In questa fase conclusiva di riordino strutturale del sistema di Istruzione e Formazione italiano, che sta ridisegnando i traguardi di competenza e gli obiettivi di apprendimento delle discipline scolastiche e dell’IRC, l’intervento si propone innanzitutto di affrontare alcune emergenze educative che possono incidere sulla costruzione di un volto di Dio nel processo di apprendimento scolastico.
Viene poi sinteticamente esaminata la possibilità di alcuni modelli di apprendimento di rispondere alle attuali emergenze educative del mondo studentesco per arrivare infine a tratteggiare la proposta di un modello che sia in grado di accompagnare lo studente nel suo sforzo di costruzione di un volto di Dio a scuola.
Categoria: Didattica
Pedofilia e Chiesa
Il Senatore Pera su “Il Tempo” di oggi, 8 aprile 2010 Tre lezioni sui laicisti e la Chiesa Chi conduce la campagna contro la Chiesa non mira ai preti.
Dietro l’attacco al Pontefice si rivela la guerra culturale ai valori giudaico-cristiani.
La battaglia non è ancora vinta e la guerra sarà ancora lunga e cruenta, ma il primo assalto è stato respinto.
Sulla questione della pedofilia, cristiani e cattolici di tutto il mondo hanno compreso alcune lezioni fondamentali.
Prima.
La riparazione con atti di giustizia ecclesiastica e civile dei casi accertati di pedofilia fra i sacerdoti non è il vero interesse di chi conduce la campagna.
Se davvero lo fosse, allora analoghe prese di posizione si sarebbero dovute verificare in altri casi, oppure si sarebbe presa l’occasione per riflettere sulle nostre leggi sempre più permissive in materia etica.
Perché la pedofilia è un crimine orrendo e l’uccisione di un embrione con una pillola è una “conquista civile”? O sono crimini entrambi oppure chi fa la distinzione fra l’uno e l’altro non si riferisce al crimine in sé, ma a qualche altra cosa.
L’essere sùbito saltati da parte degli accusatori dalla denuncia dei singoli casi all’accusa indiscriminata alla Chiesa come istituzione ha fatto capire che è precisamente questa altra cosa ciò che essi hanno in mente.
Seconda lezione.
Cristiani e cattolici hanno anche compreso che la persona del Papa non è l’obiettivo della campagna.
Perché se c’è uno che ha preso sul serio questi scandali e li ha denunciati, questi è Benedetto XVI.
Impossibile rimproverargli disattenzione, negligenza e ancor meno connivenza.
La sua predicazione di una vita, il suo magistero, la sua inequivoca dottrina sul punto gli hanno fatto sempre scudo contro qualunque denigrazione o insinuazione.
E l’immagine visibile di quello scudo è quel “celeste sorriso di Cristo” di cui ha parlato il cardinal Sodano con un’immagine doppiamente felice perché mette assieme l’espressione di fiducia che emana dal volto, anche provato, di Benedetto XVI con la serenità interiore del Suo animo.
È un calvario quello a cui il Papa viene sottoposto, ma che egli riesce a percorrere non tanto come un fardello suo personale quanto come la prova che ogni autentico cristiano deve superare quando lo “scandalo del Crocifisso” entra nel mondo.
È per questo che anche chi si è avventurato a chiederne le dimissioni come presunto responsabile di un “Altargate”, come Nixon del “Watergate”, ha dovuto riconoscere che egli è privo di colpe.
Dunque, anche per questo rispetto è risultato chiaro che il bersaglio della campagna sta altrove.
Terza lezione.
Cattolici e cristiani hanno infine ben capito dove è collocato questo “altrove”.
È la Chiesa e più precisamente la sua predicazione e testimonianza cristiana ciò che disturba.
Giustamente, il cardinal Sodano e altri hanno denunciato il vero obiettivo: la campagna dei laicisti è contro chi difende la vita, la persona, il matrimonio, l’etica.
Questa è la guerra culturale che attraversa tutto l’Occidente in questo momento di crisi morale.
Da un lato, chi predica la libertà senza responsabilità, l’autonomia dell’individuo senza vincoli, la relatività dei valori come fonte di ogni valore; dall’altro lato, chi oppone che se l’etica non ha verità, allora il bene è solo una pacca sulle spalle che ciascuno dà a se medesimo ogni volta che ha perseguito il proprio interesse e l’ha fatta franca.
La contraddizione che stringe l’Occidente è drammatica e la spirale in cui si avvolge è perversa.
Non puoi esaltare la libertà sessuale, perdonare ad ogni infrazione, abbassare ogni guardia, tollerare ogni trasgressione, esaltare la omosessualità fino al punto di voler introdurre il reato di omofobia, e poi scandalizzarti della pedofilia.
Se non c’è più il senso del peccato, ciò che è moralmente lecito o illecito finisce sotto la legge generale della forza.
Dispiace che queste lezioni non siano state ben comprese da molti laici.
E che essi per primi non abbiano reagito contro una campagna palesemente anticristiana.
Se avessero memoria storica di che cosa ha rappresento il cristianesimo per la nostra civiltà, se avessero consapevolezza culturale di quale valore fondante esso fornisce a quegli stessi valori che essi sostengono di difendere, e se avessero onestà intellettuale per ammettere che la stessa laicità è un concetto interno al cristianesimo, non ad esso estraneo o imposto, allora, credenti e praticanti o no, non si farebbero trascinare in una guerra che, se fosse vinta da chi la conduce, porterebbe alla stessa distruzione della laicità.
Oppure non si mostrerebbero ora disattenti ora indifferenti rispetto alla posta che è in gioco.
Dispiace anche che a questa incomprensione non abbiano fatto eccezione alcuni esponenti dell’ebraismo.
Dimenticare che Benedetto XVI ha reciso alla radice qualunque alibi all’antisemitismo, perché lo ha negato in dottrina e non semplicemente con gesti mediatici; dimenticare inoltre che proprio Benedetto XVI si è più di altri riferito alla nozione di “giudaico-cristiano”; e trascurare che se il cristianesimo è messo in discussione anche il giudaismo lo è, significa commettere un errore grave, di prospettiva storica e di cultura.
Si può pensare che il mondo debba ancora atti di riparazione agli ebrei, soprattutto si deve pretendere che questi atti non si esauriscano in qualche cerimonia occasionale in cui si spendono lacrime a comando, ma chiedere ogni volta che si scusi chi già si è scusato nei modi e limiti in cui può scusarsi, o intimare revisioni di episodi e personaggi, oppure sentirsi offesi per una analogia fra discriminazioni, come quella fatta da padre Cantalamessa, peraltro innocente e offerta in buona fede a chi come solo loro, gli ebrei, possono meglio capirla, è segno o di protervia intellettuale, che non si vorrebbe vedere tra quei nostri amici, o di confusione fra questioni cruciali di civiltà e piccoli interessi di questa o quella comunità o di carriera di questo o quel personaggio, che sarebbe meglio non commettere.
I laicisti non fanno distinzioni, perché non hanno scrupoli.
Se oggi salvano gli uni per condannare gli altri è perché domani si apprestano a invertire le parti.
La guerra che essi hanno da tempo dichiarata richiede l’unione di tutte le forze mature e consapevoli.
Non prevalebunt, certamente, ma sono pericolosi.
Marcello Pera 08/04/2010 “Ma Pietro cominciò a giurare e a spergiurare che non era vero: “Io neppure lo conosco quell’uomo che voi dite!”( Cfr.Mc14,71; Mt26,69-75; Lc 22,56-72; Gv18,25-27).
Di: Maria de falco Marotta.
La crisi che travaglia la Chiesa ad opera dei suoi ministri, specialmente della Gerarchia e persino del Papa, quando non è infallibilmente assistito, è profonda..
Ultimamente, di fronte ad alcune affermazioni di Benedetto XVI, dei fedeli si sono sentiti ancor maggiormente smarriti per l’enorme scandalo dei preti, dei vescovi pedofili.
Qualcuno si lascia tentare persino dalla sfiducia nella Chiesa, come se fosse morta, e propone perfino il libero pensiero o la terza era gioachimita dello Spirito Santo, che dovrebbe rimpiazzare il Papa e la Chiesa petrina.
Ma non diciamo sciocchezze.
Una cosa è la fede in Gesù Cristo, da cui il cristianesimo che ha più di due miliardi di fedeli e un’altra è la sua gerarchia che con il Papato è diventata una potenza multinazionale, tanto che un avvocato americano vuole citarlo in giudizio a rispondere delle malefatte dei preti e prelati pedofili.
Il guaio è che non si conoscono i Vangeli.
Lì è già tutto scritto: il tradimento, la sete del potere, la simonia.
Soprattutto che Gesù ha sempre perdonato i suoi apostoli, specie Pietro che lo ha rinnegato apertamente e che nei secoli a venire, spesso ha continuato a farlo, sebbene le opere grandi dei cristiani superino in abbondanza le loro pessime azioni.
E sul quotidiano La Stampa, è stata pubblicata un’ indagine dell’Istituto Piepoli realizzata da www.agcom.it che afferma che il 62% degli intervistati non approva l’operato della Chiesa, perché sta cercando di insabbiare i casi di pedofilia coprendo i colpevoli.
La domanda è stata posta non correttamente, ma si sa che la maggioranza della gente non ha molta conoscenza della “chiesa”, in quanto “corpo mistico di Cristo”, quindi gerarchia e fedeli, vengono facilmente confusi e per Chiesa, stavolta si sarebbe dovuto usare il termine Gerarchia( papa, vescovi, cardinali, preti…).
Cerchiamo di capire meglio.
Pedofilia e crisi del sacerdozio «Quella attuale è una crisi tremenda per la Chiesa… È molto più che la crisi delle violenze sessuali perpetrate su dei minori da parte di alcuni sacerdoti e religiosi.
È la crisi di tutta la concezione del sacerdozio e della vita religiosa» nella Chiesa: sono chiare le parole che Timothy Radcliffe, già maestro generale dei domenicani, utilizza per rileggere i recenti avvenimenti che hanno colpito la Chiesa, quella irlandese in particolare (in il Regno – documenti, n.
7, p.
201).
Lo fa rivolgendosi ai sacerdoti della diocesi di Dublino durante un ritiro spirituale dello scorso dicembre.
«È una crisi tremenda per la Chiesa, ma reca con sé una promessa e una benedizione».
Infatti, i tanti e complessi fattori in gioco sono riconducibili a un modello di «potere che si trova alla radice della crisi delle violenze sessuali: la violenza del potere esercitata ai danni dei piccoli e dei vulnerabili».
Ma questo non è «il potere di Gesù, che era mite e umile di cuore».
Pertanto, conclude il domenicano, «non avremo una Chiesa sicura per i giovani finché non… diventeremo di nuovo una Chiesa umile in cui siamo tutti pari, figli dello stesso Padre».
Figuriamoci! E’ considerevole il realismo di non scaricare tutto sulle spalle dei colpevoli, che vanno naturalmente messi in condizione di non nuocere più, denunciati e giudicati.
Se certi episodi si sono verificati, non è stato solo per un fatto statistico (tra i preti ci sono i pedofili così come tra altri categorie civili), ma anche per un modo di concepire il sacerdozio che può averli in qualche modo resi possibili.
E’ l’esigenza non dell’apologia, ma della continua revisione di vita che vale per tutti.
Il “mistero” di Cristo, della Chiesa e del Papa Più di 2000 anni fa, i Giudei fecero rotolare una pietra tombale sul Sepolcro di Gesù e vi misero a guardia dei soldati, ma la pietra fu rovesciata dagli Angeli quando Cristo risuscitò da morte e vinse il male attraverso la sua apparente sconfitta in croce.
Il Cristianesimo è la religione della vittoria tramite la perdita anche, e soprattutto, della propria vita.
Quindi non c’è pietra che tenga.
La storia – se non il catechismo – dovrebbe avercelo insegnato: la Chiesa è cresciuta e si è rafforzata proprio quando sembrava essere annientata.
Le “gaffes” e, peggio ancora, gli errori del clero e della Gerarchia, sono la prova provata della sua indefettibilità, come diceva il cardinal Consalvi a Napoleone: “Maestà, lasci perdere, neanche noi preti siamo riusciti in milleottocento anni a distruggere la Chiesa romana, non è cosa da uomo, neppure lei ci riuscirà”, e Napoleone non vi riuscì… Ciò dovrebbe insegnare qualcosa anche a noi.
Certamente noi cristiani siamo devoti del papa, giacché Cristo la sua Chiesa l’ha fondata su Pietro e i suoi successori (i Papi) e per questo ci distinguiamo dai protestanti e dalle varie denominazioni eretiche o scismatiche, le quali – contro il volere di Cristo – non ritengono Pietro come loro principio e fondamento con un vero primato di giurisdizione( tali questioni si stanno appianando).
E ciò senza negare terribili eventi che alcuni Papi possono aver commesso come uomini o le ambiguità ed errori che possono sussistere nell’ insegnamento non normativo – e quindi non infallibilmente assistito – del Papa, ad esempio il concilio “pastorale” Vaticano II.
Non occorre, perciò, cambiar religione o Chiesa davanti allo sfacelo spirituale del mondo cattolico.
Il rimedio non è Buddha, né Maometto e neppure il “Libero Pensiero” o il gioachimismo.
Basta attenersi a quanto si é sempre insegnato circa il mistero di Cristo, della Chiesa e del Papa.
La nostra Fede, compendiata nel Credo e spiegata nel Catechismo, ci insegna che il Papa è il Vicario in terra di Gesù Cristo.
Egli è la Pietra sulla quale Cristo ha costruito la Sua Chiesa e contro la quale “le porte degli inferi non prevarranno”.
In quanto a Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, è un mistero che si definisce come “Unione Ipostatica”.
Tale mistero ci disorienta spesso perché durante la sua vita e specialmente durante la sua Passione, quando la sua “Natura divina si nascondeva e lasciava trasparire solo quella umana, che soffriva terribilmente” (S.
Ignazio da Loyola) ci annienta la ragione.
Gli Apostoli si scandalizzarono, smarrirono il principio immateriale della Fede, rinnegarono o abbandonarono Gesù, non riuscendo a capire e ad ammettere che il Messia potesse essere sconfitto e umiliato.
In quanto alla Chiesa, nella sua totalità( gerarchia e fedeli), dai suoi inizi a Gerusalemme, dopo la Pentecoste, ha continuato il suo cammino nel corso della storia.
Anch’essa ha un duplice elemento; quello divino (il principio che l’ha fondata e la vivifica, ossia Cristo e la Sua grazia, e il fine a cui tende, vale a dire il Cielo e Dio visto “faccia a faccia”) ed uno umano (le membra di cui è composta, gli uomini, sia i fedeli che la gerarchia).
Nel corso della sua storia vi sono pagine gloriose e pagine tremende(crociate, inquisizione, potere temporale dei papi…).
Se non avessimo la virtù teologale della Fede nella origine divina della Chiesa e nella protezione di cui la ammanta Gesù “ogni giorno, sino alla fine del mondo”, rischieremmo di scandalizzarci e perdere proprio quella Fede “senza la quale è impossibile piacere a Dio” (San Paolo).
In quanto al Papa, è un uomo, ma assistito da Dio; però solo a certe specifiche condizioni, che non tolgono o aggiungono nulla alla sua natura umana debole e caduca.
San Pietro stesso rinnegò Gesù non una, ma ben tre volte (“non conosco quest’uomo”).
E’ necessario, allora, riguardo a Gesù, alla Chiesa e al Papa sempre aver presente il loro duplice elemento: umano, e dunque fallibile e divino, e quindi irreprensibile.
Se ci si attiene solo al primo, si cade nel razionalismo naturalista e si rinnega la Fede teologale; se si evidenzia solo al secondo, si scivola verso un angelismo rigorista e o pneumatismo cataro, che porta egualmente alla rovina (“ogni eccesso è un difetto”).
Così possiamo anche sorridere che il Papa ha detto che i preti sono angeli in una delle sue ultime omelie! Nel caso di Benedetto XVI, non si può negare la sua forma mentis filosoficamente e dogmaticamente modernistica, acquisita sin dai primi anni di seminario.
Egli stesso ce ne dà conferma nella sua autobiografia.
Questa forma mentis traspare dai suoi scritti ed è apparsa anche nel viaggio in Terra Santa, durante le riunioni interreligiose con islamici e israeliti.
Non si può confutare la formazione immanentistico- kantiana di Ratzinger, ma neppure si può lapidarlo – in odio al Papato – ad ogni parola che dice o omette di dire.
Come Cristo è la “pietra d’angolo, rigettata dal costruttore, ma che schiaccia tutti coloro i quali inciampano contro di essa”, così il Papa è il Vicario in terra della “pietra d’angolo” e “chi tocca il Papa in quanto tale muore”, così diceva Pio XI.
Ma lui, poveretto, non aveva intuito l’evoluzione sociale e tecnologica dei nostri tempi.
Oggi si ritiene del tutto lecito mostrare storicamente le eventuali lacune (anche dottrinali) di alcuni Papi, purché lo si faccia come San Paolo: “Ho resistito in faccia a Pietro, poiché era reprensibile”; è reprensibile ed è Pietro ovvero il Papa.
Ci auguriamo tantissimo che l’alta gerarchia si ricordi che: «In questioni teologiche difficili e non definite, occorre dare il proprio parere con umiltà e pace, conformandosi alla istruzione e capacità degli ascoltatori, insistendo maggiormente sulla pratica della Chiesa, esortando a seguire i buoni costumi; invece di lasciarsi coinvolgere da controversie che non hanno una conclusione certa e che sono quindi pericolose sia per chi le spiega [abuso di potere, orgoglio spirituale e intellettuale] e sia per chi le ascolta [se non ha la capacità e la preparazione per comprenderle e metterle in pratica correttamente]» (s.
Ignazio da Loyola, Obras Completas, Madrid, BAC, 1982, pp.
289-290).
Chiesa dei peccatori, Chiesa dei santi di Karl Lehmann in “Frankfurter Allgemeine Zeitung” del 1° aprile 2010 (traduzione: www.finesettimana.org) Anche se si preferisce evitare parole grosse, la rivelazione nelle scorse settimane di molti casi di abusi costituisce una profonda crisi in particolare per la Chiesa cattolica.
Anche se sono implicati molti fattori esterni alla Chiesa, non ha alcun senso puntare il dito prima su altri.
Altrimenti si potrebbe dare l’impressione di voler distogliere l’attenzione dalla responsabilità propria o relativizzare ciò che è accaduto.
Come Chiesa neppure ci dobbiamo meravigliare se veniamo giudicati severamente – certo talvolta anche con malignità e malevolenza – con gli stessi criteri con cui la Chiesa in altre situazioni presenta le sue convinzioni morali, in particolare in riferimento alla sessualità.
I casi di abusi scoperti funzionano qui come un boomerang.
Certo non dobbiamo lasciarci tappare la bocca e dobbiamo dire con nettezza che si tratta chiaramente di un malcostume sociale, di cui la maggior parte di noi non aveva sospettato l’entità.
Lentamente vengono scoperti comportamenti negativi anche in luoghi finora poco sospetti.
Le indicazioni numeriche
Cristo è risorto: Alleluia
Auguri di Pasqua Fa’ di me, Signore, un arcobaleno di bene, di speranza e di pace.
Un arcobaleno che per nessun motivo annunci ingannevoli bontà, speranze vane e false immagini di pace.
Un arcobaleno sospeso da Te nel cielo, che annunci il tuo amore di Padre, la risurrezione del tuo Figlio, la meravigliosa azione del tuo Spirito Santo.
(H.
Camera).
La redazione finale delle Indicazioni dei Licei
Come annunciato con un apposito comunicato dal Miur nei giorni scorsi, risultano effettivamente emanati dal Capo dello Stato i tre regolamenti di riordino e riforma della scuola secondaria superiore, realtivamente ai nuovi licei, all’istruzioen tecnica e all’istruzioen professionale.
Tutti e tre in regolamenti (in attesa di pubblicazione sotto forma di DPR) risultano tra gli atti firmati dal Capo dello Stato (www.quirinale.it) e hanno la data del 15 marzo 2010, giorno in cui il Presidente Napolitano, prima di partire per la sua visita ufficiale in Siria, ha provveduto alla loro sottoscrizione.
I tre regolamenti dovranno ora essere registrati dalla Corte dei Conti per poi essere pubblicati.
L’emanazione da parte del Capo dello Stato rende sostanzialmente (non formalmente) validi i tre regolamenti, a pochi giorni dalla chiusura delle iscrizioni alle prime classi della nuova secondaria superiore.
Con decreto ministeriale n.
26 dell’11 marzo scorso è stata costituita la Commissione di studio per definire le Indicazioni nazionali per i nuovi Licei, anche alla luce del contributo di associazioni, sindacati, docenti e dirigenti.
Dopo aver raccolto e vagliato i contributi emersi dal dibattito (che potranno arrivare via on-line fino a tutto il 23 aprile prossimo sul sito Ansas/Indire), la Commissione passerà alla redazione finale dei testi.
Successivamente la Commissione procederà al coordinamento delle Indicazioni dei Licei con quelle del primo ciclo di istruzione per le quali da quest’anno le scuole primarie e secondarie di I grado sono in fase di approfondimento e sperimentazione.
La Commissione ministeriale di studio è così composta: Prof.
Sergio BELARDINELLI Docente di sociologia dei processi culturali e comunicativi -Dipartimento di Sociologia- Università degli Studi di Bologna.
Prof.
Carlo Maria BERTONI Presidente della Conferenza Nazionale dei Presidi di Scienze e Tecnologie – Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.
Prof.
Emanuele BESCHI Docente presso il Conservatorio di Milano.
Dott.
Giovanni BIONDI Capo Dipartimento per la Programmazione e la gestione delle risorse umane e strumentali.
Prof.
Giorgio BOLONDI Docente di geometria – Facoltà di Economia e Commercio – università degli Studi di Bologna.
Dott.
Max BRUSCHI Consigliere del Ministro – Coordinatore.
Prof.
Marco BUSSETTI Dirigente tecnico USR Lombardia – Milano.
Prof.
Giorgio CHIOSSO Docente di Storia dell’Educazione – Facoltà di Scienze della Formazione – Università degli Studi di Torino.
Dott.
Mario Giacomo DUTTO Direttore Generale per gli Ordinamenti scolastici e per l’autonomia scolastica.
Prof.
Paolo FERRATINI Esperto – Docente di lettere nei licei – USR Emilia Romagna.
Prof.
Elio FRANZINI Presidente della Conferenza Nazionale dei Presidi di Lettere e Filosofia – Università degli Studi di Milano.
Prof.
Giorgio ISRAEL Professore di Storia della Matematica – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” – Roma.
Prof.ssa Silvia KANIZSA Docente di Pedagogia generale Università degli Studi Bicocca – Milano.
Prof.ssa Gisella LANGE’ Dirigente tecnico USR Lombardia – Milano.
Prof.ssa Nicoletta MARASCHIO Presidente Accademia della Crusca – Firenze.
Prof.
Antonio PAOLUCCI Direttore Musei Vaticani Roma.
Prof.
Andrea RAGAZZINI Docente storia dell’arte – USR Toscana – Firenze.
Prof.
Alessandro SCHIESARO Docente di letteratura latina – Università degli Studi “La Sapienza”di Roma.
Prof.
Luca SERIANNI Docente di Storia della lingua italiana – Università degli Studi “La Sapienza” di Roma.
Prof.
Nicola VITTORIO Docente di astronomia e astrofisica – Dipartimento di Fisica – Università degli Studi di Tor Vergata – Roma.
Prof.
Elena UGOLINI Membro Comitato Indirizzo Invalsi – Bologna.
Dott.
Elisabetta MUGHINI Ansas – Firenze.
Come già avvenuto per la Cabina di regia che ha elaborato la bozza delle Indicazioni, coordinatore della Commissione sarà il consigliere del ministro, Max Bruschi.
on-line il dibattito sulle Indicazioni dei Licei
Il Miur, come aveva annunciato, avvia da oggi un dibattito aperto (per certi aspetti, coraggioso) sulla bozza delle Indicazioni nazionali per i licei pubblicata nei giorni scorsi.
Si tratta indubbiamente di una iniziativa importante dalla quale il ministero (e, soprattutto, il ministro stesso) intende ricavare integrazioni, miglioramenti e condivisioni.
“Come già sperimentato in occasione della revisione del regolamento sui licei – informa un apposito comunicato – inizia oggi una vasta consultazione che coinvolgerà associazioni professionali e disciplinari, esperti, accademici, sindacati, insegnanti, forum degli studenti e la pubblica opinione”.
Da oggi e fino al prossimo 23 aprile sarà, quindi, possibile commentare sul sito http://nuovilicei.indire.it le Indicazioni nazionali sugli obiettivi specifici di apprendimento dei licei.
La bozza del testo è consultabile sia per ogni singola disciplina che per ogni tipo di liceo.
I risultati del dibattito saranno valutati da una Commissione appositamente nominata che avrà amche il compito di procedere all’armonizzazione delle Indicazioni nazionali del primo ciclo dell’Istruzione.
La bozza delle Indicazioni dei Licei, proposta in una duplice navigazione per disciplina e per liceo, potrà essere commentata secondo le stesse modalità con cui si è svolto il dibattito sulla prima stesura del Regolamento di riordino dei licei.
I commenti inseriti dagli utenti @istruzione.it saranno immediatamente pubblicati, gli altri, invece, saranno sottoposti ad approvazione redazionale.
“Pur nell’assoluto rispetto della libertà di opinione – precisa il Miur – si richiede agli utenti di osservare i limiti che per consuetudine regolano il confronto pubblico in rete: i commenti diffamatori, offensivi, razzisti, sessisti non saranno pubblicati; sarà applicata la moderazione nel caso in cui il commento risulti non pertinente (off-topic) alle Indicazioni nazionali e al testo specifico di riferimento”.
Inoltre il Miur, pur auspicando un dibattito aperto e trasparente, prevede eventuale segnalazione via email dell’eventuale intervento di moderazione.
Al termine del dibattito on line una Commissione appositamente nominata dal Ministro valuterà i pareri espressi ai fini della redazione definitiva delle Indicazioni nazionali.
Un’aggressione al Papa e alla democrazia
Un’aggressione al Papa e alla democrazia di Marcello Pera Caro direttore, la questione dei sacerdoti pedofili o omosessuali scoppiata da ultimo in Germania ha come bersaglio il Papa.
Si commetterebbe però un grave errore se si pensasse che il colpo non andrà a segno data l’enormità temeraria dell’impresa.
E si commetterebbe un errore ancora più grave se si ritenesse che la questione finalmente si chiuderà presto come tante simili.
Non è così.
È in corso una guerra.
Non propriamente contro la persona del Papa, perché, su questo terreno, essa è impossibile.
Benedetto XVI è reso inespugnabile dalla sua immagine, la sua serenità, la sua limpidezza, fermezza e dottrina.
Basta il suo sorriso mite per sbaragliare un esercito di avversari.
No, la guerra è fra il laicismo e il cristianesimo.
I laicisti sanno bene che, se uno schizzo di fango arrivasse sulla tonaca bianca, verrebbe sporcata la Chiesa, e se fosse sporcata la Chiesa allora lo sarebbe anche la religione cristiana.
Per questo i laicisti accompagnano la loro campagna con domande del tipo «chi porterà più i nostri figli in Chiesa?», oppure «chi manderà più i nostri ragazzi in una scuola cattolica?», oppure ancora «chi farà curare i nostri piccoli in un ospedale o una clinica cattolica?».
Qualche giorno fa una laicista si è lasciata sfuggire l’intenzione.
Ha scritto: «L’entità della diffusione dell’abuso sessuale su bambini da parte di sacerdoti mina la stessa legittimazione della Chiesa cattolica come garante della educazione dei più piccoli».
Non importa che questa sentenza sia senza prove, perché viene accuratamente nascosta «l’entità della diffusione»: un per cento di sacerdoti pedofili? dieci per cento? tutti? Non importa neppure che la sentenza sia priva di logica: basterebbe sostituire «sacerdoti» con «maestri» o con «politici» o con «giornalisti» per «minare la legittimazione» della scuola pubblica, dei parlamenti o della stampa.
Ciò che importa è l’insinuazione, anche a spese della grossolanità dell’argomento: i preti sono pedofili, dunque la Chiesa non ha autorità morale, dunque l’educazione cattolica è pericolosa, dunque il cristianesimo è un inganno e un pericolo.
Questa guerra del laicismo contro il cristianesimo è campale.
Si deve portare la memoria al nazismo e al comunismo per trovarne una simile.
Cambiano i mezzi, ma il fine è lo stesso: oggi come ieri, ciò che si vuole è la distruzione della religione.
Allora l’Europa pagò a questa furia distruttrice il prezzo della propria libertà.
È incredibile che soprattutto la Germania, mentre si batte continuamente il petto per la memoria di quel prezzo che essa inflisse a tutta l’Europa, oggi, che è tornata democratica, se ne dimentichi e non capisca che la stessa democrazia sarebbe perduta se il cristianesimo venisse ancora cancellato.
La distruzione della religione comportò allora la distruzione della ragione.
Oggi non comporterà il trionfo della ragion laica, ma un’altra barbarie.
Sul piano etico, è la barbarie di chi uccide un feto perché la sua vita nuocerebbe alla «salute psichica» della madre.
Di chi dice che un embrione è un «grumo di cellule» buono per esperimenti.
Di chi ammazza un vecchio perché non ha più una famiglia che se ne curi.
Di chi affretta la fine di un figlio perché non è più cosciente ed è incurabile.
Di chi pensa che «genitore A» e «genitore B» sia lo stesso che «padre» e «madre».
Di chi ritiene che la fede sia come il coccige, un organo che non partecipa più all’evoluzione perché l’uomo non ha più bisogno della coda e sta eretto da solo.
E così via.
Oppure, per considerare il lato politico della guerra dei laicisti al cristianesimo, la barbarie sarà la distruzione dell’Europa.
Perché, abbattuto il cristianesimo, resterà il multiculturalismo, che ritiene che ciascun gruppo ha diritto alla propria cultura.
Il relativismo, che pensa che ogni cultura sia buona quanto qualunque altra.
Il pacifismo che nega che il male esiste.
Questa guerra al cristianesimo non sarebbe così pericolosa se i cristiani la capissero.
Invece, all’incomprensione partecipano molti di loro.
Sono quei teologi frustrati dalla supremazia intellettuale di Benedetto XVI.
Quei vescovi incerti che ritengono che venire a compromesso con la modernità sia il modo migliore per aggiornare il messaggio cristiano.
Quei cardinali in crisi di fede che cominciano a insinuare che il celibato dei sacerdoti non è un dogma e che forse sarebbe meglio ripensarlo.
Quegli intellettuali cattolici felpati che pensano che esista una questione femminile dentro la Chiesa e un non risolto problema fra cristianesimo e sessualità.
Quelle conferenze episcopali che sbagliano l’ordine del giorno e, mentre auspicano la politica delle frontiere aperte a tutti, non hanno il coraggio di denunciare le aggressioni che i cristiani subiscono e l’umiliazione che sono costretti a provare dall’essere tutti, indiscriminatamente, portati sul banco degli imputati.
Oppure quei cancellieri venuti dall’Est che esibiscono un bel ministro degli esteri omosessuale mentre attaccano il Papa su ogni argomento etico, o quelli nati nell’Ovest, i quali pensano che l’Occidente deve essere laico, cioè anticristiano.
La guerra dei laicisti continuerà, se non altro perché un Papa come Benedetto XVI che sorride ma non arretra di un millimetro la alimenta.
Ma se si capisce perché non si sposta, allora si prende la situazione in mano e non si aspetta il prossimo colpo.
Chi si limita soltanto a solidarizzare con lui o è uno entrato nell’orto degli ulivi di notte e di nascosto oppure è uno che non ha capito perché ci sta.
in “Corriere della Sera” del 17 marzo 2010 Ruini contro l’assedio etico al clero, critico sull’operazione Bonino intervista a Camillo Ruini a cura di Paolo Rodari Accetta di parlare della pedofilia dei sacerdoti.
Difende il Papa, accusa i media e tutti coloro che alimentano il vento della diffamazione contro la chiesa cattolica.
Perché quando l’argine delle diffamazioni supera il limite occorre reagire e dire una parola che resti.
Nella sua abitazione appena fuori le mura leonine che delimitano la Città del Vaticano, di ritorno dall’abbazia benedettina di Santa Scolastica a Subiaco dove ha ricevuto il Premio “San Benedetto 2010”, il cardinale Camillo Ruini, 79 anni compiuti da poco, guarda sospettoso il risalto che i mezzi d’informazione – giornali, tv e Internet – danno ai reati di pedofilia nei quali sono coinvolti sacerdoti.
Un’analisi oggi necessaria perché “seppure il reato di pedofilia è abominevole”, dice al Foglio il vicario generale emerito del Papa per la città di Roma, “alcune considerazioni è arrivato il momento di farle”.
Ruini non è per nulla sorpreso della campagna di stampa di questi giorni che arriva a chiamare in causa anche il Papa.
“Davvero non lo sono” dice.
E spiega: “I reati di pedofilia sono sempre infami, specialmente quando commessi da un sacerdote.
Per questo è più che giusto denunciarli e reprimerli e, nella misura del possibile, aiutare le vittime a superarne le conseguenze.
E’, inoltre, assolutamente doveroso prendere tutti i provvedimenti che possono prevenire nuovi reati”.
Tuttavia? “Detto ciò non si può far finta di non vedere che l’attenzione di molti giornali e degli ambienti che si esprimono attraverso di essi si concentra sui casi di pedofilia dei sacerdoti cattolici, sicuramente non più frequenti di quelli di tante altre categorie di persone.
E non si può nemmeno ignorare il tentativo tenace e accanito di tirare in ballo la persona del Papa, nonostante tutti i puntuali chiarimenti della sala stampa vaticana e di altre fonti attendibili”.
Sono anni che Ruini segue l’eco che la stampa italiana e internazionale dà ai vari casi di abusi su minori attribuiti a sacerdoti, dal primo scandalo che occupò i titoli dei quotidiani di tutto il mondo – quello scoppiato nel 2002 in seguito alla scoperta di abusi sessuali perpetrati da più sacerdoti nei confronti di minorenni nell’arcidiocesi di Boston – fino a quelli di questi giorni che a macchia di leopardo sembrano poter interessare diversi paesi europei: Germania, Austria, Olanda, Irlanda, Svizzera.
Due termini ricorrono con frequenza nella sua conversazione: “Campagna diffamatoria” e “strategia”.
Cioè? “A mio avviso la campagna diffamatoria contro la chiesa cattolica e il Papa messa in campo dai media rientra in quella strategia che è in atto oramai da secoli e che già Friedrich Nietzsche teorizzava con il gusto dei dettagli.
Secondo Nietzsche l’attacco decisivo al cristianesimo non può essere portato sul piano della verità ma su quello dell’etica cristiana, che sarebbe nemica della gioia di vivere.
E allora vorrei domandare a chi scaglia gli scandali della pedofilia principalmente contro la chiesa cattolica, tirando in ballo magari il celibato dei preti: non sarebbe forse più onesto e realistico riconoscere che certamente queste e altre deviazioni legate alla sessualità accompagnano tutta la storia del genere umano ma anche che nel nostro tempo queste deviazioni sono ulteriormente stimolate dalla tanto conclamata ‘liberazione sessuale’?”.
Una domanda non retorica, quella di Ruini.
Una domanda che, probabilmente, molti vescovi e cardinali vorrebbero porre seppure spesso non riescano ad averne il coraggio o a trovare il contesto giusto in cui avanzarla.
“Quando l’esaltazione della sessualità pervade ogni spazio della vita e quando si rivendica l’autonomia dell’istinto sessuale da ogni criterio morale diventa difficile far comprendere che determinati abusi sono assolutamente da condannare.
In realtà la sessualità umana fin dal suo inizio non è semplicemente istintiva, non è identica a quella degli altri animali.
E’, come tutto l’uomo, una sessualità ‘impastata’ con la ragione e con la morale, che può essere vissuta umanamente, e rendere davvero felici, soltanto se viene vissuta in questo modo”.
La rivendicazione dell’autonomia dell’istinto sessuale da ogni criterio morale, un’impostazione narcisistica e dunque autoreferenziale della sessualità, è l’opposto di quanto propone la chiesa.
E’ un modello che vola sulle ali retoriche di altri pulpiti.
Alcuni di questi radicalismi di tipo libertino hanno rappresentanza nelle prossime elezioni regionali.
Argomento ghiotto.
Che cosa ne pensa il predecessore del cardinale Angelo Bagnasco alla guida dei vescovi italiani e del cardinale Agostino Vallini alla guida operativa della diocesi di Roma? “Voglio dire – dice Ruini – che condivido pienamente nei contenuti e nello stile la nota uscita domenica su ‘Roma sette’.
Visti i candidati che sono in gara, particolarmente nel Lazio ma anche in alcune altre regioni, è indispensabile richiamare l’attenzione sui temi veramente fondamentali che la nota richiama con chiarezza e precisione.
Tra questi la difesa della vita umana in ogni fase della sua esistenza, il sostegno della famiglia fondato sul matrimonio tra uomo e donna e più in generale il rifiuto di un permissivismo che mina le basi della società”.
Ruini, come tutti i sacerdoti e i suoi confratelli vescovi, si attiene alle disposizioni che vietano loro di dare indicazioni di voto.
Ma nello stesso ha letto bene il passaggio della nota che dice che “non è possibile equiparare qualunquisticamente tutti i progetti politici, perché non tutti incarnano i valori in cui crediamo”.
E ancora: “Non si possono concedere deleghe di rappresentanza politica a chi persegue altro progetto politico, che ci è estraneo e che non condividiamo”.
Dice, infatti, Ruini: “I cittadini che fanno riferimento all’etica cristiana, ma anche tutti coloro che vogliono salvaguardare le strutture portanti della nostra civiltà hanno qui un preciso criterio per l’esercizio del diritto/dovere del voto.
Dopo le tormentate vicende relative alla presentazione delle liste è tempo infatti di concentrare l’attenzione sulle questioni di sostanza, anzitutto quella della scelta delle persone che dovranno guidare le regioni italiane”.
in “il Foglio” del 16 marzo 2010 Perché entra in crisi il vincolo dei sacerdoti di Vito Mancuso «Non è bene che l’uomo sia solo», dice Dio di fronte al primo uomo.
Per rimediare crea gli animali, ma l’uomo non è soddisfatto.
Allora gli toglie una costola, plasma la donna e gliela presenta.
A questo punto l’uomo non ha più dubbi: «Questa è osso delle mie ossa e carne della mia carne.
La si chiamerà išà (donna) perché da iš (uomo) è stata tolta».
Una voce fuori campo commenta: «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola» (Genesi 2,23-24).
Questa scena mitica, mai avvenuta in un punto preciso del tempo perché avviene ogni giorno, insegna che la relazione uomo-donna è scritta dentro di noi e che, ben prima dei genitali, riguarda la carne e le ossa.
La Sacra Scrittura esprime così nel modo più intenso che noi siamo relazione in cerca di relazione, che viviamo con l’obiettivo di formare “una carne sola” e di compiere l’uomo perfetto, quello pensato da subito nella mente divina come maschio+femmina, secondo quanto insegna Genesi 1,27: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò».
La vera immagine di Dio, che è comunione d’amore personale, non è né il monaco né il prete celibe e neppure il papa, ma è la coppia umana che vive di un amore reciproco così intenso da essere “una carne sola”.
Per questo, secondo un detto rabbinico, «il celibe diminuisce l’immagine di Dio».
Lo stesso si deve dire della paternità e della maternità.
Se Dio è padre che eternamente genera il Figlio e che temporalmente genera gli uomini come figli nel Figlio, la sua immagine più completa sulla terra sono gli uomini e le donne che a loro volta generano figli e spendono una vita di lavoro per farli crescere.
Per questo la Bibbia ebraica considera la scelta celibataria di non avere figli qualcosa di innaturale che trasgredisce il primo comando dato agli uomini cioè “crescete e moltiplicatevi”.
Naturalmente tutti sanno che Gesù era celibe, e così anche san Paolo.
Ma mentre Gesù conservava una visione positiva del matrimonio, san Paolo giunge a ribaltare quanto dichiarato da Dio al principio dei tempi («non è bene che l’uomo sia solo») scrivendo al contrario che «è cosa buona per l’uomo non toccare donna» (1Cor 7,1).
Per lui il matrimonio è spiritualmente giustificabile solo «a motivo dei casi di immoralità», nulla più cioè che un remedium concupiscentiae per i deboli di spirito che non sanno controllare le passioni della carne.
L’apostolo non poteva essere più esplicito: «Se non sanno dominarsi, si sposino: è meglio sposarsi che ardere» (1Cor 7,9).
Da qui sorge la visione che domina la tradizione occidentale che assegna una schiacciante superiorità morale e spirituale al celibato e solo un valore secondario al matrimonio.
Da qui la chiesa latina del secondo millennio sarà portata a legare obbligatoriamente il sacerdozio alla condizione celibataria.
Ma su che cosa si fondava l’idea di Paolo? Qualcuno parla di sessuofobia, ma a mio avviso il motivo è un altro e si chiama escatologia: ovvero la sua ferma convinzione che «il tempo ormai si è fatto breve» (1Cor 7,29), che «passa la scena di questo mondo» (1Cor 7,31), che quanto prima cioè giungerà la fine del mondo con il ritorno di Cristo.
La Prima Corinzi, lo scritto decisivo in ordine alla fondazione del celibato ecclesiastico, è dominata dall’attesa dell’imminente parusia (vedi 15,51- 53): se Cristo tornerà a momenti, «al suono dell’ultima tromba», a che serve sposarsi e mettere al mondo figli? Il mancato ritorno di Cristo al suono dell’ultima tromba ha portato naturalmente a moderare l’impostazione già nelle lettere deuteropaoline, tra cui in particolare quella agli Efesini i cui passi si leggono spesso durante le cerimonie nuziali, ma questo avrà solo l’effetto di giustificare il matrimonio in quanto sacramento, non di ritenerlo spiritualmente degno almeno quanto il celibato.
Anzi, la tradizione ascetica e mistica dei padri della chiesa e della scolastica è unanime nell’affermare la superiorità indiscussa del celibato rispetto al matrimonio.
Tommaso d’Aquino la sintetizza col dire che «indubitabilmente la verginità deve essere preferita alla vita coniugale» (Summa theologiae II-II, q.
152, a.
4), e il decreto del Concilio di Trento del 1563 arriva persino a scomunicare chi osi dire che «non è cosa migliore e più felice rimanere nella verginità e nel celibato che unirsi in matrimonio» (DH 1810).
Una scomunica che, a ben vedere, colpisce lo stesso Dio Padre per quella sua frase imprudente all’inizio della Bibbia! Oggi assistiamo alla fine abbastanza ingloriosa del modello di vita sacerdotale sancito dal Concilio di Trento, e in genere portato avanti nel secondo millennio cristiano, con il legare obbligatoriamente alla vita sacerdotale la scelta celibataria.
I crimini legati al clero pedofilo (che la gerarchia conosceva e copriva per anni) stanno scavando la fossa, anzi hanno già scavato la fossa, alla falsa idea della superiorità morale e spirituale del celibato.
Naturalmente non intendo per nulla cadere nell’eccesso opposto di chi ritiene la vita celibataria alienante e disumana a priori.
Conosco preti celibi straordinari, modelli integerrimi di vita serena, pura, felicemente realizzata.
Voglio piuttosto esprimere la mia ferma convinzione che ciò che conta per un uomo di Dio (perché nulla di meno il prete è chiamato a essere) sia avere l’anima piena della luce e della gioia del vangelo, e che a questo scopo la condizione migliore sarà per uno vivere nel celibato e per un altro metter su famiglia, a seconda del temperamento e dell’attitudine personali.
Il che è esattamente quello che avveniva tra gli apostoli, come ci fa sapere san Paolo quando scrive che, a differenza di lui, «gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa» vivevano con una donna (1Cor 9,5).
I capi della Chiesa non avevano ancora dimenticato che «non è bene che l’uomo sia solo».
in “la Repubblica” del 18 marzo 2010 La difesa della castità intervista a mons.
Gianfranco Girotti, a cura di Orazio La Rocca «Il celibato sacerdotale è un bene prezioso a cui la Chiesa cattolica non rinuncerà mai.
Difficile, forse, da capire in una società come quella attuale sempre più dominata da consumismo, modelli edonistici, sfruttamento del sesso.
Ma la Chiesa sa che col vincolo della castità, liberamente accettato e coltivato, i suoi sacerdoti sono più liberi di esercitare il loro ministero avendo come modello esclusivo e irrinunciabile Gesù Cristo».
Non si scompone l´arcivescovo Gianfranco Girotti, Reggente della Penitenzeria Apostolica, il tribunale pontificio che ha competenza sui grandi peccati che possono essere assolti solo dalla Santa Sede, i cosiddetti delicta graviora.
E vale a dire, la profanazione delle ostie consacrate; l´assoluzione del complice (quando un sacerdote rompe il celibato e assolve anche la persona con cui ha avuto un rapporto sessuale); la violazione del segreto confessionale; la consacrazione del vescovo senza autorizzazione del Papa; l´offesa alla persona del Pontefice.
Moralista di fama, collaboratore del cardinale Ratzinger negli anni in cui l´attuale Pontefice era prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, monsignor Girotti considera «il celibato un bene assoluto per i sacerdoti, anche se non è un dogma di fede, ma una norma disciplinare che comunque rende più libero e più credibile l´esercizio pastorale dei consacrati».
Eppure, monsignor Girotti, sempre più frequentemente oggi si mette in dubbio la validità del celibato sacerdotale.
«È vero.
Ma non è la prima volta e non sarà nemmeno l´ultima che si levano voci critiche sulla castità a cui sono chiamati i sacerdoti.
Ma non significa che questa scelta non sia valida.
La Chiesa sa che col celibato, liberamente scelto e abbracciato, i sacerdoti possono svolgere la loro vita pastorale con più credibilità e completezza.
Anche se i modelli di vita che vengono imposti in una società secolarizzata come la nostra non sembrano in sintonia con una scelta tanto libera e radicale».
Ma, in concreto, un sacerdote quali vantaggi ha dal celibato? «La sua missione pastorale è più illuminata perché ha come modello Cristo, il nostro Signore a cui tutti dobbiamo guardare.
Sul piano più pratico, col celibato il sacerdote si dedica completamente alla guida della comunità senza dovere, ad esempio, pensare al mantenimento di una sua famiglia».
Nella Chiesa non sempre è stato così.
Il celibato storicamente è stato imposto solo dopo il secondo millennio.
«Certo, perché si tratta di una legge disciplinare, non di un dogma di fede.
Ma se la Chiesa ha fatto questa scelta avrà avuto i suoi motivi che sono validi ancora oggi e credo che lo saranno anche in futuro».
Nella Chiesa cattolica orientale, legata da sempre al Papa, però i sacerdoti si possono sposare.
Non è un controsenso? «No.
È solo una tradizione che viene rispettata.
Ma le posso assicurare che sono pochi i sacerdoti di rito orientale che decidono di sposarsi.
I loro vescovi vengono, invece, scelti tra chi sceglie il celibato.
Questo perché, in generale, anche la Chiesa d´Oriente guarda con rispetto alla castità sacerdotale».
Non è una scelta che può causare disturbi di natura psicologica e caratteriale? «Il sacerdozio celibatario è un dono, una scelta libera e un servizio pastorale gratuito.
L´importante è affrontarlo con discernimento e in piena consapevolezza, anche attraverso una attenta preparazione.
Malgrado le difficoltà, è una scelta sempre valida e chi pensa che la Chiesa cattolica in un futuro più o meno lontano possa rinunciarvi, dice semplicemente una grande sciocchezza».
in “la Repubblica” del 18 marzo 2010 Ratzinger reciti il mea culpa sulla pedofilia di Hans Küng Si è detto che dopo aver ricevuto in udienza l’arcivescovo Robert Zollisch il Papa era «profondamente scosso» e «sconvolto» per i numerosi casi di abusi.
Dal canto suo, il presidente [della Conferenza episcopale tedesca] ha chiesto perdono alle vittime, citando nuovamente le misure già adottate e quelle previste.
Ma nessuno dei due ha risposto a una serie di domande di fondo che non è più possibile eludere.
Stando ai risultati dell’ultimo sondaggio Emnid, solo il 10% degli interpellati trova soddisfacente l’opera di rielaborazione della Chiesa, mentre per l’86% dei tedeschi l’atteggiamento degli alti livelli della gerarchia ecclesiastica manca di chiarezza.
Le loro critiche troveranno peraltro conferma nell’insistenza con cui i vescovi continuano a negare ogni rapporto tra l’obbligo del celibato e gli abusi commessi sui minori.
Prima domanda: Perché il Papa continua, contro la verità storica, a definire il «santo» celibato un «dono prezioso», ignorando il messaggio biblico che consente espressamente il matrimonio a tutti i titolari di cariche ecclesiastiche? Il celibato non è «santo», e non è neppure una grazia, bensì piuttosto una disgrazia, dal momento che esclude dal sacerdozio un gran numero di ottimi candidati, e ha indotto molti preti desiderosi di sposarsi a rinunciare alla loro missione.
L’obbligo del celibato non è una verità di fede, ma solo una norma ecclesiastica che risale all’XI secolo, e avrebbe dovuto essere sospesa ovunque in seguito alle obiezioni dei riformatori dal XVI secolo.
In nome della verità, il Papa avrebbe dovuto quanto meno promettere un riesame di questa norma, da tempo auspicato dalla grande maggioranza del clero e della popolazione.
Anche personalità come Alois Glück, presidente del Comitato centrale dei cattolici tedeschi, o Hans-Jochen Jaschke, vescovo ausiliare di Amburgo, si sono espresse in favore di un rapporto più sereno con la sessualità e della possibilità di far coesistere fianco a fianco sacerdoti celibi e sposati.
Seconda domanda: È possibile che «tutti gli esperti» abbiano escluso l’esistenza di qualsiasi rapporto tra la pedofilia e l’obbligo del celibato sacerdotale, come ha nuovamente asserito l’arcivescovo Zollitsch? Chi mai può conoscere il parere di «tutti gli esperti»!? Di fatto si potrebbero citare innumerevoli psicoanalisti e psicoterapeuti che al contrario hanno sottolineato questo rapporto: mentre l’obbligo del celibato impone ai preti di astenersi da qualunque attività sessuale, i loro impulsi sono però virulenti, col rischio che il tabù e l’inibizione sessuale li induca a ricercare una qualche compensazione.
In nome della verità, la correlazione tra l’obbligo del celibato e gli abusi non può essere semplicemente negata, ma va presa invece in seria considerazione.
Lo ha ben chiarito ad esempio lo psicoterapeuta americano Richard Sipe, che a questi studi ha dedicato un quarto di secolo (cfr.
«Knowledge of sexual activity and abuse within the clerical system of the Roman Catholic church», 2004): la forma di vita del celibato, e in particolare la socializzazione che la prepara (il più delle volte nei convitti e successivamente nei seminari) può favorire tendenze pedofile.
Richard Sipe ha individuato un tipo di inibizione dello sviluppo psicosessuale più frequente nei celibi che nella media della popolazione; ma spesso la consapevolezza dei deficit dello sviluppo psicologico e delle tendenze sessuali si raggiunge solo dopo l’ordinazione al sacerdozio.
Terza domanda.
Oltre a chiedere perdono alle vittime, i vescovi non dovrebbero finalmente riconoscere anche le proprie corresponsabilità? Per decenni, dato il tabù sulla norma del celibato, hanno occultato gli abusi, limitandosi a disporre il trasferimento dei responsabili.
Tutelare i preti era più importante che proteggere bambini.
C’è poi una differenza tra i casi individuali di abusi commessi nelle scuole, al di fuori della Chiesa cattolica, e gli abusi sistemici, spesso reiterati e frequenti, all’interno stesso della Chiesa cattolica romana, in cui vige tuttora una morale sessuale quanto mai rigida e repressiva, che culmina nella norma sul celibato.
In nome della verità, anziché porre un ultimatum di 24 ore al ministro federale della giustizia, sopravvalutando peraltro gravemente l’autorità ecclesiastica, il presidente della Conferenza episcopale avrebbe dovuto finalmente dichiarare con chiarezza che d’ora in poi, in caso di reati di natura penale le gerarchie della Chiesa non cercheranno più di eludere l’azione giudiziaria dello Stato.
O dovremo aspettare che per ricredersi, la gerarchia sia costretta a pagare risarcimenti dell’ordine di milioni di euro? Negli Usa la Chiesa cattolica ha dovuto versare a questo titolo, nel 2006, ben 1,3 miliardi di dollari; e in Irlanda, nel 2009 il governo ha stabilito con gli ordini religiosi un accordo – rovinoso per questi ultimi – per un fondo risarcimenti di 2,1 miliardi di euro.
Cifre del genere sono assai più eloquenti dei dati statistici sulle percentuali dei celibi tra gli autori di reati sessuali, citati nel tentativo di sdrammatizzare il dibattito.
Quarta domanda: Il papa Benedetto XVI non dovrebbe assumersi a sua volta le proprie responsabilità, anziché lamentarsi di una campagna che sarebbe in atto contro la sua persona? Nessuno finora, in seno alla Chiesa, si è mai trovato sulla scrivania un così gran numero di denunce di abusi.
Vorrei ricordare quanto segue: Per otto anni docente di teologia a Regensburg e in stretti rapporti col fratello Georg, maestro della cappella del Duomo (Domkapellmeister), Joseph Ratzinger era perfettamente al corrente della situazione dei Domspatzen, i piccoli cantori di Regensburg.
E non si tratta qui dei ceffoni, purtroppo all’ordine del giorno a quei tempi, bensì anche di eventuali reati sessuali.
Arcivescovo di Monaco per cinque anni, in un periodo durante il quale un prete, trasferito nel suo episcopato, perpetrò una serie di ulteriori abusi che oggi sono venuti alla luce.
Anche se Mons.
Gerhard Gruber, suo vicario generale (oltre che mio ex collega di studi) si è assunta la piena responsabilità di questi episodi, la sua lealtà non poteva bastare a scagionare l’arcivescovo, responsabile anche sul piano amministrativo.
Per 24 anni Joseph Ratzinger è stato prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nel cui ambito si prendeva atto dei più gravi reati sessuali commessi dal clero in tutto il mondo, per raccoglierli e trattarli nel più totale segreto («Secretum pontificium».
Il 18 maggio 2001, con una lettera rivolta a tutti i vescovi sul tema delle «gravi trasgressioni», Joseph Ratzinger aveva confermato per gli abusi il «segreto pontificio», la cui violazione è punita dalla Chiesa).
Papa per cinque anni, non ha cambiato di una virgola questa prassi infausta.
In nome della verità Joseph Ratzinger, l’uomo che da decenni è il principale responsabile dell’occultamento di questi abusi a livello mondiale, avrebbe dovuto pronunciare a sua volta un «mea culpa».
Così come lo ha fatto il vescovo di Limburg, Franz-Peter Tebartz-van Elst, che in un’allocuzione trasmessa per radio il 14 marzo 2010 si è rivolto a tutti i fedeli in questi termini: «Poiché un’iniquità così atroce non può essere accettata né occultata, abbiamo bisogno di cambiare strada, di invertire la rotta per dare spazio alla verità.
Per convertirci ed espiare, dobbiamo incominciare col riconoscere espressamente le colpe, fare atto di pentimento e manifestarlo, assumerci le responsabilità e aprire così la strada a un nuovo inizio» in “la Repubblica” del 18 marzo 2010
Indicazioni nazionali dei licei
Era atteso da alcuni mesi e, finalmente, vede la luce in queste ore il testo provvisorio delle nuove Indicazioni nazionali degli obiettivi specifici di apprendimento per i licei riformati.
La redazione della bozza delle Indicazioni, presente sul sito dell’Ansas (www.indire.it), è stata curata da un gruppo di lavoro formato da Sergio Belardinelli, Giorgio Bolondi, Max Bruschi, Paolo Ferratini, Gisella Langè, Andrea Ragazzini, Luca Serianni, Elena Ugolini e Nicola Vittorio, che ha coinvolto personalità del mondo accademico, della cultura e della scuola.
Dopo l’approntamento di questa bozza, come si legge nella sua presentazione, prenderà l’avvio una vasta consultazione che coinvolgerà associazioni professionali e disciplinari, esperti, accademici, sindacati, insegnanti, forum dei genitori e degli studenti, e la pubblica opinione, attraverso il sito “nuovilicei.it” (già sperimentato durante la stesura del regolamento).
Dai pareri raccolti usciranno le Indicazioni nazionali definitive sotto forma di Regolamento.
Successivamente una apposita Commissione ministeriale si occuperà di altre due fasi: la prima riguarderà la raccolta e la verifica di curricula dettagliati sulle discipline, mentre la seconda fase riguarderà la revisione e l’armonizzazione delle Indicazioni nazionali del primo ciclo di istruzione che, come è noto, sono attualmente in fase applicativa sperimentale con utilizzo delle Indicazioni varate dal ministro Moratti e delle indicazioni per il curricolo varate dal ministro Fioroni.
Da dove viene il disatro della scuola ?
In un servizio su “Il Corriere della sera”, Angelo Panebianco si rivolge ai nostalgici della prima Repubblica che, a proposito di politica, forse pensano a quegli anni come un’età dell’oro, un’età felice che – precisa l’editorialista – non però è mai esistita.
E della prima Repubblica Panebianco individua quelli che a suo parere sono stati i quattro disastri maggiori lasciatici in eredità: l’instabilità dei governi per l’assenza di alternanza, la pubblica amministrazione utilizzata per assorbire manodopera intellettuale, il colossale debito pubblico.
Quarto disastro, secondo Panebianco, è quello della scuola.
“Con lo stesso cinismo venne sempre trattata (dai democristiani, in primo luogo) la scuola.
Usata per lungo tempo soprattutto come strumento di organizzazione di clientele – prosegue – dopo il ’68 diventò la principale sede di uno strisciante “compromesso storico”: il clientelismo democristiano si acconciò a convivere con la demagogia sindacale e con gli ideologismi anti-sistema di tanti ex-sessantottini diventati insegnanti.” “Chi vuol capire quali siano le cause degli attuali guai della scuola – conclude Panebianco – è al quarantennio della prima Repubblica che deve guardare”.
tuttoscuola.com LA PRIMA REPUBBLICA VA RIMPIANTA? Quelle inutili nostalgie Di fronte al marasma in cui è quotidianamente immersa la nostra vita pubblica attuale è comprensibile che tanti ripensino con nostalgia alla Prima Repubblica, trasfigurata nel ricordo e idealizzata come un’oasi di ordine politico e di pace.
Un «luogo» ove erano inimmaginabili la volgarità dell’oggi, e ove (come si sente continuamente dire) i politici erano dei veri professionisti, misurati nelle parole e capaci di gestire con competenza situazioni difficili.
Il contrario dello spettacolo di disordine, dilettantismo e sguaiataggine cui assistiamo.
La nostalgia per il passato è uno dei più naturali e ricorrenti fra i sentimenti degli uomini.
C’è gente che ricorda con nostalgia persino le guerre e altre catastrofi (magari perché, all’epoca, possedeva la cosa che tutti rimpiangono quando non c’è più: la gioventù).
È accaduto anche in Russia: spaventati dal disordine successivo alla caduta dell’Urss, tanti russi si scoprirono nostalgici dei «bei tempi» del potere totalitario comunista.
Dunque, non c’è nulla di strano nel fatto che tanti italiani oggi ricordino con nostalgia la Prima Repubblica.
Ma ne vale la pena? La Prima Repubblica non era affatto un luogo ameno, o un’irreprensibile democrazia.
Era un regime partitocratico (il termine venne coniato allora) nel quale i tentacoli dei partiti si estendevano ovunque.
La sua storia va divisa in due parti.
Nella prima parte, l’Italia fu immersa in una guerra civile virtuale: da un lato i comunisti, di stretta osservanza sovietica, dall’altro lato i democristiani e i loro alleati.
La Falce e il Martello e lo Scudo Crociato, che campeggiavano sulle loro bandiere, erano simboli di guerra, di armate al servizio di visioni della società e della politica mortalmente nemiche.
L’inamovibilità della Dc, l’assenza di alternanza al governo, non erano casuali.
Erano il prodotto necessario della natura degli attori politici.
Se vogliamo capire, guardando allo scontro di oggi fra berlusconiani e antiberlusconiani, dove abbiamo appreso la sciagurata abitudine di trattare la politica come conflitto fra Bene e Male è a quell’epoca che dobbiamo rivolgerci.
Nella seconda fase della Prima Repubblica, le contrapposizioni ideologiche si stemperarono un po’, i nemici ideologici impararono a coesistere ma ciò non migliorò la condizione della nostra vita pubblica.
Per certi versi, la peggiorò.
Si aprì infatti l’epoca che Alberto Ronchey per primo battezzò della «lottizzazione», una selvaggia e continua spartizione delle spoglie pubbliche fra fameliche macchine partitiche.
Non esisteva una reale separazione dei poteri.
Finché i partiti non cominciarono a indebolirsi (più o meno, dalla Presidenza Pertini in poi), ad esempio, i Presidenti della Repubblica erano comandati a bacchetta dalle segreterie di partito.
La costituzione formale era una cosa ma ciò che contava era la costituzione materiale: le vere regole del gioco avevano ben poca attinenza con le regole formali (costituzionali).
La Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità molti disastri.
Ne cito quattro.
L’assenza di alternanza andava a braccetto, nella Prima Repubblica, con un’endemica instabilità governativa.
La conseguenza era l’incapacità della politica di concepire e attuare piani a medio termine nei suoi vari settori di competenza.
Era costretta ad occuparsi solo del consenso immediato.
Il dissesto idrogeologico, il decadimento di tante infrastrutture, la carenza di ospedali, carceri o scuole, da cui siamo tuttora afflitti, hanno la loro radice nell’incapacità della Prima Repubblica di attuare politiche di respiro nei vari ambiti.
La pubblica amministrazione, oltre che come ricettacolo di clientele, fu utilizzata per assorbire manodopera intellettuale, soprattutto dal Mezzogiorno, senza riguardo per i suoi problemi di funzionalità.
La sua celebre inefficienza, che tuttora ci opprime, è un regalo della Prima Repubblica.
Con lo stesso cinismo venne sempre trattata (dai democristiani, in primo luogo) la scuola.
Usata per lungo tempo soprattutto come strumento di organizzazione di clientele, dopo il ’68 diventò (come, in seguito, accadrà anche alla Rai) la principale sede di uno strisciante «compromesso storico»: il clientelismo dei democristiani si acconciò a convivere con la demagogia sindacale e con gli ideologismi anti-sistema di tanti ex sessantottini diventati insegnanti.
Chi vuole capire quali siano le cause degli attuali guai della scuola è al quarantennio della Prima Repubblica che deve guardare.
Infine, la Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità un colossale debito pubblico (una colpa più grave, per i suoi effetti, del finanziamento illecito dei partiti).
Si consentì a tanti italiani di vivere al di sopra dei loro mezzi scaricandone i costi sulle generazioni successive.
Anche i figli dei nostri figli continueranno, incolpevoli, a pagare quel conto.
Ma, si dice, i partiti erano fonte di «professionalità » (sottintendendo: altro che i dilettanti attuali).
Questo è vero ma la professionalità dei politici dell’epoca non impedì nessuno dei disastri che ho sopra ricordato.
Ma, si dice ancora, c’era più decoro, meno volgarità imperante.
Anche questo è vero, ma si dimentica qual era la causa del minor tasso di volgarità.
La società era meno libera, condizionata da modelli di comportamento assai più rigidi degli attuali.
La volgarità di oggi è, per così dire, il lato oscuro della libertà.
Siamo più liberi, e ciascuno fa uso di quella libertà come sa e come è portato a fare.
C’è poi il capitolo magistratura (l’unico rispetto al quale persino un detrattore della Prima Repubblica, quale è chi scrive, ha qualche tentennamento).
Siamo passati da una magistratura dipendente dal potere politico (almeno nella prima fase della Prima Repubblica) all’anarchia giudiziaria attuale, dove ci sono magistrati che vorrebbero avere diritto di vita e di morte sui governi (si tratti del governo Prodi o del governo Berlusconi) e assistiamo al fenomeno dei raider giudiziari, procuratori che costruiscono inchieste spettacolari (spesso destinate a finire in nulla) per poi costruirci sopra carriere politiche.
Non siamo riusciti a trovare un accettabile punto di equilibrio fra la dipendenza di ieri e l’anarchia di oggi.
La nostalgia è un sentimento rispettabile ma, come spiegano gli psicologi, non è sano.
È nel presente che viviamo e sono i problemi di oggi che dobbiamo affrontare con gli strumenti di oggi.
Non serve evocare un’età dell’oro che non è mai esistita.
Angelo Panebianco Corriere della sera 15 marzo 2010
Fase due della Riforma della scuola
In un’intervista pubblicata sul numero in edicola di Tuttoscuola, il presidente della Commissione Cultura della Camera, Valentina Aprea, lancia un’importante novità nella definizione delle nuove regole per la carriera dei docenti: “Occorre prevedere – spiega l’onorevole del Pdl – più modalità di riconoscimento professionale, non escludendo la possibilità che anche le scuole possano valutare miglioramenti retributivi.
In sostanza, l’esperienza personale di dirigente scolastico e la conoscenza dei migliori sistemi educativi mi porta a dire che i dirigenti possono diventare un soggetto valutativo, ma non in via esclusiva”.
“La premialità dei docenti potrebbe essere competenza anche di altri soggetti.
Penso – continua l’esponente del Popolo della Libertà – agli ispettori, magari in collegamento con l’Invalsi, come avviene con l’Ofsted in Inghilterra, ma anche alle famiglie, agli studenti e agli organismi tecnici delle scuole, chiamati a valutare l’efficacia dell’azione educativa come nelle migliori tradizioni”.
Di fatto genitori e studenti daranno il voto agli insegnanti? “Penso – risponde la Aprea a Tuttoscuola – che solo attraverso più indicatori si potrà monitorare e incoraggiare una sempre maggiore qualità e professionalità della docenza italiana, e che dunque anche le famiglie e gli studenti potranno essere coinvolti nella valutazione.
Questi ultimi, d’altra parte, già valutano i docenti in alcune università”.
Una proposta che certamente metterà in allarme il mondo dei docenti, sempre molto sensibili al tema della valutazione del loro lavoro, tanto più se dovesse avvenire da parte dei dirigenti scolastici e, addirittura, degli studenti. E quale sarà la reazione dei sindacati? Entro settembre si cambia formazione iniziale e reclutamento dei docenti Un altro argomento strategico sul quale si sofferma la Aprea nell’intervista al mensile Tuttoscuola è quello dello stato giuridico, sul quale la scorsa estate si è registrato un inaspettato stop da parte della Lega.
La rappresentante del Pdl schiaccia l’acceleratore anche su questo fronte: “La Proposta di legge da me presentata all’inizio della Legislatura e le Proposte di leggi abbinate hanno come focus una nuova governance della scuola, di cui lo stato giuridico dei docenti, nuove forme di sviluppo professionale e nuove modalità di reclutamento costituiscono corollari imprescindibili perché i nuovi modelli organizzativi e gestionali delle scuole autonome siano realmente ‘sussidiari’ e di qualità.
Sono certa che presto riprenderemo a discutere in Commissione questi temi e a ricercare un’intesa”.
Sui tempi per l’introduzione di questa novità, che includerà novità come i Consigli di amministrazione e gli albi professionali dei docenti, il deputato della maggioranza prospetta l’anno scolastico 2010-11: “A breve – afferma Aprea, che dice di muoversi in sintonia con il ministro Gelmini – giungerà in commissione il regolamento sulla formazione iniziale dei docenti, e si porrà contestualmente il tema del reclutamento attraverso albi professionali regionali e concorsi regionali banditi dalle reti di scuole, come da raccomandazione OCSE.
Per questo, e anche per offrire con l’inizio del prossimo anno scolastico alle scuole strumenti organizzativi più flessibili di accompagnamento e sostegno alla riforma delle superiori, credo che già dalla prossima primavera si possa riprendere il dibattito politico e istituzionale su questi aspetti”.
Infine, la numero uno della Commissione Cultura di Montecitorio nell’intervista a Tuttoscuola dà i voti ai sindacati e promuove solo alcune sigle: “Anp, Snals, Cisl e Uil, tanto per richiamare le sigle di alcuni grandi sindacati di categoria, sembra che abbiano scelto la strada del confronto e non quella dell’opposizione ideologica preventiva contro le scelte del governo in carica.
Le migliori conquiste sindacali si realizzano non sulla spinta dell’ideologia, ma sul terreno della condivisione degli obiettivi e del buon senso”.
E aggiunge: “E’ giusto investire di più sui docenti, ma chiedendo loro qualcosa in cambio: si deve capire, da parte di tutti, che il riferimento centrale deve tornare ad essere l’alunno, i giovani, la persona.
Si deve dare il giusto peso alle ragioni del personale della scuola, ma non a scapito del servizio che si deve assicurare alle famiglie e alla nostra società, di cui gli studenti rappresentano il futuro”, conclude l’Aprea.
Le dichiarazioni rilasciate a Tuttoscuola dal segretario generale della Uil Scuola, Massimo Di Menna sull’intervista alla Presidente della Commissione Cultura della Camera Valentina Aprea, che il nostro mensile pubblica nel numero di marzo (di cui una sintesi è visibile nell’articolo Aprea a Tuttoscuola: ”Pure gli studenti potranno valutare i docenti”) sono una vera e propria road map “per modernizzare la scuola e innalzare la qualità”.
Per Di Menna non vi è altra strada che “puntare sui docenti, supportandoli nel delicato lavoro e valorizzandone le professionalità”.
“Sul come fare – continua il segretario generale della Uil Scuola -, registriamo ritardi e un eccesso di genericità: molti richiami, molte affermazioni di principio, talvolta davvero fantasiose , ma nel concreto vedo poco.
A parere della Uil la via da percorrere è la seguente: 1) Aprire un confronto con il Sindacato, a cui non ci sottraiamo.
2) Rapido intervento legislativo sulla governance delle scuole, rafforzando l’autonomia e puntando sulle reti di scuole, definendole giuridicamente e facendole diventare la sede in cui si sviluppi ricerca didattica, dipartimenti, efficienza nella gestione del personale, valutazione, stabilità di organico, interlocuzione con il territorio.
Il testo unificato della Commissione ristretta della Camera può essere un utile riferimento.
3) Rapida definizione da parte del Governo del decreto della formazione iniziale, e subito decreto sul nuovo reclutamento per coprire i posti vacanti dove le graduatorie sono esaurite, per evitare nuovo precariato.
4) Rafforzare l’INVALSI che ha iniziato un pregevole lavoro per la valutazione degli esiti con le verifiche delle competenze, degli standard, attraverso rilevazioni nelle scuole.
Occorre costruire un sistema di valutazione in grado di seguire sia i livelli d’ingresso che di uscita.
Il sistema deve avere articolazioni a livello di scuole e di reti.
5) Riconoscere economicamente la professionalità degli insegnanti”.
Di Menna richiama anche sulla necessità di utilizzare “le risorse disponibili (il 30% dei risparmi)”, e di aprire “rapidamente il confronto contrattuale per il triennio 2010/2012”: “Devono iniziare le trattative e in tale sede, quella contrattuale, vanno individuate le soluzioni.
Servono soldi certi, criteri che leghino la valorizzazione professionale allo specifico delle funzione docente, l’insegnamento.
Certamente un efficace sistema di valutazione che supporti e segua il percorso didattico può aiutare.
La carriera può prevedere nuovi funzioni, fermo restando la docenza, il coordinamento, ma soprattutto il riconoscimento deve puntare sul lavoro d’aula, quello che ha diretta incidenza sulla crescita dei ragazzi, che va resa, attraverso un efficace sistema di valutazione, trasparente e verificabile”.
“Il rischio maggiore – conclude il segretario generale della Uil Scuola -, da evitare è la burocratizzazione.
Ci opporremo a una valutazione tutta burocratica e fatta di carta e certificazioni.
Serve una forte connotazione tecnico-professionale nelle scuole, e una eliminazione della gestione burocratica che sta soffocando, insieme ai tagli, il sistema e appesantendo il lavoro.
Al di là dei continui proclami vedo ritardo nelle scelte concrete (organi di governance, decreti sulla formazione iniziale, confronti sulle carriere)”.
Dopo la razionalizzazione, con la drastica riduzione degli organici, e la riforma degli ordinamenti, dal maestro unico alle nuove superiori, si potrebbe ora aprire la “fase due” nell’azione della maggioranza sulla scuola, su carriera, reclutamento e nuova governance.
E non mancano le sorprese nei contenuti della proposta di cambiamento.
Sos alcol
Sos giovani e alcol: i ragazzi italiani consumano alcol per la prima volta ad un’età che è la più bassa in Europa, poco più di 12 anni, e al di sotto dei 13 anni consumano bevande alcoliche con una prevalenza tra le più alte dell’Ue.
Così, nel 2008 il 17,6% dei giovani di 11-15 anni ha consumato bevande alcoliche, in un’età al di sotto di quella legale per la somministrazione e per la quale il consumo consigliato è pari a zero.
L’INDAGINE – Il dato allarmante è contenuto nella Relazione al Parlamento sugli interventi realizzati da Ministero della Salute e Regioni in materia di alcol e problemi alcolcorrelati, anni 2007-2008.
Tra i giovani di 18-24 anni di entrambi i sessi, evidenza la Relazione, ha consumato bevande alcoliche il 70,7%, con una prevalenza superiore alla media nazionale.
Inoltre, afferma il ministero della Salute, «per quanto riguarda i giovani, la bassa età del primo contatto con le bevande alcoliche è l’aspetto di maggiore debolezza del nostro Paese nel confronto con l’Europa (in media 12,2 anni di età, contro i 14,6 della media europea)».
BINGE-DRINKING – Tra i comportamenti a rischio è sempre più diffuso il binge drinking (abbuffate d’alcol fino all’ubriacatura), soprattutto nella popolazione maschile di 18-24 anni (22,1%) e di 25-44 (16,9% ).
Altra tipologia di consumo a rischio prevalente tra i giovani è, inoltre, il consumo fuori pasto, che ha riguardato nel 2008 il 31,7% dei maschi e il 21,3% delle femmine di età compresa fra gli 11 e i 24 anni.
Nella stessa fascia di età, il 13,2% dei maschi e il 4,4% delle femmine ha praticato il binge drinking nel corso dell’anno.
PER IL 9,4% DEGLI ITALIANI CONSUMO SMODATO – Per quanto riguarda il consumo di alcol in generale nella popolazione, la relazione del Ministero dice che in Italia va meglio che in altri Paesi europei, ma il rischio resta alto: il consumo di bevande alcoliche tra gli italiani, pur registrando percentuali minori rispetto ad altre nazioni, rimane comunque sostenuto, tanto che il 9,4% della popolazione consuma quotidianamente alcol in quantità non moderate e il 15,9% non rispetta le indicazioni di consumo proposte dagli organi di tutela della salute.
Il quadro epidemiologico conferma la diffusione, in atto negli ultimi anni, di comportamenti a rischio lontani dalla tradizione nazionale, quali i consumi fuori pasto, le ubriacature e il binge drinking.
Nei confronti dell’Europa, rileva la Relazione, «l’Italia presenta una minore prevalenza di consumatori di bevande alcoliche e una minore diffusione del binge drinking; tuttavia, fra coloro che consumano alcol, ben il 26% lo fa quotidianamente (il doppio della media europea), il 14% lo fa da 4 a 5 volte a settimana (valore più alto in Europa) e il 34% pratica il binge drinking almeno una volta a settimana (contro il 28% della media europea)».
(Fonte Agenzia Ansa) 03 marzo 2010