non ha più nulla da perdere.
Non c’è progresso senza compassione.
E’ per questo che il Crocifisso non appartiene solo ai cristiani, non è loro monopolio.
Si deve ancora chiarire la natura della laicità.
La Chiesa non ha paura della laicità.
Già Pio XII sosteneva che “la legittima sana laicità dello Stato è uno dei principi della dottrina cattolica” .
Da un certo punto di vista significa distinzione tra poteri civili e religiosi, autonomia dello Stato e rispetto per la Chiesa.
Ma questo non significa marginalizzazione e relativizzazione delle fedi religiose.
Non si può ridurre la fede a qualcosa semplicemente di intimo, privato e pubblicamente irrilevante.
In conseguenza del rispetto che si deve portare per le varie fedi e culture, si dovrebbe rispettare anche il Crocifisso con i suoi significati.
Il rispettare infatti le fedi altrui, non implica compromettere la propria.
L’accettazione dell’altro non dovrebbe concludere con il venir meno alle proprie convinzioni offuscando i contenuti della religione di appartenenza.
La condivisione delle altrui culture non deve portare ad alterare e svuotare la propria dei suoi genuini contenuti.
Il rispetto per le altre religioni non può portare a denigrare la propria.
L’accoglienza di credenti di altre religioni che hanno chiesto ospitalità nel suolo italiano, non può concludersi con la mancanza di rispetto verso coloro che condividono la religione cristiana.
Non è giusto sottovalutare e tanto meno dimenticare una constatazione storica: che cioè l’Italia affonda le sue radici nel cristianesimo che ne ha ispirato i codici morali di base; che la cultura italiana è stata plasmata dal cristianesimo; che le espressioni letterarie ed artistiche non possono essere comprese prescindendo dai contenuti cristiani.
Questa è storia e “contra factum non valet argumentum”.
Il dialogo consiste nell’incontro di due entità, capaci di arricchirsi reciprocamente.
“Se non diamo al Crocifisso significati arroganti e strumentali che non ha, allora conserva quello che è, l’immagine di un Innocente sacrificato dal potere, la fonte, la causa ed il simbolo della nostra compassione, antica, contemporanea e futura.
Guardare poi al Crocifisso non sarà – non potrà mai essere – un atto ideologico, soggetto a interpretazioni o strattoni di parte.
Non ha senso appellarsi al Crocifisso e ignorare o disprezzare le persone crocifisse nella storia di ieri e di oggi, dimenticare le vittime dei campi di sterminio come dei gulag siberiani, scalciare sui disperati che arrivano sui nostri lidi.
Così induce a sospetto dichiararsi con gli ultimi e nel contempo rimuovere l’Ultimo” .
“Soltanto questo ricordo inattuale di lui libera gli uomini dal potere esercitato da fatti e leggi del nostro tempo, dalle coercizioni della storia, e li apre ad un futuro che non ripiomba nell’oscurità.
Ciò che oggi importa è che la chiesa e la teologia riflettano sul Cristo crocifisso per mostrare al mondo la sua libertà” .
Natalia Ginzburg (1916-1991) il 25 marzo 1988- come ho già riportato- ha scritto sul quotidiano L’Unità, un articolo dal titolo “Non togliete quel Crocifisso”.
E’ interessante che un giornale non religioso come L’Unità abbia pubblicato un articolo i cui contenuti tanti cristiani invece non sono capaci di cogliere .
Lei laica ma intelligente ed intellettuale, aveva nella sua onestà compreso i valori universali di quel simbolo.
Ed obiettava contro coloro che, pur cattolici, avevano la vista così corta da non essere capaci di cogliere nel Crocifisso il suo messaggio universale, di non vedere il Lui l’archetipo di ogni persona che soffre.
Passiamo ad una obiezione frequente: la presenza del Crocifisso urterebbe la sensibilità dei musulmani e potrebbe turbare il loro sentimento religioso.
Si tratta di una questione di contenuto teologico.
Prima di rispondere analizziamo alcuni aspetti.
Se un musulmano ha diritto al rispetto delle proprie convinzioni religiose, uguale diritto ha il cristiano al rispetto della propria fede e dei simboli nella quale la esprime.
Se quindi il togliere il Crocifisso da un’aula scolastica può apparire rispettoso verso il sentimento di un musulmano credente, nello stesso tempo però non è rispettoso verso i sentimenti di un cristiano, che si sente gravemente offeso nella propria fede.
Ma forse dietro tutto questo non si nasconde una forte presenza laicista nella cultura e nell’insegnamento, un tentativo tout court di abolire tutto ciò che c’è di religioso nelle espressioni del popolo italiano? Il Crocifisso non può essere ridotto ad una dimensione sociologica.
E’ pregno di contenuti teologici, che qui non posso affrontare per esteso.
Solo due chiarificazioni.
1) Dietro questo ‘zelo’ ed apparente rispetto mi sembra nascondersi una buona dose di ignoranza verso la religione musulmana.
Si sono voluti togliere anche il presepio ed i canti natalizi.
Ma: i cristiani che hanno fatto infelicemente questa scelta non sanno che anche i musulmani venerano Gesù, seppur solo come un grande profeta, ne festeggiano il natale e lo tengono in alta considerazione? L’abrogare queste manifestazioni ed il significato dei simboli non potrebbe essere una mancanza di rispetto verso la loro sensibilità religiosa? Il celebrare il natale non sarebbe una buona occasione di far meglio conoscere il contenuti della fede musulmana e cristiana e far capire che nelle differenze ci sono anche punti in comune? 2) Per la religione musulmana è impossibile che un Dio si sia fatto crocifiggere; questa possibilità è considerata altamente offensiva.
Si tratterebbe di una sconfitta e del trionfo dei suoi carnefici.
Il Corano nega la crocifissione di Cristo come conseguenza della grande stima che ha del Profeta.
Il Profeta deve essere sempre vincitore.
Dio invia il suo messaggero che deve essere sempre vittorioso.
Questa è la visione teologica coranica.
Non potendo negare il fatto della crocifissione, il Corano è ricorso alla escamotage della ‘sostituzione vicaria’: al momento di venire messo in croce, Cristo sarebbe stato misteriosamente ‘sostituito’ da un altro essere umano.
Per cui non sarebbe stato Cristo a morire in croce come un malfattore, ma solo un suo ‘sostituto’.
In tal modo però, secondo questa concezione, non c’è più salvezza, crolla tutto il progetto redentivo del Padre… Per cui anche per i musulmani Gesù Cristo è vivo, seppur con modalità diverse dalla concezione cristiana .
E’ proprio evidenziando questo aspetto che si potrà meglio mettere a fuoco il valore del Crocifisso, che non rappresenta soltanto Cristo apparentemente sconfitto ma che rinvia a tre giorni dopo, alla sua gloriosa risurrezione, preludio della vittoria finale.
Su questo punto  Bormans così si esprime: “La pietà occidentale si è compiaciuta, soprattutto a partire dal Medioevo, a rappresentarlo al massimo della sua sofferenza, come il ‘servo sofferente’ cantato da Isaia, mentre la pietà orientale ha rappresentato generalmente nei suoi crocifissi bizantini, un Cristo già glorioso, dotato di attributi reali ed effettivamente ‘pantocrator’, perché vincitore del peccato e della morte proprio nel momento in cui questi pensavano di averlo vinto.
In questa seconda prospettiva non si potrebbe forse sviluppare un discorso comune sulla ‘potenza di Dio’, per potervi meglio includere in seguito una valorizzazione della sofferenza, dell’agonia, e della morte nei confronti delle quali l’Islam ci propone soltanto una ‘bella rassegnazione’?”.
Una riflessione linguistica sarà molto utile.
Cristo è considerato il vero musulmano ante litteram e preso come modello dagli stessi musulmani.
Perché? Perché Cristo è colui che si è abbandonato completamente alla volontà di Dio.
Infatti: il vocabolo Islam significa ‘sottomissione a Dio’, ‘abbandono di sé a Dio’.
Il vero sentimento religioso è quello di abbandonarsi a Dio.
Muslim (musulmano) è colui che pratica l’Islam, cioè colui che si abbandona totalmente a Dio.
In questo contesto anche Adamo, Abramo sono stati musulmani perché si sono messi completamene nelle mani di Dio, si sono affidati del tutto a Lui.
Di riflesso l’essere umano in quanto tale è ‘musulmano’ e l’Islam si pone come religione naturale dell’umanità .
Il Prof.
Samir in una conferenza a Palermo l’11 novembre 1989, si è espresso in questa maniera: “Il vero Muslim, ossia l’unico vero musulmano è Cristo.
Lo è stato proponendo al mondo un insegnamento che rovescia i valori del mondo, mettendo la non violenza al posto della violenza, l’amore al posta della ‘giusta vendetta’.
Lo è stato rivelando al mondo un Dio che è anzitutto Padre, che si manifesta nell’amore più che nella potenza, che è sì l’Onnipotente, ma l’Onnipotente nell’amore.
Lo è stato vivendo perfettamente quest’insegnamento insolito, preferendo l’umiliazione alla gloria, la povertà alla ricchezza ‘per arricchirci della sua povertà.
Sì, il Muslim per eccellenza è Cristo, quello che sulla croce si ab­bandona per amore all’amore di Dio Padre, per amore dell’umanità”.
Dietro l’alibi del rispetto per l’altro, in alcuni cattolici non si nasconde forse una certa… allergia nei riguardi del Crocifisso? La motivazione di andare verso gli altri non potrebbe indicare una mancanza di interesse per i contenuti e simboli della propria religione? Alle spalle di tutto non ci potrebbe stare una limitata e frazionata conoscenza del cristianesimo, per cui, non conoscendo, non si può neanche comprendere ed apprezzare? Schiavitù dell’ignoranza, della indifferenza, del fastidio.
Schiavitù di un falso perbenismo: si vogliono coprire con il rispetto nei riguardi verso l’altro le proprie mancanze e deficienze.
Schiavitù dell’orgoglio intellettuale.
Si ha appena una patina di religiosità, sia teorica che pratica, e nello stesso tempo uno si ritiene preparato a fare scelte ed a prendere decisioni estremamente importanti e di grande rilevanza come se ne avesse la preparazione e capacità( ; Cfr.
Bartolomeo Sorge, “Votare per il Crocifisso?”, in Aggiornamenti Sociali, dicembre 2002, p.
805 – 810 ; “Via il Crocifisso dalle Scuole italiane?”, in La Civiltà Cattolica, Editoriale, 5 gennaio 2002, n.
3637, p.
5.; Consiglio di Stato, 27 aprile 1988.
La prima codificazione risale all’articolo 140 del regio decreto 15 settembre 1860, n.
4336, riguardante il regolamento per l’istruzione elementare e attuativo della legge 13 novembre 1859, n.
3725, la c.d.
legge Casati che prescriveva l’esposizione del Crocifisso in tutte le aule scolastiche.
L’ultima codificazione in ordine di tempo risale al 19 ottobre 1967, quando il Ministro della Pubblica Istruzione emanò la circolare n.
367 circa l’edilizia e l’arredamento delle scuole dell’obbligo.
Cfr.
Paolo Armaroli, “Il Crocifisso a scuola è ammesso dalla Costituzione”, in Il Giornale, 8 ottobre 1999, p.
10.   Bartolo Ciccardini, Il crocifisso e i crocifissi nella storia, in Avvenire, 22 settembre 2002, p.
2.  Jürgen Moltmann, Il Dio crocifisso, Queriniana, Brescia 1973, p.
7; da notare che l’Autore nello scrivere quest’opera pensava ancora alla tragedia del nazionalsocialismo conseguenza della pretesa di poter costruire una società senza Dio e senza cristianesimo; cfr.
anche: “La croce di Cristo speranza del cristiano”, in La Civiltà Cattolica, marzo 2001, n.
3618, Editoriale, p.
547 – 559.
Inoltre: articolo ripubblicato sul numero 14 di Liberal, novembre 2002; cfr.
L’Enciclica di Benedetto XV, Maximum Illud, in AA.
VV.
Roma e Pechino, a c.
di Agostino Giovagnoli, Studium, Roma 1999, p.
69 – 90.
 Cfr.
Maurice Bormans, I musulmani di fronte al mistero della croce: rifiuto o incomprensione?, in AA.VV., La sapienza della croce oggi, Atti Convegno internazionale, Roma 13-18 ottobre 1975, LDC, Torino 1976, vol.
I, p.
615 – 628;  cfr.
lo studio di Samir Khalil Samir, La crocifissione di Cristo nel Corano, in Piero Coda – Mariano Crociata, Il Crocifisso e le religioni, Città Nuova, Roma 2002, p.
49 – 82.
E…) E perché non qualche poesia al Crocifisso? Sul Calvario tre croci hanno piantato e Gesù Cristo ha un ladro da ogni lato.
Ma, dice, e gli occhi suoi al cielo vanno: Padre, perdona, non san quel che fanno Mentre gli sgherri aspettan la sua morte, le vesti di Gesù tirano a sorte.
Il popolo indugia a riguardare e tutti lo volevano beffare.
Perfino uno dei ladroni lo scherni Sei Cristo? – disse -Vola via di qui! Ma l’altro mormor: – O buon Gesti, non mi scordar, quando sarai lassù…
Disse Gesù, piegando il dolce viso: Oggi sarai con me, su in paradiso.
Era già l’ora sesta e fece notte la tenebra dur infino a nona trema la terra e tutto il ciel rintrona A quel punto Gesù lancia un alto grido Padre lo spirito mio in te confido! Poi la fronte da un lato reclin e su la Croce per tutti noi spir(poesia parecchio antica di Giuseppe Fanciulli).
Crocifisso al tuo amore    Tu che conosci me, sono l’ultimo dei figli tuoi, attendo la salvezza, dalle Tue mani disseterò d’amore la mia anima, tienimi stretto inchioda le mie mani, siano aperte le mie braccia per abbracciarti e non lasciarti mai più, i miei piedi serra al tuo legno in modo che non vada per altre vie.
Incidi il Tuo nome sul cuore t’appartengono le mie membra e lo spirito, io in Te Tu in me in un eterno dono d’amore(Bruno Quattrone).
  PREGHIERA DI S.
CARLO BORROMEO AL SANTO CROCIFISSO   Ciò che mi attira verso di Voi, Signore,   siete Voi!   Voi solo, inchiodato alla Croce,   con il corpo straziato tra agonie di morte.
  E il vostro amore   si è talmente impadronito del mio cuore   che, quand’anche non ci fosse il Paradiso,   io vi amerei lo stesso.
  Nulla avete da darmi   per provocare il mio amore   perché quand’anche non sperassi ciò che spero,   pure vi amerei come vi amo.
Amen           Sentenza sul crocefisso.
”Amarezza” della Cei, soddisfazione nell’estrema sinistra Il commento forse più significativo alla sentenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo (Coe) sul crocefisso in classe viene dalla Cei (Conferenza Episcopale Italiana), che dal suo sito esprime “amarezza e non poche perplessità”: “La decisione della Corte di Strasburgo suscita amarezza e non poche perplessità.
Fatto salvo il necessario approfondimento delle motivazioni, in base a una prima lettura, sembra possibile rilevare il sopravvento di una visione parziale e ideologica.
Risulta ignorato o trascurato il molteplice significato del crocifisso, che non è solo simbolo religioso ma anche segno culturale.
Non si tiene conto del fatto che, in realtà, nell’esperienza italiana l’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici è in linea con il riconoscimento dei principi del cattolicesimo come ‘parte del patrimonio storico del popolo italiano’, ribadito dal Concordato del 1984”.
La Cei spiega che “in tal modo, si rischia di separare artificiosamente l’identità nazionale dalle sue matrici spirituali e culturali”, e cita eloquentemente le parole di papa Benedetto XVI: “Non è certo espressione di laicità, ma sua degenerazione in laicismo, l’ostilità a ogni forma di rilevanza politica e culturale della religione; alla presenza, in particolare, di ogni simbolo religioso nelle istituzioni pubbliche”.
Sul fronte opposto, si registrano anche commenti apertamente positivi, come quello dell’Unione degli studenti, Uds: “Da sempre chiediamo una scuola plurale, democratica, laica e interculturale, che non ostacoli la libertà di scelta religiosa e la sensibilità degli studenti- spiegano dall’Uds- Sono questi i principi che devono caratterizzare le nostre scuole e riteniamo che anche il Governo e le forze politiche debbano agire in questa direzione perché si parta proprio dai luoghi della cultura e dell’educazione per raggiungere un costruttivo dialogo tra le varie culture e le varie fedi, in primo luogo tra i cittadini europei”.
Esultano anche i Cobas, il cui portavoce Piero Bernocchi parla di “sentenza storica della Corte Europea, il crocefisso in aula viola la libertà dei genitori e quella di religione”.
Berrnocchi spiega che la Corte ha emesso una “importantissima sentenza che afferma testualmente quello che da sempre i Cobas e vari gruppi laici e anticlericali sostengono”.
Nell’ambito della sinistra extraparlamentare, il segretario del Prc Paolo Ferrero, esprime “un plauso per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo che ci segnale giustamente come uno stato laico debba rispettare le diverse religioni ma non identificarsi con nessuna”.
Gelmini sulla Corte di Strasburgo: ӏ ideologizz

Livelli di eccellenza nelle scuole cattoliche inglesi

Nei rapporti degli ispettori dell’Isi sulle scuole cattoliche vengono anche evidenziati i rapporti eccellenti che le scuole indipendenti cattoliche sono in grado di sviluppare con le comunità locali.
In molti casi gli ispettori hanno notato che i giovani studenti di questi istituti partecipano anche ad azioni di solidarietà verso i più bisognosi nell’ambito delle iniziative intraprese dal Catholic Fund for Overseas Development (Cafod) o dalla società di san Vincenzo de’ Paoli.
Gli ispettori dell’Isi hanno anche sottolineato che le scuole indipendenti cattoliche vengono frequentate anche da giovani le cui famiglie appartengono a una diversa confessione.
Questa apertura ai ragazzi di fedi diverse, e il rispetto con cui essi vengono trattati nell’ambito scolastico, ha maggiormente convinto i membri dell’Isi ad assegnare una valutazione di eccellenza agli istituti d’istruzione cattolici.
Nel comunicato congiunto, firmato dalla responsabile del Cesew, Oona Stannard, e dal presidente del Cisc, Joseph Peake, si sottolinea che quando l’insegnamento riguarda temi che possono avere diverse interpretazioni, gli insegnanti delle scuole cattoliche enfatizzano l’importanza del rispetto di ciascuna opinione ed esortano gli allievi ad ascoltare le posizioni divergenti e a formare il proprio giudizio dopo una seria riflessione.
Nel documento si sottolinea l’importanza della formazione degli insegnanti che nelle scuole cattoliche hanno la libertà di scegliere tra diversi metodi d’insegnamento purché questi siano rispettosi della dignità umana di ciascuna persona e riconoscano il ruolo essenziale della comunità d’appartenenza.
Sempre in tema di educazione, si è tenuto a Londra il congresso “Keeping Faith in the System”, a cui hanno partecipato oltre duecento rappresentanti di scuole gestite da organizzazioni religiose.
L’incontro era stato inaugurato dal deputato Ed Balls, Secretary State of Department for Children, Schools and Families che nel 2007 aveva pubblicato un rapporto sull’importanza del ruolo delle scuole gestite da organizzazioni religiose nel sistema scolastico dell’Inghilterra e del Galles.
Nel suo intervento, Ed Balls ha sottolineato che “l’entusiasmo, il dinamismo e il successo delle scuole gestite da religiosi non sono mai stati così forti come ora.
Ho constatato personalmente come questi istituti usano il proprio carisma per formare giovani che hanno un forte sentimento per la comunità e un indiscutibile rispetto per gli altri, anche per quelli che appartengono ad altre fedi e si sono formati in diversi contesti culturali”.
Per Ed Balls, le scuole gestite dai religiosi “sono tra i migliori esempi che abbiamo di promozione della coesione sociale perché offrono una formazione migliore di quella che spesso viene offerta in scuole d’altro tipo.
Le scuole gestite da religiosi hanno quindi un ruolo fondamentale per il nostro sistema educativo”.
Il deputato inglese aveva evidenziato che il rendimento scolastico degli studenti delle scuole gestite da religiosi è in media del 10 per cento migliore rispetto agli alunni che frequentano altre scuole.
Nel corso del convegno, ha preso la parola Oona Stannard secondo cui nelle scuole gestite da organizzazioni cattoliche “l’insegnamento ai giovani è nel contesto della nostra tradizione religiosa ma si moltiplicano le forme di collaborazione anche con altri istituti scolastici gestiti da religiosi appartenenti a diverse Chiese cristiane”.
(©L’Osservatore Romano – 29 ottobre 2009) L’educazione impartita agli studenti nelle scuole cattoliche in Inghilterra e nel Galles corrisponde ai massimi parametri di qualità richiesti dalle due più note organizzazioni d’ispezione scolastica:  questo è quanto viene sottolineato in un recente comunicato congiunto diffuso dal Catholic Education Service for England and Wales (Cesew) e dal Catholic Indipendent Schools’ Conference (Cisc).
Nel documento si fa riferimento agli eccellenti risultati delle ispezioni effettuate, nel corso dell’ultimo anno scolastico, dall’Indipendent School Inspectorate (Isi) e dall’Office for Standards in Education, Children’s Services and Skills (Ofsted).
Per gli ispettori dell’Ofsted, nelle scuole cattoliche si raggiungono i massimi standard di qualità per quanto riguarda gli insegnamenti di temi a carattere spirituale, morale, sociale e culturale.
“Vi è una forte evidenza – affermano gli ispettori nel loro rapporto – dell’impatto positivo che le scuole indipendenti a gestione religiosa hanno sullo sviluppo sociale, morale spirituale e culturale dei loro giovani studenti che vengono formati per divenire dei buoni cittadini”.

Intervista ad Hans Küng

L’intervista Signor Küng, ho una zia novantottenne che ha un grosso problema: lei è certa di andare in  paradiso e di trovarvi là marito, figli e conoscenti, ma si chiede in che stato siano: giovani, vecchi, malati, sani?   Capisco che sua zia abbia tale preoccupazione.
Non si sa che cosa ci si può aspettare al di là della porta della morte, personalmente non posso e non voglio immaginare come sia il paradiso.
Ogni persona ama immaginare, ma deve sapere che sono solo sue immagini.
Viviamo in un’epoca successiva a Copernico e a Darwin – e quindi non possiamo più immaginarci il paradiso come hanno fatto ad esempio Michelangelo o i pittori del Medio Evo o del Barocco.
Io non credo a queste semplicistiche rappresentazioni del paradiso, secondo le quali staremmo seduti su una seggiolina d’oro a cantare “alleluia”.
Papa Benedetto crede sicuramente che in qualche modo nell’aldilà si sta seduti tutt’intorno.
Non molto tempo fa diceva che il suo predecessore, Giovanni Paolo II, era affacciato al balcone della casa del Signore a guardarci: allora c’è un morto che guarda giù.
Questa è una rappresentazione sorprendentemente ingenua.
Il Papa si esprime a volte in maniera premoderna e popolare – un’eredità della sua fede bavarese contadina.
Naturalmente anche lui sa che il paradiso non è una dimora al di sopra delle nuvole con finestre dal cielo.
I cristiani illuminati capiscono che nell’aldilà non viene risvegliata alcuna salma, ma che – come diciamo nella liturgia – avviene una totale trasformazione del modo di essere.
Sono curioso di scoprire come sarà nell’aldilà.
Signor Küng, della sua vita nell’aldiqua lei è sicuramente deluso.
Perché mai? Ha scritto più di 60 libri, più di 30 000 pagine e…
Lavoro molto volentieri.
In tutta modestia, credo di aver prodotto qualcosa che rende il cristianesimo, la religione, l’etica nuovamente comprensibili all’uomo moderno.
Nonostante il suo ardore…
Non sono stato e non sono un fanatico, né un santo, scrivo per le persone che sono in ricerca.
Malgrado il suo impegno, dal 1989 le due maggiori Chiese [in Germania] hanno perso più di sette milioni di fedeli, e alla preghiera del mercoledì a Roma partecipano annualmente due milioni e mezzo di persone in meno rispetto ad alcuni anni fa con Giovanni Paolo II.
Lei si è consumato le dita a scrivere, però inutilmente.
No, ho avuto successo! Un numero incalcolabile di persone mi scrive – quotidianamente -, che io sono stato per loro un aiuto.
Io sono diventato, involontariamente, un portavoce della leale opposizione a sua santità.
Un portavoce che viene preso sul serio – anche dallo stesso papa.
Sono presente dentro e fuori la Chiesa.
Senza di me molti avrebbero abbandonato la Chiesa, molti mi dicono: “Finché resiste lei dentro la Chiesa, resisto anch’io”.
Cionondimeno, la sua battaglia l’ha persa.
Il suo antagonista Ratzinger…
Non è il mio antagonista, e la mia professione non è critico del papa.
Sono un riformatore, non un sovversivo.
E non sopporto di essere sempre chiamato ribelle della Chiesa o…
Il suo antagonista è diventato papa, entra nella storia.
Lei sarà solo una nota a piè di pagina.
È piuttosto sfacciato quello che sta dicendo, lei non può vedere nel futuro, lei…
Ma sarà così! Crede? Come una persona entri nella storia, lo decide solo la storia stessa.
Non è importante la funzione, e neanche il potere.
Un esempio: Tommaso d’Aquino – non voglio mettermi alla sua altezza – aveva volontariamente rinunciato a qualsiasi incarico importante nella Chiesa.
Papa Innocenzo III, suo coltissimo contemporaneo, fu il più potente di tutti i papi – lei conosce Innocenzo III? No.
Questo papa, un tempo potentissimo, oggi è una nota a piè di pagina, comunque ancora importante per gli storici.
Però Tommaso d’Aquino viene costantemente citato ancor oggi come un’autorità.
No, non mi sento un perdente.
È chiaro che lei deve dire e la deve vedere così.
Certo che la vedo così! Ma c’è un’altra cosa che mi rattrista nella vita: che Joseph Ratzinger, che nel 1966 ho chiamato all’università di Tubinga, non abbia proseguito sulla stessa via della riforma come ho fatto io.
Allora non avremmo probabilmente oggi questa spaccatura della Chiesa cattolica in Chiesa alta e Chiesa bassa.
Io rappresento la Chiesa bassa, lui tiene alla Chiesa alta.
Tutto il mio lavoro era indirizzato a che la Chiesa alta cambiasse.
E in questo, e qui ha ragione lei, io ho avuto solo un successo limitato.
Ma: chi ha vinto una battaglia è ancora lontano dall’aver vinto la guerra.
Io credo che l’attuale politica del Vaticano sarà un fiasco.
Il tentativo di risospingerla indietro nel Medio Evo la svuota.
Non si possono riportare in vita i vecchi tempi! Ma mi dica un po’, perché 200 anni dopo l’Illuminismo si dovrebbe ancora credere in Dio? Sì, proprio come persona illuminata le dico: ci sono mille motivi per non credere.
In questo ha ragione.
Di fronte alla miseria nel mondo e nella propria vita si può o dubitare di Dio o avere fiducia in Dio.
Non c’è nessuna prova strettamente scientifica a favore di Dio, la sua esistenza non può essere fondata su argomenti logicamente convincenti.
Proprio secondo Immanuel Kant: la pura ragione teoretica al di fuori di tempo e spazio non è competente.
Quindi l’esistenza di Dio non può basarsi su argomenti logicamente convincenti.
Ma davvero! Non scherzi! Lei ha certamente, da un lato, ancora in mente la sua fede di bambino, però, d’altro canto, anche la sua ragione non ha competenza nella questione della fede.
L’esistenza di Dio è una questione di fiducia ragionevole.
Fiducia ragionevole? A me pare che sia piuttosto irragionevole, e penso che Mark Twain abbia ragione: “La fede consiste nel credere in qualcosa che si sa non essere vero.” Proprio una brutta battuta di spirito.
Io però le rispondo molto seriamente con una frase della lettera agli Ebrei.
“La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono.” Quindi: nonostante i suoi dubbi ci sono mille motivi per cui una persona – nonostante tutte le contrarietà della vita – può credere in Dio.
Me ne dica uno.
Su questo ho proprio appena scritto un intero libro: “Quello in cui credo”.
La fede è innanzitutto un problema di fiducia di fondo.
Fiducia nella vita.
Vorrei invitarla ad ammettere Dio almeno come ipotesi.
Prenda la questione filosofica fondamentale: perché una cosa esiste al posto di non essere, oppure l’inspiegabile origine delle fondamentali costanti della natura o della velocità della luce.
Ma anche il problema dell’infinito in matematica, le tracce della trascendenza nella musica – tutto questo può essere un invito a credere in Dio.
Lo scienziato Richard Dawkins le risponderebbe, a queste parole che risuonano così belle…
…io direi piuttosto: parole che risuonano vere! Lui direbbe: tutte le religioni insegnano cose senza senso e sono pericolose per l’umanità.
Non mi parli qui di questi nuovi atei! Dawkins è un ideologo che reagisce ad un’immagine di Dio superata e argomenta in modi estremamente polemici, senza tuttavia portare nuove conoscenze.
È uno studioso di scienze naturali, senza apertura a problemi filosofici.
Io mi sono occupato dei grandi atei classici, ho analizzato Feuerbach, Marx, Nietzsche, Freud.
Loro costituiscono per me una sfida, non questo…
“La religione, dice Marx, è il sollievo della creatura oppressa, l’anima di un mondo senza cuore, lo spirito di situazioni senza spirito.
È l’oppio del popolo.
L’abolizione della religione in quanto illusoria felicità del popolo è la condizione necessaria per la sua vera felicità: la condizione necessaria per rinunciare alle illusioni della sua situazione, la condizione necessaria per rinunciare ad una situazione che ha bisogno di illusioni.” Marx ha ragione: la religione può essere l’oppio del popolo.
La religione può essere un mezzo di acquietamento e consolazione sociale.
Ma non deve esserlo.
Le analisi di Marx esprimono, forse contro la sua volontà, anche qualcosa di positivo, e cioè che la religione può essere molto di più – una protesta contro le condizioni che abbiamo, protesta contro le circostanze a causa delle quali soffriamo.
Questa è un’interpretazione arrischiata.
“La critica della religione”, dice ancora Marx, è in nuce la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola Religione solo riverbero? In questo Marx – come già Feuerbach – fa un cortocircuito.
La religione è più di una proiezione.
Come la fede, la speranza e l’amore, essa non si esaurisce solo nel fatto di far sopportare la miseria agli uomini in maniera cosciente o in maniera rassegnata! No, la religione può essere un motivo eccezionalmente forte, come disse Marx, non solo per interpretare il mondo in modo diverso, ma per cambiarlo.
Mio Dio, ma che mondo è mai quello che ha creato il suo Dio.
Mentre noi stiamo qui a parlare crescono senza sosta le montagne di cadaveri.
Ogni cinque secondi muore un bambino al di sotto dei dieci anni di fame o di sete.
Stiamo parlando da trenta minuti scarsi – 360 bambini morti! Perché Dio non ha impedito il male? Già il filosofo greco Epicuro rivolge nel 300 avanti Cristo questa domanda contro la religione.
Ma forse dovremmo prima chiederci: perché gli uomini non hanno impedito il male? Rispetto al male, ogni persona che crede in un Dio buono e vivo è confrontato in questo mondo ad un mistero che…
Lei lo chiama mistero il far morire di fame dei bambini? No.
Il mistero è perché Dio non ha impedito il male.
Il dolore immeritato di bambini non può essere giustificato con nessuna argomentazione.
“Perché soffro? Questa è la roccia dell’ateismo” viene detto nella tragedia di Büchner “La morte di Danton”.
Sì, perché soffriamo? Questa è la domanda originale dell’uomo.
Lei, Signor Luik, sa dare una risposta? Lei, Signor Küng, lei è il cristiano credente.
Io aspetto con ansia la sua risposta.
Che non è facile.
Appartiene al mistero anche il perché gli uomini non facciano di più contro il dolore.
Ad ogni modo non possiamo attribuire tutta la colpa a Dio.
L’umanità proprio nel “progredito” XX secolo ha sperimentato il male in una misura fino ad allora sconosciuta: stragi di stato, Auschwitz, l’industrializzazione del massacro.
Come ha potuto Dio permettere questo? Il mistero della sofferenza non può essere spiegato con i mezzi della ragione.
Troppo facile.
Né attraverso la psicologia, né attraverso la filosofia né attraverso la morale il buio della sofferenza si lascia trasformare in luce.
Dio rimane l’incomprensibile.
Signor Küng, al di là delle parole difficili: il suo Dio era ad Auschwitz? Parole difficili? Dell’orrore dell’olocausto, Dio non è responsabile.
Certamente, se Dio esiste – e io ci credo -, allora Dio era anche ad Auschwitz.
Ma che Dio è, che sta ad Auschwitz e non impedisce Auschwitz! Questo è un grido di protesta che io capisco.
Ed è mia convinzione che anche con ardite speculazioni su un Dio che soffre, la mostruosa realtà di Auschwitz non può essere liquidata.
Qui si addice una teologia del silenzio.
Ma perfino ad Auschwitz era possibile la fede: credenti di religioni diverse hanno rivolto a Dio la loro preghiera perfino nella fabbrica della morte, perché erano convinti che, nonostante tutto, Dio esistesse.
E lei, da parte sua, deve chiedersi: il suo ateismo spiega l’olocausto? La sua mancanza di fede spiega il mondo, riesce a consolare chi è nella sofferenza senza senso? No! Nessuno dei grandi spiriti dell’umanità che io ho letto ha risolto il problema originale della sofferenza e del male.
Ma neanche il cristianesimo, che – è quasi assurdo – parla del Dio buono, benevolo, indulgente.
Un Dio che tutto sa, che tutto guida.
Questa è una rappresentazione medioevale del Dio onnipotente, che guida tutti gli eventi cosmici.
Allora ho studiato male la religione! No, Dio è spirito, che agisce dentro, con e in mezzo agli uomini, ma che rispetta la loro libertà.
E   questa libertà comprende inevitabilmente anche il male.
L’uomo che soffre non può giungere al segreto dei progetti del creatore sul mondo.
La sofferenza, enorme, insensata – tanto individuale che collettiva – non può essere capita in teoria, ma nel migliore dei casi superata praticamente.
Gli ebrei – anche i cristiani – come estrema sofferenza hanno la figura di Giobbe davanti agli occhi.
Quest’uomo perde, senza alcuna colpa, tutto: il patrimonio, la famiglia, la salute, diventa mendicante, viene colpito dalla lebbra.
Si lamenta con Dio e rifiuta tutti gli argomenti a favore di Dio.
Con questo mostra che l’uomo non necessariamente deve accogliere la sofferenza.
Ha il diritto di insorgere, di protestare, di ribellarsi contro un Dio che gli appare crudele, perfido e scaltro – e attraverso queste prove Giobbe ritrova Dio!   La prego, questa è una favola.
Questa è letteratura mondiale altamente drammatica.
Ma più ancora di Giobbe, per me come cristiano è Gesù, quel Gesù che viene abbandonato, flagellato, che viene schernito, che muore lentamente sulla croce, colui che ha anticipato la terribile esperienza dell’olocausto.
Per lei come cristiano questa morte è certamente una morte salvifica, che…

che rinvia oltre la miseria, il dolore, la morte! Perfino per degli scettici come il marxista Horkheimer era insopportabile credere che la miseria avesse l’ultima parola.
Deve esserci una ultima giustizia proprio per i poveri, i miseri di questo mondo! E i bambini che soffrono senza colpa, possono avere il conforto che questa vita non è tutto, ma che hanno davanti a sé una vita senza dolore.
Lo dice lei stesso: la fede è oppio.
No, non è oppio, è conforto.
Lei ha ora più di 80 anni e…

sono cosciente del fatto che la mia fine terrena è vicina.
Prima pensavo – la mia è stata una vita faticosa – che non sarei arrivato ai 50 anni.
Ora faccio i conti con la morte, ogni ora può essere l’ultima.
Chi ogni giorno ha la morte davanti agli occhi, ne ha meno paura.
Sono pronto.
Ho vissuto sette vite.
Non mi permetto alcuna nostalgia di vecchiaia, non mi attacco spasmodicamente al voler essere giovane.
A volte mi chiedono: “Come vorrebbe morire?” Sorridendo rispondo: “Durante un viaggio di lavoro!” Ed ora aggiungo: “Ad ogni modo non in una casa di cura.” Il suo amico, il professore di retorica Walter Jens, è sprofondato in un mondo al di là del pensiero, al di là delle parole, è demente.
È stato un difensore dell’aiuto attivo a morire, sua moglie Inge dice: “Non ha colto il momento giusto in cui avrebbe potuto passare dalla vita alla morte.” Per me la vita è un dono di Dio, di cui sono responsabile.
E questo fino all’ultimo respiro.
È rimessa alla mia responsabilità e non a quella della Chiesa o del papa o di un prete, di un medico, di un giudice.
È mia responsabilità e in definitiva sono responsabile della più alta istanza: Dio.
Dico solo che non vorrei mancare il momento giusto.
Che cosa si aspetta alla fine della vita? Come ho detto, sono curioso.
La morte è per tutti una prima.
Ho la fondata fiducia di non sprofondare nel nulla.
“Questo è tutto?”, Kurt Tucholsky, che si è tolto la vita nel 1935, ha scritto: “Se dovessi morire adesso, direi: ‘Questo è tutto?’ – e: ‘Non avevo capito proprio bene.” E: “È stato un po’ rumoroso.” Ma no, non la penso così! Non è tutto.
Io credo alla vita eterna.
Walter Jens mi diceva una volta che avrebbe incontrato volentieri Heinrich Böll e Willy Brandt lassù.
Naturalmente anch’io incontrerei molto volentieri determinate persone.
Preferirei ad ogni modo Mozart a Brandt, e mi piacerebbe conoscere Tommaso Moro.
Ma che ne so? Le fantasie non hanno nulla a che fare con la serietà del morire.
E che cosa dirà a Dio, nel caso ci fosse, quando le chiederà: “Che cosa hai fatto per rendere il mondo migliore?” So che non mi farà questa domanda, perché lo sa anche senza chiederlo.

Il voto di religione in decimi

Anche il giudizio dei prof di religione potrebbe essere presto trasformato in un voto vero, dall’1 al 10.
L’intenzione del governo è stata oggi confermata nella sostanza dal ministro Maristella Gelmini: “Credo che l’ora di religione debba avere la stessa dignità delle altre materie, e credo anche che l’Italia non possa non riconoscere l’importanza della religione cattolica nella nostra storia e nella nostra tradizione”.
Secondo il ministro, va “garantita agli insegnanti della religione cattolica la stessa situazione, le stesse condizioni degli altri insegnanti”.
Alla fattibilità dell’intera operazione starebbe lavorando da circa tre mesi una commissione voluta dal ministro.
Sulla composizione della stessa vige il più stretto riserbo e le riunioni si sono finora svolte in gran segreto, ma si sa che il gruppo di lavoro è presieduto dal direttore generale per gli Ordinamenti, Mario Dutto.
Il passo ulteriore è di pochi giorni fa: da viale Trastevere è partita la richiesta di parere di fattibilità al Consiglio di stato.
Se la cosa dovesse andare in porto, si riaccenderebbe la guerra tra laici e cattolici scoppiata un paio di settimane fa, quando il Tar Lazio ha estromesso dall’attribuzione dei crediti scolastici alle superiori proprio i prof di Religione.
Contro quella decisione, Gelmini prima ha annunciato un ricorso al Consiglio di stato, ma poi ha pubblicato il Regolamento sulla valutazione degli alunni che, di fatto, ha sospeso il provvedimento del tribunale amministrativo.
Attualmente, in tutti i gradi della scuola italiana (dalle elementari alle superiori), nei confronti degli alunni che hanno optato per l’ora di religione cattolica l’insegnante esprime un giudizio sintetico: sufficiente, discreto, buono, ottimo.
Niente voto, insomma.
Neppure dall’anno scorso, quando ad ottobre è stata approvata la legge 169 che ripristinava i voti in decimi al posto dei giudizi sintetici alla scuola primaria (l’ex elementare) ed alla media.
“Per l’insegnamento della religione cattolica – recita il testo unico in materia di istruzione – , in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.
Ma nel regolamento sulla valutazione, pubblicato il 19 agosto scorso, a proposito dei voti in decimi si legge che “la valutazione dell’insegnamento della religione cattolica (…) è comunque espressa senza attribuzione di voto numerico, fatte salve eventuali modifiche” al Concordato stato-chiesa.
A cosa porterebbe una eventuale trasformazione del giudizio in voto numerico? Darebbe alla Religione pari dignità rispetto a tutte le altre discipline.
Perché rientrerebbe nella media dei voti per l’attribuzione del credito scolastico alle superiori e contribuirebbe all’ammissione alla maturità così come agli esami di terza media.
Il provvedimento sarebbe certamente accolto positivamente dai quasi 26mila insegnanti di Religione in servizio nelle scuole italiane perché avrebbe il significato di una promozione a tutti gli effetti.
Dal punto di vista politico, invece, servirebbe a ricucire i rapporti tra governo e Vaticano dopo le tensioni nate sui respingimenti dei migranti e in seguito al caso Boffo.
Repubblica  14 settembre 2009 Il passaggio dai giudizi ai voti in tutte le materie deve valere anche per l’ora di religione.
Come aveva già anticipato un mese fa Repubblica.it, è questa l’opinione del ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, che su questo argomento ha intenzione di chiedere un parere al Consiglio di Stato.
Immediata la protesta dell’opposizione che rivendica la laicità della scuola pubblica italiana sancita dalla Costituzione.
Inoltre, aggiunge il Pd, la Corte Costituzionale si è già espressa in merito stabilendo la facoltatività dell’ora di religione e quindi non può essere equiparata alle altre materie.
Così come i docenti di religione non possono partecipare agli scrutini, come ha stabilito il Tar del Lazio l’estate scorsa.
Ai giornalisti che le chiedevano se il voto di religione debba far media con gli altri, il ministro Gelmini ha risposto: “Il voto in religione oggi non c’è.
Ancora esiste un giudizio.
Il nostro intendimento è quello di chiedere un parere al Consiglio di Stato per evitare contenziosi, ma la mia opinione è che essendo passati dai giudizi ai voti in tutte le materie questo debba valere anche per l’insegnamento della religione”.
“Il ministro Gelmini non sa di cosa parla, oppure fa di nuovo e solo propaganda” sostengono Manuela Ghizzoni e Maria Coscia, deputate Democratiche della commissione Cultura di Montecitorio.
“La Corte Costituzionale, infatti, ha già stabilito il principio di facoltatività dell’ora di religione, nel rispetto della laicità dello Stato, in base al quale è necessario garantire pari dignità ai ragazzi di ogni culto”.
“Purtroppo – aggiungono – il nuovo sistema di valutazione che ha fatto venir meno il criterio di un giudizio globale sui rendimenti scolastici lascia spazio anche a questo tipo di ‘pensate’: siamo convinte – concludono – che il Consiglio di Stato rispedirà al mittente la proposta”.
L’ora di religione “non può essere valutata come una normale materia curriculare” afferma il segretario generale della Flc-Cgil, Mimmo Pantaleo.
“Il ministro Gelmini deve garantire la laicità della scuola pubblica italiana sancita dalla nostra Costituzione.
Per questa ragione, nel pieno rispetto del Concordato, l’ora di religione – spiega Pantaleo – deve rimanere facoltativa.
Non può determinare vantaggi di alcun genere, a cominciare dai crediti formativi, e quindi non può essere valutata come una normale materia curriculare”.
“Piuttosto il ministro dovrebbe preoccuparsi – osserva il sindacalista – del fatto che si nega, per effetto di pesantissimi tagli, il diritto ad avvalersi dell’insegnamento alternativo.
Non permetteremo – ammonisce Pantaleo – di trasformare la scuola pubblica italiana, che dovrebbe essere laboratorio interculturale, in una istituzione confessionale e autoritaria”.
(13 ottobre 2009) A conferma delle anticipazioni di stampa (Avvenire, agosto 2009), il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, nel corso delle celebrazione della VIII Giornata europea dei genitori e della scuola presso il ministero dell’istruzione, ha ufficialmente comunicato che è sua intenzione chiedere al Consiglio di Stato la fattibilità dell’inclusione del voto di religione nel computo delle materie che fanno media nel voto finale da assegnare agli studenti.
Dopo la riforma della valutazione disposta dalla legge 169/2008 che ha previsto che ogni disciplina sia valutata con voto in decimi, è rimasto insoluto il problema della religione cattolica che, in base ad un articolo del Testo unico sulle norme per l’istruzione (art.
309), continua ad essere valutata con una nota riguardante l’interesse e il profitto dell’alunno verso tale insegnamento.
“Il nostro intendimento – ha detto il ministro – è quello di chiedere un parere al Consiglio di Stato onde evitare contenziosi, ma la mia opinione è che essendo passati dai giudizi ai voti in tutte le materie questo debba valere anche per l’insegnamento della religione”.
tuttoscuola.com martedì 13 ottobre 2009 VALUTAZIONE IRC: VOTO IN DECIMI O GIUDIZIO?       IL NODO DELLA VALUTAZIONE   Stralcio da:  Sergio Cicatelli, Voto decimale e Irc.
Il nodo della valutazione,  Insegnare Religione n.
2 2008-2009   «Vogliamo avviare una riflessione sulla ricaduta che il ritorno del voto decimale potrebbe avere sull’Irc.
Fin dal primo momento, infatti, numerosi Idr hanno scorto nella formulazione del DL 137 la possibilità di far rientrare anche l’Irc in questa piccola rivoluzione docimologica.
In base all’articolo 3, a partire dall’anno scolastico 2008-09 nelle scuole del primo ciclo (primaria e secondaria di I grado), «la valutazione periodica ed annuale degli apprendimenti degli alunni e la certificazione delle competenze da essi acquisite è espressa in decimi».
Lo stesso articolo prosegue dicendo che «è altresì abrogata ogni altra disposizione incompatibile con la valutazione del rendimento scolastico mediante l’attribuzione di voto numerico espresso in decimi».
È soprattutto quest’ultima postilla a suscitare le speranze degli Idr di uscire dal ghetto della valutazione separata, ma il cammino non è così rapido come potrebbe sembrare a prima vista.
  Anzitutto va osservato che il DL 137/2008 si riferisce solo alle scuole del primo ciclo, lasciando fuori le scuole superiori, dove la valutazione è sempre stata numerica.
Se anche dovesse esserci una modifica delle regole valutative per l’Irc, questa sarebbe – almeno nell’immediato – limitata al primo ciclo di istruzione.
Ma sarebbe comunque il segnale di una svolta nella storia della disciplina.
Sono ormai trent’anni, dall’entrata in vigore della legge 517/77, che nelle scuole elementari e medie sono scomparsi i voti numerici, sostituiti da giudizi analitici nelle singole discipline e globali sul livello di maturazione dell’alunno.
La scuola superiore è rimasta fuori da questa trasformazione, ma si è spesso pensato che anch’essa dovesse adeguarsi a un’innovazione che aveva anticipato con la riforma degli esami di maturità del 1969.
Come qualcuno ricorderà, infatti, quell’esame si concludeva con un giudizio “integrato” da un voto in sessantesimi (e anche l’ammissione all’esame si basava su giudizi privi di qualsiasi accompagnamento numerico).
Ma il più diretto potere comunicativo del voto finale ha fin dall’inizio fagocitato la più elaborata funzione del giudizio   Sull’Irc ha pesato finora l’effetto della legge 824, che risale al 1930 ed è attuativa del primo Concordato.
Essa stabiliva all’art.
4 che «per l’insegnamento religioso, in luogo di voti e di esami viene redatta a cura dell’insegnante e comunicata alla famiglia una speciale nota, da inserire nella pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae».
All’epoca, le valutazioni di tutti gli ordini e gradi di scuola erano formulate attraverso voti e la «speciale nota» serviva a distinguere l’Ir dal resto del curricolo, perché l’Ir veteroconcordatario era espressione della religione di Stato allora vigente in Italia e poteva quindi presentarsi nella forma di una vera e propria catechesi di Stato, che doveva essere tenuta fuori dal percorso scolastico vero e proprio, nonostante la pomposa (ma di fatto vuota) formula concordataria che voleva l’Ir «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica».
  Ad una scuola piegata alle finalità religiose ha fatto seguito, dopo l’Accordo di revisione del 1984, un Irc inserito «nel quadro delle finalità della scuola», con una significativa inversione di ruoli che finora è sfuggita al legislatore ordinario, il quale ha accolto acriticamente il dettato della legge del 1930 nel Testo Unico di legislazione scolastica (art.
309 del DLgs 297/94), convalidando in epoca recente criteri e procedure che affondavano le loro radici in un diverso e superato contesto giuridico e culturale.
Senza nemmeno tenere conto del fatto che ormai l’uso del voto era limitato alla sola scuola superiore, mentre il ricorso a giudizi verbali nelle scuole elementari e medie aveva annullato da tempo la “diversità” dell’Ir/Irc rispetto al restante processo di valutazione scolastica.
D’altra parte, il medesimo art.
309 del Testo Unico aveva recepito anche novità di altro genere relative alla valutazione e derivanti principalmente da un ordine del giorno approvato dalla Camera dei deputati all’indomani della firma dell’Intesa Cei-Mpi sull’Irc: si trattava essenzialmente della scheda di valutazione separata «da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica» e non più «da inserire nella pagella scolastica», come recitava la legge del 1930».
    LEGGE 169   Stralcio da: Sergio Cicatelli, Il Decreto Gelmini è legge.
Quali effetti sull’Irc.
  Con la votazione in Senato del 29 ottobre scorso il DL 137, meglio noto come decreto Gelmini, è stato convertito nella legge 169 del 30-10-2008.
Il 31 ottobre la legge è apparsa sulla Gazzetta Ufficiale ed è quindi è efficace a tutti gli effetti.
[…]   In materia di valutazione numerica del profitto è stato aggiunto un giudizio analitico ai voti decimali, per evitare di ridurre tutta l’operazione valutativa a un fatto di mera contabilità.
La promozione alla classe successiva potrà essere negata solo con decisione unanime degli insegnanti nella scuola primaria e con decisione a maggioranza nella secondaria di I grado.
L’aspetto più rilevante per l’Irc è la scomparsa della frase che nel testo iniziale del DL 137 abrogava tutte le norme in contrasto con le nuove disposizioni (e che faceva sperare nel superamento del divieto di voto anche per l’Irc).
Con questa modifica acquista maggior forza il regolamento che dovrà coordinare tutte le norme vigenti in materia di valutazione e stabilire eventuali ulteriori modalità applicative della nuova impostazione.
Il problema principale è la tempistica di questo regolamento, dato che i voti numerici dovranno essere assegnati nel corso degli scrutini che, nelle scuole che adottano il trimestre, potrebbero svolgersi già nel prossimo mese di dicembre.
Al momento non ci sono notizie certe sull’uscita del regolamento e sul suo contenuto.
Vedremo se arriverà in tempo e se conterrà istruzioni sulla valutazione dell’irc.
  La situazione è estremamente confusa e molte scuole hanno adottato con solerzia i voti anche per l’Irc mentre altre sono rimaste ancorate ai vecchi giudizi.
L’unica cosa certa, per ora, è che la norma riguarda solo la valutazione esterna, quella decisa in sede di scrutinio, e non quella relativa alle singole prove cui sono sottoposti gli alunni nel corso dell’anno: per queste verifiche è sempre possibile usare qualsiasi modalità valutativa, numerica o verbale, purché dichiarata e comprensibile.
D’altra parte, l’uso del voto o del giudizio è solo una modalità comunicativa che non dovrebbe incidere, in teoria, sulla natura della valutazione.
È ovvio che un voto numerico anche per l’Irc sarebbe motivo di minore discriminazione (lino ad oggi non avvertita nelle scuole del primo ciclo perché si adottava il giudizio in tutte le materie), ma va anche ricordato che “fare media” è più un fatto di immagine che di sostanza.
L’alunno viene promosso non sulla base della media dei voti ma della decisione espressa dal consiglio di classe, di cui fa parte con voto deliberante anche l’Idr.
Il nodo fondamentale è perciò l’applicazione del controverso comma della revisione dell’Intesa del 1990, in cui si dice che il voto dell’Idr in sede di scrutinio finale, se determinante, diviene un giudizio iscritto a verbale.
Sulla controversa interpretazione di questo passo la giurisprudenza amministrativa si è ormai espressa più volte e risulta esistere una sola sentenza contraria del Tar Piemonte, contro una decina favorevoli di altri Tar.
Lo stesso Mistero, con una nota del 24-10-2005, prot.
9830, ha dichiarato che «il voto del docente di religione, quando è determinante, diventa giudizio motivato, ma ad avviso della scrivente [D.G.
Ordinamenti], non perde la rilevanza del voto».
Si spera che si possa superare al più presto il limite nella comunicazione della valutazione, ma l’efficacia dell’Irc ai fini della carriera scolastica dell’alunno sembra essere assicurata.
[…]   Sergio Cicatelli       PER IL MOMENTO   Non essendoci un riferimento esplicito nella Legge 169, sembra che tutto debba restare come prima, lasciando in vigore ciò che dice l’articolo 309 del Testo unico che, in proposito, dispone: “Per l’insegnamento della religione cattolica, in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.
Mentre sembra ritornare la diatriba sul voto di religione con il ministro Gelmini a favore e il segretario della Cgil-scuola contrario, Francesco Scrima, segretario generale della Cisl-scuola, va oltre la polemica e proprone una soluzione di ampio respiro.
Tutti gli insegnamenti obbligatori od opzionali – sostiene Scrima – devono essere oggetto di valutazione con pari dignità delle discipline e delle attività.
“Tutto ciò che si fa a scuola deve essere valutato e considerato nel giudizio complessivo che si esprime sull’apprendimento, l’impegno e il risultato educativo che il ragazzo raggiunge.” “Se è ammessa l’opzione di avvalersi o non avvalersi di un insegnamento – aggiunge Scrima con riferimento evidente all’insegnamento della religione – devono essere previste e garantite possibilità alternative altrettanto significative e valide”.
 Dopo aver dichiarato che quel che non viene valutato viene svalutato, il comunicato della Cisl-scuola (www.cislscuola.it) invita a non trattare la questione su un piano strumentale e ideologico.
tuttoscuola.com mercoledì 14 ottobre 2009 Come era prevedibile, la dichiarazione del ministro Gelmini per proporre il voto in decimi anche all’insegnamento della religione cattolica, ha provocato le prime reazioni negative del fronte laico.
Mimmo Pantaleo, segretario nazionale della Flc Cgil ha infatti dichiarato che il ministro Gelmini “deve garantire la laicità della scuola pubblica italiana sancita dalla nostra Costituzione.
Per questa ragione, nel pieno rispetto del Concordato, l’ora di religione deve rimanere facoltativa.
Non può determinare vantaggi di alcun genere, a cominciare dai crediti formativi e quindi non può essere valutata come una normale materia curriculare.” Il ministro Gelmini, nel suo intervento alla VIII Giornata europea dei genitori e della scuola, oltre a  parlare di possibile valutazione dell’Irc con voto in decimi come le altre materie, si era spinta a prospettarne le conseguenze, in caso di parere favorevole del Consiglio di Stato, con “l’inclusione del voto di religione nel computo delle materie che fanno media nel voto finale da assegnare agli studenti”.
Pantaleo ha richiamato l’attenzione del ministro sul fatto per effetto dei tagli di organico si sta negando il diritto ad avvalersi dell’insegnamento alternativo.
tuttoscuola.com martedì 13 ottobre 2009

La Chiesa e la nuova realtà dell’Africa che non è il mendicante

Si è aperto il Sinodo dei vescovi per l’Africa.
Dopo il viaggio di Benedetto XVI in Camerun e Angola lo scorso marzo, la Chiesa convoca ora i suoi stati generali sul «continente malato».
Qui il cattolicesimo ha conosciuto una crescita imponente nel Novecento.
I cattolici sono passati da meno di due milioni del 1900 a oltre 160 milioni di oggi.
Il tempo del colonialismo è stato anche quello di un’intensa stagione missionaria.
La Chiesa non se n’è andata dal continente a seguito delle potenze coloniali.
Dagli anni 50 ha africanizzato i suo quadri, assumendo un volto africano.
Eppure ha conosciuto gravi difficoltà e persecuzioni.
Non solo i cattolici.
Il patriarca ortodosso di Etiopia, Paulos (invitato a parlare al Sinodo), ha conosciuto la dura repressione del dittatore Menghistu, che ha lo ha incarcerato e ha assassinato tanti religiosi.
Negli anni 90, la Chiesa in Africa ha avuto un ruolo centrale nelle transizioni dalla dittatura alla democrazia.
Grandi figure di cattolici si sono imposte fin dall’indipendenza, come il senegalese Senghor (uno dei pochi leader del suo tempo a lasciare spontaneamente il potere) o il presidente Nyerere della Tanzania.
E oggi? Il cattolicesimo è in una condizione di passaggio, pur continuando a essere una delle più grandi risorse umane dell’Africa.
Ma in che senso? La Chiesa è sfidata dalla vitalità dell’islam, talvolta radicale.
Ma anche da un messaggio cristiano alternativo: Chiese libere, sette, propongono un cristianesimo, caldo, miracolistico, sentimentale.
Benedetto XVI ha parlato dei rischi del «fondamentalismo religioso, mischiato con interessi politici ed economici»: «Gruppi che si rifanno a diverse appartenenze religiose — ha detto ieri — si stanno diffondendo nel continente africano; lo fanno nel nome di Dio… insegnando e praticando non l’amore e il rispetto della libertà, ma l’intolleranza e la violenza».
La Chiesa risente della diminuzione e dell’invecchiamento dei missionari dell’Occidente.
In Africa le chiese cattoliche sono sempre piene, ma in alcuni Paesi il cattolicesimo ha una posizione meno centrale di ieri ed è maggiormente sfidato dal pluralismo religioso e culturale.
Sono problemi chiari a Benedetto XVI che, nell’anno sacerdotale, guarda con attenzione ai 34 mila preti africani.
L’Africa conta su preti giovani, coraggiosi, generosi ma talvolta tentati dall’esercizio di un «potere» clericale.
Non si può generalizzare, ma lo stile del potere, tipico delle società africane, può contagiare vescovi e preti.
Questa situazione ha una ricaduta sui laici cattolici.
Le grandi figure di «laici» (Nyerere o Senghor) sono tramontate.
I laici (e le religiose), decisivi nella vita della Chiesa, in Africa sono spesso solo i collaboratori del prete.
Lo si vede dall’assenza dei cattolici in molte classi dirigenti.
Il Sinodo africano darà vitalità alla Chiesa nel continente in tutte le sue componenti? Papa Ratzinger ha proposto, da subito, non aggiustamenti strutturali, ma la «misura alta della vita cristiana, cioè la santità».
Di fronte ai vescovi si apre lo scenario delle guerre, delle pandemie e della povertà del continente.
Ma l’Africa non è tutta «nera».
Malgrado le crisi, torna al centro dell’interesse mondiale.
Lo si vede dalla politica attiva della Cina.
In un recente convegno, promosso dalla Fondazione Banco di Sicilia e da Ambrosetti, è stato rilevato come l’Africa sia una grande opportunità per l’impresa europea.
Ben 33 Paesi africani crescono da un punto di vista economico.
Sta emergendo una giovane generazione, pronta a cogliere le occasioni della globalizzazione, con un orizzonte culturale diverso da quello tradizionale.
Quando si parla di cultura africana bisogna stare attenti, perché il discorso sull’autenticità africana rischia di rivelarsi una costruzione ideologica e passatista.
La cultura africana oggi è più moderna delle rappresentazioni etnico-folcloristiche o tradizionali, fatte da europei o africani.
La comprensione dell’Africa deve essere più articolata che quella dolorosa ma semplificata del tempo delle dittature.
La società, fattasi complessa, non è più così naturalmente religiosa, come si è tanto detto.
Se larghe masse sono ancora in bilico tra passato e futuro, tanti africani hanno compiuto un salto in avanti.
Per la rapidità dei cambiamenti, forse i vescovi cattolici dovranno rileggere la realtà e non affidarsi a stereotipi, per capire meglio il mondo dei loro fedeli.
Ne ha dato l’esempio il Papa, parlando di forza attrattiva del «materialismo pratico».
Persistono gravi situazioni di miseria, guerra e malattie.
La cura dell’Aids necessita di importanti risorse.
L’Africa da sola non ce la fa.
Richiede aiuto, investimento, inserimento nella rete mondiale.
Può, però, dare molto a tutti i livelli.
Non è il mendicante del mondo.
È significativo che, nell’anno della crisi economica, la Chiesa ponga l’Africa al centro: «L’Africa rappresenta un immenso polmone spirituale, per un’umanità che appare in crisi di fede e di speranza», ha detto il Papa.
Ma questo polmone può ammalarsi.
I vescovi cattolici non possono gestire solo un grande patrimonio religioso, ma andare in profondità e rischiare la via del futuro.
in “Corriere della Sera” del 5 ottobre 2009

Dibattito sul Bullismo

Il ministro inglese dell’istruzione, il laburista Ed Balls, all’indomani del recente discorso tenuto dal primo ministro Gordon Brown ai membri del proprio partito, in occasione dell’avvio della campagna elettorale che porterà alle urne i cittadini britannici alla fine della prossima primavera, è tornato su uno dei punti cruciali del programma che i laburisti intendono proporre e che riguarda problematiche educative nelle scuole.
A fronte del fatto che una scuola inglese su 5 è stata al centro di episodi di comportamento antisociale da parte dei suoi studenti, l’amministrazione ha intenzione di lanciare una vera e propria sfida per ricondurre i comportamenti dei ragazzi a livelli accettabili.
All’associazione dei genitori che si rifà al partito laburista è stato ricordato il dovere di sostenere il lavoro della scuola, specialmente ora che si sta aprendo un nuovo, inquietante fronte legato alle attività di gruppi razzisti, in grado di influenzare pericolosamente i giovani.
Il prossimo gennaio è infatti attesa la presentazione di una relazione chiesta dal ministro per l’istruzione al responsabile del servizio ispettivo centrata su alcuni punti chiave: -se le misure di salvaguardia contro il diffondersi della mentalità razzista fra i giovani siano sufficienti, -se siano necessarie ulteriori misure per aumentare, nell’opinione pubblica, la fiducia negli insegnanti, al fine di proteggere i giovani dai rischi dell’indottrinamento e della discriminazione, in particolare tramite l’affiliazione ad associazioni di stampo razzista, -se le attuali misure di salvaguardia debbano essere più ampiamente diffuse nel paese attraverso i lavoratori della scuola.
Il problema appare tanto più pressante alla luce dei risultati di recenti inchieste in cui sembrano coinvolti un numero imprecisato di docenti, i cui nominativi non sono conosciuti, i quali sarebbero a loro volta affiliati ad organizzazioni razziste.
Al riguardo, l’amministrazione sta prendendo in considerazione l’opzione di sollevarli dall’insegnamento, non appena vengano identificati.