Creazione in laboratorio di un Dna batterico

«Ora la cellula non ha più segreti Scoperta che cambierà il mondo» Gilberto Corbellini, uno dei maggiori studiosi di biologia molecolare, docente di storia di medicina e bioetica all’università La Sapienza, accoglie con entusiasmo l’atteso annuncio di Craig Venter sulla creazione in laboratorio della prima cellula artificiale.
Qual è il significato di questa scoperta? Innanzitutto sono state individuate le strutture molecolari di una cellula, quelle necessarie al suo funzionamento.
I ricercatori del gruppo di Venter hanno scomposto e poi rimontato le sue componenti, ad esempio i cromosomi e i complessi biochimici, individuando il numero di geni minimo che servono per farla vivere.
Una cellula è composta di tanti pezzetti ed era fondamentale capire quali fossero essenziali per farla funzionare e replicare.
Quali saranno i passi successivi? Da ora si potranno aggiungere a questa struttura minima altre componenti.
Immaginiamo un computer cui si aggiungano schede.
Disponiamo di unità operative minime sulle quali montare ad esempio geni anche presi da altre cellule per ottenere la produzione di enzimi nuovi capaci di metabolizzare uno zucchero o di digerire idrocarburi.
Avremo nuovi organismi artificiali, con caratteristiche che non esistono in natura, di cui sperimentare le potenzialità.
Le combinazioni sono in teoria infinite? Sì, ma ora bisogna vedere cosa questa cellula artificiale accetta e riesce a far funzionare.
A partire da questo organismo possono capire quali sono gli elementi essenziali di altri microrganismi e vedere se in essi esistono gli stessi moduli.
Si faranno confronti.
Arriveremo forse a capire l’evoluzione della vita.
È una scoperta straordinaria sia dal punto di vista conoscitivo e sia applicativo.
Si va verso la possibilità di inventare forme di vita artificiali, come avere in mano un meccano con cui costruire forme infinite.
Sul piano dei benefici che potrebbero derivarne per l’uomo è una scoperta importante o è una rivoluzione confinata al mondo del laboratorio? È una scoperta rivoluzionaria anche per uomo.
Se riuscissimo a creare cellule con le caratteristiche desiderate potremmo pensare a quelle che producono farmaci.
Potremmo capire i meccanismi della replicazione cellulare e comprendere i processi patologici alla base delle malattia.
Venter pensa di realizzare il suo sogno: costruire batteri salva-ambiente con un Dna programmato? Che cosa si può immaginare come applicazioni pratiche? Si possono immaginare applicazioni infinite, anche per l’ambiente.
Pensiamo al petrolio riversato in mare nella Louisiana.
Avremmo la possibilità di utilizzare microrganismi per disinquinare ambiente degradando il petrolio.
Prospettive lontane? Non troppo.
Consideriamo che ci sono voluti 10 anni per decodificare il Dna, la metà rispetto a quanto si prevedeva.
Per costruire la cellula artificiale sono bastati 8 anni.
Significa che andiamo spediti.
Le biotecnologie corrono velocemente.
D’altra parte, le informazioni ottenute in vari campi della ricerca di base sono enormi e potrebbero essere usate per far decollare questo progetto.
Venter non parla a caso.
Finora ha realizzato tutte le sue promesse.
Margherita De Bac Corriere della Sera 21 05 2010  Bagnasco: «Un segno ulteriore della grande intelligenza dell’uomo» «Un segno ulteriore della grande intelligenza dell’uomo».
Che è un «dono di Dio» da impiegare sempre  con «responsabilità».
Così il cardinale Angelo Bagnasco ha commentato la notizia della creazione di una cellula in laboratorio, prima forma di «vita artificiale».
«Non conosco i dettagli della scoperta», ha subito messo in chiaro il presidente della Cei, alla richiesta di un commento da parte dei giornalisti prima di entrare in Duomo per l’omaggio alla Sindone: si tratta però – ha affermto – di un’ulteriore manifestazione di grandezza dell’intelligenza umana, «dono» del Creatore per penetrare i misteri e le leggi del creato.
«L’intelligenza – ha aggiunto – non è mai senza responsabilità.
Ogni acquisizione scientifica va illuminata da una visione etica che abbia sempre al centro la dignità umana».
Avvenire 21 05 2010 Dal laboratorio la prima cellulache si riproduce Costruita in laboratorio la prima cellula artificiale, in grado di dividersi e autoreplicarsi come ogni cellula vivente.
La realizzazione è frutto della ricerca di Craig Venter, uno dei decodificatori del genoma umano, che da anni persegue l’obiettivo di ottenere la «vita artificiale».
Il risultato ottenuto da Venter, pubblicato sulla rivista «Science», è «sicuramente un eccellente lavoro di bioingegneria – commenta il genetista Bruno Dallapiccola – ma non dobbiamo pensare alla vita come comunemente la si intende, di organismi interi, quanto della possibilità di organizzare una cellula in grado di produrre copie di sé».
Anche se lo stesso Venter afferma che si tratta di una «cellula che cambia la definizione di ciò che si intende per vita.
Questa è la prima specie auto-replicante esistente sul pianeta Terra il cui padre è un computer».
Padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa vaticana, ha detto prudente: «Aspettiamo di saperne di più» La sfida della «vita artificiale» è una sfida che lo scienziato-imprenditore Craig Venter persegue da anni.
Le tappe più significative che lo hanno portato al risultato odierno passano dalla formazione del primo cromosoma artificiale (nel 2007) e nel 2009 il trapianto di genoma da un batterio a un altro.
E ora il gruppo, coordinato da Daniel Gibson, è riuscito a combinare i due risultati, assemblando i risultati.
«Bisogna intendersi – sottolinea Dallapiccola –.
Si tratta di un risultato che apre prospettive affascinanti, ma non si deve pensare alla “creazione” della vita, qualcosa che dà origine a un organismo intero.
Il gruppo di Venter era già riuscito a individuare il numero minimo di messaggi necessari per ottenere la divisione del cromosoma, ora è giunto ad assemblare come un mosaico diversi pezzi di Dna per dare origine a una cellula artificiale, capace di dividersi e replicarsi».
Si tratta di ricerche che possono avere una certa utilità: «Lo scopo di Venter, scienziato sempre attento agli aspetti commerciali delle sue scoperte – continua Dallapiccola – è di ottenere qualcosa di utile.
Se si riesce a orientare i messaggi delle cellule verso qualcosa di specifico, si può pensare di ottenere per esempio batteri in grado di bonificare l’ambiente dal petrolio, o che abbiano attività farmacologica.
Tenuto presente che siamo ben lungi dall’ipotizzare vita come organismi pluricellulari, si tratta di un annuncio importante e in un certo senso rivoluzionario».
Lorenzo D’Avack, vicepresidente del Comitato nazionale per la bioetica (Cnb), aggiunge una riflessione etica: «Se la finalità è verso la salute dell’ambiente, è un fatto molto importante dal punto di vista scientifico.
Viceversa se la finalità fosse quella di arrivare all’uomo artificiale sarebbe invece un fatto condannabile».
Anche il presidente onorario del Cnb, Francesco D’Agostino, osserva che l’esperimento «va bene se è orientato da un forte paradigma etico verso il bene dell’uomo».
Enrico Negrotti Avvenire 21 05 2010 L’ultimo passo sarà la nascita di un organismo tutto sintetico Quello che manca adesso è solo costruire artificialmente anche la cellula che ospita il Dna Passando direttamente dal computer alla cellula, il Dna può creare una nuova identità cellulare in una cellula che ne aveva già una.
La specificità della vita sta nella sequenza nucleotidica della corrispondente molecola di Dna, molecola che può essere sintetizzata chimicamente partendo dalla sua struttura conservata in un computer.
Questo in sintesi è il messaggio limpido e lineare dell’ultimo esperimento di Craig Venter, che ha in verità più un’importanza teorica che pratica.
Il Dna dirige in prima persona tutte le operazioni dell’organismo, unicellulare o pluricellulare, compresa quella di assegnargli un’identità.
Questa è storia vecchia e abbastanza evidente per i biologi di oggi, ma ancora dura a penetrare nell’immaginario dell’uomo della strada, anche colto.
Perché la vita sembra possedere sempre qualcosa di magico o di mistico, qualcosa di non riducibile a semplici giochi di molecole.
Ogni annuncio di una creazione artificiale di una vita riceve in genere commenti ironici e si accusa lo sperimentatore di fare affermazioni avventate.
Fra questi sperimentatori arditi ma non avventati figura certamente Craig Venter che ama gli annunci clamorosi, e anche un po’ il paradosso, ma che conosce di sicuro il fatto suo e che dirige un’équipe di ricercatori di tutto rispetto.
Costoro erano già riusciti a far cambiare specie a un batterio inserendoci il Dna di un altro batterio.
Ciò significa che, anche se all’inizio il nuovo Dna si trova in un ambiente non suo, cioè in una cellula batterica di una specie diversa, dopo pochi minuti questo Dna ha saputo dirigere la sintesi ex novo di tutte le sostanze, in primo luogo proteine, che costituiscono la nuova cellula.
Questa operazione è stata compiuta per gradi negli ultimi due o tre anni, vincendo enormi difficoltà tecniche e grandi resistenze psicologiche.
In particolare, l’ultimo passo è stato, molto di recente, il trasferimento di un Dna da un batterio a un altro, ma dopo essere passato per la cellula di un fungo.
L’idea era quindi quella di essere sicuri che il Dna si fosse «ripulito» di ogni possibile contaminante prima di essere trasferito.
Ci si voleva accertare cioè che fosse quasi «nudo».
Ma forse non nudo del tutto, avrebbe commentato qualcuno.
Ecco allora l’ultimo esperimento, quello che stiamo commentando.
Il Dna non viene estratto da nessuna parte, ma viene sintetizzato chimicamente, nucleotide per nucleotide, a partire da una sequenza immagazzinata in un computer e lunga più di un milione di nucleotidi.
In questa maniera il Dna è veramente nudo e puro, e ciononostante sa fare il suo compito partendo da zero.
È vita questa? È nuova vita? Per quanto concerne la specificità e l’identità certamente sì: si passa da una sequenza digitalizzata in un computer alla cellula direttamente.
È certamente vita programmata e realizzata.
Quello che manca adesso è solo costruire artificialmente anche la cellula che ospita il Dna; poi non ci saranno più obiezioni, si spera.
Certo non è un’impresa da poco, ma non ci sono ragioni serie per dubitarne.
In seguito si potranno costruire batteri «su misura» perché sappiano compiere specifiche funzioni e poi, chissà, anche qualche cellula superiore.
Il fatto è che l’uomo sa sempre di più e non sa trattenersi dal fare.
Edoardo Boncinelli Corriere della Sera 21 05 2010 

Bruno Forte: chiediamoci se è giusto eticamente

L’intervista Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto e teologo «L’atteggiamento di fondo della Chiesa è di attenzione e simpatia.
Contrapporre a priori scienza e fede non ha senso».
Che ne dice, eccellenza? «La prima cosa è l’ammirazione per le capacità dell’intelligenza umana che qui si manifestano, mi pare, in maniera singolare e altissima…».
Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto e teologo di fama internazionale assai stimato dal Papa — fu l’allora cardinale Ratzinger a ordinarlo vescovo, nel 2004 — sorride tranquillo: «Con buona pace di chi pensa che sia pregiudizialmente negativo, l’atteggiamento di fondo della Chiesa è di attenzione e simpatia: come diceva Sant’Ireneo, l’uomo vivente è la gloria di Dio.
Contrapporre a priori scienza e fede non ha senso.
E proprio il magistero di Benedetto XVI sottolinea la figura del Lógos: il Cristo incarnato rivela che c’è un’Intelligenza già nella creazione, mostra la struttura razionale dell’opera di Dio».
Però c’è chi dice: Venter è arrivato a creare la vita, quindi la vita non più ha nulla di misterioso.
E Dio è inutile.
«Vede, quando in casi simili si dice di aver “creato” qualcosa, il termine “creazione” è usato nell’accezione comune, non certo teologica.
Il senso teologico è tutt’altro: la creazione è ciò che avviene dal nulla, creatio ex nihilo.
E l’uomo questo non lo fa: parte sempre da qualcosa che c’è e sulla quale, con la sua intelligenza, agisce e produce qualcosa d’altro.
È un piano radicalmente diverso».
Ovvero? «Ci muoviamo nell’ordine di quelle che Tommaso d’Aquino chiamava le “cause seconde”.
C’è un mondo già dato nel quale esercitiamo la nostra intelligenza.
Ciò che è nuovo è certo il risultato cui si è giunti, ma la materia era già data.
Nessuna creazione».
Rischi? «La preoccupazione si riassume in una domanda: ciò che sarà scientificamente possibile sarà anche eticamente giusto? Lo stesso Venter, parlando dell’importanza filosofica della sua scoperta, non esclude tale domanda».
E qual è la risposta? «C’è un parametro che unisce tutti, non solo i cristiani: la dignità della persona umana.
Se questa novità, come si dice, sarà utilizzata ad esempio per difendere l’ambiente o migliorare le cure, saremo di fronte a una scoperta eticamente valida…».
Ma c’è il pericolo faustiano dell’«homunculus»? «Beh, di qui ad arrivare a “creare” una specie di Golem ce ne corre, non sono un esperto ma i passi mi sembrano molto ampi…
Certo, il Golem finisce per ritorcersi contro chi lo ha fatto, sarebbe una mostruosità.
E chi volesse sognare una sorta di costruzione della vita umana non potrebbe sottrarsi alle questioni etiche: sarebbe giusto, per ipotesi, fabbricare un essere umano disponendone a priori? Non ne sarebbe compromessa la dignità umana? Non preluderebbe a scenari etici, sociali e politici preoccupanti? Ma questo va molto al di là: il processo mi pare serio, anche se bisogna vigilare sulle applicazioni».
Tempo fa lei disse che una scienza senza senso del limite è una falsa scienza…
«Io distinguo sempre tra scienza e scientismo, la pretesa alienante di voler tutto risolvere e spiegare.
Il dubbio non è sulla scienza, ma sulla sua ideologia e parodia: il Golem.
Ricordo una metafora di Ugo Amaldi, uno scienziato di cui ho grande stima: immaginiamo su un tavolo tre sfere concentriche, i fenomeni oggetto di scienza, filosofia e teologia; ognuna ha le sue regole, ma guai se volessimo risolvere i misteri dell’una con le regole dell’altra.
Ciascuna ha bisogno dell’altra ma deve mantenere la sua autonomia».
Ed è questo in gioco? «Abbiamo visto a cosa ha portato l’idea di autonomia assoluta: il sogno della modernità ideologica, le violenze del ’900…
La ragione è la potenza dell’interrogazione e della scoperta, ma anche dello “stupore” di Schelling: riconoscere i propri limiti è un farmaco importante contro le ideologie».
La Chiesa, comunque, non si straccia le vesti…
«Bisogna avere più paura dei non pensanti che dei pensanti.
Ma anche temere chi assolutizza le proprie capacità: una scienza che si facesse assoluta sarebbe antiscientifica».
in “Corriere della Sera” del 21 maggio 2010

Insegnare vuol dire sedurre.

«C’è più da fare a interpretare le interpretazioni che a interpretare le cose, e ci sono più libri sui libri che su altri argomenti: non facciamo che commentarci a vicenda.
Tutto pullula di commenti; di autori, c’è grande penuria»: adesso più che mai le parole di Montaigne, nella splendida e ormai storica traduzione di Fausta Garavini, suonano di grande attualità.
Proprio in questi ultimi anni, a causa di una serie di insensate e sciagurate riforme, i classici della filosofia e della letteratura occupano un posto sempre più marginale nelle scuole e nelle università.
Gli studenti percorrono le tappe della loro carriera nutrendosi di manuali, commenti, antologie, bignamini di ogni genere.
Sentono parlare e leggono notizie di oggetti, i classici, di cui, nei casi migliori, conoscono solo qualche pagina presente nei numerosi «florilegi» che hanno invaso il mercato dell’editoria scolastica e universitaria.
Purtroppo questa tendenza non nasce dal nulla.
Al contrario: diventa espressione di una società sempre più stregata dal mercato e dalle sue leggi.
La scuola e le università sono state equiparate alle aziende.
I presidi e i rettori, spogliati dei loro panni abituali di professori, vestono gli abiti di manager.
Spetta a loro far tornare i conti, rendere competitive le imprese di cui sono a capo.
Innanzitutto il «profitto»: bisogna rispettare i tempi nei parametri previsti dai nuovi protocolli ministeriali.
Ma allora che fare? Invitare gli studenti a lavorare di più per compiere il loro itinerario nei tempi e nei modi migliori? Oppure ridurre le difficoltà per rendere più agevole il raggiungimento del traguardo? Questi anni di applicazione della riforma hanno ormai rivelato con chiarezza che è stata la scelta della semplificazione, per non dire della banalizzazione, a dettare legge negli atenei.
Fatta salva qualche piccola isola, ormai la pedagogia edonistica ha incancrenito i gangli vitali dell’insegnamento.
Pensare di inserire la lettura integrale dei «Saggi» di Montaigne o di qualche dialogo di Platone potrebbe essere considerato come una seria minaccia alla prosperità dell’azienda e l’incauto professore potrebbe finire anche sotto «processo».
Eppure, come ricorda George Steiner, sembra impossibile concepire qualsiasi forma di insegnamento senza i classici.
L’incontro tra un docente e un discente presuppone sempre un «testo» da cui partire.
Senza questo contatto diretto sarà difficile che gli studenti possano amare la filosofia o la letteratura e, nello stesso tempo, sarà molto improbabile che i professori possano esprimere al meglio le loro qualità per stimolare passione e entusiasmo nei loro allievi.
Si finirà per spezzare definitivamente quel filo che aveva tenuto assieme la parola scritta e la vita, quel circolo che ha consentito a giovani lettori di imparare dai classici ad ascoltare la voce dell’umanità e, poi col tempo, dalla vita a comprendere meglio i libri di cui ci si è nutriti.
Gli assaggi di brani selezionati non bastano.
Un’antologia non avrà mai la forza di suscitare reazioni che solo la lettura integrale di un’opera può provocare.
E all’interno del processo di avvicinamento ai classici, anche il professore può svolgere un ruolo importantissimo.
Basta leggere le biografie o le autobiografie di grandi studiosi per trovare quasi sempre un riferimento a un docente che durante gli studi liceali o universitari è stato decisivo per orientare gli interessi verso questa o quella disciplina.
Ognuno di noi ha potuto sperimentare quanto l’inclinazione per una specifica materia sia stata, molto spesso, determinata dal fascino e dall’abilità dell’insegnante.
Le lezioni tenute da alcuni grandi maestri nei saloni di Palazzo Serra di Cassano a Napoli testimoniano l’importanza dell’insegnamento nella trasmissione del sapere.
Migliaia di giovani—nel corso dei decenni in cui Gerardo Marotta ha trasformato la sede storica dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici in una palestra per formare le nuove generazioni —hanno avuto l’opportunità e il privilegio di ascoltare direttamente la parola di studiosi straordinari come Hans George Gadamer, Giovanni Pugliese Carratelli, Paul Ricoeur, Jean Starobinski, Eugenio Garin e tanti altri invitati di fama internazionale.
La serie di dvd proposta dal «Corriere della Sera» permette oggi a un pubblico più vasto di rivivere momenti eccezionali di un’esperienza straordinaria.
E, soprattutto, consente ai più giovani di incontrare alcuni grandi maestri che purtroppo ci hanno lasciato.
Attraverso molti di questi dvd è possibile capire che l’insegnamento implica sempre una forma di seduzione.
Si tratta, infatti, di un’attività che non può essere considerata un «mestiere», ma che nelle sue forme più nobili e più autentiche presuppone una vera e propria vocazione.
«Una lezione di cattiva qualità — ammonisce George Steiner—è quasi letteralmente un assassinio e, metaforicamente, un peccato».
L’incontro autentico tra un maestro e un allievo non può prescindere dalla passione e dall’amore.
«Non si impara a conoscere — ricorda Max Scheler citando le parole da lui attribuite a Goethe — se non ciò che si ama, e quanto più profonda e completa ha da essere la conoscenza, tanto più forte, energico e vivo deve essere l’amore, anzi la passione».
Oggi purtroppo le aziende dell’istruzione, più attente alla quantitas che alla qualitas, chiedono ben altro ai loro docenti.
Il processo di burocratizzazione che ha pervaso scuole e università prevede per prima cosa la partecipazione attiva alla cosiddetta vita amministrativa.
Lo studio e la ricerca sembrano un lusso da negoziare con le autorità accademiche.
Quel fenomeno che aveva tenuto assieme, fino a non molti anni fa, insegnamento e lavoro scientifico nelle università italiane appare sempre più un miracolo improbabile.
Non è impossibile immaginare che le stesse biblioteche — quei «granai pubblici », come ricordava l’Adriano della Yourcenar, in grado di «ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire » — finiranno, a poco a poco, per trasformarsi in polverosi musei.
All’interno di questo contesto sarà difficile immaginare un docente che insegni con amore e passione e studenti pronti a lasciarsi infiammare.
«La gente —annotava Rilke—(con l’aiuto di convenzioni) ha dissoluto tutto in facilità e dalla facilità nella più facile china; ma è chiaro che noi ci dobbiamo tenere al difficile ».
Il sapere, come ricordava Giordano Bruno e come ricordano tanti classici della filosofia e della letteratura, non è un dono ma una faticosa conquista.
Nuccio Ordine Corriere della sera 17 marzo 2010

Il rapporto Istat sui disabili a scuola

Nell’anno scolastico 2005/2006 gli alunni con disabilità, in ogni ordine di scuola, sono in totale 178.220 e rappresentano il 2 per cento del totale degli alunni iscritti.
La percentuale più alta di alunni si ha nel Lazio (2,4 per cento), mentre la più bassa nella Basilicata (1,4 per cento); e non si riscontra una sostanziale differenza tra le distribuzioni regionali relative alla scuola statale e non statale.
Nel tempo si è avuta una progressiva crescita del numero di alunni disabili nella scuola italiana: se nell’anno scolastico 1989/1990 erano pari all’1,2%, nel 2005/2006 sono il 2%.
Con quale tipo di istruzione? Più del 60 per cento degli studenti con disabilità presenti nella scuola secondaria è iscritto nell’istruzione professionale e le motivazioni, spiega l’Istat, possono essere da una parte la possibilità di ottenere un titolo di studio intermedio dopo tre anni di corso, dall’altra la convinzione delle famiglie che ritengono più adatte queste scuole, in quanto ritenute meno impegnative.
Resta sempre lacunosa l’analisi delle tipologie di disabilità, specie quando si tratta di disabilità sensoriali: il Rapporto evidenzia che sotto la voce “psicofisico” si ritrovano quasi il 90 per cento degli studenti con disabilità, inglobando in questo modo all’interno di un’unica tipologia un’ampia varietà di deficit sia di tipo fisico che mentale: ciò si deve al fatto che la classificazione è solo per ragioni amministrative e non pone la dovuta attenzione alle esigenze dell’alunno.
L’ambiente fisico è ancora una barriera all’integrazione.
Le scuole con strutture per il superamento delle barriere architettoniche sono poche.
Dai dati del Ministero della pubblica istruzione del 2003/2004 su 40.383 strutture scolastiche censite solo il 30,7 per cento delle scuole statali è dotato di servizi igienici a norma, il 29,7 per cento di porte a norma e il 20,3 per cento di ascensori o scale per il superamento delle barriere architettoniche.
Ci sono molte differenze tra le regioni, ma anche in quelle più virtuose il 60 per cento delle scuole non ha ancora terminato l’abbattimento delle barriere architettoniche delle proprie strutture scolastiche.
In Italia i docenti impegnati in attività di sostegno nell’anno scolastico 2005-2006 sono 80.013.
Gli insegnanti di sostegno nel corso degli anni sono aumentati in relazione alla crescita del numero degli alunni con disabilità e al numero delle deroghe richieste e concesse.
Il Rapporto dà poi conto delle percentuali di personale impiegato nelle diverse regioni e della tipologia di contratto (a tempo indeterminato e non).
Il dato sulle ripetenze rilevato dal Rapporto merita una più attenta riflessione.
Il 26,3 per cento degli iscritti ha ripetuto almeno un anno durante il corso degli studi e tra di essi la maggior parte presenta condizioni di disabilità grave.
“La ripetenza, pur non rappresentando per alcune tipologie di disabilità severa, un fallimento, può evidenziare in alcuni casi una funzione suppletiva della scuola nei confronti di servizi sociali territoriali molto spesso assenti”, dice l’istituto.
Trend crescente per il numero di studenti con disabilità iscritti all’Università statale: dall’anno accademico 2000-01 al 2004-05 passano da 4.813 iscritti (3 per mille del totale degli studenti iscritti) a 9.134 iscritti (5,4 per mille del totale degli studenti iscritti); in particolare nel triennio considerato si ha un incremento relativo pari al 90 per cento.
Gli studenti con disabilità motorie costituiscono la percentuale maggiore (30,8 per cento) degli iscritti con disabilità, mentre le percentuali minori si riscontrano nei casi di studenti con dislessia (0,7 per cento) e con difficoltà mentali (3,2 per cento).

Testimoni del nostro tempo: Madeleine Delbrêl

Pubblichiamo ampi stralci di una delle relazioni presentate al convegno “Il servizio sociale tra persona e società:  la testimonianza di Madeleine Delbrêl” organizzato dall’Istituto Petroniano di studi sociali dell’Emilia Romagna e tenutosi all’Istituto Veritatis Splendor di Bologna.
Madeleine Delbrêl è conosciuta soprattutto per la sua testimonianza di donna di fede libera e senza conformismi dentro l’istituzione ecclesiale, per la sua presenza missionaria negli ambienti dell’ateismo contemporaneo e per i suoi testi spirituali di grande vivacità letteraria e profondità mistica.
Da qualche anno è stato riscoperto anche un altro capitolo della sua ricca personalità, quello di lei come operatrice dei servizi sociali.
In effetti Delbrêl ha esercitato la professione di assistente sociale in anni pionieristici nella periferia di Parigi a Ivry-sur-Seine, tra il 1933 e il 1945, prima nell’ambito di un centro sociale parrocchiale e poi, dal settembre 1939, nei servizi sociali comunali.
La sua competenza e la sua capacità organizzativa le guadagnarono crescenti responsabilità durante gli anni tragici della seconda guerra mondiale, fino a svolgere il compito di delegata tecnica per tutta la zona di Parigi-Sud, con anche l’incarico della formazione delle ausiliarie dal 1941 al 1945.
Già nello scoutismo Madeleine aveva ricoperto in breve tempo significative responsabilità per la sua riconosciuta “capacità di immaginazione e di iniziativa”, e proprio grazie al movimento scout era venuta in contatto per la prima volta con le classi popolari e la realtà delle periferie.
Quando nel 1933, dopo esser diventata infermiera e al termine del primo anno di studi sociali, si installa con due amiche a Ivry-sur-Seine, città alle porte di Parigi con più di trecento fabbriche, trova una situazione drammatica per le condizioni abitative e di lavoro degli operai, e scopre l’ateismo ufficiale comunista, che permea tutta la città.
Mentre la maggioranza dei cristiani resta sulla difensiva e sembra incapace di comprendere la sfida anche religiosa posta dalle disuguaglianze e dalle trasformazioni in atto, Madeleine cerca di superare l’atmosfera di ostilità e la logica di contrapposizione, imprimendo attraverso il Centro di azione sociale nuovo impulso alle attività caritative e formative della comunità cristiana locale, con una disponibilità che non conosce barriere.
In una crescente prossimità alla gente al di là delle classificazioni, intesse rapporti umanamente significativi e di sincera collaborazione con tutti, compresi i militanti comunisti.
Il 1° settembre 1939 la Germania invade la Polonia e scoppia la seconda guerra mondiale.
Nel quadro della mobilitazione generale Madeleine viene designata come assistente sociale al Comune di Ivry e assunta con l’approvazione del sindaco comunista, che attesta di conoscerne e apprezzarne “le alte qualità professionali e la dedizione”.
Pochi giorni dopo le amministrazioni comuniste vengono sciolte e sostituite da delegazioni prefettizie.
Madeleine, come tutto il personale del comune in gran parte comunista, conserva il suo incarico e si trova a svolgere un importante ruolo di coordinamento nell’evacuazione di Parigi, organizzata nell’ottobre 1939, e successivamente nel maggio 1940 nel controesodo massiccio dall’Est e dal Nord verso la capitale.
Le sue responsabilità crescono progressivamente:  nel giugno 1940 viene nominata dal prefetto Delegata tecnica del servizio sociale.
Il 1° gennaio 1941 entra nel Servizio sociale della Regione Parigina e nel 1942 anche nel Consiglio municipale di Ivry, come tecnico, in rappresentanza dei servizi sociali.
Nell’assumere questi incarichi Madeleine è mossa dal desiderio di servire il Paese in un momento drammatico e si mantiene “assolutamente passiva a livello politico”.
Di fronte agli immani problemi determinati dalla disfatta militare e dall’occupazione tedesca, Madeleine riesce a coinvolgere gli elementi attivi di Ivry e a dare vita a tutta una rete di iniziative volte ad alleviare le sofferenze e a venire incontro ai bisogni della gente.
A partire dal gennaio 1941 il Soccorso Nazionale le affida l’organizzazione di corsi di formazione per le ausiliarie delle assistenti sociali, di cui c’è urgente bisogno.
Madeleine definisce allora un programma di studi di nuovo genere, che favorisca le esperienze sul campo più che l’apprendistato teorico.
Di fatto Ivry diviene una specie di laboratorio dei servizi sociali, a cui altri vengono a ispirarsi.
Madeleine stessa comunica le sue iniziative e le sue convinzioni in due sue pubblicazioni La Donna e la Casa (1941) e Veglia d’armi per le lavoratrici sociali (1942).
La sua alta visione del servizio sociale si accompagna alla consapevolezza della sua necessità in una società “continuamente soverchiata dalla immensa pasta umana”.
Il 25 agosto 1944 la municipalità comunista riprende il suo posto.
Il giorno successivo, dopo un bombardamento che aveva gravemente colpito Ivry, Madeleine viene riconfermata dai nuovi responsabili comunali, che sapevano l’impegno con cui aveva aiutato molte famiglie colpite per motivi politici o razziali e nascondendo militanti comunisti ricercati.
Lei accetta di rimanere per un anno, fino all’ottobre 1945.
Le sue idee si sono trovate affidate anche a un certo talento letterario.
I suoi scritti spaziano dalle poesie alle meditazioni spirituali per la sua comunità, ai testi in cui offre il suo contributo alla ricerca di nuove vie di evangelizzazione, a una ricchissima corrispondenza, fino ai testi professionali nei quali troviamo le linee direttrici cui ispirava il suo lavoro.
Donna piena di intraprendenza, ha avuto la preoccupazione di serbare la sua libertà di parola e di azione persino sotto l’occupazione tedesca.
Se il suo approccio alla questione delle donne era tributario a una visione tradizionale della differenza dei sessi, la sua testimonianza e i suoi testi aprono brecce a nuove prospettive per un approccio “femminile e non femminista” a un forte protagonismo sociale delle donne.
Colpisce in lei un’attenzione alla realtà senza idee preconcette e l’esigenza di tenere costantemente insieme fattori apparentemente contrapposti:  un senso acuto della unicità di ogni persona e la valorizzazione del tessuto delle relazioni a cominciare da quelle familiari ritenute insostituibili; il bisogno di lasciarsi ammaestrare dalla vita e l’esigenza di acquisire strumenti per una riflessione umile ma rigorosa; il valore dell’intervento immediato nelle situazioni di bisogno e la preoccupazione di collocarlo in un orizzonte più ampio, per preparare la strada agli interventi legislativi e amministrativi; la coscienza di una dipendenza dei servizi sociali dalla politica e insieme la difesa della loro indipendenza contro ogni strumentalizzazione.
In un’epoca di grandi ricette ideologiche, Madeleine è convinta “che anche la migliore società resta imperfetta”, per cui il compito del servizio sociale consiste nel “compensare ciò che la società ha in sé di troppo rigido, di troppo statico, di troppo fisso”, in modo che possa trasformarsi continuamente, adattandosi alla “complessa e immensa pasta umana”, come una “rivoluzione” che si deve fare “giorno per giorno”.
Tutto questo non si comprende appieno se non si misura l’impatto della sua conversione avvenuta a vent’anni.
Da allora Madeleine si era sentita in debito verso tutti di quell’Incontro abbagliante col Dio vivente, che le aveva cambiato la vita.
Lei stessa scriveva:  “È stato il mio personale Incontro con Cristo Signore.
Scrivo Incontro in grande e al singolare, incontro vero e sempre incompiuto col Dio vivente.
Ormai mi sembra vero solo ciò che può entrare nel realismo di quell’incontro o scaturirne come una conseguenza necessaria”.
Da qui la sua fiducia nel “valore degli incontri”:  “Tutti gli esseri che incontriamo hanno qualcosa da donarci e ciascuno di loro ha qualcosa da ricevere da noi”.
“Dappertutto è Gesù che attende; e in noi è Gesù che cammina”.
Si colloca a queste profondità spirituali e mistiche la chiave della sua sincera apertura a tutti e in particolare la sua concezione del servizio sociale come crocevia di incontri e compito di cerniera:  “Siamo continuamente tra gli uni e gli altri; approfittiamone per fungere da cerniera.
(…) non rifiutiamoci, dopo aver toccato con mano e col cuore tali lacerazioni, di rammendarle (…) È un lavoro da donne, è fatto per noi”.
Questo passo merita attenzione.
Madeleine vi testimonia efficacemente quello sguardo al femminile che è spontaneamente più attento alla singolarità delle persone, alla concretezza delle situazioni e alla connessione vitale dei vari ambiti di intervento.
Ma la sua affermazione va oltre.
È convinta, infatti, che solo un servizio sociale che resiste alla tentazione di un approccio burocratico o ideologico alle persone, che non smette di toccare la realtà “con mano e col cuore”, con contatti in cui ci si lascia toccare e cambiare, può promuovere un’autentica ricostruzione del tessuto sociale e una ricucitura delle tante “lacerazioni” che segnano la vita delle persone.
Per lei solo contatti pieni di fiducia e di bontà sono capaci di agire in profondità e cambiare le persone, perché ossigenano il cuore e quindi risvegliano la coscienza della propria dignità personale, il senso di responsabilità verso gli altri e una profonda nostalgia di Dio.
A convalidare lo stile di Madeleine la testimonianza di un giovane che lei aveva aiutato a uscire dal carcere:  “Madeleine è il solo essere al mondo che mi abbia amato in speranza.
Lei ha indovinato il mio vero io, sfigurato per tutti, sconosciuto a se stesso, odiato da se stesso, senza coscienza di sé nel carcere da cui – dopo dieci anni e con il suo aiuto – giungo a liberarmi.
Grazie a lei io sono esistito per uno dei miei simili prima di esistere nella mia coscienza, quando tutti gli altri non potevano che ignorarmi.
Se non c’è più grande amore che dare la propria vita per coloro che  si  amano, come situare colui che rende la vita a chi l’ha perduta, che la dà a chi non l’ha mai conosciuta?”.
(©L’Osservatore Romano – 8 maggio 2010)

Book in progress”

Libri di testo scritti dagli insegnanti e stampati dalle scuole: è questa la ricetta del progetto “Book in progress” per permettere alle famiglie un risparmio sulla spesa dei libri di testo fino a 250-300 euro l’anno.
Il progetto, lanciato l’anno scorso dall’Istituto Majorana di Brindisi e oggi esteso a 14 scuole, 4 mila alunni, da nord a sud, è sostenuto da Adiconsum.
“Abbiamo sollecitato il ministro più volte – ha affermato il segretario generale di Adiconsum, Paolo Landi, durante una conferenza stampa a Roma – per i tetti di spesa dei libri di testo per il prossimo anno scolastico, ma ancora non ci sono.
In questo modo la spesa delle famiglie potrebbe aumentare del 10%.
Ma oltre alla denuncia, oggi vogliamo promuovere questa iniziativa”.
I libri di testo, ha spiegato il dirigente scolastico dell’Istituto Majorana, Salvatore Giuliano, sono stati scritti da un gruppo di 250 insegnanti, che si sono incontrati e confrontati.
Quest’anno i testi al Majorana sono stati venduti a 25 euro, il prossimo anno aumenteranno fino a 35 euro, “ma comunque le famiglie riusciranno a risparmiare fino a dieci volte rispetto ai prezzi tradizionali.
A giorni le scuole dovranno scegliere il piano libri per il prossimo anno e questo progetto potrebbe essere un’occasione per loro”.
“L’iniziativa – ha commentato Silvia Landi di Adiconsum – ha molteplici aspetti positivi, sia per l’abbattimento della spesa e sia per il ruolo culturale che assumono di nuovo gli insegnanti”.
Il plauso dell’iniziativa è arrivato anche dal ministero dell’Istruzione, attraverso Filomena Rocca della Direzione generale degli ordinamenti scolastici, poiché gli e-book mettono al centro i ragazzi.

Rimanere o andarsene?

Le nuove rivelazioni riguardo ad abusi sessuali da parte di preti in Germania e Italia hanno provocato nell’opinione pubblica un’onda di rabbia e disgusto.
Ho ricevuto e-mail da tutta Europa da persone che mi chiedono: come è possibile restare dentro la Chiesa cattolica? Mi è stato anche inviato un modulo per la rinuncia a far parte della Chiesa.
Perché restare? Innanzitutto, io direi, perché andarsene? Alcune persone ritengono che non sia più il caso di restar legati ad un’istituzione che si è rivelata così corrotta e pericolosa per i bambini.
La sofferenza di tanti piccoli è così atroce.
E loro debbono rappresentare la nostra prima preoccupazione.
Premetto che nulla di quanto andrò scrivendo intende in alcun modo diminuire tutto il nostro sdegno per il male degli abusi sessuali.
Tuttavia dobbiamo riconoscere che negli Stati Uniti, come si evince dai dati del 2004 forniti dal John Jay College deputato alla Giustizia Criminale, il clero cattolico non commette reati più del clero sposato appartenente ad altre confessioni religiose.
Alcuni sondaggi collocano pure ad un livello leggermente più basso proprio i preti cattolici.
Essi sarebbero meno propensi a commettere questo reato rispetto, ad esempio, agli insegnanti di ogni ordine di scuola e ad almeno la metà della rimanente popolazione.
Non è il celibato che spinge le persone ad abusare dei bambini.
Quindi si tratterebbe di un’idea che non corrisponde a verità quella di lasciare la Chiesa per un’altra istituzione solo in nome della sicurezza dei figli.
Dobbiamo affrontare una volta per tutte il fatto che l’abuso sui minori sia uno dei crimini più diffusi in ogni ambiente sociale.
Fare della Chiesa il capro espiatorio sarebbe come dire, mettiamoci una pietra sopra, insabbiamo.
Cosa possiamo dire invece dell’insabbiamento all’interno della Chiesa? Non abbiamo forse avuto dei vescovi incredibilmente irresponsabili a lasciare delinquenti in circolazione, non denunciandoli alla giustizia, lasciando così libero campo al perpetuarsi degli abusi? Sì, qualche volta è proprio accaduto così.
Ma la stragrande maggioranza di questi casi risale agli anni ’60 e ’70, quando i vescovi consideravano l’ abuso sessuale come un peccato invece che una condizione patologica, e quando spesso persino avvocati e psicologi li rassicuravano che era motivo di sicurezza assegnare i sacerdoti ad altro incarico dopo un trattamento.
E’ semplicemente un’ azione ingiusta il tentativo di volgersi indietro e a questo punto dire che gli abusi sessuali allora non esistevano.
Fu solo con l’avvento del femminismo verso la fine degli anni ’70, che ha fatto luce sulla violenza perpetuata nei confronti delle donne, che è venuto alla ribalta anche il terribile rischio che correvano anche i bambini indifesi.
E che dire ancora del comportamento del Vaticano? Il Papa Benedetto XVI ha imboccato una linea dura nell’affrontare tale questione fin dai tempi in cui era prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede e poi da quando è diventato Papa.
Ora il dito è puntato su di lui.
Sembra che alcuni casi segnalati alla Congregazione da lui guidata non abbiano avuto seguito.
Si è forse indebolita la sua credibilità? Ci sono manifestanti intorno a San Pietro per chiedere le sue dimissioni.
Io sono profondamente certo che lui non abbia alcuna colpa.
In genere s’immagina il Vaticano come un’organizzazione vasta ed efficiente.
In realtà è molto ridotta.
La Sacra Congregazione dà lavoro a sole 45 persone che debbono però occuparsi delle questioni dottrinali e disciplinari di una Chiesa che conta oltre 1,3 miliardi di persone, pari al 17% dell’intera popolazione mondiale, con circa 400 mila preti.
Quando ho trattato con la Sacra Congregazione, in qualità di Maestro dell’Ordine, era evidente che dovevano fare i salti mortali per far fronte al loro lavoro.
Diversi documenti si saranno arenati sulle scrivanie.
Il card.
Ratzinger si era anche lamentato con me che il personale era del tutto inadeguato per quella mole di lavoro.
Cosa dire allora riguardo alla decisione del card.
Ratzinger che avrebbe fermato il processo contro un prete accusato di aver commesso terribili crimini contro bambini sordomuti? È stato probabilmente solo un atto di pietà nei confronti di un uomo già gravemente ammalato e che è morto tre mesi dopo.
Qualcuno potrebbe obiettare che non è stato il modo migliore per mostrare misericordia, ma la misericordia spesso fa scandalo.
Cristo ha dato scandalo per la sua richiesta di perdonare chiunque senza condizioni.
La gente è indignata contro le mancanze del Vaticano reticente ad aprire i propri fascicoli e offrire una spiegazione chiara di ciò che è accaduto.
Perché tanta reticenza? Cattolici arrabbiati e feriti rivendicano il diritto di avere una gestione trasparente ai vertici della Chiesa.
Sono perfettamente d’accordo.
Ma dobbiamo anche capire perché, nelle questioni riguardanti la giustizia, il Vaticano debba essere così auto-protettivo.
Nel corso del XX secolo ci sono stati più martiri di quanti se ne abbiano avuti in tutti i secoli precedenti insieme.
Vescovi e preti, religiosi e laici sono stati assassinati in Europa Occidentale, nell’Unione Sovietica, in Africa, America Latina e in Asia.
Molti cattolici ancora oggi subiscono prigionia e condanne a morte a motivo della loro fede.
È chiaro perché il Vaticano tenda a sottolineare la riservatezza: questa è necessaria per proteggere la Chiesa da quanti vorrebbero distruggerla.
Così è comprensibile che il Vaticano reagisca con una certa aggressività alle richieste di trasparenza e di legittimazione di apertura dei fascicoli, ritenendo anche questa una forma di persecuzione.
E poi bisogna dire che alcune persone sui media intendono, su questo non c’è alcun dubbio, danneggiare la credibilità della Chiesa.
Ma riconosciamo anche che dobbiamo essere debitori alla stampa per la sua insistenza nel porre la Chiesa di fronte alle proprie inadempienze.
Se non fosse stato per i media, questo vergognoso crimine avrebbe potuto restare ancora senza responsabili.
La riservatezza è anche una conseguenza dell’insistenza della Chiesa nei confronti del diritto di ogni accusato di mantenere la propria reputazione finché questi non venga ritenuto colpevole.
Ciò è sempre più difficile da capire in una società come la nostra, in cui i media sono capaci di distruggere la reputazione delle persone senza pensarci due volte.
Perché allora andarsene? Se si tratta solo di trovare una collocazione più sicura, meno corrotta della chiesa, allora credo che rimarreste delusi.
Ho chiesto a lungo una gestione più trasparente, ancor più l’apertura di un dibattito, ma la riservatezza della Chiesa è comprensibile e, talvolta, persino necessaria.
Capire non significa sempre condonare, ma è necessario se vogliamo comportarci con giustizia.
Perché allora restare? Debbo mettere le carte in tavola; anche se la Chiesa cattolica con tutta evidenza non è peggiore delle altre, nonostante tutto non voglio andarmene.
Non sono cattolico perché la nostra Chiesa è la migliore di tutte, o perché mi piace il Cattolicesimo.
Amo molto la mia Chiesa, ma esistono anche certi suoi aspetti che non mi piacciono molto.
Non sono cattolico, quasi fosse una scelta da consumatori tra un ecclesiastico Waitrose piuttosto che Tesco, ma perché io credo che la Chiesa incarni qualcosa che è da ritenersi essenziale per la testimonianza cristiana della Resurrezione, l’unità visibile.
Quando è morto Gesù, la sua comunità si disperse.
Lui era stato tradito, rinnegato e la maggior parte di suoi discepoli erano fuggiti.
Erano state in particolare le donne ad accompagnarlo fino alla fine.
Nel giorno di Pasqua era apparso ai suoi discepoli.
Era accaduto ben di più della semplice rianimazione fisica di un cadavere.
In lui Dio aveva trionfato su tutto ciò che è in grado di distruggere una comunità: peccato, viltà, menzogna, fraintendimento, sofferenza e morte.
La Resurrezione ha reso visibile al mondo una comunità sorprendentemente rinata.
Questi che si erano mostrati codardi e 1′ avevano rinnegato si trovavano di nuovo radunati insieme.
Non era stato un gruppo affidabile, e, avrebbero dovuto vergognarsi di ciò che avevano fatto, ma nonostante tutto  essi erano di nuovo insieme.
L’unità della Chiesa è segno che tutte le forze che vorrebbero dilaniarla e disperderla sono state vinte da Cristo.
Tutti i Cristiani formano un solo Corpo di Cristo.
Nutro un profondo rispetto per i cristiani di altre Chiese che mi nutrono e mi ispirano.
Tuttavia questa unità in Cristo ha bisogno di una certa qual incarnazione visibile.
Il Cristianesimo non è una sorta di vaga spiritualità, bensì una religione incarnata all’interno della quale le verità più profonde prendono talvolta una forma fisica e istituzionale.
Storicamente questa unità ha trovato il suo punto focale in Pietro, la roccia di cui parlano i Vangeli di Matteo, Marco e Luca, e il pastore del gregge di cui parla quello di Giovanni.
Fin dall’inizio e lungo il corso della storia, Pietro ha costituito spesso una roccia alquanto traballante, talvolta anche fonte di scandalo, corruzione, eppure è questo il primo, e poi i suoi successori, cui viene chiesto di tenerci uniti tutti insieme in modo che possiamo testimoniare nel Giorno di Pasqua la sconfitta da parte di Cristo della potenza del male che tende a dividere.
E in tal modo la Chiesa è salda insieme a me, qualunque cosa accada.
Potremmo anche sentirci in imbarazzo ad ammettere di essere Cattolici, ma ricordiamo che Gesù aveva messo insieme fin dall’ inizio una compagnia che agli occhi della gente appariva disonorevole.
  Timothy Radcliffe op • Tit.
orig.
Why Stay?, articolo pubblicato sul settimanale cattolico The Tablet l’11 aprile 2010 (trad.
dall’inglese di Maria Teresa Pontara)  in “Koinonia” n.
352 del maggio 2010

Indicazioni nazionali dei Licei

Il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione (CNPI) nella seduta del 28 aprile, ha espresso il richiesto parere sulle Indicazioni nazionali dei nuovi Licei che, come è noto, sono attualmente oggetto di osservazioni e valutazioni e hanno raccolto anche fino al 23 aprile scorso pareri di docenti e dirigenti nell’apposito sito dedicato (www.indire.it).
Ne dà notizia la Cgil-scuola che dedica sul proprio sito (www.flcgil.it) un apposito servizio nel quale pone in particolare evidenza le sue critiche, espresse con votazione contraria anche nella seduta del CNPI.
Nel parere del Consiglio si afferma, tra l’altro, che “Sarebbe opportuno fissare in maniera più esplicita le competenze chiave da raggiungere al termine del primo biennio degli studi liceali in modo da garantire “l’assolvimento dell’obbligo di istruzione”.
Il Cnpi rileva anche che le indicazioni sembrano ancora risentire della separazione tra la cultura umanistica e quella scientifica, per cui permane una certa difficoltà a portare ad unitarietà i singoli insegnamenti disciplinari.
Il Consiglio invita ad evitare vincoli di prescrittività, che mal si conciliano con la responsabilità riconosciuta ai docenti di una progettazione capace di incrociare gli stili di apprendimento degli studenti.
Ritiene , altresì, opportuno potenziare l’insegnamento delle materie ad indirizzo scientifico, prediligendo le competenze da acquisire piuttosto che gli argomenti da trattare, nel rispetto delle peculiarità dei singoli Licei e delle finalità formative che questi sono tenuti a perseguire.
Infine nel parere espresso, il Cnpi auspica l’armonizzazione dei percorsi di studio del primo ciclo con quelli del secondo e ritiene opportuna una maggior evidenza del quadro delle competenze da raggiungere al termine di ciascun biennio e dell’ultimo anno dei percorsi liceali.

Il Belgio primo paese a vietare il burqa

Anche la nuova legge, contrariamente ad una prima bozza che era circolata, non menziona esplicitamente il velo islamico, ma vieta di circolare «in uno spazio pubblico col volto coperto o mascherato, completamente o in parte, con un capo di abbigliamento che non le rende identificabili».
Sono previste eccezioni per il periodo di carnevale, solo se esplicitamente autorizzate da un´ordinanza comunale.
Non è chiaro invece come vengano esclusi dalla norma i motociclisti che indossano un casco integrale.
Nel corso degli interventi prima del voto, quasi tutti i deputati hanno messo in rilievo che la nuova legge vuole essere un passo in difesa della dignità della donna.
Il burqa e il niqab sono «prigioni mobili» ha dichiarato il liberale fiammingo Bart Somers.
«L´immagine del nostro Paese all´estero è sempre meno comprensibile – ha dichiarato il suo compagno di partito francofono Denis Ducarme facendo riferimento all´ennesima crisi tra fiamminghi e valloni – Ma almeno l´unanimità raggiunta su questo provvedimento è un elemento di orgoglio per l´essere belgi.
Siamo il primo Paese europeo a far saltare il chiavistello che aveva messo le donne in stato di schiavitù.
E speriamo che altri, come la Francia, l´Italia o l´Olanda, ci seguano».
Resta però ora da vedere se il senato avrò il tempo di approvare a sua volta la norma dandole validità legale prima dello scioglimento delle camere.
Il governo belga è caduto per l´ennesima volta su una complessa questione linguistica che divide fiamminghi e valloni nella circoscrizione elettorale di Halle-Bruxelles-Vilvoorde.
Le elezioni anticipate sembrano inevitabili.
E probabilmente si voterà a giugno.
in “la Repubblica” del 30 aprile 2010  Nonostante sia in piena crisi di governo e alla vigilia di elezioni anticipate, il Parlamento belga ha approvato ieri all´unanimità una legge che vieta di indossare il velo islamico integrale nei luoghi pubblici e per la strada.
La norma dovrà ora passare all´esame del Senato.
Se la camera alta la approverà, il Belgio sarà il primo Paese d´Europa a varare una legge contro il burqa e il niqab, i due costumi islamici che coprono completamente il volto delle donne.
La norma, che era stata proposta dai liberali sia fiamminghi sia francofoni, era già stata approvata all´unanimità in commissione parlamentare.
Poi la crisi di governo aveva costretto la Camera a rinviare il voto.
Ieri il provvedimento ha avuto il sostegno di tutti i partiti e di tutti i gruppi linguistici, ed è stato approvato con 136 voti favorevoli e due sole astensioni.
La Francia dovrebbe approvare una legge analoga su proposta del governo a maggio.
Si tratta di una decisione il cui valore è quasi puramente simbolico.
L´uso del velo integrale è poco diffuso in Belgio, dove la comunità musulmana è principalmente di origine turca o magrebina.
Inoltre in quasi tutti i comuni sono già in vigore regolamenti di polizia che vietano, per motivi di ordine pubblico, di circolare per strada con il volto coperto.
Nella sola regione di Bruxelles l´anno scorso la polizia ha contestato 29 contravvenzioni al regolamento.

Come cambiano i licei

Troppo enciclopedismo non farà un buon liceo Giorgio Rembado Sussidiario.net mercoledì 24 marzo 2010 La recente diffusione della prima stesura delle Indicazioni nazionali per i licei offre agli “addetti ai lavori” l’opportunità di verificare la rispondenza tra gli ordinamenti rinnovati e gli strumenti operativi per la loro attuazione.
Ma fino a che punto le scelte metodologiche e culturali delle Indicazioni sono coerenti con le finalità innovative del Regolamento per i licei? Se, inoltre, il Regolamento disciplina i percorsi liceali per il raggiungimento del Profilo educativo e culturale dello studente, entro che limiti le Indicazioni si rivelano all’altezza di questo scopo? La sfida sottesa alla ratio del Regolamento di riordino dei Licei è finalizzata a introdurre un vero e proprio ripensamento del rapporto tra i processi di apprendimento e di insegnamento.
In realtà, però, le Indicazioni non recepiscono ancora del tutto questa sfida, poiché in esse si rileva una esplicita insistenza su ciò che lo studente dovrà sapere e saper fare, dunque sulla prescrittività dei contenuti.
Nonostante il fatto che nel dibattito attuale si registri l’urgenza di definire gli standard formativi di riferimento per la valutazione e la certificazione delle competenze (basti pensare al documento relativo all’Obbligo di istruzione, in cui, a partire dalle competenze, vengono declinate le abilità/capacità e le conoscenze), le Indicazioni per i licei affrontano diversamente la questione, in quanto mescolano abilità/capacità, conoscenze e competenze.
Un caso a sé è rappresentato dal testo relativo alle Lingue Comunitarie, che si differenzia in virtù di un “illustre precedente”, in quanto fa esplicito riferimento alla struttura del Quadro Comune Europeo di Riferimento per le Lingue.
Occorre a questo punto ricordare che, secondo il Regolamento, le Indicazioni nazionali dovrebbero raggiungere un duplice scopo: da un lato, declinare i risultati di apprendimento in conoscenze, abilità e competenze in modo coerente con le linee di tendenza in Europa; dall’altro lato, assicurare il riordino dei percorsi liceali con la piena attuazione dell’autonomia.
Ma l’introduzione del Coordinatore della Commissione ministeriale, che ha elaborato le Indicazioni, rimanda a dichiarazioni programmatiche che, pur trovando ormai da tempo un significativo consenso, vengono in parte disattese: l’enciclopedismo tipico dei vecchi Programmi lascia ancora delle tracce evidenti e i quadri di riferimento adottati dalle rilevazioni nazionali e dalle indagini internazionali sugli apprendimenti degli studenti non sono ancora pienamente assunti.
Si privilegiano, infatti, elenchi di contenuti che ci riconducono alla vecchia tradizione dei Programmi ministeriali e che tradiscono non solo il nomen, ma anche l’assunto delle Indicazioni nazionali, che dovrebbero consistere nella determinazione degli obiettivi da lasciare poi alla autonoma programmazione dell’attività delle scuole.
Molto, allora, resta da fare per rendere le Indicazioni nazionali uno strumento vero di attuazione del Regolamento, in modo particolare in merito ai seguenti aspetti: una declinazione delle competenze, delle abilità/capacità e delle conoscenze non a scopo prescrittivo, ma con funzione di indirizzo all’azione delle istituzioni scolastiche, specialmente mirata alla loro valutazione e certificazione; la coerenza dell’impianto concettuale del primo biennio con gli assi culturali dell’Obbligo di istruzione e con le competenze chiave di cittadinanza; la sottolineatura della valenza formativa riconosciuta alla didattica laboratoriale per tutte le discipline; l’insistenza sulla multidisciplinarità dei percorsi formativi finalizzati alla costruzione delle competenze, proprio in quanto strutture complesse.  Si eviterebbe così il rischio di affidare alle scuole medesime il compito di ricavare i descrittori delle competenze dal testo delle Indicazioni così come oggi è strutturato e di riprodurre il fenomeno dell’autoreferenzialità, dell’incertezza e della mancata trasferibilità e riconoscibilità dei crediti formativi anche al di fuori dell’ambito nazionale.
  Ma tutto questo ci auguriamo possa essere affidato ad una revisione del testo che tenga conto del dibattito che sicuramente la bozza attuale provocherà.
La coerenza tra intenti programmatici fondativi del Regolamento e Indicazioni nazionali è, a nostro avviso, la principale garanzia per la riuscita del riordino dei licei e per il loro significativo ammodernamento, dentro al solco della migliore tradizione culturale della nostra scuola.
Meno Stato, più autonomia e più sapere, così cambiano i licei  Giorgio Chiosso l Sussidiario.net giovedì 18 marzo 2010 Sono state rese note le Indicazioni sugli obiettivi specifici di apprendimento per i licei.
Ora si apre la discussione con il mondo della scuola: un confronto ad ampio raggio che coinvolge scuole, associazioni, accademie e enti di ricerca.
Giorgio Chiosso, pedagogista e docente all’Università di Torino, fa parte del gruppo tecnico di lavoro che lunedì ha consegnato le Indicazioni al ministro Gelmini.
 Professore, quali sono i criteri che hanno fatto da guida al vostro lavoro?  Penso di poter dire che il principale criterio che ha orientato la stesura delle Indicazioni è stato quello della coerenza con il principio dell’autonomia delle scuole.
È un aspetto finora poco sottolineato da quanti in questi giorni hanno commentato i documenti provvisori resi noti dal Ministero.
Questa è la scelta e al tempo stesso la novità strategica delle Indicazioni.
Non più i Programmi prescrittivi dall’A alla Z secondo una pedagogia ministeriale che, nel trascorrere delle stagioni politiche, è di volta in volta cambiata, ma la semplice indicazione di ciò che non si può non insegnare e non sapere per essere un cittadino italiano ed europeo consapevole.
 Detta così sembra semplice.
Lo Stato ha fatto «marcia indietro»?  Lo Stato non ha una sua pedagogia.
Spetta alle scuole tradurre in processi di apprendimento e in azioni educative i nuclei essenziali e irrinunciabili fissati dalla Indicazioni.
È su questa base che ogni studente è tenuto ad acquisire le proprie conoscenze e a maturare le competenze personali.
Dico competenze personali perché le competenze non possono essere definite una volta per tutte, ma rappresentano una laboriosa conquista personale rispetto alle conoscenze acquisite.
 Qusto per quanto riguarda l’autonomia.
E poi? Il secondo criterio è quello della essenzialità e della irrinunciabilità delle conoscenze.
Nelle Indicazioni non c’è tutto quello che le scuole debbono fare: se così fosse saremmo nella logica dei Programmi tradizionali.
Le Indicazioni segnalano ciò è irrinunciabile secondo una logica inclusiva e non esclusiva.
Intorno al nucleo essenziale spetta infatti ai collegi dei docenti e ai singoli insegnanti – anche in relazione alle quote di flessibilità previste dagli orari – articolare i percorsi scolastici integrando la parte essenziale con altre conoscenze in modo adeguato e coerente con il Profilo in uscita previsto per ciascun liceo.
 Qual è il valore aggiunto di questo approccio?  Questa impostazione – che anche in questo caso non mi pare sia stata finora colta in tutta la sua densità – assegna agli insegnanti una grande responsabilità culturale ed educativa.
Spetta a loro compiere le scelte più idonee per far crescere gli alunni sul piano culturale, nel senso critico, aiutandoli a diventare persone capaci di capire e non solo di ripetere.
C’è bisogno dunque non solo di docenti «tecnici esperti», ma anche docenti capaci di stimolare le capacità personali e promuovere cultura.
 Come dobbiamo orientarci nei documenti?  Sono fruibili da un vasto pubblico.
Mi pare molto importante segnalare lo stile con cui le Indicazioni sono state elaborate e scritte.
Non più di due pagine per ciascuna disciplina, con l’impiego di un vocabolario alla portata di tutti, senza specialismi e senza i gergalismi tipici di una certa letteratura ministeriale. Mi sento di poter dire che dalle Indicazioni viene una lezione di chiarezza, semplicità, trasparenza.
Ognuno ha ovviamente il diritto di esprimere consenso o dissenso, ma nessuno può lamentare oscurità, ambiguità o indeterminatezza.
 Si è molto discusso in questi giorni se la scansione cronologica prevista dalle Indicazioni non rischi di esagerare sul versante della contemporaneità.
Insomma, è sempre il ’900 a far discutere.
Era prevedibile.
Penso anche ad alcune annotazioni critiche circa le difficoltà a esplorare in modo adeguato la letteratura italiana contemporanea o alcune scottanti e delicate vicende della storia più recente.
Ma non dobbiamo dimenticare che il Novecento è «il secolo scorso» e che la scuola ha il dovere di esaminarlo criticamente, con la problematicità delle questioni aperte e adottando gli stessi strumenti metodologici impiegati per indagare altri momenti della nostra storia.
Anche sul Risorgimento, per fare un solo esempio, c’è un dibattito aperto, ma nessuno si sognerebbe di sostenere che la diversità di interpretazioni è di ostacolo all’insegnamento scolastico.
       Le Indicazioni sottendono una precisa idea di liceo.
Quale?  Per noi il liceo è la scuola che preferenzialmente – ma non esclusivamente – fornisce una cultura di accesso universitario.
Abbiamo interpretato quest’idea in senso ampio, perché da un lato ci siamo ricollegati alla storia della tradizione liceale italiana, centrata sul liceo classico, ma dall’altro l’abbiamo innovata, evitando di restarne prigionieri.
In caso contrario avremmo detto che il liceo classico è la scuola dell’eccellenza, e che gli altri licei vengono di conseguenza.
No: la licealità è una ma declinata in modi diversi.
Basta vedere le Indicazioni: italiano, storia, filosofia e lingua straniera sono uguali per tutti i licei.
 Una delle parole chiave più controverse della riforma è quella delle competenze.
Anche lei vi ha fatto cenno all’inizio.
Qual è la sua opinione?  Penso che questa parola sia ormai abusata.
Preferisco partire dal concetto del sapere.
La scuola ha come scopo di fornire il sapere, che poi si traduce in competenza nella misura in cui è un sapere che ciascuno personalizza.
Non immagino un concetto di competenza oggettivistico, con un’autorità che definisce le competenze per tutti.
Lo Stato ha l’obbligo di definire le cose irrinunciabili perché Tizio sia una persona che ragiona con la sua testa.
La competenza deve essere una conseguenza del sapere, una rielaborazione e una traduzione personale della capacità di apprendere.
Inoltre è una nozione che può presentare dei rischi.
E il primo di questi è senz’altro un eccesso di proceduralismo: che facilita forse il lavoro degli insegnanti, ma che rappresenta certamente una delle tante forme dell’anticultura di oggi.
  I licei ancora al bivio tra passato e finte riforme Claudio GentiliIl Sussiduiario.net La prima stesura delle Indicazioni nazionali per i licei ha ricevuto sui media apprezzamenti estesi e non scontati.
Molti di questi apprezzamenti nascono dalla percezione di una forte inversione di tendenza rispetto alla progressiva affermazione, negli anni ’70, di una pedagogia che si proponeva di non imporre regole e non dare nozioni.
Una pedagogia secondo cui il bambino non deve imparare a memoria le tabelline e le date della storia, non deve studiare la grammatica e l’analisi logica.
Insomma in poche parole le Indicazioni nazionali sembrano rispondere in modo convincente a chi chiede una scuola più seria, più rigorosa, con insegnanti preparati e più autorevoli.
 Personalmente non sono così ottimista.
La prima stesura delle Indicazioni nazionali, se risponde in modo convincente all’esigenza di andare oltre il metodologismo e un certo linguaggio astruso che ha caratterizzato molti documenti ministeriali, sembra fare una scelta manichea.
Privilegia le conoscenze sulle competenze.
Indica chiaramente le conoscenze su cui basare le competenze, ma non individua un indirizzo chiaro (paradigmatico anche se non prescrittivo) intorno alle competenze da raggiungere.
 Su questi aspetti condivido le osservazioni critiche formulate da Giorgio Rembado, da Luisa Ribolzi e da Tiziana Pedrizzi.
Il limite più evidente di queste Indicazioni nazionali è immaginare che si possa tornare ai tempi in cui Berta filava e così superare la dilagante ignoranza dei “nativi digitali”.
Magari.
Ma non penso che sia possibile tornare alla vecchia e cara scuola dove al centro vi erano le discipline rigorosamente insegnate ad una élite di studenti con famiglie acculturate alle spalle.
La sfida sottesa alla ratio del Regolamento di riordino dei licei è un’altra: introdurre un vero e proprio ripensamento del rapporto tra i processi di apprendimento e di insegnamento.
Passare da una didattica basata sulle discipline e sull’insegnamento a una didattica basata sulle competenze realisticamente acquisibili dalla maggioranza degli studenti e sull’apprendimento.
È una rivoluzione copernicana che molti sistemi educativi in Europa hanno affrontato con coraggio e con successo.
Si chiama riforma dell’insegnamento e chiama in causa una profonda trasformazione culturale del ruolo dell’insegnante.
Non ha niente a che vedere con la becera trasformazione del docente in “facilitatore” e in “assistente sociale”.
Non rinuncia al rigore del sapere e alla trasmissione di generazione in generazione del patrimonio della cultura di cui la scuola – e non Internet – è detentrice.
La didattica per competenze è molto diversa da una didattica basata esclusivamente sulle discipline insegnate in forma cattedratica e nozionistica ignorando i risultati di apprendimento.
Non che le discipline vengano meno.
È evidente che le discipline sono la base del “Lego della conoscenza”.
Ma i singoli mattoni del “Lego” (le discipline) concorrono a costruire il “castello dell’apprendimento” (le competenze effettivamente possedute dagli studenti).
Il limite della didattica disciplinarista è proprio l’incapacità di integrazione delle discipline tra di loro e l’individualismo pedagogico.
La prima stesura delle Indicazioni nazionali per i licei sembra puntare in modo squilibrato esclusivamente sulla trasmissione delle conoscenze, esemplificate da materie, testi e programmi e trascurare la più ampia prospettiva educativa che si fa carico della persona e del suo apprendimento, mettendo lo studente in rapporto con le sue potenzialità di evoluzione, richiamando la pluralità delle intelligenze, l’intreccio inevitabile di conoscenze, abilità e qualità personali, i saperi messi al lavoro in campi spesso lontani dall’ambiente scolastico.
D’altro canto è acclarato nelle migliori esperienze internazionali che si apprende meglio integrando le diverse discipline, trattando problemi, collegando i saperi attraverso gli organizzatori concettuali.
Tempo, energia e misura ad esempio si possono apprendere solo integrando sul piano metodologico le diverse discipline scientifiche.
Probabilmente però dietro la soluzione adottata dalla prima stesura delle Indicazioni nazionali per i licei c’è una fuorviante identificazione tra il concetto di competenza e quello di abilità.
Ho cercato di argomentare questa fondamentale differenza in alcuni testi a cui mi permetto di rimandare (“Scuola ed Extrascuola”, Ed.
La Scuola, 2002 e “Umanesimo tecnologico e istruzione tecnica”, Ed.
Armando, 2007).
 La lingua italiana per alcuni aspetti è ambigua e ci soccorre l’inglese: competenza è la sintesi di knowledge (conoscenze), skills (abilità), habits (qualità umane, abiti mentali).
Nelle migliori ricerche internazionali la competenza non è una specie, ma un genere di cui la conoscenza è una fondamentale componente, ma che privilegia l’integrazione delle discipline, sviluppandone il potenziale di apprendimento.
In Italia hanno sviluppato interessanti ricerche in questo campo Guasti, Tagliagambe e Margiotta.
E sul piano operativo la Regione Lombardia con applicazioni davvero innovative nel campo dei percorsi triennali di istruzione e formazione professionale.
Più di recente l’Ufficio scolastico regionale della Puglia ha avviato un interessante programma di formazione degli insegnanti basato sul rapporto che intercorre tra le discipline e le competenze.
Noto due rischi che dovrebbero essere evitati.
Innanzitutto la rinuncia all’innovazione didattica in nome di una conservazione del primato esclusivo delle discipline.
E per questo auspico che nella stesura finale delle Indicazioni nazionali si tenga in maggiore considerazione il raccordo tra le diverse aree disciplinari e le competenze da raggiungere descritte in modo non generico.
Ma vi è anche un altro rischio.
Quello di cambiare tutto perché tutto resti come prima limitandosi a chiamare le discipline “competenze” e riproducendo quindi i limiti del cognitivismo.
 Fa parte di questo rischio il maldestro tentativo di trasformare l’EQF (European Qualification Framework) in una sorta di nuovo curricolo.
Con lo scopo di promuovere in Europa l’apprendimento permanente, l’EQF, approvato dalla Commissione Europea nell’aprile 2008, è una tassonomia che parte dal livello 1 (la licenza elementare) e arriva al livello 8 (il dottora­to).
È un modo per rendere trasparenti e trasferibili diplomi, qualifiche e lauree, sapendo quali competenze corrispondono ai diversi titoli di studio.
Ma l’EQF non è un nuovo curricolo né manda in soffitta le discipline, ma verifica le competenze associandole non solo al profitto scolastico, ma anche alle pratiche professionali.
In campo scolastico il concetto di competenza ha un valore tecnico (di assimilazione di procedure) ma ne ha anche uno eminentemente formativo, legato alle diverse formae mentis (H.
Gardner), agli atteggiamenti cognitivi, alla valenza critica e riflessiva dei saperi.
 La didattica per competenze e l’integrazione delle discipline comportano la fine dell’enciclopedismo, cioè della pretesa di riempire di nozioni la testa degli studenti.
Gli studi di Edgar Morin, soprattutto il suo libro Una testa ben fatta, hanno ampiamente dimostrato l’esigenza che i vari tipi di scuola non si limitino ad accumulare negli studenti un insieme di conoscenze disciplinari separate, poco approfon­dite e per nulla interrelate, ma a fornire loro i sape­ri critici per continuare ad apprendere.
Nessuno ovviamente vuole che, per evitare il rischio della testa piena prepariamo un menu didattico talmente lontano dal rigore del sapere disciplinare da assicurare ai nostri ragazzi una testa vuota.
Le Indicazioni nazionali fanno dunque benissimo a ribadire l’importanza del sapere disciplinare, ma questo sapere disciplinare deve potersi arricchire per diventare competenza misurabile.
La competenza è conoscenza applicabile, trasferibile, operativa.
Si ha competenza nell’applicare e nel rendere produttivi i saperi: sviluppare competenze critiche è anche aiutare i ragazzi a scoprire quello che emerge dall’intersezione dei vari saperi, tra scienza e storia, tra scienza e arte, tra matematica e filosofia.
Il concetto di competenza non è un concetto “mercantile”, ma è il superamento della frantumazione e della separazione /gerarchizzazione dei saperi.
Ci soccorre ancora una volta la migliore ricerca internazionale sulle competenze che ha trovato una efficace applicazione negli indicatori OCSE-PISA (tanto indigesti non solo per i nostri studenti ma per tanti nostri insegnanti).
È auspicabile che la versione definitiva delle Indicazioni nazionali tenga adeguatamente conto di questi indicatori nel descrivere le competenze che uno studente liceale deve possedere ai vari livelli.
Ricordo che il cardine della rilevazione OCSE-PISA, assunto per indicare le competenze in lettura, matematica e scienze, è il concetto di literacy, termine con il quale l’OCSE indica l’insieme delle conoscenze e delle abilità possedute da un individuo e la sua capacità di utilizzarle.
 La literacy scientifica è definita dall’OCSE come: “L’insieme delle conoscenze scientifiche di un individuo e l’uso di tali conoscenze per identificare domande scientifiche, per acquisire nuove conoscenze, per spiegare fenomeni scientifici e per trarre conclusioni basate sui fatti riguardo a temi di carattere scientifico, la comprensione dei tratti distintivi della scienza intesa come forma di sapere e d’indagine propria degli essere umani, la consapevolezza di come scienza e tecnologia plasmino il nostro ambiente materiale, intellettuale e culturale e la volontà di confrontarsi con temi legati alle scienze, nonché con le idee della scienza, da cittadino che riflette”.
Quella matematica viene presentata come “la capacità di un individuo di identificare e di comprendere il ruolo che la matematica gioca nel mondo reale, di operare valutazioni fondate e di utilizzare la matematica e confrontarsi con essa in modi che rispondono alle esigenze della vita di quell’individuo in quanto cittadino che riflette, che s’impegna e che esercita un ruolo costruttivo”.
Infine la literacy in lettura è “la capacità di un individuo di comprendere, di utilizzare e di riflettere su testi scritti al fine di raggiungere i propri obiettivi, di sviluppare le proprie conoscenze e le proprie potenzialità e di svolgere un ruolo attivo nella società”.
La matematica, così come l’italiano, è una disciplina i cui contenuti sono funzionali anche all’apprendimento di altre discipline.
Le difficoltà di lettura, scrittura e analisi quantitativa influiscono di solito negativamente sulle capacità di studio, approfondimento e aggiornamento delle persone e costituiscono il maggiore rischio di insuccesso, scolastico e professionale.
Rilevo l’urgenza di definire gli standard formativi di riferimento per la valutazione e la certificazione delle competenze.
Rientra in questo percorso la necessità di realizzare attorno all’espressione “competenza” uno sforzo di sintesi dei diversi approcci culturali, che abbandoni una volta per tutte il vecchio preconcetto idealista che vuole la scuola legata all’otium e ben lontana dal negotium.
Se Leibniz sosteneva che “la cultura libera dal lavoro”, Spinoza replicava che “ogni uomo dotto che non sappia anche un mestiere diventa un furfante”.
Le Indicazioni “parlano” finalmente una lingua diversa, ora i prof sapranno usarla? Feliciana Cicardi Il Sussidiario .net Sulla scia dei Regolamenti arrivano al grande pubblico e agli addetti ai lavori le “Indicazioni” per i nuovi licei.
La bozza – perché di ciò si tratta – è suddivisa nelle Indicazioni relative alle varie discipline.
Le quali Indicazioni constano di due/tre cartelle relative ad ogni singola disciplina.
Nessuna pletora quindi, ma una presentazione sintetica di un profilo generale e delle relative competenze disciplinari.
Prendendo in esame il testo relativo alla lingua e letteratura italiana si scopre che in un piccolo spazio testuale si possono rinvenire interessanti e necessari punti di attenzione afferenti alle conoscenze/competenze che strutturano la generale competenza linguistica.
Una prima gradita novità è costituita dalle due sezioni in cui è presentata la disciplina: “lingua” e “letteratura”.
Ma sono molti gli elementi di positività incontrabili nel documento.
Innanzitutto si intravede una continuità con le Indicazioni del 2007 relative al 1° ciclo di istruzione, una continuità rinvenibile nella correttezza con cui è disegnata la lingua e nella evidenziazione delle competenze linguistiche.
Infatti, al di là delle modalità testuali di presentazione, si riscontra nelle Indicazioni per il 1° ciclo ed in quelle per i licei una griglia strutturata su conoscenze, abilità e competenze riscontrabili in entrambi i documenti.
Ciò ovviamente non deve far pensare che nei vari segmenti scolastici si debbano proporre gli stessi contenuti e le stesse conoscenze, solo un po’ più approfondite.
Si sa per quanto tempo il segmento della scuola secondaria di 2° grado abbia lanciato i suoi “J’accuse” ai segmenti scolastici precedenti lamentando che il primo compito della scuola secondaria superiore fosse quello di colmare e recuperare le lacune presenti nei saperi degli studenti.
La questione va guardata da un’altra ottica.
Le conoscenze e i saperi non vanno riproposti ciclicamente nei vari segmenti scolastici, cerchi concentrici che allargano il loro raggio nello svolgersi del tempo scolastico: esiste una progressione nell’analisi degli “oggetti” disciplinari ed un incremento di processi e strategie cognitive perché si produca negli studenti un apprendimento significativo, cioè fatto proprio e rigiocato in situazioni varie.
Va da sé che le competenze, che per definizione sono in fieri, vanno potenziate ed irrobustite via via che si sale nell’età scolare (un piccolo suggerimento.
Sarebbe utile esplicitare nel documento le competenze essenziali che costituiscono la competenza linguistica generale: competenza testuale, competenza pragmatica, ecc.).
La continuità tra il 1° ciclo e i licei è data anche dagli elementi con cui è presentato e proposto l’oggetto “lingua”.
La lingua è descritta a tutto tondo nei suoi elementi costitutivi.
Non solo le sue strutture e le sue regole sono oggetto di analisi e conoscenza (la tanto vituperata grammatica) ma i meccanismi che governano la lingua proposti come oggetto di conoscenza ma anche come competenza d’uso della lingua stessa.
Si intravedono in filigrana elementi offerti dalla sociolinguistica, dalla pragmatica, dalla storia della lingua e dalla testualità.
Si fa ricorso a quelle che fino a non molto tempo fa venivano definite le abilità linguistiche sul versante della fruizione e della produzione: ascoltare, leggere, parlare, scrivere).
Sia nel parlato che nello scritto si sottolinea che lo studente “nella produzione personale dovrà saper variare l’uso della lingua a seconda dei diversi contesti e scopi comunicativi, compiendo anche le adeguate scelte retoriche pragmatiche e ampliando contestualmente il proprio lessico” (Indicazioni).
In una società in cui la lingua in generale, ma ancor più nei giovani, è stereotipata, usata in contesti comunicativi monotipo che non sono primariamente quelli scolastici – anzi ben distanti dall’articolazione testuale usata nella scuola – è importante il suggerimento che la scuola presenti situazioni e prodotti linguistici che superino lo “scolastichese”, attraverso l’analisi dei vari fenomeni linguistici ma, anche e soprattutto, attraverso l’uso reale della lingua in contesti diversificati, pena una nuova “grammatica” pesante fatta di “nozioni” sui fenomeni linguistici.
Lo studente deve presentarsi come produttore consapevole di lingua quale strumento per comunicare, per relazionarsi, per conoscere gli altri e per conoscere sé.
Non a caso tra gli obiettivi specifici di apprendimento del primo biennio si trova l’indicazione secondo cui “nell’ambito della produzione orale si darà rilievo al rispetto dei turni verbali, all’ordine dei turni e alla concisione ed efficacia espressiva” (Indicazioni).
Viene auspicato anche lo sviluppo della competenza testuale attiva e passiva attraverso la proposta di esercitazioni che esplicitino tale competenza: “riassumere, titolare, parafrasare, variare i registri e i punti di vista”.
Tenendo presente che negli ultimi decenni il “testo” nel 1° ciclo è stato proposto come oggetto linguistico di analisi quasi autoptica, soffocando con l’eccesso di analiticità il piacere di incontrare un testo e in misura ahinoi molto minore la capacità di fare propri e quindi usarli i meccanismi linguistici per comprendere e produrre testi comunicativamente efficaci e ben confezionati.
La storia insegna.
Non si deve ripetere l’errore di proporre sotto nuove vesti un nozionismo linguistico, anziché sviluppare negli studenti il piacere di usare la lingua come strumento principe per conoscere il mondo e porsi nel mondo.
In nome dell’autonomia viene lasciata alle singole scuole e ai singoli docenti la scelta di una didattica adeguata ed efficace perché i ragazzi raggiungano obiettivi e competenze proposte dalle Indicazioni.
Il Prof.
Giorgio Chiosso su queste pagine richiama che il rispetto dell’autonomia «assegna agli insegnanti una grande responsabilità culturale ed educativa.
Spetta a loro compiere le scelte più idonee per far crescere gli alunni sul piano culturale, nel senso critico, aiutandoli a diventare persone capaci di capire e non solo di ripetere.
C’è bisogno dunque non solo di docenti “tecnici esperti”, ma anche docenti capaci di stimolare le capacità personali e promuovere cultura».
Ciò comporta che i docenti individuino metodologie e prassi didattiche adeguate allo scopo formativo e culturale della scuola e della singola disciplina.
In fondo si richiede una revisione della professionalità dei docenti.
Chi insegna agli insegnanti a promuovere apprendimento? All’uscita dei Nuovi Programmi per la scuola elementare del 1985 fu attivato dal ministero un Piano Pluriennale di aggiornamento per i Nuovi Programmi.
Durò cinque anni, tanti quante erano le aree disciplinari di cui erano composti i programmi, ed ogni insegnante ebbe modo di rivisitare teoria e pratica delle singole discipline.
I tempi sono mutati, nel frattempo è stato introdotto il criterio dell’autonomia, oggi si parla di “indicazioni”.
Ma il bisogno di rivedere le conoscenze e le azioni didattiche relative ad una disciplina resta.
Il primo elemento, le conoscenze disciplinari derivanti dalle nuove teorie e ricerche, dovrebbe essere appannaggio delle università.
La metodologia e la didattica disciplinare può essere messa in discussione, rivista ed attualizzata nell’efficacia in luoghi che consentano un confronto.
Il primo di questi luoghi può essere il dipartimento disciplinare presente nei singoli istituti scolastici che magari si strutturano in rete.
Altre sedi possono essere le associazioni disciplinari ed altro ancora.
Si tratta di far uscire dalla autoreferenzialità strutture culturali ed associative perché si pongano come obiettivo una rivisitata competenza metodologica e didattica dei docenti, di primo pelo o di lungo corso.
Sono solo alcune idee.
Chi ha stilato le Indicazioni dovrebbe anche pensare di creare le condizioni perché queste non rimangano lettera morta sulla carta, ma reale occasione per rendere la scuola luogo di cultura e di crescita di sé per i ragazzi e, perché no, luogo in cui il docente possa trovare soddisfazione nell’efficacia culturale e formativa del suo agire professionale.
  Per insegnare con libertà e autonomia ci vogliono ancora Dante e Manzoni Luca Serianni il sussidiario.net martedì 6 aprile 2010 Per comprendere la bozza di Indicazioni destinate ai licei, conviene spendere qualche parola sui criteri che hanno guidato la loro stesura.
Un programma efficace deve prima di tutto essere scritto in forma chiara; porsi degli obiettivi concreti e ragionevoli (anche esemplificando, quando sembri opportuno farlo); sottolineare quali sono i capisaldi irrinunciabili, pur nell’ovvia e doverosa riaffermazione della libertà di ciascun insegnante e dei margini d’autonomia delle singole scuole.
 Il programma di italiano è lo stesso per tutti i tipi di liceo, nella convinzione che l’acquisizione piena e consapevole della lingua nazionale e il contatto non episodico con i grandi autori letterari siano obiettivi comuni.
In particolare: a) Si dà fondamentale rilievo all’addestramento linguistico, che non può ammettere né smagliature a livello elementare (ortografia) né approssimazioni per quanto riguarda la padronanza del lessico astratto e la capacità di strutturare l’argomentazione con una sintassi adeguata.
Allo scopo si menziona esplicitamente nel profilo generale la pratica del riassunto, comunemente disattesa ma decisiva per misurare il grado di comprensione di un testo dato, la capacità di individuarne le informazioni salienti, l’abilità di riscrittura.
È importante altresì far conseguire allo studente la coscienza della storicità della lingua italiana e la consapevolezza del suo attuale statuto sociolinguistico.
b) Nella letteratura, si punta sulla lettura diretta dei testi rispetto allo svolgimento astratto del percorso storiografico.
Nel biennio l’esigenza fondamentale è quella di suscitare nell’alunno il piacere della lettura attraverso un efficace ventaglio di testi moderni e contemporanei, italiani e stranieri, ma anche proponendo il contatto con un grande classico (epica e Promessi Sposi).
Nel triennio, si conferma essenziale il percorso storico, ma con la rinuncia a un enciclopedismo che si rivelerebbe velleitario: sia se si volessero passare in rassegna tutti gli autori e le correnti di un certo significato culturale e storico; sia se, dei massimi, si pretendesse di trattare non solo i capolavori, ma anche le opere secondarie (raccomandabili, dunque, per Boccaccio solo il Decameron; per Ariosto solo l’Orlando Furioso; in compenso quei testi capitali andranno letti senza fretta, con attenzione anche alle scelte linguistiche e stilistiche e senza rinunciare alla salutare pratica della parafrasi, che rappresenta il primo, necessario, livello di una qualsiasi explication du texte).
 Da questi presupposti appare naturale confermare l’importanza di Dante, anche dal punto di vista identitario: i 25 canti previsti come lettura minima nel corso del triennio rappresentano per lo studente un impegno che non può essere sottovalutato e, per il docente, una scommessa sulla grandezza artistica dell’Alighieri e sulla sua attualità anche per le giovani generazioni.
 Sarà inutile ribadire che, per il molto che non viene esplicitato, l’insegnante potrà e dovrà operare sue personali scelte, tenendo conto sia del tipo di scuola (l’Alberti, per esempio, avrà particolare spazio, anche come scrittore, nel Liceo artistico), sia della classe, sia della sua personale idea di letteratura e delle sue propensioni di studioso o di lettore.
Quanto al latino, il programma è fortemente differenziato nei tre licei che ne prevedono lo studio.
In ogni caso si introduce il principio che la versione, nel suo assetto tipico, cioè come un brano estratto da un contesto imprecisato e munito solo del nome dell’autore, non rappresenta l’unico modello di esercitazione scritta.
Nei licei classico e scientifico, e soprattutto nel secondo, sarà utile prevedere prove variamente agevolate (per esempio con una breve introduzione che le contestualizzi o con note che esplicitino riferimenti o anche suggeriscano la costruzione di passi impervi): ciò anche allo scopo di allargare il canone degli autori proposti, senza escludere testi poetici.
In ogni caso è importante non ridurre l’insegnamento linguistico al tradizionale apparato morfosintattico, ma far riflettere l’alunno sui rapporti lessicali e semantici che collegano il latino al greco (per il liceo classico) o all’italiano e alle altre lingue europee moderne note, a cominciare dall’inglese.
Lo studio degli autori letterari dovrà prevedere letture in traduzione, senza ridursi ai pochi brani canonici.
Nel liceo linguistico lo studio del latino, limitato al primo biennio, sarà incentrato sulla lingua, con l’intento di favorire una sensibilità contrastiva sulle sue strutture rispetto a quelle dell’italiano e delle altre lingue moderne (per esempio: presenza/assenza del genere neutro, espressione del passivo), con particolare insistenza su lessico, semantica e formazione delle parole (puer-puerilis, hodie-hodiernus).
 In ogni caso, un punto deve emergere chiaramente: il latino si studia per il suo significato storico e culturale, tuttora decisivo nel nostro orizzonte umanistico; non per arrivare alla composizione in quella lingua, come avveniva ancora in diversi àmbiti intellettuali nell’Ottocento.
Se è preziosa l’occasione di una riflessione metalinguistica offerta dal latino – astrattamente possibile ma poco opportuna per una lingua moderna, che si studia per praticarla in contesti comunicativi reali – ciò non significa continuare a perseguire l’assurda caccia alle “eccezioni” (alcuni testi per le scuole ci informano ancora di quale sia l’accusativo di buris “manico dell’aratro”).
È fondamentale liberare lo studio del latino dalla polvere ingiustamente accumulatasi su di esso e dall’impressione che gli sforzi compiuti dall’alunno non siano proporzionali ai risultati raggiunti.