Giovani e partecipazione nella vita politica

Howard Gardner, lo psicologo statunitense, professore presso l’università di Harvard, noto in campo educativo per la sua teoria sulle intelligenze multiple, intervenendo alla IX Conferenza internazionale promossa dall’Osservatorio internazionale della democrazia partecipativa (Oidp), con la lezione “Giovani e partecipazione nella vita politica”, ha illustrato una sua interessante tesi.
“Partecipazione e cittadinanza si attivano tramite l’applicazione di una regola semplice – ha detto Gardner, citando come esempio personalità quali Luther King, Mandela, Suu Kyi e Gandhi – Quella delle tre “E”.
Excellence, engagement, ethics, che stanno a significare rispettivamente: la conoscenza delle regole del vivere civile, l’impegno in prima persona e prendere la giusta decisione, anche quando ciò non corrisponda al proprio interesse”.
Per il professore americano, in mancanza di modelli attuali a cui i giovani possano ispirarsi, bisogna affidarsi infatti ai grandi del passato.
Nemmeno le religioni e i vari “ismi” attualmente non ci aiutano, per cui “se vogliamo creare un modello di partecipazione dobbiamo ripartire da zero”.
Per Gardner, nelle città multietniche d’oggi, occorre imparare a dialogare.
“Denaro, mercato ed esclusiva affermazione di me stesso sono tipici della società odierna.
A ciò rispondiamo – ha detto Gardner rivolgendosi ai molti giovani presenti al convegno – con tre elementi di buona cittadinanza: etica nelle scelte, rigore e competenza anche nel lavoro e impegno personale per la comunità”.
tuttoscuola.com

Si possono valutare le scuole?

M.
CASTOLDI, Si possono valutare le scuole? Il caso italiano e le esperienze europee , Torino, SEI, 2008, pp.
171 La valutazione è certamente uno strumento fondamentale nella realizzazione della qualità educativa.
Essa però si trova di fronte a limiti non di poco conto.
Per esempio, riguardo all’acquisizione dei saperi si sono utilizzati con un certo successo test suffi-cientemente adeguati sia a livello nazionale che internazionale: si tratta di strumenti migliorabili che, però, già ora permettono di conseguire buoni risultati sul piano delle misure degli apprendimenti.
Difficoltà molto maggiori si pongono circa l’autorealizzazione individuale e l’educazione alla cittadinanza democratica; infatti, la riflessione e la metodologia sono ancora agli inizi per quanto iguarda la misurazione del conseguimento degli apprendimenti non cognitivi.
Quanto alla formazione professionale, è possibile far uso di una valutazione a posteriori: infatti, è sufficiente ricorrere a indicatori che si riferiscono all’inserimento nel mondo del lavoro.
Da ultimo la valutazione dell’eguaglianza delle opportunità e della mobilità sociale pone dei problemi ancora maggiori perché dovrebbe assumere un carattere multidimensionale.
La definizione di norme per le prestazioni degli allievi lascia un notevole spazio di arbitrarietà per cui sono necessari continui confronti tra le componenti scolastiche 1100 Orientamenti Pedagogici Vol.
56, n.
5, settembre-ottobre 2009 e anche revisioni e approfondimenti costanti.
È importante non cadere negli eccessi di un approccio esclusivamente psicometrico.
Un altro rischio è quello di limitare la valutazione e il perseguimento della qualità solo a ciò che è misurabile per cui tutti gli apprendimenti non cognitivi vengono considerati marginali.
L’ottimo libro di Mario Castoldi affronta con un approccio scientificamente corretto queste e altre problematiche e illustra a un pubblico di operatori scolastici e di studenti impegnati nei corsi di formazione universitaria dei docenti il quadro normativo, istituzionale e culturale entro cui viene fa-ticosamente emergendo anche nel nostro paese un sistema di valutazione del servizio scolastico.
Si tratta di un percorso non facile nel quale risulta molto problematico orientarsi e collegare tra loro i vari tasselli in una cornice d’insieme.
Il volume fornisce una minuziosa ricostruzione del processo maturato in questi anni, la proposta di categorie di lettura e di strumenti di analisi critica, il confronto con le esperienze di sei tra i principali paesi europei, l’approfondimento dei compiti previsti a livello di istituto.
In aggiunta, viene messa a disposizione dei lettori una raccolta di strumenti — diari di bordo, bussole, mappe, prontuari — capaci di facilitare il compito di chi deve valutare.
G.
Malizia

La scuola smarrita.

Nel numero di dicembre del mensile Tuttoscuola, in distribuzione nelle edicole e tra gli abbonati,(per i costi e le modalità di abbonamento, si clicchi qui), si affrontano in apertura alcune grandi questioni sulle quali è in corso un importante confronto: la sentenza della Corte europea sull’esposizione del crocifisso nelle scuole e il dibattito sulle modalità di insegnamento della nuova disciplina Cittadinanza e Costituzione, con articoli di Orazio Niceforo e Franco Camisasca.
Seguono una serie di interventi sulla politica scolastica: un’intervista a don Francesco Macrì, segretario generale della Fidae sulla scuola paritaria oggi, un articolo di Alfonso Rubinacci sul federalismo scolastico, e scritti di Giorgio Allulli, Benedetto Vertecchi e Gaetano Domenici su tematiche relative alla valutazione, oltre a un interessante contributo di Italo Fiorin sulle pluriclassi.
Nella sezione “Obiettivo docente” si parla tra l’altro di una originale applicazione del Sudoku a sostegno dell’apprendimento del latino (Patrizia Marti) e della pedagogia partecipativa che sta alla base della Social Media Classroom (Caterina Cangià).
Completano il numero di dicembre lo “Speciale strenne” a cura di Antonella Calzolari, la sezione “Turismo scolastico”, che comprende anche il “Viaggio studio del mese”, e altre rubriche.
“La riforma al tempo del web” è il tema dell’editoriale che apre la rivista.

Spagna: i crocefissi nelle aule scolastiche

Niente rimozione generalizzata dalle scuole dei crocifissi, ma una valutazione puntuale classe per classe se ci saranno richieste di genitori: questa la sentenza del tribunale superiore di giustizia di Castilla Y Leon su un ricorso presentato contro la decisione di un tribunale di Valladolid che l’anno scorso aveva imposto la rimozione di un crocifisso da una scuola della città.
Il ricorso era stato presentato dalla giunta regionale di Castilla y Leon e dall’associazione E-Cristians.
“Nelle aule in cui studiano alunni i cui genitori non hanno manifestato contrarietà alla presenza” di simboli religiosi, “non esistono conflitti” e quindi non è motivata la rimozione dei crocifissi, precisa la sentenza del tribunale superiore.
La sentenza del tribunale numero due di Valladolid del marzo 2008, su richiesta di tre genitori, parzialmente corretta oggi dal tribunale superiore, imponeva alla scuola Macias Picavea la rimozione dei crocifissi da tutte le sue aule.

La Riforma dei licei, dei tecnici e professionali

Riserve del Consiglio di Stato anche per tecnici e professionali Le perplessità espresse dal Consiglio di Stato a proposito dello schema di regolamento dei licei si estendono, con poche variazioni, anche agli altri due regolamenti, riguardanti gli istituti tecnici e professionali per i quali sono stati redatti analoghi documenti.
 Gli uffici del Ministero stanno predisponendo le risposte alle richieste di chiarimento formulate dal Consiglio di Stato.
Il ministro Gelmini fornirà le spiegazioni sollecitate dal Consiglio, ma non sembra disposta a fare marcia indietro.
Sempre più probabile, invece, è lo spostamento del termine per le iscrizioni alla scuola secondaria superiore alla metà o alla fine di marzo 2010.
Di parere diverso il coordinatore nazionale della Gilda degli Insegnanti, Rino Di Meglio, che accoglie con soddisfazione il parere negativo espresso dalla magistratura amministrativa, soprattutto per quanto riguarda l’eccesso di delega, e invita il ministero della Pubblica istruzione a “rallentare questa deleteria corsa verso la riforma e rispondere ai chiarimenti chiesti dal Consiglio di Stato”.
  tuttoscuola.com Sono forti le perplessità sulla riforma della scuola secondaria superiore espresse dal Consiglio di Stato nel documento n.
7149 del 9 dicembre scorso (ma reso pubblico soltanto nelle ultime ore), contenente il parere sullo Schema di regolamento recante “Revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico dei licei ai sensi dell’articolo 64, comma 4, del decreto legge 25 giugno 2008, n.
112, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n.
133”, ossia sul nuovo Regolamento dei Licei.
Per i giudici di Palazzo Spada, i punti poco chiari sarebbero così rilevanti da indurre il Consiglio di Stato a sospendere le valutazioni di rito e chiedere “che il Ministero dell’istruzione fornisca i chiarimenti richiesti” poiché “non è chiaro se il testo predisposto si mantenga nei limiti della delega”.
Il primo punto ritenuto dubbio dai giudici di secondo grado della giustizia amministrativa è di tipo normativo: la bozza di riforma prevede, infatti, che alcuni punti fondamentali (obiettivi specifici di apprendimento, articolazione delle cattedre e definizione degli indicatori per la valutazione) vengano introdotti attraverso un semplice decreto ministeriale.
Il Consiglio di Stato, invece, ritiene che occorra l’approvazione di una legge.
Ma un provvedimento di questo tipo necessiterebbe tempi decisamente lunghi vanificando in partenza l’obiettivo del ministro di creare già da settembre delle prime classi sulla base dei nuovi programmi.
Un altro punto ritenuto “debole” è quello dei tetti a piani di studio che ogni singolo istituto dovrebbe scegliere da sé sulla base di esigenze specifiche territoriali: i cosiddetti “curricolo” imposti dal ministero dell’Istruzione – il 20% al primo biennio, il 30% nel secondo biennio e il 20% nel quinto anno – non sembrano bastare a palazzo Spada.
Che facendo riferimento al regolamento sull’autonomia della scuola (il dpr n.
275/99) fa intendere la necessità di lasciare più margini alle scuole.
I giudici del Consiglio di Stato hanno poi espresso un certo scetticismo sulle procedure che porteranno ai nuovi piani di studio e ai programmi ministeriali: ritengono che sarebbe il caso “che il Ministero dell’istruzione illustri la graduazione di tale passaggio, anche con riguardo alla tutela dell’affidamento degli studenti che, trovandosi nelle situazioni di transito, subiranno una modificazione dell’iter formativo prescelto”.
Il cambiamento, fanno intendere, andrebbe introdotto per vie decisamente più graduali.
Forti perplessità sono state infine esplicitate dal Consiglio di Stato anche sulla revisione degli organi collegiali, responsabili delle strategie principali di ogni singolo istituto superiore: i nuovi regolamenti ministeriali prevedono l’introduzione di dipartimenti, composti da docenti individuato dal collegio dei docenti,a soprattutto l’attuazione di un comitato scientifico formato da docenti e da esperti esterni.
Anche su questo fronte “sarebbe più coerente con l’obiettivo di realizzare l’autonomia – scrive il Consiglio di Stato -, lasciare alle istituzioni scolastiche la scelta in merito all’opportunità di istituire tali organi”.
tuttoscuola.com

Droga e scuola

Per il 42% degli studenti, stando all’inchiesta svolta dal sito studenti.it, è possibile acquistare droga da altri studenti non solo all’esterno, ma anche all’interno della propria scuola.
Lo spaccio sarebbe ormai entrato dentro le aule, e secondo gli studenti si farebbe perfino tra una lezione e l’altra.
Il 13% degli intervistati ha dichiarato che le sostanze stupefacenti vengono vendute nei pressi della propria scuola, ma non dentro.
Il restante 45% dei partecipanti all’inchiesta ha invece escluso che all’interno del proprio istituto ci siano studenti che spacciano.
L’inchiesta, avviata dopo l’arresto di un giovane studente che riforniva di hashish i suoi compagni di scuola, presenta un quadro preoccupante, che sarebbe bene conoscere in modo più approfondito e sistematico.

Testimoni del nostro tempo: Giovanni Paolo II

Il mistero di un uomo innamorato della vita di Joaquin Navarro Valls La beatificazione di Giovanni Paolo II , ci dicono, potrebbe essere addirittura nell’autunno del prossimo anno, anche se non è ancora certo.
Non posso dire che mi abbia colpito la notizia del procedere spedito dell’iter previsto.
Cardinali e teologi della Congregazione per le cause dei santi hanno aperto il passo per il decreto sulle virtù eroiche di Karol Wojtyla.
E questa tappa rilevante mi fa tornare alla mente i tanti anni in cui ho avuto la possibilità di vedere da vicino il modo d’essere e di fare di Giovanni Paolo II, e di poter toccare con mano quello che adesso sarà sanzionato come santità.
Certamente, delle sue virtù sapremo qualcosa di esauriente quando usciranno gli atti nella loro interezza, e potremo leggere così il resoconto delle testimonianze.
Ma il ricordo personale, inevitabilmente parziale e soggettivo, si accompagna talmente tanto alle notizie relative ai talenti intellettuali e morali che ho visto presenti nella persona, che mi pare quasi impossibile non parlarne.
La ricostruzione delle virtù di Giovanni Paolo II apre la domanda fondamentale su che cosa sia stata in lui la santità.
È una domanda legittima, perché non esiste santità in generale.
Non esiste una santità cioè senza la singolarità di ogni santo, e senza le virtù normali e visibili attribuibili a qualcuno.
Il carattere individuale si mescola al lento lavoro di raffinamento che si compie in lui per tutta la vita, fino a costituire un capolavoro concreto ed esemplare, a noi non sempre del tutto chiaro e decifrabile La risposta specifica alla domanda relativa alla santità di Giovanni Paolo II direi che non si allontana molto dell’idea che la gente si è formata di lui.
Karol Wojtyla era nel privato esattamente come lo si vedeva in pubblico: un uomo innamorato, un cristiano che guardava oltre se stesso.
Perciò, non è difficile argomentare in suo favore.
La sua peculiarità personale appariva principalmente nel suo rapporto diretto con Dio.
Per questo la sua spiritualità era attraente e magnetica, quasi normalmente apostolica e costantemente convincente.
Sia che soffrisse e sia che ridesse – e delle due cose era ugualmente maestro ed allievo eccellente – egli non aveva un rapporto speculativo con una divinità distante e trascendente.
Nella sua giornata stare con Dio era la più grande passione, la più intensa priorità e, insieme, la cosa più normale del mondo.
Come affermava già San Giovanni della Croce – non a caso autore da lui sempre molto apprezzato – la relazione tra Dio e l’anima è quella di due amanti.
Dio non è un codice in cui esprimere una credenza, ma una Persona a cui credere, in cui sperare e con cui vivere un amore intenso, fedele, reciproco, per tutta la vita.
A Dio si può affidare la propria esistenza.
Ad un codice morale neanche una giornata.
Questa straordinaria concretezza, congeniale al suo modo d’essere molto diretto ed immediato, è la vera essenza della sua religiosità cristiana, della sua santità di vita.
L’architrave del castello era la vita ordinaria, interamente inserita in Dio e intensamente scandita dalla presenza di Dio.
Operativa e orante, sotto il medesimo riguardo.
In Wojtyla non vi era la minima manifestazione di manierismo e di retorica pseudo mistica.
Non c’erano nelle sue devozioni altro che il rigore della carità, la dedizione consapevole e partecipe della persona a quanto conta veramente per lei.
A Giovanni Paolo II non premeva apparire buono.
Forse avrebbe preferito – se si può parlare così, cosa di cui non sono del tutto sicuro – non esserlo piuttosto che fingere.
Benché sapesse di essere osservato dal mondo, il suo impegno costante era aprire tutto il suo cuore alle richieste che venivano direttamente da Dio.
Come ha spiegato Sant’Agostino nel De magistro «colui che viene chiamato e che insegna è Cristo che abita nell’uomo interiore».
In Wojtyla questa sicurezza non è mai venuta meno nelle tante difficoltà – e nelle tante gioie – che si è trovato ad affrontare.
Credo di aver capito realmente quale debba essere il rapporto cristiano con Gesù, quando ho visto il modo in cui egli si rivolgeva al Crocifisso, nella concreta sicurezza di un guardarsi spirituale reciproco.
Dio non era per lui l’autore distaccato di un’anima estranea e indifferente, ma una Persona che ha creato la propria persona – quella di Giovanni Paolo II; una Persona con cui poter parlare personalmente e a cui dire perfino «Alle volte non ti capisco!».
Una Persona, però, da cui non potersi – né volersi – separare, perché legata da un rapporto più intimo con l’anima di quello che ciascuno ha con se stesso.
Una volta, credendo di essere solo nella sua cappella, l’ho visto cantare mentre fissava lo sguardo sul Tabernacolo.
Non intonava, certamente, un tema liturgico, ma stornellava in polacco canzoni popolari.
Mi è venuto in mente di nuovo Sant’Agostino, il quale affermava che «cantare è pregare due volte».
Nonostante tutto, non voglio assolutamente dire che vi fosse dell’ingenuità o, peggio ancora, della ritualità banale nel rapportarsi con tale spontaneità a Dio.
Semmai, vi era concretezza e coinvolgimento anche sentimentale nella sua devozione.
Mi sembrava – almeno questo veniva alla mia mente – che in lui trasparissero, al contempo, la ricchezza intellettuale di un teologo e l’innocenza spontanea di un bambino.
Queste due dimensioni non erano due tappe distinte di un diverso cammino, ma un’unica melodia composta da suoni diversi armoniosamente fusi in un solo atteggiamento e in una sola espressione di amore.
Un lato peculiare del suo atteggiamento spirituale mi ha sempre colpito.
Giovanni Paolo II non era un ascetico moralista, e neanche un esibizionista di eroismi accessori e inutili.
Il suo modo di fare non era l’arduo itinerario apatico di uno stoico.
Le sue mortificazioni erano solo il modo stimolante ed efficace di unirsi alla passione di Gesù, di partecipare insieme a Lui alle gioie e ai dolori che chiunque ama condividere con la persona che seriamente ama nel profondo.
La sua accortezza sembrava insegnare che è meglio soffrire con Dio che rallegrarsi da solo.
Molto spesso per Giovanni Paolo II si trattava soltanto di profittare di qualche occasione offerta dalle vicende quotidiane per offrire a Dio qualche piccolo o grande sacrificio.
Rifiutare in aereo il letto preparato per lui nei lunghi viaggi intercontinentali, e dormire invece sul sedile; diminuire il cibo di un pasto, con apparente noncuranza.
Oppure, talvolta, rinunciare a bere senza dir nulla e senza dare giustificazioni, unendo pudore e rinuncia in una delicata discrezione personale, che evita strane domande impertinenti.
Il fine di tutte queste accortezze sensibili era garantire alla sua anima la perfetta unione con Cristo, la totale disponibilità ad ascoltare il richiamo interiore di Dio, assecondandone la volontà in piena libertà.
Mi è capitato, in qualche rara occasione, di trovarlo perfino disteso per terra a pregare.
Bastava guardarlo per capire che non vi era un annichilimento di se stesso davanti all’infinita maestà del Creatore, ma il forgiarsi di una sottile analogia, con la quale la grandezza della creatura diveniva tutt’uno con Dio mentre la miseria della creatura pure si univa al Creatore.
Se Egli mi si avvicina e si apre a me – sembrava dire la sua vita – è perché io possa rivolgermi a lui allo stesso modo e con la stessa confidenza.
Ecco, in Giovanni Paolo II l’amore per Dio aveva questo volto nitido, estremamente consueto ed estremamente inconsueto al tempo stesso.
Uno sguardo penetrante e profondamente cristiano, regolarmente saturo di santità.
in “la Repubblica” del 19 novembre 2009 «Non è difficile essere santi» gli diceva Jan Tyranowski, il sarto che durante la guerra insieme agli abiti cuciva in mente a quel ragazzo il catechismo.
Da lui Karol Wojtyla imparava anche i mistici, le pagine infuocate di San Giovanni della Croce e di Santa Teresa di Gesù.
Ora che anche per Giovanni Paolo II si avvicina l’aureola di Beato della Chiesa (possibile entro il 2010, dopo il riconoscimento delle virtù eroiche appena deciso dai cardinali) la domanda si pone: perché un altro papa sugli altari e perché con tanta rapidità? In un’ora di crisi dell’ecumenismo, rafforzare la figura del papa di Roma, anzi farlo oggetto di culto è una buona soluzione? La risposta che si raccoglie in Vaticano è che, prima che papa, Wojtyla era un cristiano che amava il mondo e spalancava frontiere all’umanità.
«Se potessi, farei il papa da qui» mormorò una mattina sconvolto dopo essere passato tra i corpi disfatti della Casa dei Moribondi di Madre Teresa, a Calcutta.
Un altro caso di santità al naturale, che trascende e precede gli schemi della santità canonica.
Da viva era già venerata da indù, musulmani, anche da non credenti, semplicemente per il suo amore senza misura.
Poteva valere per lei il tipo di santità che Simone Weil era pronta a riconoscere a quanti anche se atei «posseggono allo stato puro l’amore per il prossimo e l’accettazione della sventura».
Wojtyla non ebbe dubbi ad aprire a Madre Teresa la via degli altari, appena due anni dopo che era morta, invece del minimo di cinque stabiliti dalla regola.
Santi e beati a migliaia, nei 25 anni del suo regno, una facilitazione da stagione dei saldi per le anticamere dei postulanti.
Strategico il ridimensionamento sostanziale dell'”Avvocato del Diavolo” che nel vecchio processo canonico svolgeva il ruolo implacabile della Ragione.
Le critiche per l’inflazione delle corti celesti non gli mancavano, quella di Ratzinger era la meno tenera.
Gli rispose con ironia: “E’ colpa dello Spirito Santo”.
Ma non trattenne lo sdegno quando gli riferirono in Segreteria di Stato che affluivano rapporti di nunzi e di vescovi, con racconti di guarigioni e grazie ricevute per intercessione delle sue preghiere: “E’ tutta opera di Dio!” si schermì troncando il discorso.
In realtà provava fastidio – dice il cardinale Stanislao Dziwisz, suo segretario – per ogni pratica che confondesse la santità con l’eroismo sovrumano, con il miracolismo.
La sua era una santità ordinaria, fisica.
Racconta Gianfranco Svidercoschi, un giornalista che per anni lo seguì da vicino: “Gli piaceva un canto polacco, che amava cantare fin da ragazzo.
Dice: “Se vuoi seguirmi, prendi la tua croce di tutti i giorni e vieni con me a salvare il mondo in questo secolo”.
Lui si è fatto santo su quella canzone”.
La relazione di Wojtyla col Crocifisso è un capitolo biografico appassionante da attraversare.
Non è solo il rapporto con una Icona.
Quando abbraccia il crocifisso del Giubileo sull’altare della Confessione in San Pietro, la mattina dei “mea culpa”, l’icona sembra diventare di carne, sul viso già malato del papa che gli bacia le piaghe dei piedi.
E’ dalla debolezza di quella vittima che attinge la propria forza.
E’ una condivisione che passa attraverso le sue infermità, fino al Parkinson finale che incide sul suo corpo un rovesciamento drammatico.
Con una domanda che incombe sulla sua aureola: l’auto-umiliazione dei mea culpa come si accordava alla strategia spettacolare di rilancio della cristianità di regime che riempiva le piazze e massificava la missione della Chiesa? Ma il processo di santità prescinde quasi sempre dai risvolti strategici di un pontificato e limita l’analisi ai vissuti interiori.
Per cui prendono rilievo per Wojtyla le virtù private, su cui l’aneddotica raccolta dall’istruttoria canonica è traboccante.
Quando fu dimesso dopo l’attentato, disse che era grato a Dio per avergli salvato la vita, ma anche perché gli era stato concesso di “appartenere alla comunità degli ammalati”.
Durante il viaggio in Corea nel 1981 andò a visitare un lebbrosario, fece il giro a piedi del viale, passò davanti a un lebbroso che in quel momento non riuscì a trattenere fra i moncherini la bandierina e andò oltre ma per poco.
Tornò subito indietro ad abbracciare e a baciare il malato.
Ma rifuggiva dal dolorismo, ironizzava sulla retorica del “papa straziato dal destino”.
Da mistico viveva il dolore come un fattore purgatoriale.
Nell’ultima fase, persino poche ore prima di morire quel 2 aprile 2005, volle fare dal letto l’ultima “via crucis”, quando ormai l’immedesimazione tra lui e la croce sembrava compiuta, malgrado gli schiamazzi speculativi dei suoi fans.
In realtà anche l’esperienza della caducità del suo corpo aveva una proiezione pubblica sui modi del suo corpo regale, se riapriva questioni canoniche irrisolte per il governo della Chiesa, con il sistema che si inceppa se un papa precipita in condizioni psicofisiche incompatibili con la funzione.
Lui fece chiamare Francesco, il pulitore dell’appartamento papale, e non poteva altro, senza parole com’era, che porgli la mano sulla testa: “Non me la sono più lavata per una settimana”, dirà.
Di fronte al letto il quadro di un Cristo sofferente, legato con le corde.
Fece un altro gesto degli occhi e arrivò al capezzale suor Tobiana, che sapeva quel linguaggio.
L’ultima persona a cui voleva tentare di dire qualcosa era una donna: “Lasciatemi andare dal Signore” era, più che un congedo, un soffio.
La cultura cattolica e anche laica si lasciava catturare troppo facilmente in quei giorni dalla teologia del potere e della gloria.
Si preferiva eclissare la lezione di Urs von Balthasar secondo il quale lo statuto del papato è fondato sulla figura della crocifissione di Pietro con i piedi in alto: è la croce, diceva il teologo, ma una croce rovesciata, il simbolo di una umiliazione permanente, di una deficienza, anzi “il simbolo definitivo della situazione gerarchica”.
E’ emerso dall’istruttoria, e lo conferma Svidercoschi nel suo ultimo libro “Un Papa che non muore” (San Paolo editrice) che fin da ragazzo Karol pregava spesso disteso sul pavimento, facendo assumere al suo corpo la forma della croce.
Nel 1944 seminarista in clandestinità era in questa postura quando la casa venne invasa da squadre naziste alla caccia di imboscati.
Nemmeno si accorsero di lui appiattito a terra.
Fu la preghiera in quella riproduzione crocifissa a salvarlo.
Per Svidercoschi fu un trauma una sera nella cappella dell’appartamento privato, dove Wojtyla si era ritirato alla notizia del ritrovamento del corpo massacrato di don Popielusko.
In ginocchio, alle spalle del papa, aveva chiuso gli occhi anche lui per concentrarsi.
Li riaprì e ciò che vide di fronte a lui “mi privò letteralmente della preghiera” ricorda.
“Lo vedevo di spalle, curvo sul suo silenzio, sullo sfondo dell’altare.
Sapevo che era in costante dialogo con Dio.
Ma non avevo mai sentito prima di allora quanto fosse reale la sua intimità con lui.
Sprigionava una forza di attrazione cui non si poteva resistere.
Assorbiva anche le nostre modeste preghiere nella sua”.
Fu perché credeva nella forza anche politica della preghiera che riunì ad Assisi nel 1986 il primo summit delle religioni mondiali per la pace.
Gorbaciov lo ha dichiarato: ad abbattere il Muro furono anche le sue preghiere.
“Una mano ha sparato, un’altra ha deviato il colpo” era la sua spiegazione dell’attentato del 13 maggio 1981, festa della Madonna di Fatima.
E niente provava quanto la realtà trascendente fosse per lui chiave della storia e crocevia necessario della politica come la decisione di andare a Fatima un anno dopo lo sparo di Agca a conficcare la pallottola nel diadema della statua della Vergine.
Ma si assicura che prima dell’attentato egli non sapeva quasi nulla del “terzo segreto”, se ne fece portare le carte all’ospedale e solo allora comprese il senso profetico di quell’evento.
in “la Repubblica” del 19 novembre 2009

Il 56,4% degli insegnanti italiani chiede più formazione

Il dato del 56,4% relativo agli insegnanti italiani è contenuto in una relazione sullo sviluppo professionale dei docenti resa nota dalla Commissione europea e dall’Ocse sulla base di un’indagine comparativa, appena conclusa, che ha coinvolto 23 Paesi in Europa e nel resto del mondo.
La percentuale che riguarda l’Italia  è sostanzialmente in linea con quella del resto del mondo (54,8%) ma superiore alla media registrata nei paesi europei (49,2%): segno che da noi l’esigenza è più avvertita.
Secondo l’indagine il 15,4% degli insegnanti italiani non ha comunque partecipato ad attività di formazione negli ultimi 18 mesi, mentre l’86,6% ha preso parte ad attività strutturate di aggiornamento, legate ai processi di riforma.
Scarsa invece, rispetto agli altri paesi Ue presi in esame, la partecipazione volontaria a corsi e workshop.
“I risultati dell’indagine” – ha sottolineato Angel Gurria, segretario generale dell’Ocse – “indicano che gli insegnanti desiderano apprendere e cercano di migliorare le loro abilità, ma la formazione professionale impartita sul posto di lavoro deve essere meglio mirata sui bisogni degli insegnanti”.
Una valutazione che si attaglia bene anche al caso italiano.

Dire Dio in contesto multiculturale e plurireligioso.

in questi ultimi anni abbiamo riflettuto su alcuni orientamenti culturali significativi per l’educazione religiosa, analizzando in particolare l’apprendimento, l’ermeneutica, il linguaggio religioso … Quest’anno vorremmo verificarne l’elaborazione attorno ad un tema fondamentale: Dire Dio in contesto multiculturale e plurireligioso.
  Vorremmo raccogliere le indicazioni più significative, a partire dalle molteplici competenze dei  partecipanti.
Definiamo quindi in termini orientativi le dimensioni che vorremmo esplorare, lasciando a ciascuno la scelta della propria collocazione, con uno specifico contributo, che ci vorrà far  pervenire per tempo.
              I nuclei di riflessione potrebbero essere i seguenti: 1.      Riferimenti da privilegiare nelle fonti bibliche; 2.      Dire Dio secondo l’approccio psicologico e psicanalitico; 3.      Dire Dio secondo le narrazioni più largamente divulgate; 4.      Dire Dio nell’orizzonte ermeneutico; 5.      Dire Dio secondo le Grandi Religioni;                         Lo svolgimento quindi della giornata: 1.
Ciascuno, nel limite del possibile, è invitato ad esporre l’argomento sulla base di un breve contributo (15-20 minuti con 5-6 cartelle al massimo); 2.
L’ordine dell’esposizione segue la successione dei nuclei sopra elencati; 3.
Una breve presentazione iniziale e una essenziale sintesi conclusiva fanno da cornice al dialogo, che vede l’apporto di tutti i partecipanti.
              L’incontro è previsto per il 21 novembre p.v.
presso l’Università Salesiana.
Ci auguriamo che l’argomento Ti interessi vivamente e contiamo sulla Tua preziosa presenza e partecipazione.
Ti preghiamo di farci pervenire per tempo il tuo intervento scritto (non oltre il 15 novembre p.v.) in modo da consentirci una organizzazione di massima della giornata.
Un cordialissimo arrivederci.
E un fervido augurio per l’anno scolastico che riprende!   Ubaldo Montisci     (Direttore dell’Istituto di Catechetica)                     Introduzione     1.
Dire Dio: Legittimo?   Giobbe finalmente si arrende a Dio: “ Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi Ti vedono.” (Giobbe, 42, 59) Non c’è uomo che non lo conosca, almeno per sentito dire; perché se ne parla: non c’è lingua che non lo nomini.
(Spaemann, 2008).
Legittimamente? Per garantirsi, la ragione ha percorso piste rigorose ed ha tentato di vegliarne la fidabilità.
Con esito incerto: una tradizione secolare e autorevole lo ha riconosciuto all’origine della realtà, causa e fondamento del mondo.
Ma la stessa tradizione trova resistenze tenaci, magari proprio sul versante di chi fa del riferimento a Dio l’orizzonte di significato definitivo per la propria esistenza.
Pascal e Kierkegaard rappresentano solo gli esponenti più illustri fra i credenti che hanno avanzato dubbi e perplessità sulla dimostrazione razionale, sulla via rationis.
In epoca moderna scuole filosofiche di impatto straordinariamente vasto e accreditato hanno negato alla ragione umana il diritto di parlare di Dio (Kant); hanno screditato l’intera compagine tradizionale che ne esigeva la presenza (Nietzsche); hanno denunciato il riferimento a Dio come evasivo di un impegno umano responsabile (Feuerbach, Marx, Bloch).
Insomma la compagine della credibilità appare scossa.
E tuttavia il tema di Dio non è di quelli che si possano sottacere; ha tutta la provocazione di un confronto che mette in gioco o addirittura a repentaglio l’esistenza.
Vale la pena ascoltare e decifrare il contributo che la riflessione è oggi in grado di offrire, portando liberamente il confronto sui diversi versanti della ricerca religiosa, soprattutto dove è in grado di esplorare istanze da cui l’esistenza è attanagliata.
  2.
Dire Dio: ha senso?   Dove la trascendenza è pensata rigorosamente, dire-Dio, chiamarlo per nome, sembra presunzione.
Una presunzione che attraversa comunque l’intera ricerca umana: i primi inni – i reg-veda – che conosciamo s’interrogano su Dio, su chi sia, con quale nome lo si debba invocare…[1] Soprattutto una provocazione che attanaglia il cuore dell’uomo.
Il nostro cuore è senza pace fino a che non riposa in Te, avverte un genio che ha segnato il nostro modo di capirci.
E suscita domande conturbanti su un’opzione che s’impone e appare obbligata:“Se l’uomo è fatto per Dio, perché così contrario a Dio; e se non è fatto per Dio perché così infelice senza Dio?” (Pascal, 367) si domanda uno dei credenti singolarmente lucido.
Domanda pertinente: vorremmo porla a filo conduttore della nostra riflessione.Tanto più che la ricerca religiosa recente ha concentrato sull’esperienza umana la propria attenzione.
Anche il discorso su Dio sembra dover attraversare obbligatoriamente il versante dell’esperienza.
Nel caso nostro dunque portarci sulla ricerca religiosa, con attenzione a quelle scienze che la esplorano.
Donde l’interesse anche di questa giornata, allargato ai diversi settori di ricerca.
3.  In chi… crede colui che crede?             Quasi un secolo fa un pensatore credente J.
Rivière, s’interrogava sulla resistenza dell’a-teo di fronte a tante verità di cui la fede è depositaria.
Mettendosi nei panni dell’interlocutore, ripeteva a se stesso: – com’è possibile che un uomo intelligente, di buona cultura ammetta… E faceva un elenco discreto di affermazioni cui il credente dà normalmente la sua adesione (Rivière, 1925, 32).
Per cui si era proposto un compito singolare: spiegargli  il suo punto di vista, dipanargli la logica e la coerenza del proprio modo di pensare, con la… presunzione di metterlo a parte di un’esperienza singolarmente illuminante Qualche anno fa il cardinal Martini, allora arcivescovo di Milano, aveva avviato una interessante iniziativa: la cattedra dei non credenti.
In un dibattito assai vivace aveva chiamato in causa il non credente e l’aveva sollecitato a spiegare la propria posizione.
  Uno di loro, che si riconosce in questa schiera, riprende oggi le fila (Savater, 85).
“In che cosa crede chi non crede?” era la domanda.
“Crediamo, risponde F.
Savater, nella constatazione dei fenomeni naturali stabiliti dalla scienza, in quel che è verificato da studi storici e sociali, nell’opportunità di alcuni valori morali, eccetera.” ( Savater, 2007, 85).
Considerazioni piuttosto evasiva.
E che? Forse che il credente non dà la sua adesione, piena e serena, a tutte queste cose e a tutte le altre che… l’illustre studioso va elencando.
Ma il credente sa che la fede è un’altra cosa.
Più incalzante è invece la domanda che a sua volta Savater propone: – In cosa credono coloro che credono… – Perché ci credono una volta che riescono a chiarire in cosa credono.
… – Non si tratta di pretendere da chi crede in ‘Dio’ che chiarisca il contenuto della sua                 fede e le ragioni che lo portano ad adottarla…” ( Savater, 2007, 86).
Invece noi pensiamo che proprio di questo si tratti: che chi crede in Dio sia in dovere di mettere a punto la risposta e dire con chiarezza in che cosa e in Chi crede e le ragioni per cui ci crede! Appunto perché vive in un contesto in cui ‘credere in Dio’ non è affatto ovvio.
Nel trecento l’amico di Dante, Guido Cavalcanti, è passato alla storia perché, secondo il suo biografo, ‘passò la vita a cercar se trovar si potesse che Dio non fusse…’ Savater sembra essersi proposto lo stesso compito; ma data la situazione culturale odierna non passerà alla storia per questo.
Fa parte di quella schiera piuttosto numerosa che Sartre ha già lucidamente identificata una cinquantina di anni fa.
Il nostro problema, scriveva Sartre, non è l’esistenza di Dio, ma che “l’uomo ritrovi se stesso e si persuada che nulla può salvarlo da se stesso, fosse pure una prova valida dell’esistenza di Dio.” (Sartre, 1968, 93).
  Riferimenti bibliografici.
                  ACHARUPARAMBIL D., La spiritualità dell’ induismo, Roma, Studium, 1986.
            MAINO G., “Vivere come se Dio ci fosse”, Padova, Messaggero, 2009             RIVIERE J, A’ la trace de Dieu, Paris, Gallimard, 1952.
            SAVATER S., La vita eterna, Roma-Bari, Laterza, 2007.
            SARTRE J.P., L’esistenzialismo è un umanesimo, Milano, Mursia, 1968                                                                                                                       Trenti     [1] “ Qual germe d’oro (…) sorse nel principio ; appena nato fu l’unico signore di ciò che esiste.Egli sostenne la terra e il cielo: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l’oblazione? (Acharuparambil, 1986, 55).    

A lezione di Sindone

Con il progetto “Imago Veritatis.
L’arte come via spirituale”, l’Associazione Sant’Anselmo realizza a Torino – nell’ambito del Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana – una serie di iniziative culturali nel programma ufficiale dell’ostensione della Sindone.
Tra queste, l’associazione propone – con la collaborazione dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede e dell’Ufficio scolastico regionale del Piemonte – un concorso per le scuole sul tema del volto e del corpo di Cristo che verrà presentato agli insegnanti venerdì 13 novembre al liceo Massimo D’Azeglio di Torino.
Ne indica gli obiettivi il presidente.
L’ostensione della Sindone – che si svolgerà tra il 10 e il 23 maggio del prossimo anno e che sarà oggetto di una visita del Papa il 2 maggio – è un evento di rilievo internazionale che attirerà milioni di visitatori da tutto il mondo e che ripropone l’attenzione su un tema da sempre oggetto di analisi, studi, polemiche e anche facili e infondate ricostruzioni: la storicità di Cristo.
Con il concorso promosso nelle scuole del Piemonte dall’Ufficio scolastico regionale su iniziativa dell’Associazione Sant’Anselmo e in collaborazione con l’Ufficio scuola della diocesi piemontese, si vuole portare questo tema all’attenzione del mondo della scuola.
L’obiettivo dell’iniziativa non riguarda il livello della fede in Cristo, che è oggetto di percorsi diversi; bensì il livello della conoscenza, dell’acquisizione di nozioni, della comprensione dei testi, della ricostruzione storica, della elaborazione creativa; in una parola il livello tipico della scuola dove si opera con le metodologie che le appartengono.
Non è un mistero che l’alfabetizzazione biblica degli studenti italiani soffra di gravi carenze, nonostante la partecipazione della stragrande maggioranza della popolazione scolastica all’insegnamento della religione cattolica (secondo i dati ufficiali tra l’85 e il 90 per cento); e i risultati di una mancata conoscenza dei principi umani e civili del cristianesimo e dei passaggi più essenziali della sua storia sono sotto gli occhi di tutti.
Il concorso si prefigge di attirare la curiosità e l’applicazione scolastica degli studenti sulla figura storica di Gesù anche attraverso gli interrogativi posti dalla Sindone.
Quindi, di approfondire la conoscenza del personaggio storico, la storia e le caratteristiche della Sindone, impegnando i bambini delle scuole elementari a esprimere con il disegno la comprensione che ne hanno e le reazioni personali a ciò che rappresenta; e spingendo gli studenti delle scuole medie e superiori a esprimere con un elaborato artistico, scritto o multimediale vuoi la personale interpretazione, vuoi l’esposizione delle problematiche storiche e scientifiche che riguardano il reperto sindonico e la vicenda di Gesù.
Agli obiettivi del concorso gli insegnanti verranno introdotti dagli interventi di personalità già note ai frequentatori di queste pagine.
Timothy Verdon fornirà spunti relativi alla rappresentazione di Cristo nell’arte osservando che essa cerca spesso di mostrare le due nature, umana e divina, del personaggio anche quando lo dipinge come un fanciullo che apprende i gesti dell’amore dall’amore della madre come chiunque di noi, o come un giovane serio che guarda dritto negli occhi alla ricerca dell’essenziale.
Lucetta Scaraffia, storica della Sapienza, spiegherà che nessun altro personaggio dell’antichità dispone di una documentazione altrettanto abbondante e vicina agli avvenimenti come Gesù, la cui esistenza storica è testimoniata in modo fondamentale dallo storico ebreo Flavio Giuseppe.
A seconda delle epoche e anche delle ideologie Cristo è stato considerato ora il fondatore di una nuova religione, ora un rivoluzionario politico; ma oggi la tendenza prevalente, in ossequio alla banalizzazione diffusa secondo cui tutte le religioni sono ugualmente valide, è quella di leggere la vita di Gesù come un mito, molto simile a quelli di Dioniso o di Osiride.
Ma René Girard e Julien Ries, di cui l’Università Cattolica del Sacro Cuore – in collaborazione con il suo editore Jaca Book – ha appena inaugurato l’archivio sotto la direzione di Silvano Petrosino, hanno collocato il sacro in una prospettiva antropologica che fa emergere la struttura religiosa connaturata all’uomo, terreno della rivelazione di Cristo.
Il maggior responsabile della Commissione diocesana per la Sindone, monsignor Giuseppe Ghiberti, studioso del Nuovo Testamento, introdurrà alla questione della Sindone chiarendo in quale rapporto stia con la vicenda di Gesù e ricordando che ciò che è accaduto a quell’uomo che si vede sul telo corrisponde in modo “totale” a quanto è accaduto a Gesù: percosse sul volto, aculei infitti su tutta la cute del capo, flagellazione, chiodi, ferita al fianco; ma soprattutto avvertendo che essa è un segno che aiuta a entrare nel mistero.
Infine, la curiosità degli studenti sarà animata dal contributo di Bruno Barberis, direttore del Centro internazionale di sindonologia, che spiegherà le caratteristiche dell’immagine (simili a quelle di un negativo fotografico) e il fatto che è stata prodotta attraverso un procedimento naturale, che possiede peculiari caratteristiche tridimensionali e che sulle impronte degli occhi vi sono segni caratteristici che potrebbero essere interpretati come tracce lasciate da monete romane coniate nella prima metà del i secolo dell’era cristiana.
(©L’Osservatore Romano – 13 novembre 2009)