Il bullismo nelle scuole

Il bullismo nelle scuole: un fenomeno da conoscere e prevenire.
Il fenomeno del bullismo, spesso alla ribalta della cronaca negli ultimi anni, ha sicuramente origini lontane nella letteratura per ragazzi.
È possibile trovare “bulli” che rappresentano la parte cattiva della storia e che fanno sì che venga ancora di più esaltata la figura del “buono” che non si fa sottomettere dalle minacce e dalle prevaricazioni.
Nel 1886 De Amicis descrive la figura di Franti che racchiude in sé i tratti distintivi del prepotente.
Altri esempi classici li troviamo in Charles Dickens e Stephen King, fino ai “Ragazzi di vita” di Pasolini e – perché no – Draco Malfoy in Harry Potter.
Oggi però è diventato un aspetto allarmante della società, come ha pubblicato – sul periodico di Lampedusa “Punta Sottile” – la dott.ssa in Scienze e tecniche della psicologia dello sviluppo e dell’educazione Caterina Fumularo: non accade solo nella favola di “Cappuccetto rosso”.
Anche nella realtà quotidiana ci sono bambini e adolescenti che si perdono in un bosco insidioso e incontrano un “lupo-bullo” prepotente o un branco di lupi violenti, pronto ad aggredirli fisicamente, verbalmente o psicologicamente, minacciando il loro microcosmo interiore con l’intento di intimorire, disorientare o allontanarli dal “bosco” stesso.
Ci sono ragazzi che, per sfuggire al lupo, si riempiono le tasche di sassolini e li buttano a terra, in modo da saper ritrovare più facilmente il sentiero del proprio equilibrio interiore o in modo che qualcuno si accorga delle loro tracce di disagio.
Ci sono ragazzi, però, che sono così vulnerabili da non riuscire a fare provvista di sassolini o a chiedere aiuto a qualcuno.
Incapaci di difendersi dal lupo o di affrontarlo per timore di rappresaglie e vendette, lasciano cadere dalle loro tasche, vuote di speranza e di fiducia, soltanto delle briciole di fragilità, silenzio, rassegnazione e insicurezza.
Come pane secco, mangiato da formiche o da uccelli, quelle “briciole” diventano tracce poco visibili a genitori, insegnanti o ad altre figure significative dalle quali poter ricevere attenzione e ascolto.
Purtroppo, come si apprende dai mass-media e dai recenti fatti di cronaca, quel bosco d’aggressività non è soltanto la strada, un posto di svago o un quartiere sconosciuto;quel bosco è anche la scuola, istituzione educativa per eccellenza, luogo privilegiato di socializzazione, di promozione del benessere e di costruzione dell’autostima.
Un contesto all’interno del quale ogni studente vorrebbe e dovrebbe sentirsi protetto, come nel proprio ambiente familiare.
Eppure, il “lupo-bullo” che molesta, insulta, ricatta, minaccia, offende, schernisce, danneggia oggetti, maltratta psicologicamente le persone più deboli e indifese (come i diversamente abili o quelli più piccoli) e addirittura ferisce fino ad uccidere, è proprio un compagno di classe o uno studente della stessa scuola o un gruppo di studenti, che, rifiutando di seguire le regole formali della società, le sostituisce con altre in cui prevale l’affermazione personale anche a costo di un uso sistematico della violenza.
Quest’ultima può essere “agita” dal bullo non solo in forma diretta e manifesta ma anche in modo indiretto e latente, con la calunnia, il prendersi gioco della diversità degli altri, la manipolazione dei rapporti d’amicizia, i pettegolezzi e le mal dicerie che mettono in cattiva luce e rovinano la reputazione.
La conseguenza è che la vittima rimane intrappolata nella ragnatela dell’esclusione sociale e viene condannata all’isolamento dai gruppi d’aggregazione ad atteggiamenti ansiosi e insicuri, a continui sensi di colpa per non essere in grado di affrontare da sola il problema, ad una progressiva perdita dell’autostima e alla produzione di un’immagine negativa di sé.
Il bullismo, quindi, non si configura come un semplice atteggiamento conflittuale tra pari o un comportamento litigioso nei confronti dei compagni ma come un fenomeno più complesso che vede coinvolti i due protagonisti, il bullo e la vittima, in una dinamica relazionale, caratterizzata da una certa intenzionalità a fare del male e da un’asimmetria (dovuta alla forza fisica o all’età) che accentua la probabilità del ripetersi di tali manifestazioni aggressive del più forte verso il più debole.
La persistenza nel tempo contribuisce a determinare l’interiorizzazione di modalità comportamentali che rafforzano i rispettivi ruoli, con l’effetto di un quadro patologico serio sia per  la vittima, che può presentare sintomatologie anche di tipo depressivo, sia per il bullo, che rischia problematiche antisociali e devianti.
Nel “bosco”del bullismo, infatti, non si perdono solo le vittime ma anche i bulli, gli insegnanti, i genitori (che spesso rimangono all’oscuro di tutto) e gli altri ragazzi “spettatori” (che preferiscono restare dietro le “quinte” dell’indifferenza e dell’omertà, ad osservare la violenza che va in scena proprio su un palcoscenico educativo come la scuola).
E’ necessario, quindi, che le proposte d’intervento debbano svilupparsi da un piano individuale ad un piano istituzionale, in una prospettiva sistemica che miri al cambiamento non solo dei singoli elementi del “bosco” (il bullo, la vittima) ma del bosco stesso nella sua complessità (il gruppo, la scuola, la famiglia, gli insegnanti, i rapporti con altri contesti, ecc.).
Il “cacciatore buono”, metaforicamente un buon progetto educativo che si propone di prevenire o contrastare il fenomeno, non può, come succede nella favola di “Cappuccetto rosso”, avere la finalità di “annientare”il lupo cattivo per salvare chi è stato divorato dalla sua “fame aggressiva”.
Oltre ad aiutare la vittima, è necessario, cioè, intervenire sul lupo stesso e su tutti i soggetti coinvolti, favorendone il recupero psicologico, attraverso la promozione dell’empatia, dell’altruismo, della cooperazione e di quei comportamenti prosociali che possono contribuire a trasformare quel luogo d’aggressività in un terreno fertile, per educare alla legalità e per garantire il diritto di non subire più aggressioni e violenze.
Milano, 14 gennaio 2011 Segreteria Nazionale ANAPS per la consultazione dell’intero contributo IL BULLISMO.pdf 587K  

Le università cattoliche nel dibattito pubblico in difesa dei valori non negoziabili

“Educare alla vita buona del Vangelo: il contributo delle Università” Cardinale Angelo Bagnasco Arcivescovo di Genova Presidente della Conferenza Episcopale Italiana Un cordiale e rispettoso saluto alle Autorità presenti, ai Docenti, agli studenti e a quanti sono benevolmente intervenuti a questo momento di riflessione sul tema educativo che appassiona tutti.
Si tratta della vita buona delle giovani generazioni, cioè della loro felicità, della riuscita della loro vita; ma si tratta anche del bene comune, cioè del futuro della nostra società e, più ampiamente del mondo.
Quanto sia necessaria un’umanità matura, capace di portare la vita nella sua complessità e nelle sue sfide, è sotto gli occhi di tutti.
Per questo, mentre esprimo sincero apprezzamento per questa iniziativa, ringrazio per l’invito a partecipare presentando gli Orientamenti Pastorali dei Vescovi Italiani per il decennio: “Educare alla vita buona del Vangelo”.
Naturalmente, come è stato precisato nel titolo, l’attenzione particolare sarà verso l’Università con le peculiarità sue proprie e quindi con la sua specifica missione.
E’ noto che l’educazione ha come protagonisti tutti, adulti e giovani, e come destinatari tutti, adulti e giovani! Nessuno, infatti, può sentirsi arrivato e quindi non più bisognoso di crescere e di imparare; sarebbe, questo atteggiamento, il segno più evidente della grave incompiutezza educativa.
Ciò nonostante, è indubbio che chi è più avanti negli anni ha maggiore responsabilità verso le giovani generazioni, e quindi deve avere qualcosa da dire e da testimoniare, senza presunzioni da una parte e senza giovanilismi dall’altra…peraltro totalmente invisi ai giovani e patetici.
Per questo motivo, l’attenzione di oggi sarà rivolta in modo speciale verso il mondo dei ragazzi e dei giovani, sperando che quanto diremo possa comunque essere utile anche per noi più adulti.
Non è pleonastico ricordare che l’atteggiamento di fondo che anima la Chiesa verso il mondo è la “simpatia”: si potrebbe leggere il mistero dell’incarnazione come il sovrabbondare della simpatia di Dio verso l’umanità ferita dal peccato e dalla morte.
E’ un specie di profonda e ontologica “simpatia” che spinge il Verbo Eterno a scendere sulle strade dell’uomo e, come sulla via di Emmaus, porsi al suo fianco, misurare con lui il passo, provocarlo alla confidenza dell’anima, illuminarlo con la sua parola, sanarlo con il sacrificio della sua vita, affidarlo al “sacramento grande” della Chiesa.
E’ dunque la passione per Cristo che spinge i credenti alla passione per l’umanità: sta qui il principio fondativo del nostro servire il mondo.
Quando questo radicamento si affievolisce, si stemperano la motivazione e l’entusiasmo della vita personale e della missione di essere sale e luce nella storia.
Prevale allora il peso della fatica quotidiana, della ripetizione dei doveri, delle inevitabili difficoltà, delle salutari delusioni.
Per questo, il Santo Padre Benedetto XVI non si stanca – fin dall’inizio del suo ministero petrino – di esortarci a non distrarre lo sguardo dal volto di Cristo: è dal suo sguardo che possiamo attingere quello sguardo di simpatia e di amore per il mondo e che è l’anima di ogni servizio.
1.
La sfida educativa L’educazione è stata in ogni tempo un compito delicato e difficile: oggi però assume caratteristiche più ardue tanto che il Santo Padre parla “di una grande emergenza educativa”.
Tra le diverse ragioni, quella di fondo la riscontriamo nelle parole del Papa quando avverte che “anima dell’educazione , come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile.
Oggi la nostra speranza è insidiata da molte parti e rischiamo di diventare anche noi, come gli antichi pagani, ‘uomini senza speranza e senza Dio in questo mondo’, come scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (Ef 2,12).
Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita” (Benedetto XVI, Lettera alla Diocesi di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21.1.2008).
La sfiducia nella vita  è una conseguenza che genera a sua volta altre conseguenze, ma – ci chiediamo – quale può essere il terreno di coltura di questa gramigna che avvelena la vita e la oscura nel suo futuro? Dal punto di vista del credente, è una fede languida, snervata, privata della sua linfa originaria e vitale, cioè il “cuore a cuore” con Cristo, il fidarsi di Lui senza riserve, l’appartenenza cordiale alla Chiesa.
Senza questa luce, o con una luce fioca perché non alimentata e rinvigorita ogni giorno, tutto pian piano si spegne, e le suggestioni del mondo – pensare come se Dio non ci fosse – insensibilmente invadono e sommergono.
Ma la crisi dell’educazione può dipendere non solo da uno snervamento della fede, ma anche da una crisi della ragione.
Se  guardiamo ai movimenti culturali che sembrano dominare la piazza, infatti, dobbiamo riconoscere che “un ospite inquietante” si aggira in Europa: è il nichilismo.
Esso penetra i sentimenti, confonde i pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca l’anima, rende le passioni tristi ed esangui.
E se ci chiediamo che cosa significhi nichilismo, Nietzsche ci risponde: “Che i valori supremi perdono valore” (Frammenti postumi, 1887-1888, in Opere, 1971, vol.
III, 2, fr.
9, pag.
12): “Vidi una grande tristezza invadere gli uomini.
I  migliori si stancarono del loro lavoro.
Una dottrina apparve, una fede le si affiancò: tutto è vuoto, tutto è uguale, tutto fu! (…) Che cosa è accaduto quaggiù la notte scorsa dalla luna malvagia? Tutto il nostro lavoro è stato vano, il nostro vino è divenuto veleno (…) Aridi siamo divenuti noi tutti (…) Tutte le fonti sono esauste, anche il mare si è ritirato” (Così parlò Zarathustra, in Opere 1968, vol.
III, pag.
175).
E’ un opprimente senso del tramonto.
In questo deserto valoriale l’uomo si trova disorientato, e lo smarrimento investe il suo mondo interiore, la costruzione di ciò che egli è in se stesso, del suo universo fatto di idee, sensazioni, sentimenti, slanci, emozioni e pulsioni…un mondo da ordinare perché da caos diventi universo, armonia, bellezza.
Ma senza un criterio unificante, senza un centro, un “unum” verso il quale guardare, sarà possibile costruire quell’ordine vivo e dinamico senza il quale si vive senza capire niente di sé, affidandosi al richiamo più forte? Lo smarrimento investe anche il mondo dei rapporti esterni con gli altri e le cose, con gli avvenimenti, la storia, il vivere e il morire.
E’ la domanda di significato che irrompe ancor più acuta in mezzo al nichilismo che vorrebbe renderla ridicola agli occhi dei giovani, una “domanda oziosa” come affermavano Comte, Marx e altri Maestri del sospetto.
In questa terra, ferita da uno spaesamento che genera paura e angoscia, ha buon gioco quella fragilità di fondo che sembra segnare il tessuto interiore del mondo giovanile, una fragilità che, non superata da punti fermi e veri di tipo ideale ed etico, viene ad essere luogo di scorribande emotive e sempre più veloci per la legge della sensibilità.
Su questa esposizione senza difese, si concentra il fuoco incrociato degli interessi più diversi, economici-commerciali, ideologici.
Il risultato interiore è una emotività che, rispetto a tempi passati, è molto più sollecitata e incontrollata, a cui corrisponde uno spazio di riflessione molto più modesto, fino a cristallizzare la non-distinzione tra intelligenza e impressionabilità.
E’ comprensibile allora che l’estuario di questo fiume in piena senza argini protettivi, possa sfociare più o meno nello stordimento, nel disinteresse generico, nella eccedenza, nel cinismo comportamentale.
In sintesi, in una tristezza facilmente risentita.
Profetiche e lucide le parole di J.
Maritain nel 1959: “E’ il male metafisico che (…) si fa sentire nelle profondità dello spirito e che tocca più impietosamente i giovani, perché non sono ancora abituati a mentire a se stessi.
Voglio dire il vuoto, il nulla completo di ogni valore assoluto e di ogni fede nella verità nella quale la gioventù è posta dall’intellighenzia al potere e da una educazione scolastica e universitaria che in generale ( e malgrado molte eccezioni individuali) tradisce allegramente la sua missione essenziale.
La gioventù contemporanea è stata sistematicamente privata di ogni ragione di vita.
E questo è un crimine spirituale!” (J.Maritain, Pour une philosophie de l’education, 1959).
I giovani, come afferma Maritain, attendono altro: il loro cuore non invoca questo male di vivere, al contrario guarda e aspira altrove con la nativa speranza che l’avventura della vita sia promettente e piena di sole, ricca di significati, degna di essere vissuta lasciando qualcosa di meglio e di grande.
In questa ansia positiva troviamo la “punta rovente” della coscienza universale, cioè del creato che, in un certo senso, affida il suo anelito di compimento alla responsabilità umana.
Di fronte al cosmo, alla sua bellezza e maestà, al suo ordine luminoso, l’uomo da sempre si è posto una domanda seppure con parole differenti: interrogativo che il Santo Padre ha ripreso nel viaggio apostolico nel Regno Unito: “A livello spirituale tutti noi, in modi diversi, siamo personalmente impegnati in un viaggio che offre una risposta importante alla questione più importante di tutte, quella riguardante il significato ultimo dell’esistenza umana.
(…) All’interno dei loro ambiti di competenza, le scienze umane e naturali ci forniscono una comprensione inestimabile di aspetti della nostra esistenza ed approfondiscono la nostra comprensione del mondo in cui opera l’universo fisico, il quale può essere utilizzato per portare grande beneficio alla famiglia umana.
E tuttavia queste discipline non danno risposta, e non possono darla, alla domanda fondamentale, perché operano ad un livello totalmente diverso.
Non possono soddisfare i desideri più profondi del cuore umano, né spiegarci pienamente la nostra origine ed il nostro destino, per quale motivo e per quale scopo noi esistiamo, né possono darci una risposta esaustiva alla domanda: ‘Per quale motivo esiste qualcosa, piuttosto che il niente?’” (Benedetto XVI, Viaggio Ap.
Nel regno Unito, Incontro con i Rappresentanti di altre Religioni, 17.9.2010).
L’uomo, dunque, è domanda e nostalgia: domanda di senso sulla realtà e su se stesso; nostalgia di una risposta che sia il compimento al suo sentirsi incompiuto, al suo riconoscersi un paradosso posto sulla misteriosa linea di confine tra il finito e l’infinito, il divino e l’umano.
2.
L’educazione appartiene alla missione della Chiesa Dall’ orizzonte appena accennato nasce la necessità di sempre e la sfida di oggi: l’educazione come crocevia sensibile delle problematiche che agitano questa inquieta stagione di inizio millennio e che interpellano in modo particolare la comunità cristiana: “Nel settore educativo – affermava Benedetto XVI – la Chiesa ha molto da fare e da dare per quanto riguarda la formazione.
In Italia parliamo del problema dell’emergenza educativa.
E’ un problema comune a tutto l’occidente: qui la Chiesa deve di nuovo attualizzare, concretizzare, aprire per il futuro la sua grande eredità” (intervista a Benedetto XVI durante il viaggio aereo da Roma a Praga, 26.9.2009).
Come non ricordare qui le parole di Platone? “Lasceremo forse che i fanciulli ascoltino facilmente i primi miti che capitano, inventati dai primi venuti, e permetteremo forse che i ragazzi accolgano nelle loro anime opinioni per più opposte a quelle che riterremo essi debbano avere, una volta divenuti maturi? Certamente no” (Repubblica, 1 II, c.
17, p.
376e); “Perciò bisogna fare ogni sforzo perché le prime cose che essi odono siano miti composti quanto meglio possibile per spingere alla virtù” (ib.
p.
377b).
Se educare – possiamo dire – è aprire alla vita, accettare di incontrarla e di porsi in dialogo con essa, ciò significa lasciarsi provocare, imparare a conoscere se stesso, riconoscere limiti e talenti, tematizzare criteri e principi, imparare a distinguere il bene dal male, porsi degli obiettivi, accettare la gradualità e la fatica, sviluppare la fortezza,…in una parola porsi sulla via della paideia coniugando reale e ideale, intelligenza e cuore, conoscenza e ascesi che, nella esperienza della grazia, sono pilastri dell’educazione.
Il riferimento, come sempre, è Gesù Cristo: “Parliamo a voi come a condiscepoli alla stessa scuola del Signore – scrive Sant’Agostino -.
Abbiamo infatti un unico Maestro, nel quale tutti siamo una cosa sola (…) Sotto questo Maestro, la cui cattedra è il cielo – è per mezzo delle Scritture che dobbiamo essere formati – fate dunque attenzione a quelle poche cose che vi dirò”  Sant’Agostino, Discorso 270, 1: cit.
CEI Orientamenti Pastorali, n.
1).
Come emerge nel secondo capitolo degli Orientamenti, Dio educa il suo popolo secondo una pedagogia adatta alle diverse situazioni.
Sarà Gesù, il Verbo di Dio, che porterà a compimento quest’opera con i suoi discepoli.
Ne sceglie dodici e ne fa degli Apostoli.
Erano uomini adulti, avvezzi ad una esistenza di sacrificio.
La vita li interpellava rude ogni giorno ed essi rispondevano alle sue chiamate: il lavoro, la famiglia, gli amici, la fede ebraica, la società di appartenenza, il villaggio…Il divino Maestro li sceglie e li educa per una nuova vita.
Come? Basta scorrere i Vangeli e vediamo che la scuola è fatta di parole e silenzi, di gesti quotidiani e di miracoli, di rimproveri e di tenerezza, di esigenza e di pazienza, di fatica e di preghiera, di compagnia e di solitudine.
Sempre di amore e di fiducia verso quei poveri uomini, semplici e quasi tutti incolti, che si sono trovati all’improvviso dentro un’avventura più grande di loro.
Le parabole, i grandi discorsi sulla montagna o in riva al mare, i miracoli, la gloria di Gerusalemme e l’abiezione dolorosa del Calvario, l’intimità misteriosa del cenacolo, l’alba della risurrezione e il distacco fisico dell’ ascensione al cielo, la Pentecoste…tutto era grazia di salvezza per il mondo e, per loro, anche cattedra che li educava ad una nuova vita.
Gesù è dunque il Maestro perfetto, ma anche il modello pieno e affascinante da guardare per educare ed educarci, la vera unità di misura  dell’umanesimo.
Il Vangelo, infatti, proprio perché Parola di salvezza, contiene tutto l’umano: proprio per questo lo sguardo rivolto su Cristo non è restrizione di prospettive, ma apertura nella verità, ed è per questa ragione che tutti possono guardare a Lui come a modello e metodo: “Come ha affermato il Concilio Vaticano II, Gesù Cristo, rivelandoci il mistero del Padre e del suo amore, ha rivelato anche l’uomo a se stesso, rendendogli nota la sua altissima vocazione che è essenzialmente chiamata alla santità, ossia alla perfezione dell’amore” (CEI Orientamenti Pastorali, n.
23).
Ma Cristo è anche sorgente di forza e di grazia, perché ciò che in Lui vediamo e a cui Lui ci chiama possa in noi, non senza di noi, diventare felice realtà: Egli è via, verità e vita.
“L’esistenza cristiana non è frutto di uno sforzo volontaristico, ma è un cammino attraverso il quale il Maestro interiore apre la mente e il cuore alla comprensione del mistero di Dio e dell’uomo” (ib.
n.
22).
Accenno appena che l’educazione richiede un grembo e questo è il grembo della Chiesa Madre e Maestra.
Gli Orientamenti lo sottolineano in modo incisivo al numero 21.
Mi piace solo citare le parole di Sant’Agostino riportate felicemente nel testo: “Oh Chiesa cattolica, oh madre dei cristiani nel senso più vero (…) tu educhi ed ammaestri tutti: i fanciulli con tenerezza infantile, i giovani con forza, i vecchi con serenità, ciascuno secondo l’età, secondo le sue capacità non solo corporee ma psichiche.
Chi debba essere educato, ammonito o condannato tu lo insegni a tutti con solerzia, mostrando che non si deve dare tutto a tutti, ma a tutti amore e a nessuno ingiustizia” (cit.
ib.
n.21).
Sull’esempio del Signore Gesù e nella tradizione della Chiesa, ricordiamo che l’opera educativa “esige un rapporto personale di fedeltà tra soggetti attivi, che sono protagonisti della relazione educativa” (ib.
n.
26) anche in forza del fatto che il lavoro educativo s’innesta nell’atto generativo e nell’esperienza di essere figli: non si finisce mai di essere figli, per questo possiamo essere padri ed educatori.
Mantenendo la verità dei ruoli, e le responsabilità che derivano dalla vita e dagli anni, l’educatore si pone in gioco nell’atto educativo, si colloca dentro a questo processo e ci sta con gioia accettando la fatica: la luce infatti – secondo alcune belle immagini di Romano Guardini – si accende solo con la luce, la vita con la vita.
Possiamo aggiungere che la libertà si accende solo con la libertà: se l’educatore non è per primo un uomo luminoso, vivo e interiormente libero, non potrà accendere nulla e nessuno, non potrà generare la persona.
Per questo motivo ogni genitore di fronte al figlio, così come ogni educatore di fronte al giovane, non deve chiedersi “cosa posso fare per lui?”, ma “chi sono io?”.
Il docente deve essere un maestro.
Egli non trasmette il sapere come se fosse un oggetto d’uso e consumo, ma stabilisce anzitutto una relazione sapienziale che, anche quando non può giungere all’incontro personale per il numero elevato degli studenti, si fa parola di vita ancora prima che trasmissione di conoscenze.
Egli istruisce nel significato originario del termine, offre cioè un apporto sostanziale alla strutturazione della personalità; educa, secondo l’antica immagine socratica, aiutando a scoprire e attivare le capacità e i doni di ciascuno; forma, secondo la comprensione umanistica, che non restringe questo termine alla pur necessaria acquisizione di competenze professionali, ma le inquadra in una costruzione solida e in una correlazione trasparente di significati di vita.
3.
Educare in Università Al numero 49 degli Orientamenti, i Vescovi parlano del ruolo dell’Università come luogo particolare di educazione: “L’Università svolge un ruolo determinante per la formazione delle nuove generazioni, garantendo un elevato livello culturale.
Una preparazione adeguata, a livello universitario, assicura competenze atte non solo a entrare nel mondo del lavoro, finalizzate alle professioni, ma anche utili a orientarsi nella complessità culturale odierna”.
Puntuali le parole di Benedetto XVI: “Che cos’è l’università? Quale è il suo compito? Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo.
Egli vuole sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda.
Vuole la verità” (Benedetto XVI, Allocuzione per l’incontro con l?università degli studi di Roma “La Sapienza”, 17.1.2008).
Tenendo conto che il compito educativo chiama in causa diversi soggetti e chiede una urgente capacità di reti virtuose all’interno del labirinto sociale e culturale, vorrei ora presentare una specie di “declinazione educativa” per cercare di rispondere alla completezza del titolo: “il contributo delle Università”.
1) Educare alle domande.
Per creare interesse, movimento, ricerca e proporre delle risposte, è necessario che vi siano le domande.
Le domande di fondo sono quelle di sempre perché legate all’uomo; le ho accennate sopra e sono riprese nella storia di tutti i tempi, basta pensare alle coinvolgenti pagine di Giobbe, ella Sapienza, del Qoelet, dei Proverbi, dei Salmi; riandare ai tragici greci, a tanti autori latini, a Sant’Agostino, ai poeti e scrittori della letteratura e della filosofia…Sono le eterne domande di senso che possono essere coperte dal frastuono ma mai soffocate.
Esse non sono legate al grado di civiltà, progresso e cultura, ad epoche storiche definite, bensì marchiano a fuoco il cuore dell’uomo.
L’uomo, questo mistero! Egli, quando è se stesso, è immediatamente oltre sé, come ricordava Pascal.
Domande che il Concilio Vaticano II e il Magistero dei Papi riprendono e sintetizzano: “Un semplice sguardo alla storia antica mostra con chiarezza come in diverse parti della terra, segnate da culture differenti, sorgono nello stesso tempo le domande di fondo: chi sono io? Da dove vengo e dove vado? Perché la presenza del male? Cosa ci sarà dopo questa vita?” (Giovanni Paolo II, Fides et ratio, n.1).
Tutte si riconducono al fatto che l’uomo è domanda a se stesso, un enigma confusamente percepito.
Tutto questo esiste nell’anima, non è indotto, si tratta di farlo emergere là dove i rumori, le evasioni, le illusioni, i modelli accattivanti sono riusciti a mettere la sordina, a gettare polvere, o forse meglio, a rendere l’uomo sordo alle voci dell’essere.
Bisogna non dare per scontato, su nessuna cattedra, che le domande di fondo siano chiare nel cuore dei giovani ed abbiano udienza.
Provocarle, ravvivarle, richiamarle, è imprescindibile compito di ogni Università: potremmo dire, che la sua prima missione è quella di porre le questioni prime, esistenziali.
Non si tratta di suscitare dubbi, ma di dare voce alla verità che è in noi.
2) Educare alla verità La ricerca della verità chiede verità.
Ma oggi questa è oscurata: da cosa? Non parlo della ragione considerata debole e che richiamerò nel punto successivo; intendo indicare l’oscuramento che proviene dalla banalità e dalla volgarità imperante.
La banalità, il vuoto dell’anima e della vita, è figlia della cultura dell’utile.
La volgarità e la violenza ne sono le figlie.
L’utilità non è malvagia in se stessa, lo diventa quando si pone come valore primo e assoluto: allora non solo la verità è perdente, ma anche l’utilità è sconfitta perché, fuori dal rapporto con la verità, si nega e si elimina da sé.
Il senso dell’utile, presente nell’uomo come il senso del vero, è più immediato e appariscente; quindi risulta avere buon gioco nel disputarsi l’attenzione e l’interesse del soggetto, viene ad avere più peso.
Per questo è necessario coltivare nei giovani il senso e il gusto della verità.
Essa, ad una sensibilità non allenata, appare di primo acchito leggera, quasi inconsistente, imprendibile e poco interessante.
Essa nasce dalla presa sul reale: in un clima dove tutto sembra virtuale e fabulatorio, mitico e appariscente, è troppo facile che il giovane perda la presa sulla realtà, sulle cose come sono in se stesse, sulla vita com’è non come si vorrebbe che fosse.
E’ fatale che ci si rinchiuda in una bolla incantata o mostruosa.
Il senso della verità richiede la consuetudine con le domande alte, con la capacità al lavoro della ricerca, alla fatica; ma esige anche una tensione morale, la disponibilità cioè a lasciarsi giudicare dalla verità.
Essa giudica non per schiacciare ma per liberare la vita dagli inganni e dalle schiavitù.
Se il soggetto non è disposto a questo cammino interiore, sarà difficile che riconosca la verità delle cose, dei valori, dei significati, perché riconoscere richiede docilità e cambiamento.
E’ quindi necessaria una continua azione di bonifica intellettuale ed etica rispetto ai molti “idola” che sono luoghi comuni di pensare e di agire: si tratta di quella vita inautentica di heideggeriana memoria, che nasce e si nutre del “si” impersonale e spersonalizzante: “si dice”e “si fa”.
3) Educare alla ragione Esiste un’ulteriore sfida nei confronti della verità: è quella di una ragione svilita e svigorita della forza di raggiungere la verità oggettiva del reale.
La cosiddetta ragione debole, per la quale tutto diventa necessariamente relativo sul piano cognitivo, impedisce ogni vera educazione.
Se il soggetto, infatti, vive avvolto dalla nebbia dello scetticismo teoretico, quali criteri, quali obiettivi, potranno essere indicati dalla pedagogia? Quale forza potranno avere le ragioni di una ragione incapace? Ma anche come sarà possibile non cadere nel cinismo etico? Sappiamo che il soggetto ha un ruolo inevitabile nel circolo ermeneutico della conoscenza, ma sappiamo anche che la dialettica soggetto-oggetto sta nell’orizzonte del realismo, cioè di una realtà data che ci precede e che non costruiamo noi, ma di cui noi stessi siamo parte.
L’esperienza universale di ieri e di oggi, il senso comune che ha ispirato la filosofia perenne e che guida la vita, testimonia non solo il desiderio della ricerca, ma altresì la fiducia originaria dell’uomo nelle proprie capacità conoscitive.
Il pensiero critico, che fa parte degli obiettivi propri dell’Università, come potrà essere raggiunto se critica il pensiero nella sua stessa radice, rendendolo un pensiero invalido? Inoltre, come insiste il Santo Padre Benedetto XVI, è necessario superare l’orizzonte angusto della ragione strumentale consegnata alle categorie della sola ricerca empirica, che conduce a conoscere il “come” le cose funzionano, al fine dominarle e piegarle al proprio servizio.
Occorre allargare gli spazi della ragione e ricuperare la dimensione contemplativa che si interroga e indaga sul “perché” dell’essere e sul senso della totalità.
Tra l’altro, è solo all’interno di questo orizzonte che l’uomo può trovare il luogo della sintesi di se stesso e del suo esistere.
Infine, non è sufficiente riaffermare la fiducia nella ragione nella sua interezza – strumentale e contemplativa –, è anche indispensabile imparare a ragionare, vale a dire acquisire i meccanismi propri del retto raziocinio: questo, per giungere alla meta della verità, ha bisogno non solo di poter camminare ma anche di saper camminare correttamente.
Il recupero della logica non va inteso come rigidità metodologica e mortificazione della spontaneità e del genio, ma semplicemente come alveo di ciò che ordinariamente è il faticoso cammino di ricerca e di argomentazione.
4) Educare all’umano Il Novecento appena concluso ha lasciato in eredità, insieme grandi luci, una domanda inquietante: chi è l’uomo, chi è la persona? La controversia sull’umano non solo non sembra per nulla conclusa, ma addirittura più attuale, grave e complessa.
E’ la questione antropologica che il mondo occidentale sta affrontando, trovandosi di fronte ad acquisizioni tecnico-scientifiche impensate, che pongono l’uomo in condizione di intervenire e manipolare se stesso e la natura in misura sconcertante e con esiti imprevedibili.
Se il retto agire nasce dal retto pensare, vediamo quanto sia urgente partire da una teoresi vera per poter arrivare, attraverso il filtro della libertà responsabile dei singoli, ad una prassi buona per tutti.
Se alla radice della cultura si impianta una visione distorta o monca dell’uomo, le conseguenze saranno nefaste per il singolo e per la società intera.
Oggi, è sotto gli occhi di tutti, si confrontano e spesso si scontrano due opposte concezioni antropologiche.
Se l’uomo è un individuo chiuso in se stesso, autoreferenziale, legge a se stesso, occupato all’affermazione di sé, la visione della vita e della società sarà chiusa e individualista, tesa a far valere in prima istanza i propri bisogni o desideri, ritenuti come sacrosanti diritti.
La percezione della libertà individuale verrà talmente assolutizzata da farne il primo dei valori a cui commisurare e sottomettere ogni altro valore: essenziale sarà che la libertà sia liberata da tutto ciò che possa essere o apparire come un vincolo, fosse anche la propria vita.
La stessa rete delle relazioni verrà percepita come una penosa necessità da limitare il più possibile, fino al parossismo nichilista e autodistruttivo: “Io sono libero – esclamava J.P.
Sartre- non mi resta più nessuna ragione per vivere” (Sartre, La nausea).
In questa prospettiva antropologica l’individuo, alla ricerca di se stesso fuori da ogni vincolo, si allontana sempre più dagli altri ma anche dalla vita, e si fa prigioniero della sua solitudine.
Radicalmente diversa è la concezione dell’uomo che trova le sue radici nel mistero di Dio: il Creatore non è solitudine ma Trinità di Persone nell’unico Dio, e l’uomo porta questa incancellabile impronta che segna anche la direzione di marcia, l’imperativo etico, la sua vocazione e il suo destino.
Per questa ragione la persona, che è “individuo in relazione”, si realizza solo uscendo da sé nella dimensione del dono, e la libertà è sempre sì personale ma anche libertà in relazione con valori che le danno contenuto, e quindi la rendono capace di rispondere di se stessa; in relazione anche con il contesto vivo del mondo fatto di persone, di situazioni e di cose.
Ma innanzitutto la libertà, meglio ancora la persona, è in stretto e filiale rapporto con Dio, che in Cristo è diventato il grande “sì” alla vita, all’intelligenza, all’amore, al mondo (cfr Benedetto XVI, Discorso al Convegno Ecclesiale di Verona, 2006).
Nella visione cristiana è questa la ragione ultima, il principio euristico dell’antropologia che sta all’origine dell’umanesimo plenario e della società che ne è ispirata.
Una difficoltà che il Papa mette in rilievo nella missione educativa oggi sta in un falso concetto di autonomia, per cui “l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere al suo autosviluppo, ma non entrare in questo sviluppo.
In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che essa diventa se stessa solo dall’altro, l’ ‘io’ diventa se stesso solo dal ‘tu’ e dal ‘voi’, è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica.
E solo l’incontro con il ‘tu’ e con il ‘noi’ apre l’ ‘io’ a se stesso.
Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma la rinuncia all’educazione” (Benedetto XVI, Discorso alla 61° Assemblea Generale della CEI, 27.5.2010).
Occorre aiutare a comprendere e a ricordare, non solo ai ragazzi e ai giovani ma anche agli adulti, che gli altri non sono soltanto un limite alla libertà, ma la condizione affinché ognuno possa vivere libero e felice.
5) Educare alla fede pensata Nell’ambito delle Università e Istituti accademici che fanno riferimento alla Chiesa Cattolica, non è possibile non fare almeno un cenno alla educazione ad una fede pensata, capace di dare ragione della propria speranza.
Nello scorso decennio i Vescovi avevano parlato, negli Orientamenti Pastorali, di “analfabetismo religioso”, e credo che quella preoccupazione sia ancora motivata.
Si impone dunque una formazione cristiana decisamente più sostanziosa e organica.
Il primo luogo della formazione è la comunità cristiana, le parrocchie e le aggregazioni ecclesiali: l’appello è per tutti un impegno maggiore, una dedizione che, pur tenendo conto della gradualità e delle situazioni di ciascuno, proponga itinerari di fede dove l’incontro con il Signore e le verità della fede siano abbracciati con crescente consapevolezza e cordialità, siano sostenuti e accompagnati da una forte vita di preghiera personale e liturgica, e corroborati dalla comunità cristiana.
Ma oltre a questa educazione di base, è opportuno che i luoghi della scientificità accademica siano meta di frequentazione organica da parte di coloro che sono possibilitati per circostanze e propensione, nell’orizzonte di una fede più consapevole e di una evangelizzazione che non si può rimandare.
Mi permetto di insistere su una particolare attenzione nell’ambito della docenza e dell’ approfondimento della fede e delle sue verità: è la questione di Dio.
Il Santo Padre è ritornato in diverse occasioni a rilevare che questa è la questione centrale per un occidente che appare sempre più smemorato delle sue origini e che sembra coltivare una crescente pretesa di costruire la città degli uomini senza Dio.
Diventa tanto più necessario che i credenti siano più consapevoli della novità cristiana nel vivere la storia per essere sale e luce per il nostro tempo, ma anche perché la coscienza del cristiano sia meglio avvertita su come la fede illumina e ispira in modo unico e originale tutti gli ambiti del suo vivere.
6) Per concludere In conclusione, mi permetto di segnalare una duplice considerazione che spero possa arricchire l’angolazione – quella universitaria – con la quale abbiamo affrontato, seppure parzialmente, il documento degli Orientamenti Pastorali.
Innanzitutto auspico che venga sempre più aiutata la coscienza critica dell’ora presente.
La cultura occidentale – ma in modo particolare l’Europa – mi pare sia giunta ad una linea di confine.
Non è qui possibile tentare delle analisi sulle origini e sulle cause più o meno lontane di questa parabola, semplicemente osserviamo che la linea demarca l’umano e ciò che è solo apparentemente umano.
Se questa lettura è corretta, come a me  sembra, se ne intuisce la gravità.
Mi pare che il Santo Padre ricordi proprio questa situazione quando, nell’Enciclica Caritas in  veritate, afferma che “la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica” (n.
75) e precisa che “quando una società si avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo.
Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono” (n.
28).
La questione dei cosiddetti “valori non negoziabili”, con tutto ciò che ne consegue, demarca questa linea di confine, questo crinale oltre il quale l’uomo perde se stesso e la società diventa disumana.
Non essere pienamente consapevoli di questa scommessa ed non starci con le ragioni della ragione confermata e illuminata dalla fede, significherebbe un grave peccato di omissione verso Dio e verso l’uomo.
In secondo luogo, in connessione con questa sfida sull’umano, è auspicabile che tutti gli Istituti accademici, che afferiscono alla Chiesa Cattolica, entrino maggiormente nei circuiti del dibattito pubblico per offrire alla riflessione collettiva, ad ogni livello, i migliori contributi – argomentati e incisivi – sulle grandi categorie dell’alfabeto umano, come la persona, l’anima, la vita, l’amore, la famiglia, la libertà, la morte…E’ necessario far comprendere che è in atto una decisiva scommessa che vede protagonisti due culture, quella della vita e quella della morte, culture che entrambe rivendicano per sé la vita.
La nota espressione – cultura della vita e cultura della morte – non è una forma letteraria usata dal Magistero per la sua forza suggestiva, ma descrive lucidamente la realtà che viviamo: si tratta del futuro dell’uomo.
Dimensionare o silenziare, non prendere in mano con decisione e grande impegno la questione, sarebbe mancare all’appuntamento a cui il Signore ci chiama.
Se la cultura è la forma della vita, allora tutto ciò che la vita presenta di vero, di bene e di bello, ma anche di problematico e di oscuro, deve prendere la forma della riflessione culturale per diventare giudizio critico e propositivo a vantaggio di tutti.
Vi ringrazio per la pazienza del vostro ascolto e per quello che fate come Università Salesiana: la luce di San Giovanni Bosco continui a guidarvi nella sua passione per il mondo della gioventù.
In voi, cari Amici, desidero salutare e onorare tutte le Università ecclesiastiche e civili, formulando l’augurio che la passione educativa che tutti ispira si intensifichi e alimenti rapporti rispettosi e virtuosi per il vero bene dei giovani.
Roma, Università Pontificia Salesiana 24.2.2011 8

Khaled Fouad Allam: «Dai giovani una forte presa di coscienza»

L’intervista « Nessuno ha la certezza che domani cadrà questo o quel governo, però si sta concludendo un ciclo storico, cosa che gli europei non arrivano ancora a capire.
Muore il vecchio mondo arabo, quello della generazione dei miei genitori».
È assolutamente convinto dell’irreversibilità del processo innescato nel Maghreb dalle rivolte tunisine ed egiziane Khaled Fouad Allam, docente di Sociologia del mondo musulmano all’Università di Trieste.
Perché questa convinzione? Quando i ragazzi di oggi sono nati c’erano già gli stessi regimi, le stesse persone al potere, elemento che produce una certa schizofrenia: i governi parlano un linguaggio che la gioventù non capisce più.
Inoltre l’asimmetria demografica è decisiva: è molto più elevato il numero di giovani rispetto ad adulti e anziani.
Perché queste rivolte stanno accadendo ora e non 5 o 10 anni fa? Come in tutti i processi storici non c’è mai un solo motivo, ma un cumulo di fattori che fa sì che a un certo momento esploda la dinamica storica.
L’evento simbolico forte e scatenante in questo caso è stato la Tunisia.
Ma c’è altro da considerare.
A cosa si riferisce? Innanzitutto il fatto che sono cambiate le pratiche religiose: i ragazzi tra i 18 e i 30 anni hanno una pratica religiosa di tipo pietista.
L’islam non è più visto come la soluzione, come sarebbe probabilmente accaduto 10-15 anni fa.
I giovani non credono più che il Corano darà loro il lavoro, come potevano crederlo i loro padri.
Sono credenti e praticanti, ma non hanno una carica ideologica.
E infatti dallo Yemen all’Algeria di slogan religiosi non ne abbiamo sentiti.
I giovani vogliono lavoro e democrazia… In questi ultimi 10 anni è cresciuto il fenomeno dei diplomati e laureati disoccupati, costretti a fare gli ambulanti di frutta e verdura.
È il loro unico mezzo di sussistenza, e non è un caso che tutto sia nato da quel giovane tunisino ambulante che si è dato fuoco.
E poi c’è l’aspetto della globalizzazione: si sta sviluppando una coscienza mondiale della democrazia.
Un ragazzo di Algeri che corrisponde via Internet con un suo amico di Roma si chiede come mai sull’altra sponda del Mediterraneo c’è libertà e nel suo Paese no.
Ciò crea un sentimento molto forte.
Non conta la tecnologia informatica in sé, ma il suo effetto, ovvero un’accelerazione della maturazione della presa di coscienza.
Quanto durerà il vento della rivolta? Le sequenze rivoluzionarie non hanno ogni giorno la stessa intensità, ma questo clima durerà sicuramente molti mesi.
I regimi, se non cadranno, saranno costretti comunque a concedere riforme che forse non avrebbero mai fatto.
Si è aperta una breccia nella storia.
Nessuno di questi leader ha detto che intende presentarsi alle elezioni, e ciò la dice lunga sul sentimento della fine del ciclo di un’epoca.
Sta morendo un vecchio mondo, anche se non si tratta di un processo di breve durata.
Una cosa sono le sommosse di piazza, un’altra il lavorio interno che, a partire da un movimento rivoluzionario, porta al cambiamento.
E come giudica la reazione europea? L’Europa mostra di non avere una politica mediterranea.
Ha stanziato per Tunisi appena 17 milioni di euro, meno di un milione a Paese.
Ciò significa non avere la percezione della necessità di costruire un’architettura di cooperazione con la sponda sud del Mediterraneo.
Bruxelles ha costruito una visione tecnocratica dei rapporti con la sponda sud, ma non ha pensato cosa potesse essere questo rapporto geopoliticamente e geoculturalmente.
Ci vuole un cambio di mentalità e di strategia.
Gli Usa, per quanto criticabili, hanno almeno una loro chiara visione del Mediterraneo in “Avvenire” del 22 febbraio 2011

Messaggio del Santo Padre per la Quaresima 2011

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE “Con Cristo siete sepolti nel Battesimo, con lui siete anche risorti” (cfr Col 2,12) Cari fratelli e sorelle, la Quaresima, che ci conduce alla celebrazione della Santa Pasqua, è per la Chiesa un tempo liturgico assai prezioso e importante, in vista del quale sono lieto di rivolgere una parola specifica perché sia vissuto con il dovuto impegno.
Mentre guarda all’incontro definitivo con il suo Sposo nella Pasqua eterna, la Comunità ecclesiale, assidua nella preghiera e nella carità operosa, intensifica il suo cammino di purificazione nello spirito, per attingere con maggiore abbondanza al Mistero della redenzione la vita nuova in Cristo Signore (cfr Prefazio I di Quaresima).
1.
Questa stessa vita ci è già stata trasmessa nel giorno del nostro Battesimo, quando, “divenuti partecipi della morte e risurrezione del Cristo”, è iniziata per noi “l’avventura gioiosa ed esaltante del discepolo” (Omelia nella Festa del Battesimo del Signore, 10 gennaio 2010).
San Paolo, nelle sue Lettere, insiste ripetutamente sulla singolare comunione con il Figlio di Dio realizzata in questo lavacro.
Il fatto che nella maggioranza dei casi il Battesimo si riceva da bambini mette in evidenza che si tratta di un dono di Dio: nessuno merita la vita eterna con le proprie forze.
La misericordia di Dio, che cancella il peccato e permette di vivere nella propria esistenza “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5), viene comunicata all’uomo gratuitamente.
L’Apostolo delle genti, nella Lettera ai Filippesi, esprime il senso della trasformazione che si attua con la partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo, indicandone la meta: che “io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11).
Il Battesimo, quindi, non è un rito del passato, ma l’incontro con Cristo che informa tutta l’esistenza del battezzato, gli dona la vita divina e lo chiama ad una conversione sincera, avviata e sostenuta dalla Grazia, che lo porti a raggiungere la statura adulta del Cristo.
Un nesso particolare lega il Battesimo alla Quaresima come momento favorevole per sperimentare la Grazia che salva.
I Padri del Concilio Vaticano II hanno richiamato tutti i Pastori della Chiesa ad utilizzare “più abbondantemente gli elementi battesimali propri della liturgia quaresimale” (Cost.
Sacrosanctum Concilium, 109).
Da sempre, infatti, la Chiesa associa la Veglia Pasquale alla celebrazione del Battesimo: in questo Sacramento si realizza quel grande mistero per cui l’uomo muore al peccato, è fatto partecipe della vita nuova in Cristo Risorto e riceve lo stesso Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti (cfr Rm 8,11).
Questo dono gratuito deve essere sempre ravvivato in ciascuno di noi e la Quaresima ci offre un percorso analogo al catecumenato, che per i cristiani della Chiesa antica, come pure per i catecumeni d’oggi, è una scuola insostituibile di fede e di vita cristiana: davvero essi vivono il Battesimo come un atto decisivo per tutta la loro esistenza.
2.
Per intraprendere seriamente il cammino verso la Pasqua e prepararci a celebrare la Risurrezione del Signore – la festa più gioiosa e solenne di tutto l’Anno liturgico – che cosa può esserci di più adatto che lasciarci condurre dalla Parola di Dio? Per questo la Chiesa, nei testi evangelici delle domeniche di Quaresima, ci guida ad un incontro particolarmente intenso con il Signore, facendoci ripercorrere le tappe del cammino dell’iniziazione cristiana: per i catecumeni, nella prospettiva di ricevere il Sacramento della rinascita, per chi è battezzato, in vista di nuovi e decisivi passi nella sequela di Cristo e nel dono più pieno a Lui.
La prima domenica dell’itinerario quaresimale evidenzia la nostra condizione dell’uomo su questa terra.
Il combattimento vittorioso contro le tentazioni, che dà inizio alla missione di Gesù, è un invito a prendere consapevolezza della propria fragilità per accogliere la Grazia che libera dal peccato e infonde nuova forza in Cristo, via, verità e vita (cfr Ordo Initiationis Christianae Adultorum, n.
25).
E’ un deciso richiamo a ricordare come la fede cristiana implichi, sull’esempio di Gesù e in unione con Lui, una lotta “contro i dominatori di questo mondo tenebroso” (Ef 6,12), nel quale il diavolo è all’opera e non si stanca, neppure oggi, di tentare l’uomo che vuole avvicinarsi al Signore: Cristo ne esce vittorioso, per aprire anche il nostro cuore alla speranza e guidarci a vincere le seduzioni del male.
Il Vangelo della Trasfigurazione del Signore pone davanti ai nostri occhi la gloria di Cristo, che anticipa la risurrezione e che annuncia la divinizzazione dell’uomo.
La comunità cristiana prende coscienza di essere condotta, come gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, “in disparte, su un alto monte” (Mt 17,1), per accogliere nuovamente in Cristo, quali figli nel Figlio, il dono della Grazia di Dio: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento.
Ascoltatelo” (v.
5).
E’ l’invito a prendere le distanze dal rumore del quotidiano per immergersi nella presenza di Dio: Egli vuole trasmetterci, ogni giorno, una Parola che penetra nelle profondità del nostro spirito, dove discerne il bene e il male (cfr Eb 4,12) e rafforza la volontà di seguire il Signore.
La domanda di Gesù alla Samaritana: “Dammi da bere” (Gv 4,7), che viene proposta nella liturgia della terza domenica, esprime la passione di Dio per ogni uomo e vuole suscitare nel nostro cuore il desiderio del dono dell’ “acqua che zampilla per la vita eterna” (v.
14): è il dono dello Spirito Santo, che fa dei cristiani “veri adoratori” in grado di pregare il Padre “in spirito e verità” (v.
23).
Solo quest’acqua può estinguere la nostra sete di bene, di verità e di bellezza! Solo quest’acqua, donataci dal Figlio, irriga i deserti dell’anima inquieta e insoddisfatta, “finché non riposa in Dio”, secondo le celebri parole di sant’Agostino.
La “domenica del cieco nato” presenta Cristo come luce del mondo.
Il Vangelo interpella ciascuno di noi: “Tu, credi nel Figlio dell’uomo?”.
“Credo, Signore!” (Gv 9,35.38), afferma con gioia il cieco nato, facendosi voce di ogni credente.
Il miracolo della guarigione è il segno che Cristo, insieme alla vista, vuole aprire il nostro sguardo interiore, perché la nostra fede diventi sempre più profonda e possiamo riconoscere in Lui l’unico nostro Salvatore.
Egli illumina tutte le oscurità della vita e porta l’uomo a vivere da “figlio della luce”.
Quando, nella quinta domenica, ci viene proclamata la risurrezione di Lazzaro, siamo messi di fronte al mistero ultimo della nostra esistenza: “Io sono la risurrezione e la vita… Credi questo?” (Gv 11,25-26).
Per la comunità cristiana è il momento di riporre con sincerità, insieme a Marta, tutta la speranza in Gesù di Nazareth: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo” (v.
27).
La comunione con Cristo in questa vita ci prepara a superare il confine della morte, per vivere senza fine in Lui.
La fede nella risurrezione dei morti e la speranza della vita eterna aprono il nostro sguardo al senso ultimo della nostra esistenza: Dio ha creato l’uomo per la risurrezione e per la vita, e questa verità dona la dimensione autentica e definitiva alla storia degli uomini, alla loro esistenza personale e al loro vivere sociale, alla cultura, alla politica, all’economia.
Privo della luce della fede l’universo intero finisce rinchiuso dentro un sepolcro senza futuro, senza speranza.
Il percorso quaresimale trova il suo compimento nel Triduo Pasquale, particolarmente nella Grande Veglia nella Notte Santa: rinnovando le promesse battesimali, riaffermiamo che Cristo è il Signore della nostra vita, quella vita che Dio ci ha comunicato quando siamo rinati “dall’acqua e dallo Spirito Santo”, e riconfermiamo il nostro fermo impegno di corrispondere all’azione della Grazia per essere suoi discepoli.
3.
Il nostro immergerci nella morte e risurrezione di Cristo attraverso il Sacramento del Battesimo, ci spinge ogni giorno a liberare il nostro cuore dal peso delle cose materiali, da un legame egoistico con la “terra”, che ci impoverisce e ci impedisce di essere disponibili e aperti a Dio e al prossimo.
In Cristo, Dio si è rivelato come Amore (cfr 1Gv 4,7-10).
La Croce di Cristo, la “parola della Croce” manifesta la potenza salvifica di Dio (cfr 1Cor 1,18), che si dona per rialzare l’uomo e portargli la salvezza: amore nella sua forma più radicale (cfr Enc.
Deus caritas est, 12).
Attraverso le pratiche tradizionali del digiuno, dell’elemosina e della preghiera, espressioni dell’impegno di conversione, la Quaresima educa a vivere in modo sempre più radicale l’amore di Cristo.
Il digiuno, che può avere diverse motivazioni, acquista per il cristiano un significato profondamente religioso: rendendo più povera la nostra mensa impariamo a superare l’egoismo per vivere nella logica del dono e dell’amore; sopportando la privazione di qualche cosa – e non solo di superfluo – impariamo a distogliere lo sguardo dal nostro “io”, per scoprire Qualcuno accanto a noi e riconoscere Dio nei volti di tanti nostri fratelli.
Per il cristiano il digiuno non ha nulla di intimistico, ma apre maggiormente a Dio e alle necessità degli uomini, e fa sì che l’amore per Dio sia anche amore per il prossimo (cfr Mc 12,31).
Nel nostro cammino ci troviamo di fronte anche alla tentazione dell’avere, dell’avidità di denaro, che insidia il primato di Dio nella nostra vita.
La bramosia del possesso provoca violenza, prevaricazione e morte; per questo la Chiesa, specialmente nel tempo quaresimale, richiama alla pratica dell’elemosina, alla capacità, cioè, di condivisione.
L’idolatria dei beni, invece, non solo allontana dall’altro, ma spoglia l’uomo, lo rende infelice, lo inganna, lo illude senza realizzare ciò che promette, perché colloca le cose materiali al posto di Dio, unica fonte della vita.
Come comprendere la bontà paterna di Dio se il cuore è pieno di sé e dei propri progetti, con i quali ci si illude di potersi assicurare il futuro? La tentazione è quella di pensare, come il ricco della parabola: “Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni…”.
Conosciamo il giudizio del Signore: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita…” (Lc 12,19-20).
La pratica dell’elemosina è un richiamo al primato di Dio e all’attenzione verso l’altro, per riscoprire il nostro Padre buono e ricevere la sua misericordia.
In tutto il periodo quaresimale, la Chiesa ci offre con particolare abbondanza la Parola di Dio.
Meditandola ed interiorizzandola per viverla quotidianamente, impariamo una forma preziosa e insostituibile di preghiera, perché l’ascolto attento di Dio, che continua a parlare al nostro cuore, alimenta il cammino di fede che abbiamo iniziato nel giorno del Battesimo.
La preghiera ci permette anche di acquisire una nuova concezione del tempo: senza la prospettiva dell’eternità e della trascendenza, infatti, esso scandisce semplicemente i nostri passi verso un orizzonte che non ha futuro.
Nella preghiera troviamo, invece, tempo per Dio, per conoscere che “le sue parole non passeranno” (cfr Mc 13,31), per entrare in quell’intima comunione con Lui “che nessuno potrà toglierci” (cfr Gv 16,22) e che ci apre alla speranza che non delude, alla vita eterna.
In sintesi, l’itinerario quaresimale, nel quale siamo invitati a contemplare il Mistero della Croce, è “farsi conformi alla morte di Cristo” (Fil 3,10), per attuare una conversione profonda della nostra vita: lasciarci trasformare dall’azione dello Spirito Santo, come san Paolo sulla via di Damasco; orientare con decisione la nostra esistenza secondo la volontà di Dio; liberarci dal nostro egoismo, superando l’istinto di dominio sugli altri e aprendoci alla carità di Cristo.
Il periodo quaresimale è momento favorevole per riconoscere la nostra debolezza, accogliere, con una sincera revisione di vita, la Grazia rinnovatrice del Sacramento della Penitenza e camminare con decisione verso Cristo.
Cari fratelli e sorelle, mediante l’incontro personale col nostro Redentore e attraverso il digiuno, l’elemosina e la preghiera, il cammino di conversione verso la Pasqua ci conduce a riscoprire il nostro Battesimo.
Rinnoviamo in questa Quaresima l’accoglienza della Grazia che Dio ci ha donato in quel momento, perché illumini e guidi tutte le nostre azioni.
Quanto il Sacramento significa e realizza, siamo chiamati a viverlo ogni giorno in una sequela di Cristo sempre più generosa e autentica.
In questo nostro itinerario, ci affidiamo alla Vergine Maria, che ha generato il Verbo di Dio nella fede e nella carne, per immergerci come Lei nella morte e risurrezione del suo Figlio Gesù ed avere la vita eterna.
Dal Vaticano, 4 novembre 2010 BENEDICTUS PP XVI

Libertà religiosa, via per la pace.

«I cristiani sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede»: con questa affermazione il messaggio pontificio Libertà religiosa, via per la pace per la XLIV Giornata mondiale della pace, reso noto pochi giorni prima di Natale (16 dicembre), ha subito attirato l’attenzione dei media.
Nel 25° anniversario dell’Incontro interreligioso di pre ghiera per la pace di Assisi (ottobre 1986), il riferimento è, infatti, non solo a quelle situazioni nelle quali si coltiva «una visione riduttiva della persona umana», ge nerando così «una società ingiusta», ma si allarga a tutte quelle «forme più sofisticate di ostilità contro la religione, che nei paesi occidentali si esprimono talvolta col rinnegamento della storia e dei simboli religiosi nei quali si rispecchiano l’identità e la cultura della maggioranza dei cittadini ».
In tema di libertà religiosa, la Santa Sede e lo stesso Benedetto XVI sono recentemente intervenuti anche a proposito della situazione in Cina: cf.
Regno-att.
22,2010,737 e riquadro a p.
6.
Regno-doc.
n.1, 2011, p.1 Il testo dell’articolo è disponibile in formato pdf Visualizza il testo dell’articolo

Moneta del potere, genealogia della libertà – Laicità

II termine “laico”, nonostante l’attuale accezione dominante, ha sostanzialmente una genesi “religiosa” (designava, infatti, il semplice fedele “popolare” – da laós, in greco “popolo” – rispetto alla gerarchia ecclesiastica).
Per impostare il discorso sulla laicità è legittimo risalire a una scena evangelica, così nota da diventare proverbiale.
È l’unico pronunciamento direttamente politico di Gesù.
Egli viene provocato dai suoi avversari a intervenire sulla questione fiscale, ossia sul tributo imperiale da versare da parte dei cittadini dei territori occupati da Roma.
La replica di Cristo è lapidaria: «Ta Kaisaros apodote Kaisari kai ta Theou Theo», «rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (si può leggere l’episodio sia nel Vangelo di Matteo, sia in quello di Marco o di Luca).
Risposta tagliente e a prima vista netta nel tracciare una linea di demarcazione che dovrebbe esorcizzare ogni teocrazia (la shari’a musulmana, per la quale il codice di diritto canonico diventa il  codice civile, non è evangelica) e ogni cesaropapismo.
Tuttavia, il discorso è più sofisticato e complesso se si tiene conto della parabola in azione che si consuma attorno a quella frase.
Cristo, infatti, argomenta tenendo tra le mani simbolicamente una moneta con l'”immagine”, l’icona (eikon in greco) dell’imperatore, simbolo evidente della politica e dell’economia, alla quale viene riconosciuta una sua autonomia, un campo di esercizio proprio, una sua capacità e indipendenza normativa.
Ma ai lettori di oggi sfugge l’ammiccamento testuale ulteriore che Gesù introduce per il suo uditorio ebraico: nel libro della Genesi (1, 27) si ha una celebre e suggestiva definizione dell’essere umano  come «immagine» (nella versione greca eikon, icona) di Dio.
Si delinea, in tal modo, un profilo specifico dell’area «di Dio» distinta da quella «di Cesare».
Si tratta della tutela della dignità superiore e inalienabile della persona e della sua natura intrinseca: la libertà, le relazioni, l’amore (nel passo della Genesi si rimanda esplicitamente al «maschio» e alla «femmina» e non al solo maschio come «immagine» divina), i grandi valori etici assoluti della solidarietà, della giustizia, della vita non possono essere meramente funzionalizzati all’interesse politico-finanziario e piegati esclusivamente alle esigenze delle strategie del sistema o del mercato.
La missione dei profeti biblici e dello stesso Cristo è stata appunto quella di essere una sentinella sulla frontiera tra Cesare e Dio, proprio nella difesa di questi valori.
Memorabile è il «Non ti è lecito!» che Giovanni Battista grida all’arroganza del potere del re Erode Antipa.
È, però, indiscutibile che la questione si aggrovigli quando si procede nella declinazione storica di questa visione di principio, proprio perché entrambi gli attori, Cesare e Dio, ossia lo Stato e la Chiesa o il laico e il credente, si interessano di un soggetto comune, la società fatta di uomini e donne, e quindi i contrappunti e i conflitti di giudizio sono sempre in agguato.
Ci si è, così, lasciati spesso tentare dalle scorciatoie.
Da un lato, si è configurato il progetto teocratico, talora esplicito oppure solo sognato: «Questo tempio è il mio paese, non ne riconosco altri», proclamava il sommo sacerdote ebreo nella Atalia di Racine.
E proprio perché a gestire questo disegno era il clero, prevalente rispetto ai laici, cioè i semplici fedeli, il termine “clericale” ha acquisito una connotazione sospetta o essenzialmente negativa.
D’altro lato, però, prendeva contemporaneamente corpo la spinta opposta, caratterizzata da un atteggiamento di protesta contro il distendersi del manto sacrale, ma anche dallo stizzito desiderio di ridurre alle corde la casta religiosa, espellendola radicalmente dalla polis per relegarla nel ristretto spazio templare, tra le volute degli incensi e i melismi dei canti liturgici.
È in questa linea che il termine “laico” acquistava l’accezione ora dominante, spoglia di qualsiasi radice religiosa originaria, e si trasformava nell’orgogliosa affermazione dell’assoluta indipendenza e del primato della politica sulla religione.
Lo stesso motto – spesso celebrato come applicazione del citato detto evangelico – della «libera Chiesa in libero Stato» in verità ha sotteso non un concetto di parità ma di subordinazione: è lo Stato che assegna alla Chiesa il diritto di sussistenza, confinandola però nella coscienza dell’individuo o nel perimetro sacrale del culto.
A questo punto, a essere più rigorosi, dobbiamo distinguere tra “laicità” («rendete a Cesare ciò che è di Cesare») e “laicismo” (che elide o reprime il «rendete a Dio ciò che è di Dio»), vocaboli che non sono sinonimi, così come non si devono identificare “secolarità” e “secolarismo” (o “secolarizzazione”), fermo restando che la stessa distinzione vale tra “religiosità” e “teocrazia”.
La laicità è strutturalmente necessaria anche per una corretta dottrina teologica; il suo mancato rispetto attraverso intromissioni “clericali” esplicite o surrettizie genera disordine e crea tensioni che si riverberano in altri campi paralleli, come sono quelli della scienza e della fede o della ragione e della natura e così via.
Il monito di Schelling, rivolto allo storico e al teologo, a «custodire castamente la propria frontiera» è del tutto pertinente, anche se facilmente declassato sotto l’impulso delle questioni aperte che spesso si insediano appunto sulla frontiera di entrambi i campi.
Detto questo e proprio sulla base dell’impostazione ora descritta, è necessario riconoscere in modo parallelo la libertà di parola e di azione all’area di Dio (per usare la distinzione di Cristo, cioè della religione).
Questo implica non solo l’esercizio del culto e l’elaborazione del pensiero teologico in senso stretto, bensì anche la funzione di essere coscienza critica nei confronti dei valori personali e sociali della giustizia, del bene comune, della vita, della verità, nella consapevolezza che l’uomo e la donna trascendono il pur legittimo ordinamento economico-politico, dotato di sue norme proprie.
Il nodo delicato è precisamente in questa interazione indispensabile, capace di impedire che lo Stato diventi un Moloch e l’economia un Leviatan dominatore e che la Chiesa debordi dal suo orizzonte assumendo forme di integralismo.
Ai nostri giorni la “laicità”, però, si sta accendendo sempre più di un costante sdegno, indispettito e insofferente nei confronti di ogni dichiarazione religiosa di indole civile o sociale, senza cercare prima di vagliarne il merito, se etico oppure fondamentalistico.
In causa è chiamato soprattutto il cristianesimo che è di sua natura “incarnazione”, e quindi non si isola nei cieli mitici e mistici, ma proclama la dignità della “carne “, cioè dei grandi valori umani e la lettura del Vangelo ne è un’immediata conferma.
La religione cristiana autentica e completa ha nel suo stesso Dna una vocazione “sociale”.
Chesterton osservava che «tutta l’iconografia cristiana rappresenta i santi con gli occhi aperti sul mondo, mentre l’iconografia buddhista rappresenta ogni essere con gli occhi chiusi nella contemplazione interiore».
Tuttavia, nelle pagine neotestamentarie, giustamente non si ha mai un progetto politico alternativo in senso stretto; san Paolo si colloca all’interno del sistema imperiale romano, come è indicato nel famoso paragrafo della Lettera ai Romani (13, 1-7) dedicato all’etica fiscale da rispettare, così come san Luca negli Atti degli Apostoli riconosce la sostanziale bontà del diritto romano nei confronti dei suoi cittadini (tra i quali è annoverato appunto anche Paolo).
Questo, però, non esclude che l’autore dell’Apocalisse promuova una serrata critica nei confronti delle prevaricazioni del potere imperiale, colpendo in questo modo la politica repressiva di Domiziano, né si può ignorare che il cristianesimo abbia esercitato una funzione dirompente all’interno del modello sociale dei primi secoli per accelerare il trapasso a una società segnata dall’uguaglianza e dalla coesione fraterna, demolendo l’impianto tradizionale fondato sulla distinzione castale tra liberi e schiavi, indigeni e stranieri, maschi e femmine («Non c’è più né giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più né uomo né donna, perché voi siete tutti uno in Cristo Gesù», scrive l’Apostolo Paolo ai Galati).
Senza, perciò, nasconderci le difficoltà pratiche delle collisioni nell’interazione tra i due ambiti, senza voler essere a tutti i costi concordistici e irenici nell’esorcizzare ogni tentazione integristica, sia essa secolaristica o sacrale, riteniamo che sia sempre importante ribadire i principi che reggono gli statuti propri delle diverse sfere di pensiero e di azione.
“Sacro” e “laico” non sono antitetici, pur essendo in radice differenti.
Sbaglia il “sacralismo” clericale quando sogna di “consacrare” il profano ritenendolo in sé negativo, cancellandone l’identità, così come è in errore il “laicismo” secolaristico quando programma l’eliminazione di ogni segno religioso nell’areopago della società come presenza illegittima e indegna e disdegna ogni monito spirituale e morale, considerandolo come un’interferenza inaccettabile.
Il sacro autentico non si oppone né vuole elidere il profano, ma lo chiama a dialogo, lo interpella e ne è interpellato, lo feconda rispettandone le competenze, lo provoca sui valori fondanti e permanenti dell’etica.
Interrogarsi reciprocamente scoprendo il terreno di condivisione è il dialogo necessario che allontana il rigetto o la “con-fusione”.
L’esito finale positivo potrebbe essere quello che Gandhi delineava in questo suo settenario ideale: «L’uomo si distrugge con la politica senza principi etici, con la ricchezza senza lavoro, con l’intelligenza senza il carattere, con gli affari senza morale, con la scienza senza umanità, con la religione senza la fede, con la solidarietà senza il sacrificio di sé».
di Gianfranco Ravasi in “Il Sole 24 Ore” del 6 febbraio 2011

Pane e vino inizio di civiltà

«Der Mensch ist was er isst»: questa frase, assonante in tedesco, scritta dal filosofo Feuerbach sulla rivista «Blätter für literarische Unterhaltung» del 12 novembre 1850, sarebbe presto divenuta una sorta di vessillo del materialismo.
Che l’uomo sia ciò che mangia in verità è passibile, però, di un’altra interpretazione, dato che il cibo in tutte le culture è anche un simbolo di comunione nella gioia (si pensi alle parabole nuziali di Gesù che comprendono un banchetto), nel dolore («mangiare il pane del lutto» è una nota locuzione biblica, e i pasti funebri sono ancor oggi praticati in molte nazioni), nell’ospitalità (basti leggere la deliziosa scenetta narrativa di Abramo che accoglie i tre ospiti ignoti nel capitolo 18 della Genesi).
Aveva ragione il magistrato francese Anthelme Brillat-Savarin quando osservava nella sua celebre Fisiologia del gusto (1825) che «gli animali si nutrono, l’uomo mangia, l’uomo di spirito pranza».
Se ci avviassimo sulla strada della simbologia religiosa del cibo, dovremmo, in pratica, allestire un intero orizzonte metaforico: c’è il banchetto pasquale esodico, quello liturgico dei «sacrifici di comunione» nel tempio con le carni immolate, c’è il banchetto messianico ed escatologico, segno di pienezza e di gioia, c’è quello sapienziale di stampo etico (si legga il capitolo 9 dei Proverbi) e c’è la cena eucaristica di Cristo, per non parlare poi della morale raffigurata proprio in apertura alla Bibbia con l’immagine di un frutto «buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile», quello dell’albero della conoscenza del bene e del male (Genesi 3,6).
Noi ora ci accontenteremo solo di porre su un’ideale tavola due cibi molto semplici: il pane e il vino.
Paul Claudel nel suo Annunzio a Maria scriveva: «Interroga la vecchia terra, ti risponderà col pane e col vino».
Essi sono gli archetipi dell’alimentazione, tant’è vero che in ebraico lehem, «pane», ha la stessa radice del vocabolo che indica la «guerra», proprio perché si tratta di una conquista primaria dell’esistenza.
Naturalmente la nostra lettura avrà un taglio simbolico cristiano.
Osserviamo innanzitutto che i pranzi hanno un rilievo curioso all’interno della storia di Gesù.
Egli, infatti, accetta spesso di sedere a mensa, senza badare molto alle persone che lo invitano: una volta è un fariseo ad averlo come ospite, altre volte è un pubblicano come Zaccheo o Matteo.
Anzi, a un certo momento si mormorerà di lui: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro» (Luca 15, 2).
Inoltre Gesù ama usare il simbolo del banchetto, soprattutto nuziale, per parlare del Regno di Dio: si pensi alla parabola degli invitati a nozze (Matteo 22, 1-14) o a quella delle vergini stolte e prudenti (Matteo 25, 1-13).
Si arriverà persino a dire che egli è «un mangione e beone, amico dei pubblicani e dei peccatori», in contrasto con l’ascetico comportamento del Battista «che non mangia pane e non beve vino» (Luca 7, 33-34).
Nella tradizione cristiana le due prime opere di misericordia «corporale» sono proprio il «dar da mangiare agli affamati e dar da bere agli assetati».
Ci sono due scene emblematiche al riguardo nella Bibbia.
La prima è quella in cui Dio si premura di procurare – come un padre di famiglia – il cibo e l’acqua al suo popolo in marcia nel deserto (l’acqua che scaturisce dalla rupe, la manna e le quaglie).
L’altra scena è quella di Gesù che imbandisce una mensa di pane e di pesci per la folla che lo sta seguendo, moltiplicando quel poco cibo che era a loro disposizione.
A questo punto dedichiamo la nostra attenzione al pane.
Un autore spirituale, il gesuita Charles Pierre, dichiarava: «Il pane conserva quasi una maestà divina.
Mangiarlo nell’ozio è da parassita; guadagnarlo laboriosamente è un dovere; rifiutarsi di dividerlo è da crudeli».
Ora, nella Bibbia col pane si rimanda al cibo in senso generale, tant’è vero che «mangiare il pane» è un’espressione che significa semplicemente «cibarsi».
Nel Vicino Oriente non si può dare il pane agli animali; se si inciampa in un pane caduto per terra, lo si raccoglie e pulisce, e ancor oggi gli arabi non tagliano il pane col coltello per non “ucciderlo”, considerandolo quasi una creatura vivente.
Il pane dei poveri era di orzo, essendo il frumento raro e pregiato.
La farina era ottenuta attraverso macine rudimentali costituite da due pietre, l’una orizzontale, l’altra verticale ruotante.
La pasta era preparata in una madia di legno: una pittura egizia rappresenta i panettieri che impastano la farina con acqua, sale e lievito, schiacciandola coi piedi! È noto, però, che il pane più comune era quello azzimo, cioè una specie di sfoglia non lievitata, di facile preparazione nel deserto e senza forno (bastava una lastra riscaldata di pietra o di metallo).
Il vero impegno religioso – ammoniva Isaia (25, 7) – consiste nel «dividere il pane con l’affamato».
Anzi, come dovrebbe essere vero anche per noi cristiani (lo è per la stessa usanza musulmana del Ramadan), il digiuno non è una dieta o un gesto masochistico, bensì un atto penitenziale di distacco dal benessere per trasformarlo in un atto di carità per i miseri.
Esemplari sono ancora le parole di Isaia: «È questo il digiuno che io (il Signore) voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo.
Non consiste forse (il vero digiuno) nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, i senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?» (58, 6-7).
Gesù, comunque, ha dato un rilievo spirituale ulteriore al pane: non si può non pensare all’eucaristia che nel linguaggio neotestamentario era definita come «la frazione del pane» (Atti 2, 42) perché con quel gesto si segnalava la comunione di tutti i fedeli con Cristo e tra loro.
In quel rito tipicamente cristiano in cui il pane diventa il corpo di Cristo che si dona e comunica ai credenti, si ha un’altra presenza “materiale” trasfigurata nel segno efficace del sangue di Cristo, ossia il vino: «Gesù prese il calice, rese grazie, lo diede loro dicendo: Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati.
Io vi dico che d’ora in poi non berrò di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel regno del Padre mio» (Matteo 26, 27-29).
Questa bevanda, però, aveva per la Bibbia anche un valore immediato e realistico, essendo espressione della festa e dell’allegria.
Il Salmo 104, 15 lo canta come ciò che «allieta il cuore dell’uomo».
L’era messianica è dipinta sotto immagini “enologiche”: «Verranno giorni in cui dai monti stillerà il vino nuovo e colerà giù dalle colline»; «Preparerà il Signore degli eserciti un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (Amos 9,14 e Isaia 25, 6).
Nella Bibbia, a partire da Noè, il vino costituisce una presenza semplice e spontanea, con le sue capacità di generare gioia, amore, amicizia, festa ma anche con i suoi rischi.
Al riguardo evochiamo due passi molto brillanti.
Il Siracide, sapiente del II secolo a.C., scrive: «Non fare forte uso del vino perché ha mandato molti in rovina…
Il vino è come la vita per gli uomini, purché tu lo beva con misura.
Che vita è quella di chi non ha vino? Esso, infatti, fu creato per la gioia degli uomini.
Allegria del cuore e gioia dell’anima è il vino bevuto a tempo e a misura.
Amarezza dell’anima è il vino bevuto in quantità, con eccitazione e per sfida.
L’ubriachezza accresce l’ira dello stupido a sua rovina…» (31, 25-30).
Nei Proverbi, invece, si ha un ritratto vivace dell’ubriaco: «Non guardare il vino quando rosseggia, quando scintilla nella coppa e scende piano piano; finirà col morderti come un serpente.
I tuoi occhi vedranno cose strane e la tua mente dirà cose sconnesse.
Ti parrà di giacere in alto mare o di dormire in cima all’albero maestro…» (si legga Proverbi 23,29-35).
La religione cristiana non è, dunque, una vaga emozione interiore che ci invita a decollare dalla realtà verso cieli mitici e mistici.
È una fede legata ai corpi, alla storia, all’esistenza.
Una società sbrigativa e superficiale che ingurgita cibi a caso in un fast food, che ignora lo spreco alimentare, che si infastidisce quando si evoca lo spettro della fame nel mondo, che si oppone all’ospitalità, ha perso non solo la dimensione simbolica del cibo ma anche la spiritualità che in quel segno è celata.
Per questo ritornare alla civiltà e alla simbologia del cibo ha un valore culturale e spirituale.
Forse non esagerava lo scrittore inglese Charles Lamb, vissuto tra il Sette e l’Ottocento, quando nei suoi Saggi di Elia scriveva: «Detesto l’uomo che manda giù il suo cibo affettando di non sapere che cosa mangia.
Dubito del suo gusto in cose più importanti».
in “Il Sole 24 Ore” del 30 gennaio 2011

Credenti e atei, un dialogo per ritrovarsi

Anticipiamo un brano dell’intervento su “Jesus” del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura che promuove il “Cortile dei Gentili”, dialogo tra credenti e atei.
Il primo incontro sarà a Bologna, organizzato dall’Università, il 12 febbraio Credenti e non credenti stanno su territori differenti, ma non si devono rinserrare in un isolazionismo sacrale o laico, ignorandosi o peggio scagliandosi sberleffi o accuse, come vorrebbero i fondamentalisti di entrambi gli schieramenti.
Certo, non si devono appiattire le differenze.
Ognuno ha i piedi piantati in un “cortile” separato, ma i pensieri e le parole, le opere e le scelte possono confrontarsi e persino incontrarsi.
Ricorrendo a un gioco di parole assonanti (ma non di etimologie), tra Cristiani e Gentili si potrebbe adottare la tecnica del duello (dal latino bellum), in uno scontro all’arma bianca, alla maniera del giansenista e del gesuita del film La Via Lattea di Buñuel.
Quello che il progetto denominato “Cortile dei Gentili” vuole proporre è, invece, un duetto (dal latino duo) ove le voci possono appartenere anche agli antipodi sonori eppure riescono a creare armonia, senza per questo rinunciare alla propria identità, cioè, fuor di metafora, senza scolorirsi in un vago sincretismo ideologico.
Da un lato, i “Gentili” devono ritrovare quella nobiltà ideale così com’era espressa dai grandi sistemi “ateistici” (pensiamo a Marx o alla celebre parabola sul Dio morto della Gaia scienza di Nietzsche o ai versi di Heine: «Non sentite la campanella? In ginocchio! Si portano i sacramenti a un Dio che muore»), prima che venissero incapsulati in sistemi politico-ideologici o piombassero nello scetticismo e nell’idolatria delle cose o degenerassero nell’ateismo sprezzante, sarcastico e infantilmente dissacratorio.
D’altro lato, la fede deve ritrovare la sua grandezza, manifestata in secoli di pensiero alto e in una visione compiuta dell’essere e dell’esistere, evitando le scorciatoie del devozionalismo o del fondamentalismo e rivelando che la teologia ha un suo rigoroso statuto metodologico parallelo e specifico rispetto a quello della scienza.
in “ la Repubblica” del 4 febbraio 2011

Andrea Riccardi: «I cattolici cambino scelte politiche»

L’intervista «Quando arrivammo qui a Trastevere, negli Anni 70, ci rubarono i motorini.
La prima trattativa di Sant’Egidio — racconta il fondatore, Andrea Riccardi — fu con i ladri, per farceli restituire.
Allora a Trastevere c’era il popolo.
Si viveva nei bassi.
Ora le case valgono 10, 12, anche 15 mila euro al metro quadro».
E Sant’Egidio è stata riconosciuta dalla Farnesina come «istituzione internazionale», segnata da «terzietà» e «indipendenza da qualsiasi tendenza politica».
Che cosa significa? «Non distacco.
Semmai, diversità di visione.
Approccio alle questioni sociali a partire dai poveri.
Ci sentiamo profondamente radicati nella romanità e nel carattere italiano, e nello stesso tempo decisi ad aprirci all’Africa, all’America latina, ai mondi asiatici.
Un’apertura in controtendenza rispetto al ripiegamento, all’introversione degli ultimi anni».
Come vede oggi l’Italia nel mondo? «Rimpicciolita.
Ho cominciato a frequentare gli scenari africani e mediorientali negli Anni 80, e allora l’Italia era considerata un grande Paese.
Eravamo la frontiera tra Oriente e Occidente, la marca di passaggio tra Nord e Sud.
Non è solo la globalizzazione; è l’Italia che si è assentata, ripiegata su se stessa».
Come valuta le vicende di questi giorni? «Le inquadro in una stagione finita, che si potrebbe definire la storia di un bambino mai nato.
La Seconda Repubblica non è mai nata, eppure si ha la sensazione che stia morendo.
Si è passati dalla Repubblica dei partiti a quella della tv e dei talk-show.
Non dico sia tutto da buttare.
Abbiamo l’euro.
Ma non abbiamo più fiducia nell’Europa: e come possiamo reggere il passo di Cina e India con le navicelle degli Stati europei? Benedetto XV diceva che le nazioni non possono morire.
Ma gli Stati forse sì.
Il Belgio ad esempio si sta suicidando».
Anche l’unità italiana è a rischio? «Un rischio c’è.
I 150 anni sono un po’ una festa triste.
Non riusciamo a fare un discorso sull’Italia.
Non abbiamo un’idea del Paese, della sua missione.
L’ultimo che l’ha avuta è Wojtyla, di cui sto per pubblicare la biografia.
Giovanni Paolo II aveva un’idea dell’Italia, e del suo ruolo del mondo.
L’aveva anche di Roma, di cui leggeva il nome come un palindromo: Amor».
Il voto anticipato sarebbe un dramma o una svolta? «Né l’uno né l’altra.
Sono stanco dell’enfasi apocalittica dell’ultima notizia politica.
Ci manca una visione.
Non vediamo la crisi del ceto medio, l’impoverimento del Paese.
Alle nostre mense venivano gli stranieri: ora vengono signore borghesi, impiegati.
Conosco divorziati che devono lasciare le loro case e dormono per strada, finendo per perdere anche il lavoro.
Ci allarmiamo per gli zingari, che a Roma sono 5 mila su 3 milioni di abitanti, e presentiamo gli sgomberi come una grande operazione, mentre è solo teatro, che per loro diventa tragedia.
Temiamo gli immigrati, che sono una ricchezza; e intanto chiudiamo i nostri anziani nei cronicari o nella villetta con la badante».
Il mondo cattolico ha dato troppo credito a Berlusconi? «Il mondo cattolico ha fatto la Dc; poi, dopo il Concilio, con la Dc ha desolidarizzato.
Qualcuno l’ha votata turandosi il naso, altri hanno seguito il provvidenzialismo del principe rosso liberatore.
Dopo l’ 89, il mondo cattolico si è spezzato in tanti frammenti.
Il cardinale Ruini ha dato credito all’ipotesi di Berlusconi.
Ma il sistema bipolare non ha garantito la stabilità.
A ben vedere, a modo loro erano più stabili i governi d emocristiani.
Mi chiedo se non sia tempo che il mondo cattolico assuma un’altra posizione, dia il suo contributo di idee nuove in un assetto politico diverso, plurale».
Lei una volta disse che il Partito democratico non è la soluzione.
«I due poli non sono la soluzione.
E il terzo polo, allo stato, è un cartello elettorale.
C’è molto cammino da fare.
Forse è tempo di costruire un centro, ma non solo per aggregazioni.
I cattolici sono chiamati a elaborare visioni.
A pensare di più.
A costruire una nuova idea dell’Italia, una missione per l’Europa.
Ci sono tante energie nel Paese.
È il tono antropologico che va giù, sono l’uomo e la donna italiani».
Non può essere ancora Berlusconi il leader per rilanciare il Paese? «Chi ha gestito la Seconda Repubblica non può rilanciare il Paese».
Chi allora? Un’alleanza tra il centro e il Pd? «Non basta discutere di cronaca politica.
Un’alleanza ci può essere, ma non si può partire da lì.
Il problema è che ci sia un centro.
Non si tratta di far rinascere la Dc, ma di aprire una stagione nuova, con un appello alla gente, per offrirle non solo sacrifici, anche prospettiva e respiro.
Serve una legge elettorale diversa da questa, che non esprime la geografia profonda della realtà italiana e manda in Parlamento i nominati dai leader.
Credo che al mondo ci sia un posto per l’Italia.
Noi abbiamo un genio, una funzione.
E abbiamo dei punti di riferimento: Napolitano, la Chiesa.
Il mondo cattolico ha un vissuto e risorse per aiutare a costruire un’identità nazionale e laica, non in contrasto con l’essere cristiani.
E mi chiedo se dal mondo cattolico non possa venire qualcosa di intelligente, di politicamente originale».
Quale direzione prenderà la rivolta del Nordafrica? Cosa può fare l’Occidente? «L’Occidente ha passato gli ultimi dieci anni a guardarsi dal pericolo verde.
Ma gli islamici sono rimasti spiazzati dalla rivolta.
I ribelli sono giovani, si convocano via sms.
Gli islamici sono vecchi.
Certo, il passaggio dalla democrazia degli sms al governo non è facile.
Ma l’Occidente dovrebbe fidarsi meno di questi guardiani che abbiamo appoggiato fino all’ultimo, come Ben Ali.
E potrebbe dare il suo contributo alla “democristianizzazione” degli islamici, sul modello turco di Erdogan.
Questa non è la rivoluzione araba.
L’idea di rivoluzione, durata due secoli, è morta con l’ 89 e con Wojtyla.
Possiamo costruire una transizione pacifica».
in “Corriere della Sera” del 4 febbraio 2011