“Oltre lo Schermo”

Una settimana senza televisione e senza videogiochi.
Agli alunni di una scuola di Trevi, in Umbria, questa bizzarra iniziativa proposta dalle insegnanti dell’Istituto, sarà sembrata una scommessa impossibile da vincere.
Eppure ce l’hanno fatta, o almeno ce l’ha fatta la maggior parte.
Il progetto “Oltre lo Schermo” è nato per iniziativa di Giovanna Grieco, una giornalista umbra.
Ma soprattutto una mamma.
Una mamma attenta e consapevole del potere ipnotico della tv, che lascia al proprio figlio solo uno spicchio della giornata per seguire sullo schermo avventure e storie dei cartoni animati preferiti.
Una scelta a favore di giochi, letture di fiabe, attività quasi del tutto trascurate a favore di ore e ore davanti alla scatola magica.
“In cambio del loro ‘sacrificio’  –  racconta Giovanna Grieco  –  “abbiamo proposto ai bambini giochi ed attività da fare tutti insieme a scuola, letture in biblioteca, ma anche pomeriggi liberi per stare serenamente in famiglia con genitori e fratelli.
Ponendo l’attenzione sullo stare insieme senza il rumore in sottofondo, continuo, che proviene dalla tv”.
Già, perché nella maggior parte delle case degli italiani, la televisione è accesa anche durante i pasti; e in più, è collocata quasi in tutte le stanze.
Una presenza forse ingombrante, di cui si pensa però di non poter fare  a meno.
A svantaggio dei più piccoli, che non sanno difendersi dai tanti, troppi stimoli a cui si viene sottoposti con la riproduzione meccanica di immagini e suoni a una velocità vuota di contenuti.
Il progetto è stato accolto quindi con vivo interesse dall’Istituto Comprensivo T.
Valenti di Trevi (una scuola elementare e media), dalla dirigente scolastica Giovanna Carnevali, dall’assessore alla Pubblica Istruzione del Comune di Trevi, Stefania Moccoli e dal corpo docente, che ne condividevano le intenzioni e i valori alla base.
In totale si sono sottoposti alla “prova” 41 bambini e ragazzi tra gli otto e gli 11 anni di due le classi (la terza elementare e la prima media): sette giorni senza guardare la televisione e senza giocare a nessun videogioco, niente Playstation, niente Wii e quant’altro.
In 28 ce l’hanno fatta.
Hanno scoperto con sorpresa, che vivere senza  –  almeno limitare – le suggestioni deformanti provenienti dallo schermo, non solo è possibile ma anche piacevole.
“Volevamo insegnare loro a recuperare i rapporti con i coetanei, con i genitori e con gli insegnanti”, spiega l’ideatrice di “Oltre lo Schermo”.
Un’idea che sembrerebbe d’eco steineriana (la scuola chiamata “Libera Scuola Waldorf”, fondata appunto da Rudolf Steiner nel 1919), dove ai bambini l’uso della televisione è proibito almeno fino ai sette anni di età.
La maestra.
“Hanno tenuto anche un diario, che aggiornavano quotidianamente, di quest’esperienza” , ha detto lMaria Cristina Garofani, che insegna italiano e storia nella classe di terza elementare.
“I bambini nella loro spontaneità hanno confessato anche difficoltà e cedimenti nell’impegno a privarsi della tv, ma alla fine erano soddisfatti.
Non solo del risultato ottenuto, ma anche della scoperta di quanto fossero divertenti i ‘diversivi’ proposti da noi adulti: giochi, letture, la compagnia degli amichetti”.
Abitudini insomma, troppo spesso trascurate.
Quando le viene chiesto se l’esperimento sarà ripetuto, la maestra risponde che “Oltre lo Schermo” è stato “un progetto-pilota, ma vista la risposta ottenuta e i riscontri positivi dei protagonisti di questa storia, abbiamo in cantiere di riproporlo ancora ed estenderlo a tutta la scuola”.
“La sfida vera – aggiunge – semmai, sono i genitori degli alunni.
Più restii ad accettare l’invito a tenere spenti gli schermi di casa e ad assumersi questo impegno”.
La voce dei bambini.
“Noi invece di vedere la tv – dicono all’unisono le gemelle Beatrice e Arianna Grisanti, otto anni – abbiamo cucinato con la mamma e ogni volta che papà provava ad accendere la tv andavamo a spegnerla.
Ci siamo divertite molto!”.
E ancora, Andrea Nocchi, anche lui otto anni: “Mi  sono divertito a disegnare, invece di guardare la tv, e ho passato un bel pomeriggio con i miei amici in biblioteca e a scuola giocando con le mamme fino a quando è diventato buio: non ne ho sentito la  mancanza”.
Più difficoltà hanno incontrato i ragazzi più grandi della scuola superiore di primo grado: Riccardo  Ricciola, 11 anni, ha confessato: “Ci sono riuscito poco perché il secondo giorno avevo un po’ di tempo libero e non sapendo cosa fare ho giocato con il Nintendo: ma per poco tempo…”.

Le domande che i ragazzi rivolgono a Gesù

Oggi la teologia e la predicazione della Chiesa sono concentrate sul Gesù storico, sulla sua esistenza, la sua predicazione, il suo messaggio, la sua morte e la sua risurrezione.
I corsi biblici organizzati dalle parrocchie non si contano più.
Ma queste domande mostrano chiaramente che l’interesse degli uomini d’oggi non è per una storia lontana, destinata ogni anno a divenire sempre più lontana, ma per il senso di questa vita qui e ora.
Gesù non interessa come singolo personaggio storico a cui accadono delle cose speciali (emblematico che nessuno tra i giovani gli avrebbe chiesto lumi sul suo concepimento verginale, sulla veridicità dei suoi miracoli, sui responsabili della sua morte, sulla realtà della sua risurrezione) ma interessa come il maestro a cui chiedere spiegazioni su questa vita e sui suoi conti che faticano a tornare.
Una risposta di un ragazzo di quindici anni metteva addirittura in crisi il sacrificio espiatorio di Gesù, o meglio la teologia tradizionale che interpreta Gesù quale «vittima immolata per la nostra redenzione» (come viene definito da alcune parole del canone della Messa).
Che cosa appare allora da queste domande dei giovani? Appare quello che già Hegel vedeva come il limite della coscienza cristiana tradizionale, cioè l’essere una «coscienza infelice».
Da questi giovani emerge chiaramente un disorientamento sulla loro identità di uomini, segno dell’inefficacia delle risposte tradizionali della fede ascoltate nelle lezioni di catechismo.
A differenza di quanto avveniva al tempo di sant’Agostino e di san Tommaso d’Aquino, dalla fede cristiana di oggi non emerge più una veritiera e affidabile visione del mondo.
Da qui il senso diffuso di infelicità, da qui il disagio rispetto al proprio essere al mondo.
I credenti adulti suppliscono questa incertezza teoretica con il ricorso al principio di autorità (è così perché è stato sempre insegnato che è così), ma con i giovani questo principio (se purtroppo o se per fortuna, non lo so) non funziona.
C’è un detto medievale che dice: «Vengo non so da dove; sono non so chi; muoio non so quando; vado non so dove; mi stupisco di essere lieto».
Il filosofo Karl Jaspers, che lo cita all’inizio del libro La fede filosofica di fronte alla rivelazione, dice che per questa unione di ignoranza e di gioia tale detto non può essere cristiano.
E poi aggiunge un affondo terribile, affermando che, al contrario, la coscienza cristiana ha sì le risposte a tutte le questioni perché sa da dove viene, perché sa chi è, perché sa che morirà quando lo deciderà Dio (non prima e non dopo), perché sa dove andrà, ma, sapendo tutto ciò, non è per nulla lieta, per nulla serena, ma è immersa nella macerazione e in una continua tensione con il mondo con cui non riesce a riconciliarsi.
A mio avviso ha ragione: la coscienza cristiana troppo spesso appare come una coscienza infelice, a tratti risulta persino aggressiva, soprattutto in coloro che coltivano sopra ogni cosa l’adesione alla dottrina stabilita dalle gerarchie ecclesiastiche e che coniugano il verbo “credere” sempre accanto a “obbedire e combattere”.
Da dove nascono invece quell’essere lieti in profondità, quella gioia inestirpabile verso la vita, quella quiete dello spirito e della mente, che sono il contrassegno di una autentica esperienza spirituale e che sole possono dare risposte convincenti alle inquietudini dei giovani? Nascono dal sapere di essere a casa in questo mondo di Dio, dal senso di intima comunione con l’essere e con la natura che portò Francesco d’Assisi a scrivere il “Cantico delle creature”, e dalla certezza che l’incarnazione di Dio non riguarda solo un giorno lontano di tanti anni fa ma è la dinamica che si avvera ogni giorno, in tutti gli uomini che amano il bene e la giustizia.
Gesù è l’uomo che cessa di fare di se stesso il centro del mondo e si pone al servizio di una realtà più importante di sé.
Anche la Chiesa deve cessare di fare di se stessa il centro del mondo e si deve porre al servizio di qualcosa di più grande di sé, del bene comune e di ogni singolo individuo di questa nostra società, credente o non credente, bianco o nero, etero o omosessuale.
in “la Repubblica” del 12 gennaio 2010 Il Sermig di Torino, movimento cattolico fondato da Ernesto Olivero, ha sottoposto un esteso questionario a migliaia di giovani sulla figura di Gesù.
Alla domanda numero 7, che chiedeva «Cosa diresti a Gesù se potessi parlare con lui oggi?», le principali risposte dei giovani furono le seguenti: Perché si deve morire? Che senso ha la mia vita? Perché esiste il male? Perché muoiono tanti giovani? Cosa mi aspetta dopo la morte? Perché mi hai creato? Queste domande dei giovani a Gesù (ipotetiche quanto alla possibilità di raggiungere il destinatario, ma assolutamente reali quanto a valore esistenziale) mostrano un intenso bisogno di significato, si potrebbe dire di filosofia.
Più che a Gesù quale singolo personaggio storico, le interpellanze dei giovani si rivolgono al Cristo, al Figlio di Dio in quanto Dio, a Dio, all’Assoluto.
Sono tre infatti le questioni capitali: 1) chi sono io e perché sono qui; 2) perché questo mondo è colmo di ingiustizia; 3) che cosa ne sarà di me dopo la morte.

Natale, venduti più e-book che libri

E’ stato un Natale con il botto per Kindle, e al quartier generale di Amazon possono certamente stappare lo champagne.
Il lettore di e-book è stato infatti l’oggetto più regalato nella storia dell’azienda di e-commerce.
Ma – dato forse ancora più interessante – il 25 dicembre sulla piattaforma creata da Jeff Bezos sono stati comprati più libri di bit che di carta.
Un sorpasso forse motivato dall’urgenza di ricevere immediatamente il titolo in questione, ma che nel contempo è la spia di un mercato in crescita: quello, appunto, dell’editoria digitale.
LE VENDITE – In generale sembra che le vendite in occasione delle feste siano andate particolarmente bene per Amazon, anche se l’azienda non ha fornito dati chiari e precisi: il giorno di picco è stato il 14 dicembre, quando i clienti hanno comprato 9,5 milioni di prodotti in 178 paesi, per una media di 110 al secondo.
Non si tratta ovviamente solo di libri, ma anche dvd, gadget tecnologici, e oggetti di vario genere, perfino dolci.
Sul fronte elettronico, dopo il Kindle, i prodotti più acquistati tra il 15 novembre e il 19 dicembre sono stati l’iPod Touch da 8GB della Apple e il Gps Garmin Nuvi 260W.
Nella categoria videogiochi troneggia invece la Wii Fit Plus con Balance Board, seguita da New Super Mario Bros e Call of Duty: Modern Warfare 2.
Molti i computer impacchettati: anche qui, i dirigenti Amazon, più che dare numeri, preferiscono affidarsi a immagini poetiche: e dunque i pc venduti sono tanti che in pila uno sull’altro sarebbero alti quanto due volte l’Everest.
DIETRO I PACCHETTI – Sul fronte della velocità nelle consegne va segnalato il caso di un cliente di Seattle che ha ordinato un Kindle alle 13 e 43 della vigilia di Natale e ha ricevuto il pacchetto alle 16 e 57 dello stesso giorno.
In tempo insomma per metterlo sotto l’albero.
Ma a questo proposito vale la pena ricordare che dietro il sistema di e-commerce di Amazon non ci sono solo byte e fibre ottiche, bensì anche muscoli e sudore umano.
Come quelli delle centinaia di persone reclutate in occasione delle festività presso Coffeyville, in Kansas, dove si trova il più grande centro di smistamento dell’azienda americana.
Quest’anno Jeff Bezos ha deciso di assoldare il popolo dei camper, di chi vive su 4 ruote, offrendo parcheggio gratuito a poche miglia dallo stabilimento e un lavoro di magazziniere e impacchettatore per circa 10 dollari all’ora.
Turni di 8-10 ore continuamente in piedi, camminate da 15 miglia al giorno, sollevamento pesi e un deciso effetto palestra assicurato a fine giornata.
Carola Frediani Corriere della sera 28 dicembre 2009

Costruire un gruppo di lavoro di Insegnanti di Religione Cattolica

(1) G.
P.
QUAGLINO, S.
CASAGRANDE, A.
CASTELLANO, Gruppi di lavoro.
Lavori di gruppo, Raffaello Cortina Editore, Milano 1992.
(2) G.
CURSIO, No stress.
Strumenti per la prevenzione del burnout degli Idr, SEI, Torino 2007.
(3) KLAUS W.
VOPEL, Manuale per animatori di gruppo , LDC, Leumann ( Torino) 1998.
(4) KLAUS W.
VOPEL, Op.
Cit., p.
162.
2.
I comportamenti di disturbo nei lavori di gruppo: risorsa e resistenza al cambiamento.
Docenti di religione cattolica di varie regioni italiane si incontrano per la prima volta, talvolta senza conoscersi, con bisogni di ordine socio-relazionale e bisogni di compito che spesso per tanti motivi di ordine organizzativo (tempi stretti, relazioni ecc.) non vengono presi in considerazione.
Talvolta gli strumenti di conoscenza di queste preziose informazioni sono poco conosciuti o svalutati in quanto nell’organizzazione dei corsi di formazione si è spesso preoccupati di far apprendere i contributi degli esperti, tenendo conto però solo dell’aspetto contenutistico.
C’è una preoccupazione di formare il docente dal punto di vista dei contenuti che deve insegnare, dimensione rilevante ma non sufficiente per attivare processi di apprendimento.
La programmazione dei tempi formativi è prevalentemente centrata sulle relazioni di contenuto degli esperti e meno sulle importanti dinamiche relazionali che potrebbero mettere i colleghi nella condizione di condividere bisogni socio-relazionali e bisogni di compito (progetti, ipotesi di lavoro ecc).
Che cosa ho potuto notare nella mia esperienza di facilitatore di gruppi di lavoro? Quando vengono poco ascoltati i bisogni socio-relazionali e vengono sopravvalutati i bisogni di compito (programmare, progettare, ipotizzare ecc.) nei gruppi si evidenziano i seguenti fatti:  i partecipanti rispondono in maniera apatica impegnandosi al minimo, presentando ai colleghi l’eventuale relazione in maniera formale, con la preoccupazione di eseguire un compito non pensato, condiviso, lavorato insieme;  il gruppo si divide in partecipanti che si aspettano qualcosa e da gregari che si sentono frustrati dalla situazione di gruppo;  si creano lotte di potere tra partecipanti particolarmente ambiziosi;  vengono prese decisioni senza la convinzione di tutti;  i conflitti non agiti vengono proiettati sul compito da realizzare;  i partecipanti non si sentono sufficientemente informati e tendono ad ottenere informazioni solo attraverso il pettegolezzo.
Questi segnali sono il risultato di uno squilibrio tra i bisogni di compito ed i bisogni psicosociali come fa rilevare l’autore Klaus W.
Vopel.
Secondo l’esperienza e gli studi dell’autore su citato (3) i partecipanti ad un lavoro di gruppo in particolare nella prima fase mettono in atto in forma inconsapevole i seguenti comportamenti:  evitare lo svolgimento del compito di gruppo  non far mettere in questione l’abituale concetto di sé  respingono le richieste sociali  proteggono la propria individualità  evitano nuovi punti di vista o sentimenti spiacevoli  manipolano altre persone portandole indirettamente a soddisfare desideri che non vengono espressi chiaramente.
Caro collega, ascoltare e accogliere sono i due atteggiamenti che a mio parere è importante avere nel primo periodo del lavoro di gruppo.
Non avere fretta di fare notare subito le resistenze che si mettono in atto per evitare il compito di gruppo.
E’ chiaro che questo risulta assai difficile se il gruppo in pochissimo tempo deve presentare dei lavori all’assemblea durante un convegno.
In questo caso ci sono i colleghi di buona volontà che fanno il lavoro di tutti ma non è un lavoro con tutti.
2.1 I segnali di disturbo dei singoli partecipanti quando iniziano a lavorare orientati verso un obiettivo.
Tacere.
I primi minuti sono quelli più complessi da gestire perchè come facilitatori non sappiamo come interpretare il silenzio.
Si tratta di una esperienza abbastanza frustrante che può essere percepita come una critica indiretta all’operato dello stesso facilitatore.
In brevi attimi possono venire proiettati e attivati tanti ricordi ed esperienze passate riattivate dalla figura stessa del facilitatore oppure di qualche partecipante.
Il silenzio dei singoli partecipanti può essere problematico e bloccante per tutte quelle persone che hanno una esperienza di partecipazione attiva nei lavori di gruppo.
Quando è l’intero gruppo che fa silenzio è probabile – e questo è successo in molte mie attività di lavoro – che gli obiettivi del lavoro da svolgere non sono chiari, e non sono chiare le motivazioni.
Talvolta capita che il lavoro che si fa in gruppo non risponde alle domande/aspettative dei partecipanti.
Mi è capitato di lavorare con colleghi che erano stati “mandati” dai propri responsabili dell’ufficio scuola ritrovandosi completamente fuori luogo, disorientati.
Queste persone nel lavoro di gruppo per timore di sbagliare tendono a rimanere per tutto il tempo in silenzio, oppure se sono abituati a parlare tanto, parlano di tutto senza orientarsi con le riflessioni verso la soluzione del problema ed il raggiungimento degli obiettivi del gruppo.
Adesso tocca a te Il silenzio può dunque esprimere aspetti molto diversi della situazione del gruppo e quindi non c’è un “prontuario” che ci dice come gestirlo.
Il facilitatore rispetto a questi eventi, per poter comprendere, dovrà rintracciare le sue domande interne, ripensare ad una esperienza vissuta …  Come facilitatore ero preoccupato del silenzio? Qual è stata la mia risposta emotiva?  Il gruppo era preoccupato di questo silenzio?  Se ci siamo accorti che il partecipante pensava ad altro che cosa abbiamo fatto?  Qual è stato il messaggio specifico del silenzio?  Quali segnali non verbali nel gruppo commentano il silenzio? Il lavoro che ti invito a fare è importante perché ti consente di prendere contatto con la tua esperienza interna e migliorare il nostro servizio al gruppo nel ruolo di facilitatore.
Dalla mia esperienza questo lavoro di autovalutazione va fatto subito dopo aver lavorato con il gruppo.
Può darsi che in questo momento tu ricordi poco di una esperienza di conduzione del passato.
Il poco che ricordi prova comunque a scriverlo… Parlare troppo “… i partecipanti a gruppi di lavoro e di apprendimento che prendono troppo spesso la parola, spesso non si accorgono che monopolizzano la discussione.
Spesso credono di sapere più degli altri e sopravvalutano le loro capacità.
Altri possono parlare troppo per difendersi e nascondere il loro senso di inferiorità.
Altri vogliono consolidare la loro influenza sul gruppo brillando intellettualmente…” (4) Adesso tocca a te  Come ti sentivi di fronte ad un collega che durante un lavoro di gruppo tendeva a parlare troppo?  Ritieni per la tua esperienza che “cambiare discorso” rispetto all’obiettivo del gruppo sia un fattore di disturbo? Generalizzare Ci possono essere partecipanti nel gruppo di lavoro che tendono a “generalizzare” invece di raccontare il qui e adesso, parlano in modo impersonale usando spesso il “noi”, si riferiscono a principi teorici generali, mentre parlano ci si rende conto che in realtà non sono in contatto con nessun partecipante… parlano a tutti e non comunicano con nessuno.
Preferiscono cioè parlare al gruppo intero anziché rivolgersi ad un singolo partecipante.
Domandare in continuazione  Le domande fatte di continuo possono significare… Adesso tocca a te  Come facilitatore quando ti sei trovato di fronte ad un collega che faceva domande di continuo, cosa hai provato? Come hai gestito la situazione? Frequente interpretare Siamo abituati a interpretare il nostro comportamento e quello degli altri, tendiamo a riflettere più che sentire, cerchiamo cause dei nostri comportamenti, talvolta con il troppo pensare aggrediamo il nostro mondo interno che ha bisogno di essere accolto, ascoltato.
Questo richiede attenzione e capacità di fermarsi.
Con il pensiero e un buon libro che abbiamo letto possiamo fare molte analisi, rischiamo in questo modo però di diventare saggi molto noiosi che hanno le risposte per tutti.
Facilitatori senza contratto Coloro che agiscono come se fossero il “secondo io” del facilitatore.
Questi partecipanti al gruppo di lavoro ripetono quello che il facilitatore dice e fa, sono una cassa di risonanza, tendono a dare ordini, delle volte si possono presentare come servitori diligenti che preparano la sala per l’incontro, vanno in giro a chiamare i ritardatari, escono perché hanno una telefonata urgente, vanno a recuperare carta e matita per il lavoro… tutto questo senza che nessuno del gruppo o il facilitatore stesso glielo abbia chiesto.
“Gli incendiari” Sono persone che possono essere dominate da un pensiero magico: per crescere bisogna svelare sempre il conflitto, pretendono che tutti i partecipanti del gruppo svelino subito i loro interessi e limiti, sono persone che spingono all’apertura e pensano che dopo una “urlata” di gruppo le cose andranno meglio.
Il contatto sereno talvolta può essere percepito come maschera, per queste persone la verità sta nel fare conflitto.
Adesso tocca a te…  Come facilitatore di gruppo come vivi dentro un conflitto?  Quali sono i motivi che di solito generano conflitti?  Che cosa pensi dei conflitti? Bisogna evitarli? Clowns di gruppo Disturbano con scherzi fuori posto e di solito il messaggio che mandano è: “non sono convinto del mio valore, quando scherzo gli altri mi prestano attenzione”.
Mancare e tardare I motivi di questo comportamento possono essere molteplici, il facilitatore deve essere attento a formulare determinate ipotesi che poi dovrà verificare con la persona che fa ritardo o non partecipa al lavoro di gruppo.
Queste persone possono esprimere la loro opposizione all’attività di gruppo o nei confronti del facilitatore oppure può essere che l’attività stessa procura paura.
Colloqui “fuori la porta” E’ tipico di quelle persone che mentre un componente del gruppo parla o parla il facilitatore bisbigliano tra di loro, capita di solito che avviene tra due persone ma può avvenire anche con un numero maggiore.
Sono quelle persone che dicono il loro parere sul lavoro fatto o da fare dopo che l’incontro è finito, al momento dei saluti.
Sono i parlatori del retroscena che decidono come comportarsi per il prossimo incontro mentre escono, oppure al bar, oppure aspettando l’autobus oppure in macchina… Per concludere Il clima comunicativo del gruppo comprende anche i momenti di noia e di disturbo, sono tutti stimoli che se adeguatamente rilevati possono consentire al gruppo di evolvere verso il compito.
Fare del disturbo un motivo di apprendimento, utilizzare il segnale della noia per riorientare i lavori, ecco perché è necessario fare una riflessione clinica sul proprio vissuto di facilitatore per ricercare tutte quelle strategie ed errori che abbiamo individuato nel percorso di gruppo.
Riflettere costantemente sulla propria pratica, fare della propria esperienza una buona pratica.
Termino questi appunti di viaggio dicendoti che la prossima volta presenterò alcune delle strategie per gestire i comportamenti di disturbo di cui abbiamo parlato in questo testo.
Sarei felice se tu inviassi alla redazione di questa rivista le tue esperienze circa l’essere facilitatore in gruppo in particolare come tu hai gestito o gestisci i disturbi nella tua esperienza formativa.
Condividere è l’espressione più piena ed umana del nostro essere professionisti dell’educazione.
1.
Appunti per condividere.
Il metodo.
Caro collega, cara collega, come te anche io insegno, meglio cerco di insegnare religione cattolica nelle scuole superiori di secondo grado e nella della mia esperienza di formazione professionale mi sono talvolta trovato in difficoltà quando si trattava di fare i “lavori di gruppo” nei corsi di formazione.
I convegni che ho frequentato prevedevano i cosiddetti laboratori didattici.
Spesso durante questi “lavori di gruppo” intuivo alcuni nodi problematici che segnalavano una difficoltà a lavorare insieme, forse talvolta condizionati da una idea quasi magica e cioè che tutti riteniamo di sapere lavorare in gruppo mentre in realtà creare – costruire un gruppo di lavoro richiede conoscenza di modelli, procedure ben precise e tanta voglia di mettersi in discussione in prima persona.(1) Da vari anni ricerco e sono curioso per trovare modalità di collaborazione e costruire gruppi di lavoro facendo anche esperienza con colleghi che insegnano religione cattolica.
Ritengo che la pratica della collaborazione sia una via che permette di prevenire quel complesso fenomeno dello stress professionale chiamato burnout.(2) Scopo di questi appunti è quello di condividere con te, i miei interrogativi, le mie curiosità, le strade possibili che possono aprirsi per costruire realmente tra noi una comunità di apprendimento.
Tutto quello che succede in un lavoro di gruppo a livello di dinamiche interne è assai difficile conoscerlo; io condividerò con te la mia esperienza di facilitatore dei lavori di gruppo, cercando di documentare quello che vedo, mi affido alla mia sensibilità, alla mia esperienza ai miei studi per condividere con te un possibile punto di vista che, ripeto, è il mio punto di vista.
Che contributo dà la lettura di questi appunti di viaggio al tuo sviluppo professionale? Imparerai a riconoscere il tuo stile naturale di condurre un gruppo.
Conoscerai alcuni dei principali comportamenti di disturbo da parte dei singoli partecipanti al gruppo di lavoro.
Adesso tocca a te.
La parte più importante di questi appunti ritengo sia proprio questa: a te il compito di esplorare la tua esperienza interna rispetto alla conduzione dei gruppi e provare a renderla esplicita, a darle un nome.
È la dimensione più importante.
Se vuoi diventare facilitatore dovrai costantemente esplorare la tua dimensione interna, fare costante autoanalisi rispetto al tuo modo di lavorare in gruppo.
Di pubblicazioni “fai da te” su come si deve gestire un gruppo ne esistono tantissime e sono importanti, ma quello che è più importante per un formatore è ascoltare la propria dimensione interiore rispetto all’esperienza che sta mettendo in atto.
Diventiamo esperti nella misura in cui ascoltiamo quello che succede dentro di noi.
Dovrai avere con te il taccuino di viaggio e provare a rispondere a queste domande, prima di leggere gli appunti che seguono.
 Per la tua esperienza quali sono i principali disturbi che ostacolano un gruppo di lavoro, formato da insegnanti di religione, a raggiungere gli obiettivi stabiliti?  Quali sono le qualità che ti riconosci in merito alla conduzione dei gruppi?

Scuola: Gli ebook?

Un fenomeno ancora marginale, per il quale si attendono pero’ sviluppi interessanti nel medio termine.
Questo il mercato dell’e-book visto dagli esperti, in Italia ma anche nei Paesi piu’ all’avanguardia nella produzione e lettura di e-libri, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa.
Gli e-book possono essere sia libri di narrativa sia testi per l’editoria professionale e educativa, visualizzabili sugli appositi device come il Kindle di Amazon oppure scaricabili da Internet e fruibili su computer, telefonino o palmare.
Enormi le potenzialita’ del mercato per i libri scolastici o conservati nelle biblioteche tanto che anche l’Italia ha deciso di aprire le porte, come altri Paesi europei, al controverso progetto di digitalizzazione dei libri capitanato da Google.
Al momento in Italia, secondo i dati dell’Ufficio studi dell’Aie, il mercato degli audiolibri e dell’ebook congiunti non pesano oltre lo 0,03% del mercato complessivo del libro.
”Quello che ci manca e’ l’hardware”, sottolinea Cristina Mussinelli, responsabile del settore tecnologie dell’Aie.
”Sul mercato italiano non sono ancora in vendita i lettori di e-book che hanno conquistato l’America, come Kindle della Amazon, che conta gia’ su 300mila titoli, e Reader della Sony che ne vanta 100mila.
Anche se ci fossero questi device, occorrerebbe poi creare un ricco catalogo come e’ stato fatto all’estero”.
Un forte impulso potrebbe arrivare dal settore education: l’art 15 del decreto 112 del 2008 prevede che siano disponibili entro l’anno scolastico 2011-12 ”libri scaricabili da Internet”.
Ma la Mussinelli frena: ”Le caratteristiche tecnologiche non sono state definite.
Si tratta non esattamente di ebook, ma probabilmente di libri misti (carta piu’ file digitale) oppure di integrazioni interattive su Internet o di materiale per lavagne interattive multimediali, pero’ diffuse a macchia di leopardo.
Certo, se per ebook a scuola si intende leggere i libri digitali su Kindle, si profila un problema, visto il costo sui 300-350 dollari”.
Gli editori lo sanno ma ancora molti restano alla finestra, in attesa di vedere come evolvera’ il mercato e se il governo concedera’ un contributo di start-up, temendo di dover ”pagare di tasca propria l’innovazione”, secondo le parole di Ulisse Jacomuzzi, amministratore delegato della Sei.
”Alcune case editrici si stanno apprestando a mettere su pdf i loro testi in modo che si possano scaricare dal computer.
Anche la Sei sta aumentando la quantita’ di materiale online e gia’ dal prossimo anno tutte le nostre novita’ editoriali per la scuola saranno nella forma di libro misto.
Tuttavia cio’ comporta un enorme investimento e ci chiediamo se ci sia un mercato pronto ad assorbire le nostre proposte.
Occorrerebbe che tutte le scuole fossero dotate di banda larga e che i docenti fossero preparati”.
”Nel settore scolastico gli e-book non costituiscono ancora un vero mercato.
Possiamo prevedere uno sviluppo nei prossimi anni se gli studenti avranno strumenti adeguati per fruirne”, concorda Sergio Saviori, direttore editoriale di Mondadori Education.
”Ad ogni modo, tutti i nuovi libri del 2009 di Mondadori Education hanno contenuti online (esercizi per il ripasso, test di verifica, interrogazioni simulate, riassunti, karaoke) aggiuntivi rispetto ai volumi cartacei”.
Ma per pensare davvero all’avvento dell’ebook nella scuola, ”sarebbe necessario disporre di dispositivi a basso costo”, conclude Saviori, ”a colori e con sufficiente autonomia nella carica elettrica.
Questa soluzione al momento non e’ disponibile”.
Insomma, l’ebook a scuola non e’ per l’immediato futuro.
Anche gli studenti della nuova generazione non hanno scampo: tocca studiare sui libri, quelli veri.
red/rf/ss

“Bad day” (“Brutto giorno”)

Testo della canzone Traduzione   Where is the moment we needed the most You kick up the leaves and the magic is lost They tell me your blue skies  fade to grey They tell me your passion’s gone away And I don’t need no carryin’ on You stand in the line just to hit a new low You’re faking a smile with the coffee to go You tell me your life’s been way off line You’re falling to pieces everytime And I don’t need no carryin’ on Cause you had a bad day You’re taking one down You sing a sad song just to turn it around You say you don’t know You tell me don’t lie You work at a smile and you go for a ride You had a bad day The camera don’t lie You’re coming back down and you really don’t mind You had a bad day You had a bad day Well you need a blue sky holiday The point is they laugh at what you say And I don’t need no carryin’ on You had a bad day You’re taking one down You sing a sad song just to turn it around You say you don’t know You tell me don’t lie You work at a smile and you go for a ride You had a bad day The camera don’t lie You’re coming back down and you really don’t mind You had a bad day Sometimes the system goes on the blink And the whole thing turns out wrong You might not make it back and you know That you could be well oh that strong And I’m not wrong So where is the passion when you need it the most Oh you and I You kick up the leaves and the magic is lost Cause you had a bad day You’re taking one down You sing a sad song just to turn it around You say you don’t know You tell me don’t lie You work at a smile and you go for a ride You had a bad day You’ve seen what you like And how does it feel for one more time You had a bad day You had a bad day Dov’è il momento di cui più abbiamo bisogno? prendi a calci le foglie e la magia s’è persa dicono che il tuo cielo blu si sia sbiadito nel grigio dicono che la tua passione sia andata via e non ho bisogno di riportartela Sono stato lì in coda solo per evitare un’altra tristezza Stai facendo uno dei tuoi sorrisini falsi mentre prendi il caffè mi dici che la tua vita è stata disconnessa stai cadendo in pezzi ogni volta e io non ho bisogno di portarti avanti perché hai avuto un brutto giorno hai passato un giorno “no” canti una canzone triste solo per voltare pagina dici di non sapere niente dici di non dire bugie lavori sorridendo e esci per una passeggiata Hai avuto un brutto giorno la macchina fotografica non mente stai tornando indietro e davvero non t’importa Hai avuto un brutto giorno Hai avuto un brutto giorno Beh hai bisogno di una vacanza da cielo blu il punto è che loro ridono di quel che dici ed io non ho bisogno di portare avanti Hai avuto un brutto giorno hai passato un giorno “no” canti una canzone triste solo per voltare pagina dici di non sapere niente dici di non dire bugie lavori sorridendo e esci per una passeggiata Hai avuto un brutto giorno la macchina fotografica non mente stai tornando indietro e davvero non t’importa Hai avuto un brutto giorno A volte il sistema si guasta e l’intera cosa è sbagliata tu potresti non aggiustarla mai, lo sai che potresti stare bene, oh così forte bene, io non mi sbaglio Quindi dov’è la passione quando ne hai bisogno di più? oh, io e te Hai preso a calci le foglie e la magia s’è persa perché hai avuto un brutto giorno hai passato un giorno “no” canti una canzone triste solo per voltare pagina dici di non sapere niente dici di non dire bugie lavori sorridendo e esci per una passeggiata Hai avuto un brutto giorno hai visto quel che ti piace e come ci si sente per una volta in più Hai avuto un brutto giorno Hai avuto un brutto giorno     Alcuni spunti per la rilettura e per le attività sul video   –          Vediamo il video insieme ai ragazzi: non importa se qualcuno si metterà a canticchiare la canzone durante la proiezione, probabilmente molti di loro già conoscono le scene del videoclip.
–          Consegniamo a ciascun ragazzo un foglio con la riproduzione del cartellone della pubblicità che compare nel video.
Su quel poster c’è scritta la parola “shine”, che, tra le varie traduzioni possibili, significa anche “fatti notare”.
Proponiamo loro di disegnare sopra qualcosa proprio per farsi notare, per richiamare l’attenzione: ognuno dovrà pensare all’ipotetico mittente (o mittenti) del proprio “messaggio in codice” e poi…
lasciar spazio alla creatività! Partendo dal cartellone si potrà esprimere una propria esigenza, un desiderio, una richiesta d’aiuto, l’esternazione di qualche sentimento, la condivisione di un concetto…
Il tutto si deve svolgere in silenzio (oppure con una buona musica di sottofondo, magari proprio “bad day”).
–          Fatto questo, tutti chiuderanno a metà il proprio foglio che verrà raccolto assieme agli altri (in una scatola oppure lasciandoli al centro del tavolo).
–          Ogni ragazzo pescherà poi un foglio a caso e dovrà completare il disegno lasciato da qualcun altro…
E poi rimescolare i fogli e così via.
  Non si direbbe, ma piano piano, filo dopo filo, i ragazzi hanno costruito una rete: ognuno ha completato il disegno di qualcun altro, ognuno ha aggiunto un elemento innovativo al quadro dipinto da uno “sconosciuto”.
Certo, manca il contatto diretto, manca la parola espressa di persona…
manca quell’ombrello che si apre per proteggere l’altro e invitarlo così ad abbracciare e conoscere una parte di se stessi.
  –          Come conclusione si potrebbe proporre un’altra videoclip: “In this world” di Moby.
Il video mostra dei buffi extraterrestri che partono con dei cartelloni in mano per un contatto con gli umani.
Una volta sbarcati sul nostro pianeta, gli alieni si rivelano essere minuscoli e i passanti non si accorgono nemmeno della loro presenza.
La fine del video è simpatica e interessante: gli extraterrestri ripartono sconsolati.
Ma non si abbattono: realizzano un cartellone più grande e si capisce che ritenteranno un contatto! –          Possibili spunti aggiuntivi: o        le distrazioni che ci impediscono di accorgerci delle piccole cose.
o        Non fermarsi alla prima delusione; alle volte basta “un cartellone più grande”.
  Video musicale proposto: “Bad day” di Daniel Powter (titolo tradotto: “Brutto giorno”)   Parole chiave: routine vs.
novità, coraggio di buttarsi, orizzonte nuovo.
  Riassunto del video: è la storia di un ragazzo e una ragazza, entrambi single, che ogni mattina si svegliano per affrontare la consueta routine: si preparano per andare al lavoro, prendono la metropolitana, partecipano ad una riunione, etc…
Lo spettatore segue le loro vite in modo parallelo per tre giorni, anche se, proprio per sottolineare la ripetitività delle loro azioni, non c’è alcuna distinzione tra le giornate.
Il momento che cambierà le loro vite avviene quando cominciano entrambi a lasciare dei disegni (in tempi differenti) su un cartellone pubblicitario della metrò: man mano che i graffiti procedono, i due andranno a completare insieme un cuore.
Il video si conclude con il loro incontro reale: sotto una pioggia scrosciante, mentre la ragazza sta per prendere un taxi, il ragazzo arriva aprendo un ombrello per proteggere lei dalla pioggia, proprio come disegnato sul cartellone.
  Questo è il video di una canzone dell’artista canadese Daniel Powter che ha riscosso un enorme successo nel 2005; sebbene sia passato del tempo è probabile che i ragazzi se la ricordino, dato che è stata trasmessa per svariati mesi su tutte le radio.
Non preoccupiamoci troppo del fatto che il testo è in inglese: a noi interessano principalmente i gesti, i comportamenti, i personaggi narrati attraverso il video.
Ad ogni modo di seguito c’è anche la traduzione della canzone.
   

Lavoro didattico sul video

“Bad day” di Daniel Powter (titolo tradotto: “Brutto giorno”)   Parole chiave: routine vs.
novità, coraggio di buttarsi, orizzonte nuovo.
  Riassunto del video: è la storia di un ragazzo e una ragazza, entrambi single, che ogni mattina si svegliano per affrontare la consueta routine: si preparano per andare al lavoro, prendono la metropolitana, partecipano ad una riunione, etc…
Lo spettatore segue le loro vite in modo parallelo per tre giorni, anche se, proprio per sottolineare la ripetitività delle loro azioni, non c’è alcuna distinzione tra le giornate.
Il momento che cambierà le loro vite avviene quando cominciano entrambi a lasciare dei disegni (in tempi differenti) su un cartellone pubblicitario della metrò: man mano che i graffiti procedono, i due andranno a completare insieme un cuore.
Il video si conclude con il loro incontro reale: sotto una pioggia scrosciante, mentre la ragazza sta per prendere un taxi, il ragazzo arriva aprendo un ombrello per proteggere lei dalla pioggia, proprio come disegnato sul cartellone.
  Questo è il video di una canzone dell’artista canadese Daniel Powter che ha riscosso un enorme successo nel 2005; sebbene sia passato del tempo è probabile che i ragazzi se la ricordino, dato che è stata trasmessa per svariati mesi su tutte le radio.
Non preoccupiamoci troppo del fatto che il testo è in inglese: a noi interessano principalmente i gesti, i comportamenti, i personaggi narrati attraverso il video.
Ad ogni modo di seguito c’è anche la traduzione della canzone.
         Testo della canzone Traduzione   Where is the moment we needed the most You kick up the leaves and the magic is lost They tell me your blue skies  fade to grey They tell me your passion’s gone away And I don’t need no carryin’ on You stand in the line just to hit a new low You’re faking a smile with the coffee to go You tell me your life’s been way off line You’re falling to pieces everytime And I don’t need no carryin’ on Cause you had a bad day You’re taking one down You sing a sad song just to turn it around You say you don’t know You tell me don’t lie You work at a smile and you go for a ride You had a bad day The camera don’t lie You’re coming back down and you really don’t mind You had a bad day You had a bad day Well you need a blue sky holiday The point is they laugh at what you say And I don’t need no carryin’ on You had a bad day You’re taking one down You sing a sad song just to turn it around You say you don’t know You tell me don’t lie You work at a smile and you go for a ride You had a bad day The camera don’t lie You’re coming back down and you really don’t mind You had a bad day Sometimes the system goes on the blink And the whole thing turns out wrong You might not make it back and you know That you could be well oh that strong And I’m not wrong So where is the passion when you need it the most Oh you and I You kick up the leaves and the magic is lost Cause you had a bad day You’re taking one down You sing a sad song just to turn it around You say you don’t know You tell me don’t lie You work at a smile and you go for a ride You had a bad day You’ve seen what you like And how does it feel for one more time You had a bad day You had a bad day Dov’è il momento di cui più abbiamo bisogno? prendi a calci le foglie e la magia s’è persa dicono che il tuo cielo blu si sia sbiadito nel grigio dicono che la tua passione sia andata via e non ho bisogno di riportartela Sono stato lì in coda solo per evitare un’altra tristezza Stai facendo uno dei tuoi sorrisini falsi mentre prendi il caffè mi dici che la tua vita è stata disconnessa stai cadendo in pezzi ogni volta e io non ho bisogno di portarti avanti perché hai avuto un brutto giorno hai passato un giorno “no” canti una canzone triste solo per voltare pagina dici di non sapere niente dici di non dire bugie lavori sorridendo e esci per una passeggiata Hai avuto un brutto giorno la macchina fotografica non mente stai tornando indietro e davvero non t’importa Hai avuto un brutto giorno Hai avuto un brutto giorno Beh hai bisogno di una vacanza da cielo blu il punto è che loro ridono di quel che dici ed io non ho bisogno di portare avanti Hai avuto un brutto giorno hai passato un giorno “no” canti una canzone triste solo per voltare pagina dici di non sapere niente dici di non dire bugie lavori sorridendo e esci per una passeggiata Hai avuto un brutto giorno la macchina fotografica non mente stai tornando indietro e davvero non t’importa Hai avuto un brutto giorno A volte il sistema si guasta e l’intera cosa è sbagliata tu potresti non aggiustarla mai, lo sai che potresti stare bene, oh così forte bene, io non mi sbaglio Quindi dov’è la passione quando ne hai bisogno di più? oh, io e te Hai preso a calci le foglie e la magia s’è persa perché hai avuto un brutto giorno hai passato un giorno “no” canti una canzone triste solo per voltare pagina dici di non sapere niente dici di non dire bugie lavori sorridendo e esci per una passeggiata Hai avuto un brutto giorno hai visto quel che ti piace e come ci si sente per una volta in più Hai avuto un brutto giorno Hai avuto un brutto giorno <>         Alcuni spunti per la rilettura e per le attività sul video   –          Vediamo il video insieme ai ragazzi: non importa se qualcuno si metterà a canticchiare la canzone durante la proiezione, probabilmente molti di loro già conoscono le scene del videoclip.
–          Consegniamo a ciascun ragazzo un foglio con la riproduzione del cartellone della pubblicità che compare nel video.
Su quel poster c’è scritta la parola “shine”, che, tra le varie traduzioni possibili, significa anche “fatti notare”.
Proponiamo loro di disegnare sopra qualcosa proprio per farsi notare, per richiamare l’attenzione: ognuno dovrà pensare all’ipotetico mittente (o mittenti) del proprio “messaggio in codice” e poi…
lasciar spazio alla creatività! Partendo dal cartellone si potrà esprimere una propria esigenza, un desiderio, una richiesta d’aiuto, l’esternazione di qualche sentimento, la condivisione di un concetto…
Il tutto si deve svolgere in silenzio (oppure con una buona musica di sottofondo, magari proprio “bad day”).
–          Fatto questo, tutti chiuderanno a metà il proprio foglio che verrà raccolto assieme agli altri (in una scatola oppure lasciandoli al centro del tavolo).
–          Ogni ragazzo pescherà poi un foglio a caso e dovrà completare il disegno lasciato da qualcun altro…
E poi rimescolare i fogli e così via.
  Non si direbbe, ma piano piano, filo dopo filo, i ragazzi hanno costruito una rete: ognuno ha completato il disegno di qualcun altro, ognuno ha aggiunto un elemento innovativo al quadro dipinto da uno “sconosciuto”.
Certo, manca il contatto diretto, manca la parola espressa di persona…
manca quell’ombrello che si apre per proteggere l’altro e invitarlo così ad abbracciare e conoscere una parte di se stessi.
  –          Come conclusione si potrebbe proporre un’altra videoclip: “In this world” di Moby.
Il video mostra dei buffi extraterrestri che partono con dei cartelloni in mano per un contatto con gli umani.
Una volta sbarcati sul nostro pianeta, gli alieni si rivelano essere minuscoli e i passanti non si accorgono nemmeno della loro presenza.
La fine del video è simpatica e interessante: gli extraterrestri ripartono sconsolati.
Ma non si abbattono: realizzano un cartellone più grande e si capisce che ritenteranno un contatto! –          Possibili spunti aggiuntivi: o        le distrazioni che ci impediscono di accorgerci delle piccole cose.
o        Non fermarsi alla prima delusione; alle volte basta “un cartellone più grande”.
     

Lavorare con il film

Tutti hanno esperienza di che cosa sia un film.
Ci sono però modi diversi per guardare un’opera cinematografica: una modalità percettiva affidata alle emozioni, una modalità estetica attenta alla natura e alla forma del linguaggio, una modalità contenutistica che prescinde dalla qualità linguistica, una modalità infine che tiene conto di tutti gli elementi in gioco.
 Allo stesso modo si danno approcci soggettivi che lasciano il destinatario interprete autonomo dell’atto di comunicazione che il film costituisce; approcci oggettivi attenti al testo e all’intenzione dell’autore, e approcci che vedono in esso una molteplicità di processi comunicativi, che variano a seconda del destinatario e del contesto culturale e sociale, oltre che del tempo in cui viene fruita l’opera.
Ciascuno adotterà l’approccio più congeniale e utilizzerà il film nella sua interezza oppure per frammenti; ciò che importa è non prescindere – come troppo spesso accade– dalla natura specifica del linguaggio cinematografico, a meno che non si intenda fare un uso pretestuale dell’opera filmica.
L’aspetto più importante è usare il film per parlare del film e non per parlare sul fim.
Ma in classe come si può usare un film ( o parte di esso ) e attraverso quale metodologia lo si può animare? Cercando di rispondere a questa domanda ho pensato di fissare alcuni criteri molto operativi, precisamente: 1.
di distinguere i punti di vista a partire dai quali accostarsi ad un film; 2.
di precisare i tre livelli a cui è possibile focalizzare l’attenzione dello studente -spettatore; 3.
di indicare alcune strategie di intervento ed animazione Mutuando parzialmente la terminologia della analisi della narrazione mi sembra che tre siano i rilievi metodologicamente significativi: essi riguardano il punto di vista, la focalizzazione e le strategie operative mediante cui strutturare il nostro intervento.
Vediamoli nello specifico.
Il punto di vista: parlare del film, parlare sul film Il parlare sul film traduce il punto di vista che Umberto Eco, definisce della lettura pretestuale: in quest’ottica il film è selezionato in funzione illustrativa e diviene un pretesto per introdurre una problematica o trovarne conferma nella concretezza delle immagini.
Confortata dalla consuetudine dei cinedibattiti televisivi, in cui il film funge semplicemente da input alla discussione in studio di un determinato argomento questa scelta autorizza di solito impressioni superficiali, soggettive ed estemporanee e rischia di configurarsi come prassi di dialogo che per nulla contribuisce alla educazione dello sguardo spettatoriale.
Il parlare del film, invece, da corpo ad un punto di vista sostanzialmente differente, un punto di vista di tipo testuale, in ordine al quale, superata l’ottica contenutistica ed illustrativa, il film diviene un campo metodologico da attraversare – come suggerisce R Barthes – un oggetto culturale da smontare e rimontare non per autorizzare percorsi di lettura arbitrari e soggettivi, ma per elaborarne di critici, sebbene personali, sempre e comunque autorizzati dalla materialità significante del testo (i limiti dell’interpretazione, come precisa U.
Eco, sono nel testo stesso).
La focalizzazione: vedere, sapere, credere (vedere) un primo livello di focalizzazione è quello che si appunta sul vedere.
Il cinema è uno sguardo sul mondo articolato in modo sempre più personale in rapporto all’evolvere del linguaggio oltre la camera fissa, grazie a panora­miche, carrèlli, montaggio…
Registrare questo sguardo, coglierne le diverse declinazioni, è sicuramente un primo grande campo di lavoro : è l’approccio del cinefilo, inteso come colui che fa pratica empirica di conoscenza e consumo di autori, di movimenti di tendenze estetiche ed ideologiche.
(sapere) ma un film non è soltanto il luogo entro cui si organizza un vedere.
Esso, proprio attra­verso questo vedere, contribuisce al prodursi di un sapere.
Verificare come questo sapere ven­ga realizzato, ricondurlo alle logiche culturali ed alle problematiche storiche del momento in cui è stato prodotto è il compito dell”approccio filmologico, applicazione di metodologie e ca­tegorie critiche spesso proprie di altre discipline ed ambiti comunicativi (psicologia, sociologia, letteratura); (credere) quando, infine, ad essere messo a fuoco è il credere che il film induce, mediante il vedere ed in virtù del sapere che lo caratterizzano, dall’ approccio cinefilo e filmologico, siamo passati a quello valoriale, attento alle strategie comu­nicative mediante le quali il film costruisce sistemi di credenze nel pubblico (ed in questo senso si espone alla valutazione etica) o alle modalità secondo cui affronta il proprio tema.
il nodo linguistico-espressivo.
È l’aspetto grammaticale e sintattico, che comprende l’ana­lisi dei seguenti elementi: la fotografia (illuminazione, contrasto, composizione, uso della pellicola), il colore (naturale, equilibrato, valore sim­bolico delle dominanti, effetti), i campi ed i piani (tipologie, utilizzo) angolazione ed inclinazione, uso della macchina (presente, nascosta), il montaggio ed il sonoro.
La competenza attivata è quella del saper vedere; 2.
il nodo narrativo-tematìco.
E l’aspetto con­tenutistico del film, il suo dire qualcosa raccon­tando qualcosa.
Comprende i rilievi relativi a: struttura narrativa del film (prima e ultima scena, momenti topici, evoluzione), personaggi (caratteristiche, rapporti reciproci, funzioni nel racconto), contenuto (temi ricorrenti, problemati­che, funzionamento simbolico).
La competenza attivata è quella del saper comprendere; 3.
il nodo etico-valoriale.
È l’aspetto “ideologico” del film, il suo dire qualcosa in un certo modo.
Esso implica tre interventi valutativi su: dignità estetica del film (qualità artistica, com­piutezza di sviluppo, ecc.), problematiche in gioco (valutazione sul tema e su come il film ha trattato il tema), impatto sul pubblico (impegno morale del regista, ecc.).
La competenza attivata è quella del saper valutare.
Leggere il frammento A volte, quando i ragazzi non sono abituati a uno sguardo attento e a un lavoro d’analisi esteso all’intero testo filmico, può essere didatticamente più efficace lavorare sul frammento: la sequenza o la singola scena.
Spesso sono gli inizi del fim (incipit ) a prestarsi al lavoro di analisi, perché anticipano a livello strutturale – nella messa in scena, in quadro, in serie, nell’uso del sonoro – i temi e i motivi che il film svilupperà.
Analizzare il frammento prima della visione integrale del film consente ai ragazzi di realizzare per intero il percorso di analisi senza demotivarsi; permette loro di formulare ipotesi circa il testo completo e di guardare questo, in seguito, con maggiore interesse, in una prospettiva di verifica delle ipotesi formulate.
La strategia vale evidentemente per i film impegnativi, che affidano il racconto al piano della rappresentazione, piuttosto che a quello della narrazione.
Ma lavorare sul frammento ha senso anche con film che fanno leva sull’azione e su una dimensione spettacolare.
In questo caso, al percorso d’analisi che evidenzierebbe solo la povertà del testo filmico si preferirà un lavoro pretestuale a partire da una scena, un dialogo, una situazione, che permettano di portare l’attenzione sul tema che si intende affrontare al di là del film.

Videoclip

A differenza del cinema o della televisione dove la musica è sottofondo o commento all’azione, nel clip essa diventa invece il nodo centrale per iniziare a raccontare una storia anche e soprattutto a livello tecnico-espressivo: ad esempio, uno degli elementi fondanti dell’immagine cinetelevisiva, il montaggio, è nel video positivamente limitato dalla presenza musicale, in quanto i suoi stacchi sono sempre scanditi dalla sezione ritmica e non viceversa.
Tutto ciò è determinato dal fatto che la canzone preesiste al filmato in quanto si tratta di un prodotto dell’industria discografica.
Cosa succede quando l’immagine è bella, ma la canzone è brutta? O viceversa quando una musica valida non è ben supportata dall’impianto figurativo? Questi interrogativi arrivano al nocciolo centrale della questione, che dunque riguarda i criteri con cui giudicare oggettivamente il valore e la qualità di un video.
La domanda però va impostata diversamente, nel senso che per una critica esaustiva su forme e contenuti del video-clip, fino a individuare il suo «specifico», non basta analizzare la compresenza dei codici musicali e figurativi ulteriormente ripartiti in sottocodici.Il fatto è che nella riuscita del clip intervengono altre componenti più psicologiche, le quali si fondano a loro volta sull’intreccio di codici espressivi quali look e telegenia.: • con look si intende tutto quanto attiene alla cura e al comportamento della persona fisica, dalla bellezza al sex-appeal, dal trucco agli abiti, dalla petti­natura agli accessori, dal modo di parlare, gesticolare, camminare fino agli hobbies preferiti e alle manie più bislacche • con telegenia si intende invece la capacità di trasferire tutte queste doti, più o meno positive, sul piccolo schermo, non solo in virtù delle capacità personali, ma anche grazie a opportuni accorgimenti intrinseci al lavoro col mezzo televisivo 
 Alla base del video-clip c’è il codice televisivo, poiché il clip è anzitutto televisione per il semplice fatto che passa e vive attraverso il monitor e poi perché molte delle immagini sono costruite con una regia e una tecnica televisive.
( immagini semoventi) Anche i clip più tradizionali, riescono a produrre effetti di irrealtà, come se il pubblico assistesse a uno spettacolo distaccato.
La maniera originale con cui è impostata, rispetto ad altri testi televisivi, la parte visiva del video-clip, è definibile, come un cinema-cinema, si tratta insomma di metalinguaggio con grande ostentazione della tecnica, dai movimenti di macchina all’alternanza di campi e piani, dai flashback alle dissolvenze, senza risparmiare le varie tipologie di montaggio.
In rapporto alla visione individuale e privata del clip da parte dei ragazzi, i consigli da fornire sono essenzialmente di tre tipi in ordine crescente 
 Il primo è non limitarsi alla fruizione esclusiva dei video o di qualsiasi altro genere televisivo (cartoons, telefilm, soap-operas, sport, ecc.), ma di impiegare il tempo libero in maniera differenziata, alternando le ore passate davanti al monitor con altre attività ricreative sia intellettuali sia motorie: oltre le solite raccomandazioni sul piacere della lettura di libri e giornali, può anche essere utile vivere in altri modi la musica stessa; dal piccolo schermo al disco o alla videocassetta, dalla riviste specializzate alla pratica esecutiva, insomma la musica deve diventare non solo un fatto visivo, ma qualcosa di assai più coinvolgente, poiché può essere guardata, ascoltata, letta, cantata, eseguita, ballata, composta, ecc.
 Il secondo è predisporsi di fronte al video-clip nella maniera meno passiva, cercando non soltanto di godersi meccanicamente uno spettacolo piacevole, ma di usare la propria intelligenza nei suoi confronti; in questo senso anche a casa, da soli o con amici, si possono improvvisare alcuni giochi col clip: ad esempio a ogni serie di video, tra uno spot e l’altro, ogni ragazzo può sceglierne uno e osservarlo con attenzione, riguardarlo con calma grazie alla videoregistrazione; e successivamente riflettere su una serie di questioni: a livello formale la scelta delle immagini, i riferimenti culturali e le associazioni psichiche che sorgono spontaneamente; a livello contenutistico l’argomento della trama, i modi in cui viene raccontata, la morale che se ne deve trarre; a un livello più profondo l’analisi del protagonista del clip, in riferimento a look e telegenia con l’impatto emotivo e il grado di piacevolezza e identificazione.
 Il terzo è verificare con amici e compagni di classe le proprie scelte, discutere con loro i propri gusti, spiegare il più chiaramente possibile i motivi delle preferenze; verificare gli interessi comuni e le cause di unanimità o divergenze su certi video, cercando di formulare un giudizio personale e critico; passare infine dalla teoria alla prassi, nel senso di provare a inventare uno storyboard o una sceneggiatura per tante occasioni: nuove immagini per quelle già note, o aggiunta della parte visiva su canzoni vecchie molto famose che non hanno mai avuto una veste iconica (magari su generi particolari come la classica o il jazz), o ancora tentare una vera e propria operazione multimediale costruendo canzone e immagine, giocando a suddividersi i ruoli con tutti.



“La stella di Esther”

In occasione della giornata della Memoria esce in Italia il graphic novel dell’olandese Eric Heuvel, realizzato dalla Casa di Anna Frank Un fumetto per spiegare l’Olocausto.
Arriva in Italia “La Stella di Esther”, graphic novel del disegnatore olandese Eric Heuvel, che racconta la Shoah pensando ai ragazzi.
Partendo dalla storia di Esther, giovane ebrea tedesca vittima della persecuzione nazista, che, ormai nonna, ricorda la sua vita parlandone al nipote e, con il suo aiuto, riesce a rimettersi sulle tracce del suo pesante passato e ad affrontarlo.
Pubblicato da De Agostini con il patrocinio della Ucei (Unione comunità ebraiche italiane) e realizzato dalla Casa di Anna Frank, il fumetto esce da noi in occasione della Giornata della Memoria.
Dall’originale olandese è già stato tradotto in tedesco, polacco, ungherese e inglese ed ha già fatto parlare di sé, prima di tutto in Germania, dove è usato nelle scuole come ausilio didattico nell’insegnamento dell’Olocausto ai ragazzi.
Le vicende di Esther prendono vita nello stile dolce di Heuvel, ex insegnante di storia, che è un omaggio dichiarato a Hergé, il papà di Tintin, con la stessa linea chiara, semplice e colorata; nulla a che vedere, per intenderci, con quel bianco e nero claustrofobico usato da Art Spiegelman in “Maus”, altro graphic novel, questa volta per adulti, che trattatava il tema della Memoria.
Una scelta studiata con molta attenzione, per compensare la durezza dei fatti narrati con un segno morbido, che non vuole traumatizzare.
“La Stella di Esther” è infatti pensato per far conoscere la storia della persecuzione ebraica ad adolescenti e preadolescenti, sfruttando un medium cui sono immediatamente attratti e per loro immediato, ma allo stesso tempo sempre più diffuso per trattare temi alti e complessi.
Esther è già in copertina, quando, ragazzina, fugge dai camion dei soldati nazisti.
Nelle pagine interne, è diventata nonna e ricorda tra lo stupore di suo nipote e di quello della sua amica Helena di quando lasciò la Germania per l’Olanda, costretta a nascondersi per non finire con la famiglia ai campi di concentramento.
Una vita che cambia rapidamente, i vicini di casa che diventano estranei o nemici, il compagno con cui giocava ogni pomeriggio che non si fa più trovare perché il padre non approva che veda un’ebrea.
Un passato lontano, che riaffiora tavola dopo tavola.
Senza tralasciare i fatti storici, il fumetto punta decisamente sulle esistenze dei singoli, che subiscono sulla loro pelle l’ascesa di Hitler e le persecuzioni in un crescendo che invade la loro quotidianità e li priva del lavoro, degli amici, del rispetto degli altri, fino ad ostracizzarli per poi arrivare alle deportazioni di massa.
Dialoghi e disegni con cui Heuvel racconta sofferenze ed umiliazioni sono stati studiati con particolare cura.
“Usare un tratto classico, rassicurante, è una scelta ben precisa, come quella di evitare tutto il brutale e l’inenarrabile della Shoah, perfettamente in linea con la didattica della memoria oggi”, spiega Odelia Liberanome Bedarida, coordinatrice del centro pedagogico della Ucei, che ha patrocinato il libro-fumetto.
“Se si mostrano scene terribili si tende a rimuoverle.
Perché la memoria abbia un senso, ci si deve concentrare su messaggi attuali e comprensibili”.
Anche il colore è stato preferito al tradizionale bianco e nero, comune per le opere che trattano visivamente dell’Olocausto, per non incorrere in un eccesso di melodrammaticità.
Questo understatement di trama e stile non nasconde però nulla, e riporta la realtà della tragedia in tutta la sua complessità.
“Oggi che i sopravvissuti stanno invecchiando, ci si ricorderà di questa terribile pagina della storia solo se i ragazzi si abitueranno a pensare a quali sono stati i valori morali, e a riflettere sui diversi atteggiamenti tenuti dalla gente, sul valore della scelta: da chi è rimasto indifferente a chi ha scelto di aiutare o di diventare a sua volta persecutore” dice ancora Liberanome Bedarida.
Perché “tutto può accadere di nuovo se non si è ben attenti a monitorare i valori dell’uguaglianza e ad impegnarsi a ricordare”.
Partendo, magari, da un fumetto.
da Repubblica.it