L’intervista «Quando arrivammo qui a Trastevere, negli Anni 70, ci rubarono i motorini.
La prima trattativa di Sant’Egidio — racconta il fondatore, Andrea Riccardi — fu con i ladri, per farceli restituire.
Allora a Trastevere c’era il popolo.
Si viveva nei bassi.
Ora le case valgono 10, 12, anche 15 mila euro al metro quadro».
E Sant’Egidio è stata riconosciuta dalla Farnesina come «istituzione internazionale», segnata da «terzietà» e «indipendenza da qualsiasi tendenza politica».
Che cosa significa? «Non distacco.
Semmai, diversità di visione.
Approccio alle questioni sociali a partire dai poveri.
Ci sentiamo profondamente radicati nella romanità e nel carattere italiano, e nello stesso tempo decisi ad aprirci all’Africa, all’America latina, ai mondi asiatici.
Un’apertura in controtendenza rispetto al ripiegamento, all’introversione degli ultimi anni».
Come vede oggi l’Italia nel mondo? «Rimpicciolita.
Ho cominciato a frequentare gli scenari africani e mediorientali negli Anni 80, e allora l’Italia era considerata un grande Paese.
Eravamo la frontiera tra Oriente e Occidente, la marca di passaggio tra Nord e Sud.
Non è solo la globalizzazione; è l’Italia che si è assentata, ripiegata su se stessa».
Come valuta le vicende di questi giorni? «Le inquadro in una stagione finita, che si potrebbe definire la storia di un bambino mai nato.
La Seconda Repubblica non è mai nata, eppure si ha la sensazione che stia morendo.
Si è passati dalla Repubblica dei partiti a quella della tv e dei talk-show.
Non dico sia tutto da buttare.
Abbiamo l’euro.
Ma non abbiamo più fiducia nell’Europa: e come possiamo reggere il passo di Cina e India con le navicelle degli Stati europei? Benedetto XV diceva che le nazioni non possono morire.
Ma gli Stati forse sì.
Il Belgio ad esempio si sta suicidando».
Anche l’unità italiana è a rischio? «Un rischio c’è.
I 150 anni sono un po’ una festa triste.
Non riusciamo a fare un discorso sull’Italia.
Non abbiamo un’idea del Paese, della sua missione.
L’ultimo che l’ha avuta è Wojtyla, di cui sto per pubblicare la biografia.
Giovanni Paolo II aveva un’idea dell’Italia, e del suo ruolo del mondo.
L’aveva anche di Roma, di cui leggeva il nome come un palindromo: Amor».
Il voto anticipato sarebbe un dramma o una svolta? «Né l’uno né l’altra.
Sono stanco dell’enfasi apocalittica dell’ultima notizia politica.
Ci manca una visione.
Non vediamo la crisi del ceto medio, l’impoverimento del Paese.
Alle nostre mense venivano gli stranieri: ora vengono signore borghesi, impiegati.
Conosco divorziati che devono lasciare le loro case e dormono per strada, finendo per perdere anche il lavoro.
Ci allarmiamo per gli zingari, che a Roma sono 5 mila su 3 milioni di abitanti, e presentiamo gli sgomberi come una grande operazione, mentre è solo teatro, che per loro diventa tragedia.
Temiamo gli immigrati, che sono una ricchezza; e intanto chiudiamo i nostri anziani nei cronicari o nella villetta con la badante».
Il mondo cattolico ha dato troppo credito a Berlusconi? «Il mondo cattolico ha fatto la Dc; poi, dopo il Concilio, con la Dc ha desolidarizzato.
Qualcuno l’ha votata turandosi il naso, altri hanno seguito il provvidenzialismo del principe rosso liberatore.
Dopo l’ 89, il mondo cattolico si è spezzato in tanti frammenti.
Il cardinale Ruini ha dato credito all’ipotesi di Berlusconi.
Ma il sistema bipolare non ha garantito la stabilità.
A ben vedere, a modo loro erano più stabili i governi d emocristiani.
Mi chiedo se non sia tempo che il mondo cattolico assuma un’altra posizione, dia il suo contributo di idee nuove in un assetto politico diverso, plurale».
Lei una volta disse che il Partito democratico non è la soluzione.
«I due poli non sono la soluzione.
E il terzo polo, allo stato, è un cartello elettorale.
C’è molto cammino da fare.
Forse è tempo di costruire un centro, ma non solo per aggregazioni.
I cattolici sono chiamati a elaborare visioni.
A pensare di più.
A costruire una nuova idea dell’Italia, una missione per l’Europa.
Ci sono tante energie nel Paese.
È il tono antropologico che va giù, sono l’uomo e la donna italiani».
Non può essere ancora Berlusconi il leader per rilanciare il Paese? «Chi ha gestito la Seconda Repubblica non può rilanciare il Paese».
Chi allora? Un’alleanza tra il centro e il Pd? «Non basta discutere di cronaca politica.
Un’alleanza ci può essere, ma non si può partire da lì.
Il problema è che ci sia un centro.
Non si tratta di far rinascere la Dc, ma di aprire una stagione nuova, con un appello alla gente, per offrirle non solo sacrifici, anche prospettiva e respiro.
Serve una legge elettorale diversa da questa, che non esprime la geografia profonda della realtà italiana e manda in Parlamento i nominati dai leader.
Credo che al mondo ci sia un posto per l’Italia.
Noi abbiamo un genio, una funzione.
E abbiamo dei punti di riferimento: Napolitano, la Chiesa.
Il mondo cattolico ha un vissuto e risorse per aiutare a costruire un’identità nazionale e laica, non in contrasto con l’essere cristiani.
E mi chiedo se dal mondo cattolico non possa venire qualcosa di intelligente, di politicamente originale».
Quale direzione prenderà la rivolta del Nordafrica? Cosa può fare l’Occidente? «L’Occidente ha passato gli ultimi dieci anni a guardarsi dal pericolo verde.
Ma gli islamici sono rimasti spiazzati dalla rivolta.
I ribelli sono giovani, si convocano via sms.
Gli islamici sono vecchi.
Certo, il passaggio dalla democrazia degli sms al governo non è facile.
Ma l’Occidente dovrebbe fidarsi meno di questi guardiani che abbiamo appoggiato fino all’ultimo, come Ben Ali.
E potrebbe dare il suo contributo alla “democristianizzazione” degli islamici, sul modello turco di Erdogan.
Questa non è la rivoluzione araba.
L’idea di rivoluzione, durata due secoli, è morta con l’ 89 e con Wojtyla.
Possiamo costruire una transizione pacifica».
in “Corriere della Sera” del 4 febbraio 2011
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Nel mattino del mondo
Nel mattino del mondo di Bruno Forte in “Il Sole 24 Ore” del 23 gennaio 2011 È il silenzio il custode dell’inizio: sta oltre ogni parola ciò di cui si potrebbe parlare solo prescindendo dalle condizioni già poste del dire.
Pensare puramente l’inizio equivarrebbe a pensare quanto precede le strutture stesse del pensiero, per affacciarsi a ciò che è “fuori” dello spazio e “prima” del tempo: il vagheggiato «primo mattino del mondo» sfugge alla ricerca del soggetto, che, per quanto si sforzi, non è in grado di uscire da queste categorie dello spazio e del tempo.
L’ultimo approdo dell’indagine volta a scrutare l’inizio è dunque il senso del mistero che tutto avvolge, la percezione dell’incompiutezza di ogni sforzo teso dal basso a voler offrire una spiegazione totale.
La posta in gioco è alta, perché abbraccia il senso del vivere e del morire umano: perciò essa ci riguarda tutti, come mostrano i possibili esiti della risposta alla domanda sulle origini di tutto ciò che esiste.
Così, la resa al silenzio dell’ultima sponda può assumere la forma della rinuncia nichilista: si può rinunciare alla domanda, che muove la ricerca, sopprimendo la stessa nostalgia che è alla base dell’interrogare; si può accettare come unica evidenza attingibile la dignità di vivere eroicamente il frammento del presente, come se esso fosse capace di ospitare tutta la consistenza o la leggerezza dell’essere.
La resa nichilista, però, è solo apparente: assegnare al nulla il ruolo di orizzonte originario e finale significa restare nel trionfo del già posseduto.
Il nulla – se esteso ad avvolgere tutte le cose – resta una forma rovesciata del trionfo dell’io: ciò che manca al nichilista è la coscienza dell’altro, l’uscita dalla solitudine del soggetto e dalla rinuncia a comunicare.
L’itinerario che muove dalla domanda sull’inizio conduce, però, a un altro possibile approdo: dove è riconosciuto lo spazio silenzioso di ciò che è al di là dello spazio e il tempo senza tempo di ciò che è al di là del tempo, una voce può offrirsi.
Non una voce dell’al di qua, semplice prolungamento dei ragionamenti mondani imprigionati negli schemi dell’identità, ma la voce dell’Altro, che sia puramente tale.
L’alterità irrompe nel regno della logica prigioniera di sé; la differenza si fa strada nel dominio dell’identità.
L’evento di questo puro inizio, che supera le secche delle proiezioni dei desideri e dei fallimenti mondani, perché non diviene nella coscienza dell’uomo, ma viene a lui, indeducibile e improgrammabile, è il miracolo della rivelazione.
E la rivelazione parla dell’inizio parlando della creazione.
La creazione “preistoria” dell’alleanza.
«La Bibbia parla della creazione in guisa di racconto (Dio ha creato il mondo, gli uomini) e di corrispondente risposta espressa nella lode del Creatore.
Ma stranamente nella Bibbia ciò non costituisce una formula di fede…».
Nei racconti delle origini Israele riflette un patrimonio comune all’umanità arcaica, connesso al bisogno originario dell’essere umano di garantire in qualche modo la consistenza del mondo, dando sicurezza alla conturbante fragilità della vita.
Ciò che è nuovo e peculiare nel discorso biblico è il legame che esso stabilisce fra il racconto dell’inizio e la storia della salvezza d’Israele.
Si potrebbe dire che la testimonianza della Genesi sulla creazione è una «profezia retrospettiva»: partendo dall’esperienza che il popolo eletto ha fatto del Dio della storia, lo sguardo della fede biblica si estende ad abbracciare la realtà delle origini, colta come una sorta di «preistoria dell’alleanza» (Vorgeschichte des Bundes:Karl Barth).
Fra le due componenti non c’è semplice sovrapposizione, ma integrazione, senza peraltro escludere una non perfetta fusione (testimoniata ad esempio dalle ripetizioni di Gen 1,6 e 7; n e 12; 14s.
e 16ss.; 24 e 25; dalla sfasatura fra il numero delle opere e il numero dei giorni; e dal contrasto fra l’atto creatore significato in Gen 1,1 e l’idea di un caos primordiale, preesistente all’azione creatrice-ordinatrice).
Diventa allora di particolare interesse discernere gli elementi di originalità del racconto biblico circa le origini del mondo (Gen 1).
Il primo di questi è l’articolazione della narrazione in sei giorni, che tendono al riposo del settimo: la presentazione della creazione della luce è posta per prima precisamente al fine di garantire la distribuzione cronologica delle opere.
L’essere nel tempo è in tal modo privilegiato rispetto al semplice dato di esistere.
Il divenire storico, il situarsi nella successione degli atti e la conseguente relazione vitale appaiono più importanti del dominio dell’oggetto.
L’essere, che sta a cuore alla fede biblica, non è statico, ma in relazione, è l’essere storico, proprio della prospettiva dell’alleanza: già qui emerge come la tradizione delle origini sia riletta alla luce dell’esperienza della fede nel Dio salvatore, venuto incontro all’uomo nel tempo.
«L’ebraismo è una religione del tempo che mira alla santificazione del tempo…
L’eminente parola qadosh viene usata per la prima volta nel libro della Genesi alla fine della storia della creazione, ed è estremamente significativo che essa venga applicata al tempo: “E Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò”.
Nel racconto della creazione, a nessun oggetto dello spazio viene attribuito il carattere della santità» .
I sei giorni tendono al settimo: la creazione è “ab origine” orientata a un fine.
Meta di tutte le opere e di ogni attività a esse connessa è il riposo di Dio nella creazione e del creato in Dio, in quello che sarà il sabato eterno, di cui il sabato temporale è memoria e anticipazione.
Grazie alla meta sabbatica, il tempo è celebrato in tutta la sua dignità, ma ne è anche indicata la relatività, la necessaria provvisorietà del suo essere “storico”, volto cioè a una fine e a un fine: il sabato della creazione dice non solo la finale destinazione di tutto il creato a Dio e la Sua sovrana trascendenza rispetto a ogni creatura, ma anche l’incompiutezza del tempo, il suo costitutivo e necessario riferimento all’eterno.
Tutte le relazioni storiche devono insomma inverarsi nel sabato eterno, in cui uomo e natura, singolo e comunità saranno riconciliati nella gioia del Dio, che è all’inizio e alla fine di tutto.
«Il Sabato ci mette in sintonia con la santità nel tempo: in questo giorno siamo chiamati a partecipare a ciò che è eterno nel tempo, a volgerci dai risultati della creazione al mistero della creazione; dal mondo della creazione alla creazione del mondo».
In questa luce, ognuna delle opere di Dio nel racconto della creazione è vista come buona, protesa verso Colui da cui proviene.
L’affermazione che conclude l’opera di ognuno dei giorni – «E Dio vide che era cosa buona» – sta a indicare come essa sia adatta al suo fine, volta a incontrare il Creatore nella festa del settimo giorno.
La testimonianza biblica afferma, dunque, la bontà e la bellezza delle creature (l’ebraico tob racchiude i due significati), che consiste nel loro essere aperte verso Dio, relative a Lui, fatte per incontrarLo ed entrare nel Suo riposo.
La storia dell’umanità, come quella del mondo, ha una meta di bellezza, e perciò un senso, che è più forte di ogni caduta possibile.
Il settimo giorno carica il tempo di dignità e di promessa, perché ne mostra l’ultimo sbocco nel giorno del riposo di Dio e della creazione intera in Lui.
Anche l’uomo rientra in quest’assoluta creaturalità: il racconto sacerdotale della Genesi non si interessa al modo della creazione dell’uomo, rispettandone il mistero e situando la creatura umana in una stretta rete di solidarietà con tutte le altre creature.
Si preoccupa, però, di evidenziare – nell’alterità da Dio – l’originaria destinazione dell’essere umano a divenirne il partner nell’alleanza: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» (1,26).
Solidale col creato, l’uomo altro dal Creatore, creatura fra le creature, è centrale per esso, in quanto interlocutore del Dio vivente: è la creatura relazionale per eccellenza, fatta per la reciprocità («maschio e femmina li creò»: v.
28), nella prospettiva dell’originaria unità dei due.
L’immagine e la somiglianza dell’uomo con Dio vanno lette, dunque, nell’orizzonte dell’alleanza: esse esprimono la capacità dell’uomo a entrare nel patto in maniera consapevole e libera, la sua attitudine a relazionarsi e a situarsi in un rapporto di accoglienza e di gratuità.
Il racconto intende, insomma, evidenziare l’originaria e costitutiva destinazione al patto della creatura responsabile e libera: «L’uomo – ogni uomo – è creato affinché accada qualcosa tra lui e Dio, e la sua vita acquisti proprio per questo il suo significato».
L’articolo di Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, è un estratto della relazione “La creazione e le origini del mondo” tenuta a Palazzo Ducale di Genova mercoledì 19 gennaio.
Paradiso e libertà
RANIERO LA VALLE, Paradiso e libertà, Ponte alle Grazie, Milano 2010 Il nuovo libro di Raniero La Valle «Paradiso e libertà» riassume e sviluppa in modo articolato due ideali fondamentali della sua esperienza di credente e di uomo pubblico: il coinvolgimento attivo nella politica come impegno per la libertà, distintivo essenziale della persona umana, e la tensione consapevole verso il traguardo del cammino comune: la divinizzazione dell’uomo o l’assunzione del «nome scritto nei cieli» (cfr.
Lc.
10,20), il nome di figli di Dio.
I due aspetti sono collegati perché l’identità di figli di Dio è scritta nel cielo ma lo si costruisce solo sulla terra camminando insieme ai fratelli e vivendo consapevolmente la responsabilità per gli altri.
«Non si salva l’anima se non si grida per gli oppressi».
Ora «la politica altro non è che il consapevole vivere degli uomini insieme» (p.
164).
Il titolo «Paradiso e libertà» rievoca una curiosa terminologia della Bologna medioevale.
Un decreto del 1257, che riscattava le 5856 persone ancora soggette a qualche forma di schiavitù venne chiamato «Libro Paradiso», «perché la conquista della libertà era percepita come un ritorno al Paradiso; il Paradiso è la libertà; data da Dio a lei si ritorna» (p.
116).
Il termine ‘Paradiso’, come è noto, può designare sia la condizione originaria dell’uomo secondo il mito della perfezione iniziale (Paradiso terrestre), sia il traguardo al quale ogni uomo è chiamato: «l’identità definitiva dei figli di Dio», secondo le parole di Gesù sulla croce «Oggi sarai con me in Paradiso» (Lc.
23, 43).
Tra i due poli dell’inizio e della fine si intreccia l’esistenza storica dell’uomo che può svolgersi in un paradiso anticipato.
Perché «ogni volta che sono stati liberati dei prigionieri, che è stata abolita la schiavitù, che sono state chiuse le Inquisizioni, che sono stati cacciati gli invasori, che sono stati arrestati gli usurai, che sono stati sconfitti i mafiosi, che hanno acquistato diritti gli operai, che sono uscite le donne dalle mani di padri e padroni, che si sono poste garanzie per i delitti e per le pene, e ogni volta che si sono scritte le Costituzioni, e si è dato mano ad attuarle, e le si sono difese contro i loro eversori, e quando il costituzionalismo ha fatto concepire anche altre, ulteriori conquiste, allora si è stabilito un pezzo di paradiso in terra; e ogni volta che questo accade, si accorciano le distanze tra i due paradisi» (p.
29).
L’ideale quando è vissuto inserisce una tensione nella storia e affida molte responsabilità agli uomini.
«Forse un giorno questo paradiso, senza manicomi, senza carceri, senza ghetti, senza esclusioni, sarà possibile, qui in questo mondo.
Forse le istituzioni, tutte le istituzioni, potranno assicurare la libertà, invece che toglierla…
per costruire piuttosto un nuovo ordine di rapporti umani e vivere in un libero Paradiso in libera terra» (p.
120).
Il sottotitolo, «L’uomo quel Dio peccatore», riassume l’antropologia soggiacente alle scelte storiche e alle riflessioni proposte.
L’uomo è l’unica creatura fatta «a immagine e a somiglianza di Dio» (cfr.
Gen.
1,26 s) e lo è in virtù della libertà.
La libertà dell’uomo, tuttavia, implica la possibilità di peccare, a differenza della libertà di Dio «che non può dissociarsi dalla propria immagine, non può non somigliare a se stesso, non può sdivinizzarsi» (p.
121).
«Come la divinità è ciò che distingue l’uomo dagli animali, così il peccato è ciò che distingue l’uomo dagli animali e da Dio; e se Dio è l’essere divino che non pecca, l’uomo è l’essere divino che, peccando, viene meno alla sua divinità» (p.
121).
È possibile però uscire dal peccato per entrare nell’ambito della grazia riconciliatrice.
Questo è un aspetto essenziale del «buon annuncio» che è il Vangelo di Gesù: il peccato può essere redento, l’amore di Dio si esprime come misericordia per i peccatori.
Dio entra nella terra sterminata del peccato, «vi entra per farsi uomo, l’uomo ne esce per farsi Dio» (p.
122).
Tutto ciò è possibile non in virtù della buona volontà dell’uomo o delle sue attuali capacità, bensì perché «nell’ uomo c’è una misteriosa energia divina; misteriosa non perché sia magica, ma perché è divina.
E se Dio è amore…
questa energia è l’amore.
Come la libertà è nell’uomo l’immagine di Dio, così l’amore è Dio che ama attraverso l’uomo; di questo amore l’uomo è il vaso e il ministro, ne è la trasparenza e il filtro» (p.
175).
D’altra parte lo stesso Concilio nel «Decreto sulle religioni non cristiane» aveva parlato «di quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana» (Nostra Aetate n.
2).
Questa forza creatrice nell’uomo è giunta a fiorire come amore e conduce avanti la storia.
Per questo: «l’antidoto al male e al peccato non è mai il Dio degli eserciti, del giudizio, della condanna, del potere, ma solo e sempre» (p.
186) il Dio dell’Amore misericordioso rivelato da Gesù.
È la forza che consente di portare il male, di attraversare la sofferenza espressioni provvisorie della condizione imperfetta delle creature, per il momento ineliminabile.
«C’è troppo dolore nel mondo, per pensare che esso non trovi né consolazione né fine» (p.
200).
Questa stessa forza dell’amore spinge il mondo verso il compimento, perché il Bene che la suscita e la muove è già esistente in forma piena e può far fiorire modalità inedite di fraternità e di giustizia.
Questa tensione verso il Bene è essenziale alla prospettiva cristiana, ma è anche una leva di sconvolgimenti storici per cui «il cristianesimo che perda l’escatologia perde la sua anima, ma il mondo perde la rivoluzione» (p.
200).
La missione della Chiesa in questa prospettiva è proclamare e difendere l’eccelsa dignità della persona umana; diffondere dinamiche di attesa, suscitare la tensione verso il compimento attraverso le sue anticipazioni.
La Chiesa, in quanto struttura, non è l’unico ambito di salvezza nel mondo, ma è lo strumento perché tutta l’umanità diventi popolo di Dio.
«Questo popolo di Dio, che sta nella Chiesa visibile ma non finisce nella Chiesa visibile, che sta in tutti i luoghi e in tutti i punti della storia, che è il soggetto in cui si gioca la salvezza, esistenzialmente, sociologicamente, politicamente è l’umanità tutta intera.
E lei il corpo di cui Cristo è il capo: come dice la Mystici corporis, Cristo morendo in croce offrì al Padre se stesso quale capo di tutto il genere umano (p.
217).
Ciò che importa, in ogni caso, è mantenere alta la tensione verso il compimento, alimentare la speranza, perché solo questa consente di camminare anche quando tutto intorno è tenebroso.
La città degli uomini può acquisire caratteristiche che anticipano e fanno presagire la città di Dio «e l’uomo, se è divino può trovarsi a suo agio in ambedue le città» (p.
29).
Questi messaggi riassumono la intensa e ampia riflessione di Raniero La Valle, che ha indicato i criteri con cui riconoscere nella storia umana la sottile trama della salvezza offerta da Dio a tutti gli uomini.
La conclusione è molto chiara: «il mondo non è da buttare.
È il mondo di Dio, abitato da creature chiamate ad essere come Dei.
E i demoni sempre infesti e sconfitti» (p.
220).
Carlo Molari in “Rocca” n.
1 del 1 gennaio 2011
Per riformare la Chiesa
Giuseppe Casale, Per riformare la Chiesa, La Meridiana, Molfetta 2010 Un libro, questo di Giuseppe Casale, di poche pagine, ma che ne vale molte, tanto vibra speranza e, intriso di ardimento evangelico e visione ampia delle urgenze pastorali dell’oggi, affronta senza esitazione anche problemi di solito tabù per l’establishment ecclesiastico.
Classe 1923, vescovo di Vallo della Lucania nel 1974 e, dall’88 al ’99, di Foggia, il prelato ormai vive come «emerito»; ma non solo non si è estraniato dall’agorà ecclesiale, ma su di essa riflette a voce alta, e coraggiosamente parla di quello che molti suoi confratelli sembrano non vedere, o che altri pur vedono, ma non osano nominare: e cioè delle riforme che la Chiesa romana dovrebbe attuare per essere più fedele al messaggio di Gesù e per non seppellire il Vaticano II.
«Appunti per una stagione conciliare» è, infatti, il sottotitolo del libro, le cui considerazioni sono tese tra l’ultimo Concilio e la nuova stagione che Casale si augura per attuare quelle riforme che il Vaticano II non poté fare, o solo prospettò in germe, o la cui esigenza, emersa solamente in questi ultimi anni, oggi reclama di essere valutata con ponderazione, fiducia e disponibilità all’ascolto dello Spirito e al cambiamento.
Spiega, infatti, l’autore nella premessa: «I tempi del Concilio! Quante speranze e quanta gioia nell’attuarne gli insegnamenti.
Soprattutto nel sentirsi popolo di Dio in cammino nella storia per farvi penetrare il lievito evangelico.
Da vescovo ho cercato di camminare insieme con la mia gente del Sud, condividendo la loro vita e animando un impegno di riscossa contro antiche e nuove oppressioni.
Non ho pensato che tutto potesse filar liscio come l’olio.
Non credo che il Vangelo possa prescindere dalla logica della Croce e ridursi a passeggero entusiasmo.
Però non bisogna eludere le domande che la società ci pone.
Il Concilio ha avviato un confronto che va continuato.
Non chiudiamoci in difesa inventandoci complotti contro la Chiesa.
O riducendo a chiacchiericcio le voci che denunziano le nostre mancanze di fedeltà al Vangelo» (pagine 7-8).
Il primo argomento che Casale tocca è quello del dialogo nella Chiesa, riferendosi a quanto, in proposito, auspicava Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam suam (1964).
Nota Casale: «Quanto lontane sembrano queste parole [del papa] e quanta tristezza per l’attuale incomunicabilità nella Chiesa.
Bisogna essere intimamente convinti che la vitalità della Chiesa cresce quando c’è dialogo nell’obbedienza.
Le inquietudini del post-Concilio hanno condotto a sopire, a mettere il silenziatore sulle voci del dissenso, sulle richieste di una più fedele attuazione degli orientamenti conciliari.
L’unità è stata intesa come piatto conformismo, mancanza di creatività, adesione a programmi studiati a tavolino e non rispondenti alle urgenze dell’ora presente.
Nella Chiesa è prevalsa la parola del ritorno all’ordine, frenando i tentativi di nuove esperienze che meglio interpretassero e pienamente attuassero lo spirito del Concilio.
Messe a tacere le voci che invocavano riflessione attenta, confronto sereno, verifica del rapporto Chiesa-società, si sono fatte forti e insistenti le voci dei cattolici plaudenti.
Cattolici che vivono tranquilli nelle loro posizioni di comodo, all’ombra dell’autorità…
Si è fatto un gran parlare del progetto culturale [particolarmente voluto dal cardinale Camillo Ruini, per tre lustri presidente della Conferenza episcopale italiana].
Ma, che cosa rappresenta un colloquio tra cosiddetti intellettuali che vogliono continuare a tenere legata la Chiesa ad un occidente che ha ormai eliminato il vangelo dalla vita quotidiana? Come rompere la ragnatela di compromissioni, omertà, paure, connivenze che stringe in una morsa velenosa e avvilente non solo alcune regioni dell’Italia meridionale, ma ormai l’intero paese?» (pagine 13- 14).
Casale elenca quindi la necessità di riforme, ma che siano «vere», e non come quelle apportate ad esempio nella Curia romana, che «hanno abbellito l’aspetto esterno dell’istituzione ecclesiastica, hanno creato nuovi organismi, ma non hanno eliminato o modificato mentalità e atteggiamenti del passato.
Il clericalismo rimane dominante» (pagine 17-18).
Ampio è poi il ventaglio dei ponderosi temi che egli propone di affrontare: una reale attuazione della collegialità episcopale e perciò il cambiamento (già auspicato, ma non attuato, da papa Wojtyla) del modo di esercizio del ministero petrino; l’ammissione dei viri probati (uomini di età matura, già sposati, ordinati presbiteri); la ridiscussione del divieto ai divorziati risposati di accostarsi all’Eucaristia; una più ponderata riflessione sul testamento biologico (il prelato dissente dalla rigida posizione delle gerarchie ecclesiastiche nel caso di Eluana Englaro); la scelta della povertà come norma costitutiva anche per l’istituzione ecclesiastica; un vero riconoscimento dell’autonomia del laicato…
Per fare questo, egli conclude, urge aprire una nuova «stagione conciliare», un tempo di aperto dibattito sui problemi emergenti per infine approdare, chissà, ad un nuovo Concilio di riforma.
Proposte analoghe sono state indicate spesso da vescovi africani o latinoamericani; che si odano anche in Italia è davvero un segno di speranza.
Malgrado molte gelate, il Vaticano II non è passato invano.
Il tranquillo coraggio di un italiano vescovo di David Gabrielli in “Confronti” n.
1 del gennaio 2011
I movimenti cattolici: Il cammino Neocatecumenale
Nel discorso rivolto due giorni fa a migliaia di membri entusiasti del Cammino Neocatecumenale, riuniti nell’aula delle udienze, Benedetto XVI ha battuto per tre volte in sole venti righe sul tasto dell’obbedienza dovuta ai vescovi.
In effetti, il rapporto con i vescovi è un punto dolente del Cammino, fondato e diretto da più di quarant’anni dai laici spagnoli Francisco José Gómez Argüello, detto Kiko, e Carmen Hernández, affiancati dal sacerdote italiano Mario Pezzi.
Tra i vescovi, il Cammino conta molti sostenitori in tutto il mondo.
Il prossimo 26 gennaio 250 di costoro, tra i quali 70 dagli Stati Uniti, si ritroveranno in Israele nella Domus Galilaeae, la residenza ideata e costruita da Kiko sulle pendici del Monte delle Beatitudini, con magnifica vista sul lago, per uno stage in cui lo stesso Kiko farà da mattatore.
Ma vi sono anche numerosi vescovi che dal Cammino si sono sentiti scottati, dopo averlo visto all’opera sul proprio territorio.
Ad esempio i vescovi del Giappone.
Il 15 dicembre 2007, nella visita “ad limina” fatta al papa, il loro presidente, che all’epoca era l’arcivescovo di Tokyo, Peter Takeo Okada, disse a Benedetto XVI che “la potente attività simile a una setta sviluppata dai membri del Cammino produce acute e dolorose divisioni e lotte all’interno della Chiesa”.
I vescovi giapponesi esigevano la chiusura del seminario che il Cammino aveva aperto nel 1990 nella diocesi di Takamatsu.
Il Cammino faceva resistenza.
Nel 2008 per due volte dei vescovi giapponesi dovettero recarsi a Roma a perorare la loro causa.
Il segretario di stato vaticano Tarcisio Bertone studiò la questione e diede ragione ai vescovi.
Entro l’anno i seminaristi e il loro rettore dovettero traslocare a Roma.
Ma i membri del Cammino presenti in Giappone non accettarono la cosa pacificamente.
Il vescovo di Takamatsu, Francis Osamu Mizobe, scrisse loro una lettera in cui lamentava che celebrassero liturgie separate e chiedeva che obbedissero alle diocesi invece che ai loro capi.
Da Roma, la congregazione per l’evangelizzazione dei popoli inviò in Giappone un ispettore favorevole al Cammino, Javier Sotil Vaios Espiriceta.
L’ispezione avvenne tra il 20 e il 25 marzo 2009.
Ma non ebbe effetto.
Tant’è vero che nel 2010 i vescovi giapponesi, unanimi, decisero di farla finita.
All’inizio dell’Avvento resero pubblica la loro decisione di sospendere per cinque anni la presenza del Cammino nell’intero paese.
Il Cammino fece appello a Roma, alle massime autorità della Chiesa.
E in effetti lo scorso 13 dicembre si è svolta in Vaticano una riunione fuori del comune.
Da una parte del tavolo c’erano cinque vescovi giapponesi: quello di Osaka e presidente della conferenza episcopale, Leo Jun Ikenaga, gesuita (nella foto); quello di Takamatsu, Mizobe; quello di Fukuoka, Dominic Ryoji Miyahara; quello di Niigata, Tarcisius Isao Kikuchi; e quello emerito di Oita, Peter Takaaki Hirayama.
Dall’altra parte del tavolo c’erano il papa in persona, il cardinale Bertone, altri cinque cardinali e un arcivescovo.
In curia il principale protettore dei neocatecumenali è il sostituto segretario di stato Fernando Filoni.
Le autorità vaticane hanno ordinato ai vescovi di riprendere il dialogo con il Cammino, con l’aiuto di un delegato inviato da Roma e seguendo le istruzioni della segreteria di stato e della congregazione per l’evangelizzazione dei popoli.
I dirigenti del Cammino hanno accolto la decisione vaticana come un loro successo.
Ma i vescovi giapponesi faticano a pazientare ancora.
Il 12 gennaio il loro presidente, l’arcivescovo Ikenaga, ha scritto sul settimanale cattolico giapponese “Katorikku Shimbun” che “noi vescovi, alla luce della nostra apostolica responsabilità pastorale, non possiamo ignorare il danno che producono i neocatecumenali”.
E così ha proseguito: “Nei luoghi dove passano quelli del Cammino aumentano la confusione, i conflitti, le divisioni, il caos.
Speriamo che diano uno sguardo realistico ai motivi per cui le cose non hanno fin qui funzionato e, per la prima volta, ci aiutino ad andare alle radici dei problemi, affinché si possa arrivare a una soluzione”.
Il delegato vaticano non è stato ancora designato.
Quando arriverà, l’arcivescovo Ikenaga ha chiesto ai cattolici giapponesi entrati a contatto col Cammino di incontrarlo e di vuotare il sacco senza reticenze, perché questo è l’unico modo per “far arrivare il vero stato delle cose a un posto così lontano come Roma”.
Nella conferenza stampa tenuta a Roma il 17 gennaio subito dopo l’udienza col papa, Kiko Argüello ha detto che il Cammino agisce sempre in obbedienza ai vescovi e quindi non opera nelle diocesi in cui il vescovo non lo consente.
Ma il caso del Giappone è la prova che le cose non si svolgono in modo così lineare.
Dove il Cammino ha messo piede è difficile che retroceda, indipendentemente da cosa pensino i vescovi.
* Nella stessa udienza del 17 gennaio, Benedetto XVI ha toccato un altro punto dolente del Cammino, quello dei suoi testi di catechismo.
Questi testi – tredici volumi trascritti dall’insegnamento orale di Kiko e Carmen, oggi riassunti sotto il titolo di “Direttorio catechetico del Cammino neocatecumenale” – sono sempre stati segreti.
Nel 1997 l’allora cardinale Joseph Ratzinger ordinò che fossero consegnati alla congregazione per la dottrina della fede, per essere sottoposti a un esame dei loro contenuti dottrinali.
L’esame si protrasse fino al 2003.
La congregazione, che all’epoca aveva Bertone come segretario, apportò delle correzioni e introdusse circa 2000 rimandi a passi paralleli del catechismo ufficiale della Chiesa cattolica.
Eppure, solo alla fine del 2010 i tredici volumi dell’opera hanno avuto l’approvazione ufficiale, comunicata da Benedetto XVI nell’udienza di due giorni fa.
Perché questo lungo purgatorio? Stando a ciò che Kiko ha detto nella conferenza stampa del 17 gennaio, il motivo era che nel frattempo c’erano altre due questioni da sistemare: l’approvazione definitiva dello statuto del Cammino e l’approvazione del modo con cui nelle comunità neocatecumenali si celebrano la messa e altri sacramenti.
Lo statuto è stato approvato l’11 maggio del 2008 – un anno dopo che era scaduto il precedente statuto provvisorio – e in esso sono state fissate anche le regole liturgiche alle quali il Cammino deve attenersi.
Entrambi questi traguardi sono stati raggiunti con grande fatica e in capo a forti contrasti, specie in campo liturgico, come www.chiesa ha documentato a suo tempo.
E tuttora i comportamenti effettivi delle comunità neocatecumenali non obbediscono sempre e in tutto alle norme.
Le messe continuano a essere celebrate nella gran parte dei casi separatamente, gruppo per gruppo, a porte semichiuse, con largo spazio alla creatività, cioè alle modalità rituali e parlate ritenute utili ai fini del cammino di iniziazione di ciascun gruppo.
Per i catechismi il criterio sembra essere lo stesso.
“Anche ora che sono stati approvati – ha detto Kiko nella conferenza stampa del 17 gennaio – c’è un cammino di iniziazione che va rispettato.
Non è bene che uno possa vedere subito l’intero percorso, prima ancora di cominciarlo.
Se la Chiesa ce lo ordinasse li metteremmo in vendita.
Ma preferiamo di no”.
* Nell’udienza del 17 gennaio Benedetto XVI ha inviato in missione 230 famiglie neocatecumenali, che si sono aggiunte alle oltre 600 già in missione in vari paesi del mondo.
Oltre a queste, ha inviato “ad gentes” anche 13 sacerdoti accompagnati ciascuno da tre o quattro famiglie, col compito di impiantare un nucleo di Chiesa in luoghi in cui il cristianesimo è sparito o non è mai arrivato.
All’udienza erano presenti anche i 2000 seminaristi dei 78 seminari “Redemptoris Mater” che il Cammino ha in tutto il mondo, dai quali sono usciti in vent’anni 1600 preti.
Le ultime cifre danno il Cammino presente in oltre 1320 diocesi di 110 paesi nei 5 continenti, con 20.000 comunità in circa 6.000 parrocchie.
Di queste 20.000 comunità, 500 sono a Roma – definita “la diocesi del mondo in cui il Cammino si è più sviluppato” – e 300 a Madrid, suo luogo d’origine.
Se ad ogni comunità si assegnasse una media di 15 membri, il totale dei neocatecumenali adulti nel mondo sarebbe di 300.000.
“Ma con i bambini e i ragazzi passiamo il milione”, dicono.
Le famiglie neocatecumenali, infatti, sono molto prolifiche.
Tra quelle inviate in missione la media è di 4 figli per coppia.
__________ Il testo integrale del discorso di Benedetto XVI nell’udienza del 17 gennaio 2011: > “Cari amici…” __________ Il sito ufficiale del Cammino, in otto lingue: > Cammino Neocatecumenale __________ Per i precedenti servizi di www.chiesa sul tema, vedi: > Focus su MOVIMENTI CATTOLICI
Se l´Europa non difende le libertà religiose
Un pensiero struggente mi è tornato alla mente in questi giorni: le grandi aspirazioni perdute che nacquero alla fine del secolo scorso.
Allora sembrò a tutti che la libertà avrebbe presto trionfato ovunque.
Con la sconfitta del comunismo, in realtà, si apriva invece una fase dura, difficile, a tratti perfino tragica della storia mondiale, che sarebbe finita nell´attuale diffuso stato di violenza ed incertezza.
In fondo, le notizie che abbiamo appreso di recente dalla Nigeria, dal Pakistan, dalle Filippine, e poi, quasi a conclusione di un macabro rituale, dall´Egitto, sono un segnale eloquente del contemporaneo muoversi caotico di un´umanità da vent´anni a questa parte alla ricerca di una direzione che sfugge ad ogni controllo politico.
C´è di sicuro un ché di raccapricciante a vedere quanto sia facile sapere in tempo reale gli eccidi che si perpetrano su minoranze etniche, religiose e perfino laiche dovunque siano ritenute scomode, fastidiose o magari semplicemente irrilevanti da qualche gruppo preminente.
È quasi inutile chiedersi perché.
È chiara l´adiacenza del nostro tempo a quanto Benedetto Croce definiva in uno scritto del 1945, intitolato Libertà e forza, una situazione paradossale.
Egli giudicava impossibile, infatti, «pensare che il metodo della libertà potesse condurre alla soppressione della libertà, ossia che un giorno la moralità potesse giungere a sopprimere la moralità e a farsi suicida».
Oggi, per contro, la libertà entra direttamente in conflitto con se stessa, deflagrando istantaneamente in un sito web per pochi minuti come un estemporaneo misfatto di cronaca.
Ma cosa può esserci di più funesto che morire perché si assiste ad una messa, com´è avvenuto in Egitto, o perché si subisce una condanna a morte per adulterio, come avviene normalmente in Iran, o perché si è minoranza musulmana, ebrea e cristiana, magari per nascita neanche per pratica religiosa, come accade di sovente in medio e in estremo Oriente? Il disgusto diviene vero disappunto, pensando all´inedia che domina l´Unione Europea, senza un ´incisiva politica estera comune, e l´inefficacia delle Nazioni Unite, che non adempiono praticamente più al dovere di far rispettare almeno nei Paesi membri l´uguale dignità umana di ogni cittadino, a dispetto della solenne Dichiarazione dei Diritti dell´Uomo nel ´48.
Ciò nonostante, i comportamenti pubblici e privati sono dominati sempre e soltanto dalla libertà.
Non sembra esserci davvero niente che possa limitare l´esercizio collettivo o individuale di un´arbitraria forza egemone.
E così dappertutto proliferano violenze immani, con le più radicali bestialità elargite senza legalità dagli uni sugli altri.
Molte società di oggi, in definitiva, sono sempre più simili alla comunità «naturale» immaginata da Thomas Hobbes nel Leviatano, dove tutti gli individui sono perfettamente identici e liberi, e proprio perciò perennemente in guerra per avere le stesse cose a scapito dei più deboli, inermi e meno numerosi.
Al contrario dei conflitti del secolo scorso, infatti, che coinvolgevano popoli sovrani, quella odierna è la belligeranza anarchica tra due libertà orfane della verità, che si lacerano in modo fratricida nel loro reciproco rapporto.
Come ha spiegato Steven Lukes in un recente studio sul potere, si constata dappertutto una alternativa unica: o una mera esigenza di fare, di decidere, di oltrepassare la barriera di se stessi per realizzare materialmente e in modo illimitato le proprie possibilità.
E allora vi è una pulsione libera che inevitabilmente soffoca l´altro nella dittatura dell´egoismo della fede o dell´incredulità.
Di tale atteggiamento marcatamente decisionista rendono testimonianza i tanti integralismi laici e fideistici del mondo.
Oppure s´impone una testimonianza più profonda e radicale di libertà che si identifica con l´essere stesso della persona.
In questo secondo caso, non è il riuscire a fare che esprime la realizzazione suprema di ciascuno, ma l´accettazione di se stessi e degli altri nei rispettivi termini, un riconoscimento civile e degno di sé che è tanto più concreto quanto meno è immediatamente riportabile al gusto e al capriccio individuale.
I filosofi classici avevano già capito il fenomeno, distinguendo la libertà interiore da quella esteriore, una separazione che oggi torna a dividere fatalmente chi difende i diritti umani da chi vuole spegnerli nella brutalità.
Solo la prima libertà è, però, realmente positiva.
La seconda, anche quando è democratica, resta un´opzione che produce inevitabilmente violenza e ritorsioni.
Perciò, Benedetto XVI ha difeso giustamente, anche nel recente messaggio per la giornata della pace, il valore religioso che ha la libertà interiore per vincere l´integralismo fideista e laicista che intende cancellare dall´esterno l´unica verità intrinseca all´uomo, e che sola può dare l´agognata felicità.
In tal senso è importante – anzi, essenziale perfino inevitabile – che a livello internazionale si promuova una nuova cultura della libertà, ancorata alla verità umana e non sorretta dalla soddisfazione esclusiva dei propri interessi – siano atei o pseudoreligiosi – di tipo democratico o dittatoriale.
D´altronde, il segno tangibile che i diritti umani hanno presa e diffusione in un determinato contesto sociale è la fiducia etica che ciascuno possa trovare in sé con gli altri la pace e la verità, identificando il senso religioso del suo rapporto positivo o negativo con Dio con il significato stesso della sua umanità.
Niente, infatti, può mai sostituirsi al valore permanente e indisponibile di ogni persona senza distruggere al contempo quanto c´è di veramente civile in ogni essere umano.
E, in un conflitto globale come quello che viviamo, in gioco vi è molto più dellavittoria del capitalismo sul comunismo.
Si decide quotidianamente, con la rispettiva libertà religiosa, la sopravvivenza o meno di tutto il genere umano.
in “la Repubblica” del 18 gennaio 2011
La tristezza della lussuria
La sapienza dei padri della Chiesa fin dai primi secoli ha saputo distinguere tra alcuni peccati gravissimi – passibili di «scomunica» e di una lunga penitenza pubblica prima della riammissione nella comunità cristiana: apostasia, adulterio, omicidio, aborto…
– ma legati a un singolo gesto e altri peccati o vizi «capitali» che sono invece espressione di una patologia spirituale molto più profonda.
Comportamenti generati da «pensieri malvagi» che in certo senso minano la personalità stessa di chi li commette, facendolo finire in una spirale di depravazione sempre più disumana: autentici «vizi dell’anima», che nascono dal cuore e che a partire dal cuore vanno contrastati.
Tra questi la lussuria, il rapporto deformato con il sesso, una passione che porta a ricercare il piacere per se stesso, il godimento fisico avulso dallo scopo al quale è legato.
Il piacere sessuale è il più intenso piacere fisico, un piacere complesso che investe il corpo e la psiche, un piacere inerente all’atto sessuale, di cui tuttavia costituisce solo un aspetto.
Ora, se il piacere è cercato nella «quantità», nella compulsione, nell’eccedenza, l’incontro sessuale viene ridotto alla sola genitalità, al piacere fisico e all’orgasmo, l’interesse si focalizza sull’organo specificamente implicato in esso e lì si rinchiude, senza aperture ad alcuna finalità.
L’unico scopo diventa possedere l’altro per farlo strumento del proprio piacere: l’altro è ridotto al suo corpo, alle sue parti erotiche e desiderabili, diventa un oggetto, addirittura un elemento feticistico…
Ma l’energia sessuale è unificante quando è rivolta all’amore, alla comunicazione, alla relazione, cioè a una «storia» d’amore; ridotta all’erotismo, invece, essa frammenta, divide, dissipa il soggetto.
Chi è preda della lussuria assolutizza la propria pulsione e nega la relazione con l’altro, compiendo così una scissione della propria personalità e riducendo l’altro a una «cosa», prima ancora che a una merce.
Le pulsioni erotiche, non più ordinate e armonizzate nella totalità del sé, sfogano la propria natura caotica e selvaggia, fino a sommergere l’altro, indotto nella fantasia o nella realtà – quasi sempre con prepotenza – all’atto sessuale: la lussuria si manifesta là dove il piacere sessuale è incapace di sottostare alle elementari regole della dignità propria e altrui.
Eppure questa passione nasce nello spazio della sessualità, dimensione umana positiva tesa alla comunione tra uomo e donna: la complessità del piacere sessuale non riguarda solo la genitalità e l’orgasmo, ma coinvolge la persona intera, con tutti i suoi sensi.
Linguaggio d’amore, manifestazione del dono di sé all’altro, il piacere sessuale è coronamento dell’unione e, come tale, resta inscritto nella storia di un uomo o di una donna: appare nella pubertà ed è accompagnato dalla fecondità, per poi conoscere una stagione di sterilità, fino alla sua estinzione.
La lussuria, per contro, consiste nell’intendere il piacere come realtà scissa dai soggetti, dalla loro storia d’amore, ed è perciò una ferita inferta a se stessi e all’altro.
Quando si separa il corpo dalla persona, allora l’esercizio della sessualità è sfigurato, degenera, sfocia in aridità, diventa ripetizione ossessiva, obbedisce all’aggressività e alla violenza.
L’amore, che è dono di sé e accoglienza dell’altro, è smentito radicalmente dalla lussuria, che vuole il possesso dell’altro; e così il rapporto sessuale, che dovrebbe essere un linguaggio «altro», sempre accompagnato dalla parola ma anche eccedente la parola stessa, diventa la morte del linguaggio, della comunicazione, impedendo di fatto ogni comunione.
Viviamo in un contesto culturale, costruito ad arte da molti mass media e sfruttato dalla pubblicità, in cui l’unica realtà non oscena è quella dell’erotismo: è ormai inevitabile imbattersi in immagini erotiche, che si imprimono nella mente per riemergere in seguito e stimolare fantasie perverse.
Per reagire a tale clima ammorbante dovremmo acquisire la consapevolezza che la lussuria toglie la libertà: chi ne è schiavo finisce per asservirsi all’idolo del piacere sessuale, un idolo ossessionante che innesca una pericolosa dipendenza.
Chi è preda della lussuria è come malato di bulimia dell’altro, lo cosifica in modo reale nella prestazione sessuale o in modo virtuale nell’immaginazione.
La vera perversione in atto nella lussuria è infatti quella che induce a concepire l’altro come semplice possibilità di incontro sessuale, come mera occasione di piacere erotico.
Come non notare oggi il fenomeno della senescenza precoce dell’esercizio sessuale nelle nuove generazioni? Come ignorare l’esercizio di un eros virtuale, la ornodipendenza da internet? Per questa strada ci si incammina verso il baratro di un libidogramma piatto, si uccide l’eros per sempre.
Una gestione sana del piacere sessuale comporta che la presa di coscienza di un corpo sessuato si accompagni alla volontà di incontrare l’altro nella differenza e nel rispetto dell’alterità: si tratta di integrare la sessualità nella persona, attraverso l’unità interiore della persona nel suo essere corpo e spirito.
Certo, richiede una padronanza di sé, ma questa è pedagogia alla vera libertà umana: o l’essere umano domina le proprie passioni oppure si lascia da esse alienare e ne diventa schiavo.
Il lussurioso riceve come salario del proprio vizio una tristezza e una solitudine più pesanti, alle quali pensa di riparare entrando nella spirale lussuriosa per nuove esperienze, nuovi incontri, nuovi piaceri: sì, una spirale «dia-bolica» che separa sempre di più piacere da relazione e fecondità.
Per questo la disciplina interiore, anche nello spazio della sessualità, è sempre opera di libertà e, quindi, di ordine e di bellezza: è uno sforzo di umanizzazione capace di trasformare anche l’esercizio della sessualità in un’opera d’arte, in un capolavoro che corona una storia d’amore.
in “La Stampa” del 19 gennaio 2011
Il Concilio Vaticano II
LA SFIDA DI INTERPRETAZIONI CONTRASTANTI di Athanasius Schneider […] Per un’interpretazione corretta del Concilio Vaticano II è necessario tenere conto dell’intenzione manifestata negli stessi documenti conciliari e nelle parole specifiche dei papi che l’hanno indetto e presieduto, Giovanni XXIII e Paolo VI.
Inoltre è necessario scoprire il filo conduttore di tutta l’opera del Concilio, cioè la sua intenzione pastorale, che è la “salus animarum”, la salvezza delle anime.
Questa, a sua volta, dipende ed è subordinata alla promozione del culto divino e della gloria di Dio, cioè dipende dal primato di Dio.
Questo primato di Dio nella vita ed in tutta l’attività della Chiesa è manifestato inequivocabilmente dal fatto che la costituzione sulla liturgia occupa intenzionalmente e cronologicamente il primo posto nella vasta opera del Concilio.
[…] * La caratteristica della rottura nell’interpretazione dei testi conciliari si manifesta in modo più stereotipato e diffuso nella tesi di una svolta antropocentrica, secolarizzante o naturalistica del Concilio Vaticano II riguardo alla tradizione ecclesiale precedente.
Una delle manifestazioni più note di una tale interpretazione sbagliata è stata, per esempio, la cosiddetta teologia della liberazione e la sua susseguente devastante prassi pastorale.
Quale contrasto vi sia tra questa teologia della liberazione e la sua prassi ed il Concilio, appare evidente dal seguente insegnamento conciliare: “La missione propria che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è d’ordine politico, economico o sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso è d’ordine religioso” (cfr.
“Gaudium et Spes”, 42).
[…] Un’interpretazione di rottura di peso dottrinalmente più leggero si è manifestata nel campo pastorale-liturgico.
Si può menzionare a tal proposito il calo del carattere sacro e sublime della liturgia e l’introduzione di elementi gestuali più antropocentrici.
Questo fenomeno si evidenzia in tre pratiche liturgiche assai note e diffuse nella quasi totalità delle parrocchie dell’orbe cattolico: la scomparsa quasi totale dell’uso della lingua latina, la ricezione del corpo eucaristico di Cristo direttamente sulla mano e in piedi e la celebrazione del sacrificio eucaristico nella modalità di un cerchio chiuso in cui sacerdote e popolo continuamente si guardano vicendevolmente in faccia.
Questo modo di pregare – cioè il non essere rivolti tutti nella medesima direzione, che è un’espressione corporale e simbolica più naturale rispetto alla verità di essere tutti spiritualmente rivolti a Dio nel culto pubblico – contraddice la pratica che Gesù stesso e suoi apostoli hanno osservano nella preghiera pubblica sia nel tempio sia nella sinagoga.
Contraddice inoltre la testimonianza unanime dei Padri e di tutta la tradizione posteriore della Chiesa orientale ed occidentale.
Queste tre pratiche pastorali e liturgiche di clamorosa rottura con la legge della preghiera mantenuta dalle generazioni dei fedeli cattolici durante almeno un millennio, non trovano nessun appoggio nei testi conciliari, anzi piuttosto contraddicono sia un testo specifico del Concilio (sulla lingua latina: cfr.
“Sacrosanctum Concilium”, 36 e 54), sia la “mens”, la vera intenzione dei Padri conciliari, come si può verificare negli atti del Concilio.
* Nel chiasso ermeneutico delle interpretazioni contrastanti e nella confusione d’applicazioni pastorali e liturgiche, appare come unico interprete autentico dei testi conciliari il Concilio stesso, unitamente al papa.
Si potrebbe porre un’analogia con il clima ermeneutico confuso dei primi secoli della Chiesa, provocato da interpretazioni bibliche e dottrinali arbitrarie da parte di gruppi eteredossi.
Nella sua famosa opera “De praescriptione haereticorum” Tertulliano poteva contrapporre agli eretici di diverso orientamento il fatto che solamente la Chiesa possiede la “praescriptio”, cioè soltanto la Chiesa è la proprietaria legittima della fede, della parola di Dio e della tradizione.
Con questo nelle dispute sulla vera interpretazione la Chiesa può respingere gli eretici.
Soltanto la Chiesa può dire, secondo Tertuliano: “Ego sum heres Apostolorum”, io sono l’erede degli apostoli.
Parlando analogicamente, soltanto il magistero supremo del papa o di un possibile futuro concilio ecumenico potrà dire: “Ego sum heres Concilii Vaticani II”.
Nei decenni scorsi esistevano, e tuttora esistono, raggruppamenti all’interno della Chiesa che operano un enorme abuso del carattere pastorale del Concilio e dei suoi testi, scritti secondo questa intenzione pastorale, giacché il Concilio non voleva presentare propri insegnamenti definitivi o irreformabili.
Dalla stessa natura pastorale dei testi del Concilio s’evidenzia che i suoi testi sono di principio aperti a completamenti e ad ulteriori precisazioni dottrinali.
Tenendo conto dell’ormai pluridecennale esperienza delle interpretazioni dottrinalmente e pastoralmente sbagliate e contrarie alla continuità bimillenaria della dottrina e della preghiera della fede, sorge quindi la necessità e l’urgenza di un intervento specifico ed autorevole del magistero pontificio per un’interpretazione autentica dei testi conciliari, con completamenti e precisazioni dottrinali; una specie di “Syllabus” degli errori circa l’interpretazione del Concilio Vaticano II.
C’è bisogno di un nuovo Sillabo, questa volta diretto non tanto contro gli errori provenienti al di fuori dalla Chiesa, ma contro gli errori diffusi dentro della Chiesa da parte dei sostenitori della tesi della discontinuità e della rottura, con sua applicazione dottrinale, liturgica e pastorale.
Un tale Sillabo dovrebbe constare di due parti: la parte che segnala gli errori e la parte positiva con delle proposizioni di chiarimento, completamento e precisazione dottrinale.
* Si evidenziano due raggruppamenti che sostengono la teoria della rottura.
Uno di questi raggruppamento tenta di “protestantizzare” dottrinalmente, liturgicamente e pastoralmente la vita della Chiesa.
Dal lato opposto ci sono quei gruppi tradizionalisti che, a nome della tradizione, rigettano il Concilio e si sottraggono alla sottomissione al supremo vivente magistero della Chiesa, al visibile capo della Chiesa, il vicario di Cristo sulla terra, sottomettendosi intanto solo al capo invisibile della Chiesa, aspettando dei tempi migliori.
[…] Ci sono stati in sostanza due impedimenti perché la vera intenzione del Concilio e il suo magistero potessero portare abbondanti e durevoli frutti.
L’uno si trovava fuori della Chiesa, nel violento processo di rivoluzione culturale e sociale degli anni ’60, che come ogni forte fenomeno sociale penetrava dentro la Chiesa contagiando con il suo spirito di rottura vasti ambiti di persone e d’istituzioni.
L’altro impedimento si manifestava nella mancanza di sapienti e allo stesso tempo intrepidi pastori della Chiesa che fossero pronti a difendere la purezza e l’integrità della fede e della vita liturgica e pastorale, non lasciandosi influenzare né dalla lode né dal timore.
Già il Concilio di Trento affermava in uno dei suoi ultimi decreti sulla riforma generale della Chiesa: “Il santo sinodo, scosso dai tanti gravissimi mali che travagliano la Chiesa, non può non ricordare che la cosa più necessaria alla Chiesa di Dio è scegliere pastori ottimi e idonei; a maggior ragione, in quanto il signore nostro Gesù Cristo chiederà conto del sangue di quelle pecore che dovessero perire a causa del cattivo governo di pastori negligenti e immemori del loro dovere” (Sessione XXIV, Decreto “de reformatione”, can.
1).
Il Concilio proseguiva: “Quanto a tutti coloro che per qualunque ragione hanno da parte della Santa Sede qualche diritto per intervenire nella promozione dei futuri prelati o a quelli che vi prendono parte in altro modo il santo Concilio li esorta e li ammonisce perché si ricordino anzitutto che essi non possono fare nulla di più utile per la gloria di Dio e la salvezza dei popoli che impegnarsi a scegliere pastori buoni e idonei a governare la Chiesa”.
C’è dunque davvero bisogno di un Sillabo conciliare con valore dottrinale ed inoltre c’è il bisogno dell’aumento del numero di pastori santi, coraggiosi e profondamente radicati nella tradizione della Chiesa, privi di ogni specie di mentalità di rottura sia in campo dottrinale, sia in campo liturgico.
Questi due elementi costituiscono l’indispensabile condizione affinché la confusione dottrinale, liturgica e pastorale diminuisca notevolmente e l’opera pastorale del Concilio Vaticano II possa portare molti e durevoli frutti nello spirito della tradizione, che ci collega con lo spirito che ha regnato in ogni tempo, dappertutto e in tutti veri figli della Chiesa cattolica, che è l’unica e la vera Chiesa di Dio sulla terra.
__________ Il testo integrale della conferenza del vescovo Athanasius Schneider, tenuta a Roma il 17 dicembre 2010: > Il primato del culto di Dio come fondamento di ogni vera teologia pastorale.
Proposte per una corretta lettura del Concilio Vaticano II __________ L’appello dell’11 gennaio scorso a Benedetto XVI contro i pericoli dottrinali di un nuovo incontro interreligioso ad Assisi: > “Santo Padre Benedetto XVI, siamo alcuni cattolici gratissimi dell’opera da Lei compiuta…” __________ Quanto alla retta interpretazione del Vaticano II, Benedetto XVI ha chiarito il suo pensiero nel memorabile discorso alla curia del 22 dicembre 2005, escludendo che nei documenti del Concilio vi siano errori dottrinali e punti di rottura con la tradizione della Chiesa: > “Signori cardinali…”
“Lo spirito di Assisi”
L’annuncio, fatto da Benedetto XVI dopo l’Angelus di Capodanno, di un suo viaggio ad Assisi, il prossimo ottobre, per un nuovo incontro tra le religioni per la pace, ha rinfocolato le controversie non solo sul cosiddetto “spirito di Assisi”, ma anche sul Concilio Vaticano II e il postconcilio.
Il professor Roberto de Mattei – fresco autore di una riscrittura della storia del Concilio che culmina nella richiesta a Benedetto XVI di promuovere “un nuovo esame” dei documenti conciliari per dissipare il sospetto che abbiano rotto con la dottrina tradizionale della Chiesa – ha firmato assieme ad altre personalità cattoliche un appello al papa affinchè il nuovo incontro ad Assisi “non riaccenda le confusioni sincretiste” del primo, quello convocato il 27 ottobre 1986 da Giovanni Paolo II nella città di san Francesco.
In effetti, nel 1986, l’allora cardinale Joseph Ratzinger non si recò a quel primo incontro, contro il quale era critico.
Partecipò invece a una sua replica tenuta sempre ad Assisi il 24 gennaio 2002, alla quale aderì “in extremis” dopo essersi assicurato che gli equivoci dell’incontro precedente non si ripetessero.
L’equivoco principale alimentato dall’incontro di Assisi del 1986 è stato quello di equiparare le religioni come sorgenti di salvezza per l’umanità.
Contro questo equivoco la congregazione per la dottrina della fede emanò nel 2000 la dichiarazione “Dominus Iesus”, per riaffermare che ogni uomo non ha altro salvatore che Gesù.
Ma anche da papa, Ratzinger è tornato a mettere in guardia dalle confusioni.
In un messaggio al vescovo di Assisi del 2 settembre 2006 ha scritto: “Per non equivocare sul senso di quanto, nel 1986, Giovanni Paolo II volle realizzare, e che, con una sua stessa espressione, si suole qualificare come ‘spirito di Assisi’, è importante non dimenticare l’attenzione che allora fu posta perché l’incontro interreligioso di preghiera non si prestasse ad interpretazioni sincretistiche, fondate su una concezione relativistica.
[…] Perciò, anche quando ci si ritrova insieme a pregare per la pace, occorre che la preghiera si svolga secondo quei cammini distinti che sono propri delle varie religioni.
Fu questa la scelta del 1986, e tale scelta non può non restare valida anche oggi.
La convergenza dei diversi non deve dare l’impressione di un cedimento a quel relativismo che nega il senso stesso della verità e la possibilità di attingerla”.
E in visita ad Assisi il 17 giugno 2007, ha detto nell’omelia: “La scelta di celebrare quell’incontro ad Assisi era suggerita proprio dalla testimonianza di Francesco come uomo di pace, al quale tanti guardano con simpatia anche da altre posizioni culturali e religiose.
Al tempo stesso, la luce del Poverello su quell’iniziativa era una garanzia di autenticità cristiana, giacché la sua vita e il suo messaggio poggiano così visibilmente sulla scelta di Cristo, da respingere a priori qualunque tentazione di indifferentismo religioso, che nulla avrebbe a che vedere con l’autentico dialogo interreligioso.
[…] Non potrebbe essere atteggiamento evangelico, né francescano, il non riuscire a coniugare l’accoglienza, il dialogo e il rispetto per tutti con la certezza di fede che ogni cristiano, al pari del santo di Assisi, è tenuto a coltivare, annunciando Cristo come via, verità e vita dell’uomo, unico Salvatore del mondo”.
Tornando alla controversia sul Concilio Vaticano II, va segnalato un importante convegno tenuto il 16-18 dicembre scorso a Roma, a pochi passi dalla basilica di San Pietro, “per una giusta ermeneutica del Concilio alla luce della Tradizione della Chiesa”.
È finita sotto il giudizio critico dei relatori soprattutto la natura “pastorale” del Vaticano II, con gli abusi avvenuti in suo nome.
Tra i relatori c’erano il professor de Mattei e il teologo Brunero Gherardini, 85 anni, canonico della basilica di San Pietro, professore emerito della Pontificia Università Lateranense e direttore della rivista di teologia tomista “Divinitas”.
Gherardini è autore di un volume sul Concilio Vaticano II che si conclude con una “Supplica al Santo Padre”.
Al quale viene chiesto di sottoporre a riesame i documenti del Concilio, per chiarire “se, in che senso e fino a che punto” il Vaticano II sia o no in continuità con il precedente magistero della Chiesa.
Il libro di Gherardini ha la prefazione di Albert Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo ed ex segretario della congregazione vaticana per il culto divino, fatto cardinale nel concistoro dello scorso novembre.
Ranjith è uno dei due vescovi ai quali www.chiesa ha dedicato recentemente un servizio con questo titolo: > I più bravi allievi di Ratzinger sono in Sri Lanka e Kazakhstan E il secondo di questi vescovi, l’ausiliare di Karaganda, Athanasius Schneider, era presente al convegno romano del 16-18 dicembre, come relatore.
Qui sotto è riportata la parte finale della sua conferenza.
Che si conclude con la proposta di due rimedi agli abusi del postconcilio.
Il primo è l’emanazione di un “Syllabus” contro gli errori dottrinali di interpretazione del Vaticano II.
Il secondo è la nomina di vescovi “santi, coraggiosi e profondamente radicati nella tradizione della Chiesa”.
Ad ascoltare Schneider c’erano cardinali, dirigenti di curia e teologi di rilievo.
Basti dire che tra gli stessi relatori c’erano il cardinale Velasio de Paolis, l’arcivescovo Agostino Marchetto, il vescovo Luigi Negri e monsignor Florian Kolfhaus della segreteria di stato vaticana.
Tra gli ascoltatori c’era una folta schiera di Francescani dell’Immacolata, una giovane congregazione religiosa sorta nel solco di san Francesco, fiorente di vocazioni e di orientamento decisamente ortodosso, agli antipodi del cosiddetto “spirito di Assisi”, promotrice dello stesso convegno.
“Trasparenza, onestà e responsabilità”
NOTA DI P.
FEDERICO LOMBARDI, SJ La pubblicazione odierna di nuove leggi per lo Stato della Città del Vaticano e per i Dicasteri della Curia romana e gli Organismi ed Enti dipendenti dalla Santa Sede è un evento di rilevante importanza normativa, ma anche di significato morale e pastorale di ampia portata.
Tutti gli enti connessi con il governo della Chiesa cattolica e con quel suo “supporto” che è lo Stato della Città del Vaticano, vengono da oggi inseriti, in spirito di sincera collaborazione, nel sistema di principi e strumenti giuridici che la comunità internazionale sta edificando con la finalità di garantire una convivenza giusta e onesta in un contesto mondiale sempre più globalizzato; contesto in cui purtroppo le realtà economiche e finanziarie sono non di rado campo di attività illegali, come il riciclaggio di proventi di attività criminose e il finanziamento del terrorismo, veri pericoli per la giustizia e la pace nel mondo.
Il Papa afferma senza mezzi termini che “la Santa Sede approva questo impegno” della comunità internazionale “e intende far proprie le regole” di cui essa si dota “per prevenire e contrastare” questi fenomeni terribili.
Da sempre le attività illegali hanno dimostrato una straordinaria capacità di insinuarsi e di inquinare il mondo economico e finanziario, ma il loro svilupparsi a livello internazionale e l’uso delle nuove tecnologie le hanno rese sempre più pervasive e capaci di mascherarsi, cosicché per difendersi è diventato urgentissimo costituire reti di controllo e informazione mutua fra le autorità preposte alla lotta contro di esse.
Sarebbe ingenuo pensare che l’intelligenza perversa che guida le attività illegali non cerchi di approfittare proprio dei punti deboli e fragili, talvolta esistenti nel sistema internazionale di difesa e di controllo della legalità, per insinuarsi al suo interno e violarlo.
Perciò la solidarietà internazionale è di importanza cruciale per la tenuta di tale sistema, ed è comprensibile e giusto che le autorità nazionali di vigilanza e gli organismi internazionali competenti (Consiglio d’Europa e, in particolare, il GAFI: Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale contro il riciclaggio di capitali) guardino con occhio favorevole gli Stati e gli enti che offrono le garanzie richieste e impongano invece vincoli maggiori a chi non vi si adegui.
Ciò vale naturalmente anche per la Città del Vaticano e gli enti della Chiesa che svolgono attività economiche e finanziarie.
La nuova normativa risponde quindi insieme all’esigenza di conservare un’efficace operatività agli enti che operano nel campo economico e finanziario per il servizio della Chiesa cattolica nel mondo, e – prima ancora – all’esigenza morale di “trasparenza, onestà e responsabilità” che va in ogni caso osservata nel campo sociale ed economico (Caritas in Veritate, 36).
L’attuazione delle nuove normative richiederà certamente molto impegno.
C’è la nuova Autorità di Informazione Finanziaria da avviare.
Ci sono nuovi obblighi da rispettare.
Nuove competenze da esercitare.
Ma per la Chiesa non può venirne che bene.
Gli organismi vaticani saranno meno vulnerabili di fronte ai continui rischi che si corrono inevitabilmente quando si maneggia il denaro.
Si eviteranno in futuro quegli errori che così facilmente diventano motivo di “scandalo” per l’opinione pubblica e per i fedeli.
Insomma, la Chiesa sarà più “credibile” davanti alla comunità internazionale e ai suoi membri.
E questo è di importanza vitale per la sua missione evangelica.
Oggi, 30 dicembre 2010, il Papa ha firmato un documento di genere per lui un po’ insolito, ma di grande coraggio e grande significato morale e spirituale.
E’ un bel modo di concludere quest’anno, con un passo concreto nella direzione della trasparenza e della credibilità! 30 dicembre 2010 COMUNICATO DELLA SEGRETERIA DI STATO Circa la nuova normativa per la prevenzione ed il contrasto delle attività illegali in campo finanziario e monetario 1.
In data odierna, in esecuzione della Convenzione Monetaria tra lo Stato della Città del Vaticano e l’Unione europea del 17 dicembre 2009 (2010/C 28/05), sono state emanate le seguenti quattro nuove leggi: – la “Legge concernente la prevenzione ed il contrasto del riciclaggio dei proventi di attività criminose e del finanziamento del terrorismo”; – la “Legge sulla frode e contraffazione di banconote e monete in euro” ; – la “Legge relativa a tagli, specifiche, riproduzione, sostituzione e ritiro delle banconote in euro e sull’applicazione dei provvedimenti diretti a contrastare le riproduzioni irregolari di banconote in euro e alla sostituzione e al ritiro di banconote in euro” e la “Legge riguardante la faccia, i valori unitari e le specificazioni tecniche, nonché la titolarità dei diritti d’autore sulle facce nazionali delle monete in euro destinate alla circolazione”.
Il processo di elaborazione delle citate Leggi è stato condotto con l’assistenza del Comitato misto, previsto dall’articolo 11 della Convenzione Monetaria, composto da rappresentanti dello Stato della Città del Vaticano e dell’Unione Europea.
La Delegazione dell’Unione Europea è costituita, a sua volta, da rappresentanti della Commissione e della Repubblica italiana, nonché da rappresentanti della Banca centrale europea.
La legge in materia di prevenzione e contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo è pubblicata contestualmente a questo comunicato, mentre le altre saranno pubblicate sul sito dello Stato della Città del Vaticano www.
vaticanstate.va 2.
La Legge relativa alla prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo contiene, in un corpo unitario: – le fattispecie delittuose, che ricomprendono il riciclaggio, l’autoriciclaggio ed i reati cc.dd.
presupposto (cioè i comportamenti delittuosi che generano i proventi, poi “ripuliti” dal riciclatore), per le quali sono previste sanzioni penali; – le fattispecie che hanno contenuto più specificamente amministrativo, riguardanti la cooperazione internazionale, ma anche la prevenzione, per la violazione della quale sono previste sanzioni amministrative pecuniarie.
La medesima legge è basata sui seguenti principali obblighi: – di “adeguata verifica” della controparte; – di registrazione e conservazione dei dati relativi ai rapporti continuativi e alle operazioni; – di segnalazione delle operazioni sospette.
L’impianto normativo, pur tenendo conto delle peculiarità dell’ordinamento vaticano in cui si inserisce, è conforme ai principi e alle regole vigenti nell’Unione europea, risultando così allineato a quello di Paesi che, in questo ambito, dispongono di normative avanzate.
Ciò è testimoniato dalle previsioni, tra l’altro, in materia di autoriciclaggio (fattispecie non ancora contemplata in Paesi a stringente legislazione), dai controlli sul denaro contante in entrata o in uscita dallo Stato della Città del Vaticano, dagli obblighi sul trasferimento di fondi e, infine, dai presìdi sanzionatori amministrativi, alquanto rigorosi ed applicabili, non solo agli enti e alle persone giuridiche, ma anche alle persone fisiche che agiscono in esse, per via della prevista obbligatorietà dell’azione di regresso.
3.
La Legge sulla frode e contraffazione risponde all’esigenza di adottare – conformemente a quanto prevede la più avanzata normativa dell’Unione europea – una solida rete di protezione legale delle banconote e delle monete in euro contro la falsificazione.
Ciò comporta procedure di ritiro dalla circolazione di banconote e monete false, il rafforzamento delle misure sanzionatorie penali, nonché forme di cooperazione in sede europea ed internazionale.
4.
Le Leggi in materia di banconote e monete in euro contengono, per le stesse banconote e monete: – disposizioni relative alla protezione del diritto d’autore sui disegni, – regole in ordine ai tagli, alle caratteristiche tecniche, alla circolazione e alla sostituzione; – la previsione dell’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di violazione di talune regole in esse previste.
5.
Il processo di normazione non ha riguardato tuttavia meramente lo Stato della Città del Vaticano.
La Santa Sede – ordinamento distinto da quello dello Stato della Città del Vaticano – alla quale fanno capo enti ed organismi operanti in vari campi, ha recepito come propria normativa la “Legge concernente la prevenzione ed il contrasto del riciclaggio dei proventi di attività criminose e del finanziamento del terrorismo” .
Ciò è avvenuto tramite la “Lettera Apostolica in forma di ‘Motu Proprio’ per la prevenzione ed il contrasto delle attività illegali in campo finanziario e monetario”.
Con la suddetta Lettera, anch’essa emanata in data odierna a firma del Sommo Pontefice Benedetto XVI: – si stabilisce che la Legge dello Stato della Città del Vaticano e le sue future modificazioni abbiano vigenza anche per i “Dicasteri della Curia Romana e per tutti gli Organismi ed Enti dipendenti dalla Santa Sede”, tra i quali l’Istituto per le Opere di Religione (IOR), riconfermando l’impegno del medesimo ad operare secondo i principi ed i criteri internazionalmente riconosciuti; – si costituisce l’Autorità di Informazione Finanziaria (AIF), Organismo autonomo ed indipendente con incisivi compiti di prevenzione e contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo nei confronti di ogni soggetto, persona fisica o giuridica, ente ed organismo di qualsivoglia natura dello Stato della Città del Vaticano, dei Dicasteri della Curia Romana e di tutti gli Organismi ed Enti dipendenti dalla Santa Sede; – si delegano i competenti Organi giudiziari dello Stato della Città del Vaticano ad esercitare, per i reati in materia di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo, la giurisdizione penale nei confronti dei soggetti appena richiamati.
La Lettera Apostolica è pubblicata sul sito della Santa Sede www.
vatican.va 6.
L’Autorità di Informazione Finanziaria (AIF), il cui Presidente con i membri del Consiglio direttivo sono nominati dal Santo Padre, è chiamata ad emanare complesse e delicate disposizioni di attuazione, indispensabili per assicurare che i soggetti della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano rispettino i nuovi ed importanti obblighi di antiriciclaggio e di antiterrorismo a partire dal 1° aprile 2011, data di entrata in vigore della Legge.
7.
L’esperienza segnalerà le eventuali esigenze di affinamento ed integrazione dell’assetto normativo in materia di prevenzione e contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo ai principi e agli standard vigenti nella comunità internazionale; tali esigenze potrebbero prospettarsi in ragione della disponibilità già manifestata da parte della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano a confrontarsi con i competenti organismi internazionali attivi sul fronte del contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo.
8.
La presente nuova normativa si iscrive nell’impegno della Sede Apostolica per l’edificazione di una convivenza civile giusta ed onesta.
In nessun momento si possono perciò trascurare o attenuare i grandi “principi dell’etica sociale, quali la trasparenza, l’onestà e la responsabilità” (cfr.
Benedetto XVI, Enciclica “Caritas in Veritate”, n.
36).
30 dicembre 2010 __________ LETTERA APOSTOLICA IN FORMA DI “MOTU PROPRIO” Per la prevenzione e il contrasto delle attività illegali in campo finanziario e monetario La Sede Apostolica ha sempre levato la sua voce per esortare tutti gli uomini di buona volontà, e soprattutto i responsabili delle Nazioni, all’impegno nell’edificazione, anche attraverso una pace giusta e duratura in ogni parte del mondo, della universale città di Dio verso cui avanza la storia della comunità dei popoli e delle Nazioni [Benedetto XVI, Lett.
enc.
“Caritas in veritate” (29 giugno 2009), 7: AAS 101 /2009), 645].
La pace purtroppo, ai nostri tempi, in una società sempre più globalizzata, è minacciata da diverse cause, fra le quali quella di un uso improprio del mercato e dell’economia e quella, terribile e distruttrice, della violenza che il terrorismo perpetra, causando morte, sofferenze, odio e instabilità sociale.
Molto opportunamente la comunità internazionale si sta sempre più dotando di principi e strumenti giuridici che permettano di prevenire e contrastare il fenomeno del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo.
La Santa Sede approva questo impegno ed intende far proprie queste regole nell’utilizzo delle risorse materiali che servono allo svolgimento della propria missione e dei compiti dello Stato della Città del Vaticano.
In tale quadro, anche in esecuzione della Convenzione Monetaria fra lo Stato della Città del Vaticano e l’Unione Europea del 17 dicembre 2009, ho approvato per lo Stato medesimo l’emanazione della “Legge concernente la prevenzione ed il contrasto del riciclaggio dei proventi di attività criminose e del finanziamento del terrorismo” del 30 dicembre 2010, che viene oggi promulgata.
Con la presente Lettera Apostolica in forma di “Motu Proprio”: a) stabilisco che la suddetta Legge dello Stato della Città del Vaticano e le sue future modificazioni abbiano vigenza anche per i Dicasteri della Curia Romana e per tutti gli Organismi ed Enti dipendenti dalla Santa Sede ove essi svolgano le attività di cui all’art.
2 della medesima Legge; b) costituisco l’Autorità di Informazione Finanziaria (AIF) indicata nell’articolo 33 della “Legge concernente la prevenzione ed il contrasto del riciclaggio dei proventi di attività criminose e del finanziamento del terrorismo”, quale Istituzione collegata alla Santa Sede, a norma degli articoli 186 e 190-191 della Costituzione Apostolica “Pastor Bonus”, conferendo ad essa la personalità giuridica canonica pubblica e la personalità civile vaticana ed approvandone lo Statuto, che è unito al presente Motu Proprio; c) stabilisco che l’Autorità di Informazione Finanziaria (AIF) eserciti i suoi compiti nei confronti dei Dicasteri della Curia Romana e di tutti gli Organismi ed Enti di cui alla lettera a); d) delego, limitatamente alle ipotesi delittuose di cui alla suddetta Legge, i competenti Organi giudiziari dello Stato della Città del Vaticano ad esercitare la giurisdizione penale nei confronti dei Dicasteri della Curia Romana e di tutti gli Organismi ed Enti di cui alla lettera a).
Dispongo che quanto stabilito abbia pieno e stabile valore a partire dalla data odierna, nonostante qualsiasi disposizione contraria, pur meritevole di speciale menzione.
La presente Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio stabilisco che sia pubblicata in “Acta Apostolicae Sedis”.
Dato a Roma, dal Palazzo Apostolico, il 30 dicembre dell’anno 2010, sesto del Pontificato.
BENEDICTUS PP.
XVI __________ STATUTO DELL’AUTORITÀ DI INFORMAZIONE FINANZIARIA (AIF) CAPO I Articolo 1 Istituzione, finalità e sede § 1.
È eretta con Motu Proprio del Sommo Pontefice Benedetto Decimo Sesto del 30 dicembre 2010 l’Autorità di Informazione Finanziaria (AIF) avente compiti in materia di prevenzione e contrasto del riciclaggio dei proventi di attività criminose e del finanziamento del terrorismo.
§ 2.
L’Autorità di Informazione Finanziaria è una Istituzione collegata con la Santa Sede a norma degli articoli 186 e 190-191 della Costituzione Apostolica “Pastor Bonus”.
§ 3.
L’Autorità gode di personalità giuridica canonica pubblica e di personalità giuridica civile vaticana.
§ 4.
Essa ha sede legale nello Stato della Città del Vaticano.
Articolo 2 Funzioni § 1.
L’Autorità di Informazione Finanziaria svolge le funzioni, i compiti e le attività indicati nella Legge dello Stato della Città del Vaticano concernente la prevenzione ed il contrasto del riciclaggio dei proventi di attività criminose e del finanziamento del terrorismo 30 dicembre 2010, n.
CXXVII.
§ 2.
L’Autorità di Informazione Finanziaria, a norma del diritto e dei principi internazionali in materia di lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo, esercita le funzioni, i compiti e le attività richiamati nel paragrafo che precede e nel presente Statuto in piena autonomia e indipendenza.
§ 3.
L’Autorità svolge il suo servizio nei riguardi dei soggetti di cui all’articolo 2 della Legge dello Stato della Città del Vaticano concernente la prevenzione ed il contrasto del riciclaggio dei proventi di attività criminose e del finanziamento del terrorismo 30 dicembre 2010, n.
CXXVII operanti sul territorio dello Stato della Città del Vaticano oltre che dei Dicasteri della Curia Romana e di tutti gli Organismi ed Enti dipendenti dalla Santa Sede.
CAPO II Articolo 3 Organi e personale dell’Autorità § 1.
Sono Organi dell’Autorità di Informazione Finanziaria.
a) Il Presidente; b) Il Consiglio direttivo.
§ 2.
Fanno parte dell’Autorità il Direttore e il personale addetto.
Articolo 4 Presidente § 1.
Il Presidente è nominato dal Sommo Pontefice; dura in carica cinque anni e può essere confermato.
§ 2.
Il Presidente sorveglia l’andamento dell’Autorità promuovendone il regolare ed efficace funzionamento.
§ 3.
Egli presiede il Consiglio direttivo.
In caso di sua assenza o impedimento, è sostituito da un Membro del Consiglio direttivo a ciò designato.
Di fronte ai terzi la firma di chi sostituisce il Presidente fa prova dell’assenza o impedimento del medesimo.
§ 4.
Al Presidente spetta la rappresentanza legale dell’Autorità e l’uso della firma.
Il Presidente o chi ne fa le veci può delegare di volta in volta o per determinati atti o attività la facoltà di rappresentare l’Autorità di fronte ai terzi e in giudizio.
Articolo 5 Consiglio direttivo § 1.
Il Consiglio direttivo è presieduto dal Presidente dell’Autorità ed è composto da altri quattro membri nominati dal Sommo Pontefice tra persone di provata affidabilità, competenza e professionalità.
§ 2.
Il Consiglio direttivo, cui spettano tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione, è responsabile dell’organizzazione e del funzionamento della struttura dell’Autorità, della quale programma, dirige e controlla l’attività.
In tale ambito ed a titolo esemplificativo: a) formula, in armonia con i fini istituzionali, le strategie fondamentali ed i relativi programmi per l’attività dell’Autorità e vigila sulla loro attuazione; b) emana regolamenti di natura organizzativa aventi anche rilevanza esterna; c) partecipa, anche attraverso propri rappresentanti, agli organismi internazionali impegnati nella prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo internazionale e alle attività di studio e di ricerca da questi organizzate; d) sovrintende al personale dell’Autorità promuovendone la formazione professionale specifica; e) delega al Direttore o ad altri soggetti addetti all’Autorità, con apposite comunicazioni di servizio indicanti principi e criteri direttivi, determinate tipologie di atti aventi natura ricorrente.
§ 3.
Il Consiglio direttivo può attribuire a singoli membri poteri per il compimento di determinati atti o per la supervisione di determinate attività od aree di attività, stabilendone poteri, modalità di svolgimento e di informativa al Consiglio.
§ 4.
Il Consiglio direttivo è convocato dal Presidente, in via ordinaria, di norma ogni trimestre e, in via straordinaria, ogni volta che se ne manifesti la necessità.
Il Presidente fissa l’ordine del giorno della seduta, ne coordina i lavori e provvede affinché adeguate informazioni sulle materie indicate nell’ordine del giorno vengano fornite a tutti i componenti.
§ 5.
L’avviso di convocazione contenente l’ordine del giorno deve pervenire ai singoli componenti almeno cinque giorni prima di quello fissato per la riunione con mezzi che ne garantiscano il ricevimento; nei casi di urgenza la convocazione è effettuata con avviso da trasmettere con telefax, posta elettronica o altro mezzo di comunicazione urgente almeno un giorno prima della seduta.
§ 6.
Le riunioni del Consiglio, che possono essere tenute anche in videoconferenza, sono prese a maggioranza assoluta dei voti dei membri presenti e all’unanimità qualora siano presenti tre membri; in caso di parità prevale il voto di chi presiede.
Per la validità delle adunanze del Consiglio è necessaria la presenza di almeno tre membri.
§ 7.
Delle adunanze e delle deliberazioni del Consiglio deve redigersi verbale da iscriversi nel relativo libro da firmarsi a cura del Presidente e del segretario.
Il libro e gli estratti del medesimo, certificati conformi dal Presidente e dal segretario, fanno prova delle adunanze e delle deliberazioni del Consiglio.
Articolo 6 Direttore e personale dell’Autorità § 1.
Il Direttore, in possesso di adeguata e comprovata competenza e professionalità in campo giuridico-finanziario ed informatico maturata nelle materie istituzionali dell’Autorità, è nominato dal Presidente con il nulla osta del Segretario di Stato.
§ 2.
Il Direttore: a) è responsabile dell’attività operativa dell’Autorità; b) coordina l’attività del personale addetto ai fini dell’esecuzione dei programmi e dei compiti dell’Autorità; c) sottopone al Consiglio direttivo ogni atto che non rientri nelle sue competenze; d) è normalmente invitato a partecipare alle adunanze del Consiglio direttivo; e) cura l’Amministrazione dell’Autorità.
§ 3.
Il personale dell’Autorità, di norma in possesso di un’adeguata esperienza professionale nelle materie istituzionali della medesima, viene assunto dal Presidente dell’Autorità con il nulla osta del Segretario di Stato.
Articolo 7 Segreto § 1.
I soggetti menzionati negli articoli di cui al presente Capo sono obbligati al più rigoroso segreto per tutto ciò che riguarda l’Autorità ed i suoi rapporti con i terzi.
§ 2.
L’obbligo di segreto non è di ostacolo all’adempimento degli obblighi in materia di cooperazione internazionale e nei confronti dell’Autorità Giudiziaria, inquirente e giudicante, quando le informazioni richieste siano necessarie per le indagini o per i procedimenti relativi a violazioni sanzionate penalmente.
CAPO III Articolo 8 Risorse, contabilità e bilancio § 1.
All’Autorità di Informazione Finanziaria sono attribuiti mezzi finanziari e risorse idonei ad assicurare l’efficace perseguimento dei suoi fini istituzionali.
§ 2.
Il Consiglio direttivo, entro il trentuno marzo di ogni anno, deve approvare il bilancio di esercizio relativo all’anno precedente.
§ 3.
L’esercizio si chiude il trentuno dicembre di ogni anno.
§ 4.
Il Presidente, dopo l’approvazione, trasmette il bilancio di esercizio al Cardinale Segretario di Stato.
CAPO IV Articolo 9 Relazione sull’attività § 1.
L’Autorità di Informazione Finanziaria trasmette al Segretario di Stato una relazione sulla propria attività nei termini previsti dalla legge.
CAPO V Articolo 10 Approvazione e pubblicazione § 1.
Il presente Statuto è approvato e sarà pubblicato in “Acta Apostolicae Sedis”.
§ 2.
Per quanto non disposto da questo Statuto si applicano le vigenti disposizioni canoniche e civili vaticane.
__________ > LEGGE N.
CXXVII DELLO STATO DELLA CITTÀ DEL VATICANO Concernente la prevenzione e il contrasto del riciclaggio dei proventi di attività criminose e del finanziamento del terrorismo __________ L’intervista del 30 dicembre alla Radio Vaticana del professor Marcello Condemi, professore associato di diritto dell’economia nell’Università G.
Marconi di Roma, già esperto in materia di riciclaggio presso la Banca d’Italia e componente della delegazione italiana al GAFI: > “Così può iniziare il percorso per entrare nella ‘White List'” __________ Gli ultimi tre precedenti servizi di www.chiesa: 27.12.2010 > Benedetto XVI uomo dell’anno.
Per le sue omelie Sono l’asse del suo magistero ordinario.
Narrano l’avventura di Dio nella storia del mondo.
Sollevano il velo sulle “cose di lassù”.
Una guida alla lettura della predicazione liturgica dell’attuale papa 25.12.2010 > “Primogenito di molti fratelli” “Questa nuova famiglia di Dio inizia nel momento in cui Maria avvolge il ‘primogenito’ in fasce e lo pone nella mangiatoia”.
L’omelia del papa nella notte di Natale 22.12.2010 > Il professor Rhonheimer scrive.
E il Sant’Uffizio gli dà ragione In esclusiva su www.chiesa una lettera aperta del filosofo svizzero, in difesa della “visione comprensiva e lungimirante” di Benedetto XVI sulla morale sessuale.
E a seguire, la nota diffusa lo stesso giorno dalla congregazione per la dottrina della fede __________