Cercando il «neurone di Dio»

 

L’interesse per il rapporto fra cervello ed esperienza religiosa non nasce con la scienza moderna o la filosofia della mente.

 

L’ermeneutica biblica dell’uomo imago Dei, le tradizioni d’Oriente, la teologia del logos, la dottrina dei «sensi» spirituali delle teologie cristiane, la pretesa di «razionalità» della rivelazione coranica costituiscono un patrimonio immenso di figure e interessi. Un patrimonio che spiega perché Cartesio cercasse di localizzare l’anima in una ghiandola del cervello e perché il rapporto della religiosità con la mente e il cervello susciti tanto interesse nel secolo XX.


Sarebbe sbagliato rappresentare questa ricerca come un banale conflitto fede/scienza. Perché per alcuni — non sempre, non tutti — la scienza non è un metodo, ma un giudice al quale si deve chiedere di «dimostrare» vuoi la illusorietà vuoi la solidità dell’atto religioso. Sia chi crede di provare che l’idea Dio è una mera funzione interna al pensare sia chi pensa che proprio l’esistenza di funzionalità «spirituali» nel cervello dovrebbe convincere tutti che un disegno superiore presiede all’evoluzione della nostra razionalità — gli uni e gli altri condividono un terreno che spesso viene chiamato «neuroteologia» (una espressione dello scrittore di fantascienza Aldous Huxley).


Per gli uni e per gli altri l’esperienza religiosa viene identificata con uno stato di appagamento, di felicità quieta, di acquisizione di «senso» come rassicurazione del sé, una «sensazione» pacificata: una visione che la letteratura ben conosce — come spiegava già la descrizione del paradisiaco istante che precede l’attacco epilettico ne L’idiota di Dostoevskij — e che viene assolutizzata.


È una storia che inizia già con William James (1842-191o). Lo psicologo di Harvard, di fede calvinista, affronta il tema in modo apodittico e pragmatista: la mente sana pensa Dio in positivo come un aiuto, mentre la mente malata vive la fede come espressione di angoscia. Più tardi James H. Leuba (1867-1946), rigido «naturalista», trova nella religione, intesa come esperienza estatica, una espressione primitiva e ripetibile anche grazie a sostanze stupefacenti. Queste teorie della psicologia della religione e le loro evoluzioni diventeranno negli anni Cinquanta oggetto di esperimenti, coerenti però con l’idea che la «sensazione» sia la semantica del religioso. E quando Wilder Penfield (1891-1975) scopre che una stimolazione elettrica del lobo temporale destro produce stati estatici, si apre un nuovo filone che si concentra su questa patologia e sulle sue analogie con la meditazione mistica.


In parte questa ricerca si muove in una direzione dichiaratamente antireligiosa. Ancora nel 1994 Laurence O. McKinney scrive che il sentimento religioso, pur nella varietà delle forme che prende, è «universale» solo perché lo sviluppo cerebrale impedisce di recuperare informazioni sufficienti sull’infanzia e questo «vuoto» genera la domanda sul «da dove veniamo», alla quale il fatto religioso s’incarica di rispondere. Da tempo, comunque, un medico canadese — Michael Persinger, che si presenta come un liberatore dalla mistificazione religiosa e viene contestato da manifestazioni di evangelicali inferociti — ricorre a uno «strumento» per dimostrare sperimentalmente la stessa tesi. Inventa un «casco» che produce disturbi magnetici, durante i quali il lobo temporale farebbe «esperienza» di un Dio: finalmente smascherato come effetto elettrico…


Perfettamente funzionante con molti suoi studenti, il «casco» dà solo serie emicranie a volontari di maggior rango e di sicuro ateismo come Richard Dawkins… Tramite la tomografia a emissione di fotone singolo, Andrew Newberg, Eugene D’Aquili e Vince Rause monitorano il cervello di religiosi in meditazione. La scoperta dei centri attivati dalla pratica religiosa dimostra una attività della corteccia prefrontale: il fatto che la meditazione funzioni come una iperquiescenza basta, secondo loro, a dimostrare che «il cervello ha una capacità innata (built-in) di trascendere la percezione di un sé individuale» e che dunque ciò che si chiama usualmen te religiosità è una sua funzione. Il sarcasmo anticartesiano di Spinoza avrebbe senz’altro definito questa scoperta una «qualità più occulta» di quella che si voleva scoprire. Ciò che invece accade è che molti scienziati percorrono la stessa via in senso apologetico: i nomi di Harold Koenig e Esther M. Sternberg sono molto citati da chi, a partire dagli studi sul nesso fra cervello e sistema immunitario, sostiene che la minor incidenza di malattie nella popolazione «religiosa» sarebbe la riprova di una empirica «salutarità» della fede. E James H. Austin, con il suo Zen and the Brain, dimostra gli effetti benefici della meditazione su mente e cervello: cosa che entusiasma i sostenitori di una apologetica del religioso su base scientifica. Perché — è la tesi di Wentzel van Huyssten — l’idea dell’imago Dei sarebbe il codice cifrato di queste scoperte: la religiosità come attitudine essenziale all’essere uomo sarebbe dimostrata dalla neuroteologia, perché direbbe che mente e cervello hanno i codici per comprendere
l’amore di Dio. A questo upgrade della ricerca neurologica a criterio di decostruzione dell’esperienza religiosa, tipica delle spiritualità fondamentaliste, s’è opposto l’appello di teologi e scienziati ad una certa «neuroumiltà». Strumenti di indagine assai raffinati dimostrano soltanto di saper individuare i correlati neuronali degli stati mentali propri dell’esperienza religiosa: né più né meno. Il tentativo di ridurre Dio a movimenti di neuroni e quello di usare i neuroni per dimostrarne l’esistenza si muovono in un vicolo cieco da ambo i lati. Se c’è una zona del cervello attivata dalla meditazione religiosa, ciò non significa che neurologia e teologia hanno cessato di avere compiti diversi e metodi ai quali ciascuna si deve attenere. Dove il teologo difende la libertà dell’individuo, lo scienziato scopre che credenza, agnosticismo e incertezza pongono alla sua ricerca una unica e identica domanda.


in “Corriere della Sera” del 13 giugno 2011

Potere, regole e vita privata

 

 

La vicenda che ha portato nell’arco di poche ore all’arresto di Dominique Strauss-Kahn appartiene, a pieno diritto, a quegli eventi che segnano in modo definitivo non soltanto la brillante carriera di un uomo politico, ma la biografia stessa di una persona.

 

 

Ora, è abbastanza naturale che, davanti ad accuse tanto gravi quanto quelle di violenza sessuale, la reazione comune sia l’indignazione. In discussione qui, però, non è effettivamente il contegno più o meno irreprensibile di un uomo, ma la violenza da questi impartita ad una donna, per altro palesemente in una condizione sociale e lavorativa più fragile di lui, e quindi particolarmente vulnerabile.
Il caso, al di là delle diverse valutazioni, apre una questione generale che riguarda essenzialmente la difficile coerenza personale, evocata attualmente come in passato, sebbene amplificata dall’onnipresenza dei media. Si tratta della contraddizione tra i comportamenti sociali e personali dei governanti, o, come recitava il titolo di un famoso film di Miklós Jancsó, tra i “vizi privati e le pubbliche virtù”.
Senza voler proporre anacronistici appannaggi o paragoni impossibili, lo scandalo un tempo era come oggi arma di potere e ricatto, tant’è che dappertutto i potenti erano oggetto di critiche e di delegittimazioni shakespeariane. Inoltre, il consenso democratico, cui devono sottoporsi inevitabilmente i politici odierni, ha aggiunto un ulteriore controllo etico, come spiegava Jean Jacques Rousseau nel Contratto sociale. E quindi, reato a parte, non vale la pena propendere per un rigorismo puritano, poco produttivo in assenza di una dimostrata illegalità.
Tuttavia, il problema resta in piedi lo stesso. E optare per una separazione netta, precisa e drastica tra abilità o capacità gestionali – siano esse professionali o politiche – e comportamento individuale diviene assolutamente impossibile, perché totalmente assurda. Questa opinione, d’altronde, non è un prodotto culturale corrente, appartenendo in pieno alla mentalità e, direi perfino, alla cultura giuridica occidentale. Non soltanto Thomas Hobbes nel Leviatano concepì la sfera pubblica come un artificio sostanzialmente distinto dal privato, ma ritenne che l’estraneità delle due dimensioni fosse una condizione prioritaria per rispettare la vera essenza della politica che deve riguardare l’esclusivo esercizio del potere. Il più coerente teorizzatore di questo riduzionismo antropologico è stato Immanuel Kant, il quale nella Critica della ragion pura ha spiegato che l’identità personale è sconosciuta e irraggiungibile, autorizzando senza contraddizione una sorta di “valida incoerenza” nei comportamenti privati, sottoposti, di fatto, solo all’imperativo categorico della moralità pubblica. A ben vedere, quindi, l’attuale moralismo, che si concentra solo sul condannare o giustificare le nefandezze apparenti, presuppone lo stesso smarrimento scettico e originario dell’identità personale, sciolto, questa volta, in un relativismo multiplo, rivelatore sempre delle medesime contraddizioni.
La vera risposta, viceversa, sta nel tornare a parlare e a pensare in termini autenticamente personali.
Noi non siamo dei soggetti che hanno identità variabili e funzionali allo scopo: il mattino un professionista, a colazione un padre di famiglia, la sera un playboy, e così via. Ogni persona possiede in sé il valore e la responsabilità di  un’identità propria, l’Io, la quale non soltanto è e resta permanente, ma va gestita in coscienza e libertà per salvaguardare, tra l’altro, la salute mentale e la completezza stessa della personalità. L’alternativa dolorosa è, per l’appunto, la schizofrenia, la patologia psichiatrica o, usando una metafora letteraria, un’incomunicabilità finale tra il nostro Dottor Jeckyll e l’altrettanto nostro Mister Hyde. Va benissimo, insomma, difendere un amico in difficoltà, come alcuni hanno fatto disperatamente in questi giorni per Strauss-Kahn, specialmente quando il malcapitato è colpevole di un reato gravissimo. Come va benissimo screditare la sua minaccia politica con ogni mezzo. Ma non confondiamo la solidarietà e l’invettiva con la coerenza umana – prima ancora che etica – che è un dovere insostituibile per ciascuno, specialmente se ha assunto volontariamente un’alta responsabilità collettiva.
Il cosiddetto aspetto privato è diverso da quello pubblico e professionale, ma non appartiene ad un’altra persona, bensì alla stessa, la quale – similmente alle altre – deve mirare all’unità d’azione del proprio essere. Perciò, malgrado ogni retta concentrazione per evitare il moralismo, è chiaro che la vita privata di un uomo mi dice moltissimo sul suo essere affidabile o meno dal punto di vista pubblico. A meno che non consideriamo il lavorare una semplice mansione e il governare nulla altro che un potere assoluto, sottraendoci, in tal modo, definitivamente a qualsiasi valutazione antropologica del protagonista al di fuori del relativo e partigiano interesse.

 

di Joaquín Navarro-Valls
in “la Repubblica” del 24 maggio 2011

 

Ma fare festa è sbagliato

 

«Giustizia è fatta!» ha proclamato il Presidente degli Stati Uniti nell’annunciare al suo Paese e al mondo che Osama bin Laden è stato ucciso. Confesso che i sentimenti che mi abitano come cristiano e come cittadino di un Paese che non contempla nel proprio ordinamento la pena di morte sono contrastanti.

Da un lato c’è la soddisfazione legata alla uscita di scena di una persona che, per sua stessa ammissione, ha seminato morte e odio, ha avvelenato la comprensione della religione, usandola come droga per esaltare la violenza, ha inquinato mortalmente la convivenza civile e i rapporti sociali, a livello locale e planetario.

D’altro canto il Vangelo, ma anche la mia coscienza umana, non mi autorizzano a rallegrarmi per la morte di un essere umano, fosse anche il più malvagio sulla terra, fosse anche il nemico mortale che ha attentato alla vita delle persone più care. Non si tratta di evocare l’esortazione cristiana al perdono – argomento su cui a lungo si è riflettuto dopo l’epifania del male assoluto nei campi di sterminio nazisti – ma di riconoscere con gravità e amarezza che la morte di una persona non è mai motivo di gioia: forse di sollievo, perché ormai quel malvagio non potrà più nuocere, anche se il
seme dell’odio gettato non smette per questo di crescere; forse è fonte di appagamento di quel desiderio di vendetta che abbiamo vergogna di confessare e che ci affrettiamo a nobilitare con il termine di giustizia; forse è occasione di rinnovato rimpianto per le vittime della violenza omicida e per non aver saputo fermare prima quello strumento di morte. Ma gioia no, quella non l’ho sentita nascere in me nell’apprendere la notizia dell’uccisione di Bin Laden e non vorrei vederla sul volto di un altro uomo, un uomo come me, un uomo come lo era Bin Laden. Come cristiano penso a Bin Laden ora in giudizio davanti a Dio: quel Dio il cui nome ha bestemmiato per seminare morte e predicare la guerra, quel Dio creatore degli uomini e protettore della vita cui ha dato un volto perverso e mortifero.

E mi è anche difficile fare mie le parole del presidente Obama: «Giustizia è fatta!». E non perché ritenga che l’unica giustizia sia quella divina, che il giudizio autentico sia solo quello che ci attende tutti al cospetto di Dio. Ma perché rimango convinto che ogni essere umano è e resta più grande delle sue colpe, anche quando queste sono spropositate. D’altronde anche la rivelazione biblica e cristiana afferma riguardo all’immagine di Dio impressa in ogni essere umano: l’omicida può smarrire la somiglianza con Dio, ma non può perdere quell’immagine che Dio stesso ha voluto
consegnare a ogni creatura umana, Caino compreso.

Ma anche della giustizia umana ho un concetto che non mi consente di vederla realizzata nell’uccisione mirata di un pluri-assassino: la cattura, il giusto processo, la messa in condizione di non nuocere di un criminale non richiedono necessariamente la sua soppressione fisica e non traggono da questa maggiore autorevolezza o efficacia. Sopprimere l’ingiusto non è ancora fare giustizia: perché giustizia, anche umana, sia fatta, a ciascuno di noi resta un compito che nessuna arma né squadra speciale può svolgere per conto nostro. Resta la vicinanza e la solidarietà con i parenti delle vittime della sua barbarie umana, resta il contrastare nel quotidiano le energie di morte che l’assassino ha scatenato, resta la ricostruzione di un tessuto umano e sociale vivibile, resta il rifiuto di rispondere al male con il male, resta la costruzione della pace con gli strumenti della pace, resta di proseguire tenacemente nell’operare ciò che è giusto. Davvero non basta che un malvagio sia annientato perché giustizia sia fatta.

 

in “La Stampa” del 3 maggio 2011

Gesù di Nazareth

 

LA RECENSIONE

Nonostante sia assai denso, questo libro si legge per intero senza interruzioni. Percorrendone i nove capitoli e le prospettive finali, il lettore è trasportato per sentieri scoscesi verso l’avvincente incontro con Gesù, una figura familiare che si rivela ancor più vicina nella sua umanità come nella sua divinità. Completata la lettura, si vorrebbe proseguire il dialogo, non soltanto con l’autore ma con Colui del quale egli parla. Gesù di Nazaret è più di un libro, è una testimonianza commovente, affascinante, liberatrice. Quanto interesse susciterà tra gli esperti e tra i fedeli!
Oltre l’interesse d’un libro su Gesù, è il libro del Papa che si presenta in umiltà al foro degli esegeti, per confrontarsi con loro sui metodi e sui risultati delle loro ricerche. Lo scopo del Santo Padre è quello di andare con loro più lontano, in stretto rigore scientifico, certo, ma anche nella fede nello Spirito Santo che scandaglia le profondità di Dio nella Sacra Scrittura. In questo foro, gli scambi fecondi predominano di molto sugli accenti critici, e ciò contribuisce a far meglio conoscere e riconoscere l’essenziale contributo degli esegeti.


Non c’è forse da trarre grande speranza da questo riavvicinamento tra l’esegesi rigorosa dei testi biblici e l’interpretazione teologica della Sacra Scrittura? Io non posso fare a meno di scorgere in questo libro l’aurora d’una nuova era dell’esegesi, una promettente era di esegesi teologica.
Il Papa dialoga in primo luogo con l’esegesi tedesca ma non ignora importanti autori che appartengono alle aree linguistiche francofona, anglofona e latina. Eccelle nell’individuare le questioni essenziali e i nodi decisivi, costringendosi a evitare le discussioni sui dettagli e le dispute di scuola che pregiudicherebbero il suo proposito, che è quello di “trovare il Gesù reale”, non il “Gesù storico” proprio del filone dominante dell’esegesi critica, ma il “Gesù dei Vangeli” ascoltato in comunione con i discepoli di Gesù d’ogni tempo, e così “giungere anche alla certezza della figura veramente storica di Gesù”.
Questa formulazione del suo obiettivo manifesta l’interesse metodologico del libro. Il Papa affronta in modo pratico ed esemplare il complemento teologico auspicato dall’Esortazione Apostolica Verbum Domini per lo sviluppo dell’esegesi. Nulla stimola di più dell’esempio dato e dei risultati ottenuti. Gesù di Nazaret offre una magnifica base per un fruttuoso dialogo non solo tra esegeti, ma anche tra pastori, teologi ed esegeti! Prima di illustrare con alcuni esempi i risultati di questa esegesi di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, aggiungo ancora un’osservazione sul metodo. L’autore si sforza di applicare in maggior profondità i tre criteri d’interpretazione formulati al concilio Vaticano II dalla Costituzione sulla Divina Rivelazione Dei Verbum: tener conto dell’unità della Sacra Scrittura, del complesso della Tradizione della Chiesa e rispettare l’analogia della fede. Come buon pedagogo che ci ha abituati alle sue omelie mistagogiche, degne di san Leone Magno, Benedetto XVI, a partire dalla figura – quanto centrale ed unica – di Gesù, mostra la pienezza di senso che promana dalla Sacra Scrittura “interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta” (Dei Verbum, 12).
Anche se l’autore si preclude d’offrire un insegnamento ufficiale della Chiesa, è facile immaginare che la sua autorità scientifica e la ripresa in profondità di certe questioni disputate saranno di grande aiuto per confermare la fede di molti. Serviranno inoltre a far progredire dei dibattiti rimasti insabbiati a motivo dei pregiudizi razionalisti e positivisti che hanno intaccato il prestigio dell’esegesi moderna e contemporanea. Tra la comparsa del primo volume nell’aprile 2007 e quella del secondo in questa Quaresima 2011, un gran numero di eventi felici ma anche di penose esperienze ha segnato la vita della Chiesa e del mondo. Ci si chiede come il Papa sia riuscito a scrivere quest’opera molto personale e molto impegnativa, di cui l’attualità del tema e l’audacia del progetto balzano agli occhi di chiunque s’interessi al cristianesimo. Come teologo e come pastore, ho la sensazione di vivere un momento storico di grande portata teologica e pastorale. È come se in mezzo alle onde che agitano la barca della Chiesa, Pietro avesse ancora una volta afferrato la mano del Signore che ci viene incontro sulle acque, per salvarci (cfr. Matteo, 14, 22-33).
Detto ciò che riguarda il carattere storico, teologico e pastorale dell’evento, veniamo al contenuto del libro che vorrei riassumere assai a grandi linee attorno ad alcune questioni cruciali. Innanzitutto la questione del fondamento storico del cristianesimo che attraversa i due volumi dell’opera; poi la questione del messianismo di Gesù, seguita da quella dell’espiazione dei peccati da parte del Redentore, che costituisce un problema per molti teologi; allo stesso modo la questione del sacerdozio di Cristo in rapporto alla sua Regalità e al suo Sacrificio che tanta importanza rivestono per la concezione cattolica del sacerdozio e della Santa Eucaristia; da ultimo la questione della risurrezione di Gesù, il suo rapporto alla corporeità ed il suo legame con la fondazione della Chiesa.
Non occorre dire che l’elenco non è esaustivo e molti troveranno altre questioni più interessanti, a esempio il suo commento del discorso escatologico di Gesù o ancora della preghiera sacerdotale in Giovanni, 17. Io identifico le questioni qui esposte come nodi da sciogliere in esegesi come in teologia, allo scopo di ricondurre la fede dei fedeli alla Parola stessa di Dio, compresa in tutta la sua forza e la sua coerenza, nonostante i condizionamenti teologici e culturali che a volte impediscono l’accesso al senso profondo della Scrittura.
La questione del fondamento storico del cristianesimo impegna Joseph Ratzinger fin dagli anni della sua formazione e del suo primo insegnamento, come appare dal suo volume Introduzione al cristianesimo (Einführung in das Christentum), pubblicato oltre quarant’anni or sono, e che ebbe all’epoca un notevole impatto sugli uditori e i lettori. Dal momento che il cristianesimo è la religione del Verbo incarnato nella storia, per la Chiesa è indispensabile stare ai fatti e agli avvenimenti reali, proprio in quanto essi contengono dei “misteri” che la teologia deve approfondire utilizzando chiavi d’interpretazione che appartengono al dominio della fede.
In questo secondo volume che tratta degli avvenimenti centrali della passione, della morte e della risurrezione di Cristo, l’autore confessa che il compito è particolarmente delicato. La sua esegesi interpreta i fatti reali in maniera analoga al trattato su “i misteri della vita di Gesù” di san Tommaso d’Aquino, “guidato dall’ermeneutica della fede, ma tenendo conto nello stesso tempo e responsabilmente della ragione storica, necessariamente contenuta in questa stessa fede” (9).
Sotto questa luce, si comprende l’interesse del Papa per l’esegesi storico-critica ch’egli ben conosce e da cui trae il meglio per approfondire gli avvenimenti dell’Ultima Cena, il significato della preghiera del Getsemani, la cronologia della passione e in particolare le tracce storiche della risurrezione.
Non manca di porre in evidenza di passaggio il difetto d’apertura di un’esegesi esercitata in modo troppo esclusivo secondo la “ragione”, ma il suo principale intendimento rimane quello di far luce teologicamente sui fatti del Nuovo Testamento con l’aiuto dell’Antico Testamento e viceversa, in modo analogo ma più rigoroso rispetto all’interpretazione tipologica dei Padri della Chiesa. Il legame del cristianesimo con l’ebraismo appare rafforzato da questa esegesi che si radica nella storia di Israele ripresa nel suo orientamento verso il Cristo. Ecco allora, per esempio, che la preghiera sacerdotale di Gesù, che sembra per eccellenza una meditazione teologica, acquisisce in lui una dimensione del tutto nuova grazie alla sua interpretazione illuminata dalla tradizione ebraica dello Yom Kippur.
Un secondo nodo riguarda il messianismo di Gesù. Certi esegeti moderni hanno fatto di Gesù un rivoluzionario, un maestro di morale, un profeta escatologico, un rabbi idealista, un folle di Dio, un messia in qualche modo a immagine del suo interprete influenzato dalle ideologie dominanti.
L’esposizione di Benedetto XVI su questo punto è diffusa e ben radicata nella tradizione ebraica. Egli s’inserisce nella continuità di questa tradizione che unisce il religioso e il politico, ma sottolineando a qual punto Gesù operi la rottura tra i due domini. Gesù dichiara davanti al Sinedrio d’essere il Messia, ma non senza chiarire la natura esclusivamente religiosa del proprio messianismo. È d’altra parte per questo motivo che è condannato come blasfemo, poiché si è identificato con “il Figlio dell’uomo che viene sulle nubi del cielo”. Il Papa espone con forza e chiarezza le dimensioni regale e sacerdotale di questo messianismo, il cui senso è quello d’instaurare il culto nuovo, l’adorazione in Spirito e in Verità, che coinvolge l’intera esistenza, personale e comunitaria, come un’offerta d’amore per la glorificazione di Dio nella carne. Un terzo nodo da sciogliere riguarda il senso della redenzione e il posto che vi deve o meno occupare l’espiazione dei peccati. Il Papa affronta le obiezioni moderne a questa dottrina tradizionale. Un Dio che esige una espiazione infinita non è forse un Dio crudele la cui immagine è incompatibile con la nostra concezione d’un Dio misericordioso? Come conciliare le nostre moderne mentalità sensibili all’autonomia delle persone con l’idea di un’espiazione vicaria da parte di Cristo? Questi nodi sono particolarmente difficili da sciogliere.
L’autore riprende queste domande più volte, a diversi livelli, e mostra come la misericordia e la giustizia vadano di pari passo nel quadro dell’Alleanza voluta da Dio. Un Dio che perdonasse tutto senza preoccuparsi della risposta che deve dare la sua creatura avrebbe preso sul serio l’Alleanza e soprattutto l’orribile male che avvelena la storia del mondo? Quando si guardano da vicino i testi del Nuovo Testamento, domanda l’autore, non è Dio a prendere su se stesso, nel suo Figlio crocifisso, l’esigenza d’una riparazione e d’una risposta d’amore autentico? “Dio stesso “beve il calice” di tutto ciò che è terribile e ristabilisce così il diritto mediante la grandezza del suo amore che, attraverso la sofferenza, trasforma il buio” (258-259).
Tali questioni sono poste e risolte in un senso che invita alla riflessione e in primo luogo alla conversione. Non si può infatti veder chiaro in tali questioni ultime rimanendo neutrali o a distanza. Occorre investirvi la propria libertà per scoprire il senso profondo dell’Alleanza che giustamente impegna la libertà d’ogni persona. La conclusione del Santo Padre è perentoria: “Il mistero dell’espiazione non dev’essere sacrificato a nessun razionalismo saccente” (267).
Un quarto nodo concerne il Sacerdozio di Cristo. Secondo le categorie ecclesiali del giorno d’oggi, Gesù era un laico investito d’una vocazione profetica. Non apparteneva all’aristocrazia sacerdotale del Tempio e viveva al margine di questa fondamentale istituzione del popolo d’Israele. Questo fatto ha indotto molti interpreti a considerare la figura di Gesù come del tutto estranea e senza alcun rapporto con il sacerdozio. Benedetto XVI corregge quest’interpretazione appoggiandosi saldamente sull’Epistola agli Ebrei che parla diffusamente del Sacerdozio di Cristo, e la cui dottrina ben si armonizza con la teologia di san Giovanni e di san Paolo. Il Papa risponde ampiamente alle obiezioni storiche e critiche mostrando la coerenza del sacerdozio nuovo di Gesù con il culto nuovo ch’egli è venuto a stabilire sulla terra in obbedienza alla volontà del Padre. Il commento della preghiera sacerdotale di Gesù è d’una grande profondità e conduce il lettore a pascoli che non aveva immaginato.
L’istituzione dell’Eucaristia appare in questo contesto d’una bellezza luminosa che si ripercuote sulla vita della Chiesa come suo fondamento e sua sorgente perenne di pace e di gioia. L’autore si attiene strettamente alle più approfondite analisi storiche ma dipana egli stesso delle aporie come solo un’esegesi teologica può farlo. Si giunge al termine del capitolo sull’Ultima Cena non senza emozione e restandone ammirati. Un ultimo nodo da me considerato riguarda infine la risurrezione, la sua dimensione storica ed escatologica, il suo rapporto alla corporeità e alla Chiesa. Il Santo Padre comincia senza giri di parole: “La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti” (269).
Il Papa insorge contro le elucubrazioni esegetiche che dichiarano compatibili l’annuncio della risurrezione di Cristo e la permanenza del suo cadavere nel sepolcro. Egli esclude queste assurde teorie osservando che il sepolcro vuoto, anche se non è una prova della risurrezione, di cui nessuno è stato diretto testimone, resta un segno, un presupposto, una traccia lasciata nella storia da un evento trascendente. “Solo un avvenimento reale d’una qualità radicalmente nuova era in grado di rendere possibile l’annuncio apostolico, che non è spiegabile con speculazioni o esperienze interiori, mistiche” (305).
Secondo lui, la risurrezione di Gesù introduce una sorta di “mutazione decisiva”, un “salto di qualità” che inaugura “una nuova possibilità d’essere uomo”. La paradossale esperienza delle apparizioni rivela che in questa nuova dimensione dell’essere “egli non è legato alle leggi della corporeità, alle leggi dello spazio e del tempo”. Gesù vive in pienezza, in un nuovo rapporto con la corporeità reale, ma è libero nei confronti dei vincoli corporei quali noi li conosciamo.
L’importanza storica della risurrezione si manifesta nella testimonianza delle prime comunità che hanno dato vita alla tradizione della domenica come segno identificativo d’appartenenza al Signore. “Per me – dice il Santo Padre – la celebrazione del Giorno del Signore, che fin dall’inizio distingue la comunità cristiana, è una delle prove più forti del fatto che in quel giorno è successa una cosa straordinaria, la scoperta del sepolcro vuoto e l’incontro con il Signore risorto” (288).
Nel capitolo sull’Ultima Cena, il Papa affermava: “Con l’Eucaristia, la Chiesa stessa è stata istituita”. Qui aggiunge un’osservazione di grande portata teologica e pastorale: “Il racconto della risurrezione diviene per se stesso ecclesiologia: l’incontro con il Signore risorto è missione e dà alla Chiesa nascente la sua forma” (289). Ogni volta che noi partecipiamo all’Eucaristia domenicale andiamo all’incontro con il Risorto che torna verso di noi, nella speranza che noi rendiamo così testimonianza ch’Egli è vivente e ch’Egli ci fa vivere. Non c’è in tutto questo di che rifondare il senso della messa domenicale e della missione? Dopo aver citato questi nodi senza che mi sia possibile estendermi in modo adeguato sulla loro soluzione, mi preme concludere questa sommaria presentazione facendo un poco più spazio al significato di questa grande opera su Gesù di Nazaret.
È evidente come mediante quest’opera il successore di Pietro si dedichi al suo ministero specifico che è di confermare i suoi fratelli nella fede. Ciò che qui colpisce in sommo grado, è il modo con cui lo fa, in dialogo con gli esperti in campo esegetico, e in vista di alimentare e fortificare la relazione personale dei discepoli con il loro Maestro e Amico, oggi.
Una tal esegesi, teologica quanto al metodo, ma che include la dimensione storica, si riallaccia effettivamente al modo di interpretare dei Padri della Chiesa, senza tuttavia che l’interpretazione s’allontani dal senso letterale e dalla storia concreta per evadere in artificiose allegorie.
Grazie all’esempio che dà e ai risultati che ottiene, questo libro eserciterà una mediazione tra l’esegesi contemporanea e l’esegesi patristica, da un lato, come anche nel necessario dialogo tra esegeti, teologi e pastori, da un altro. In quest’opera vedo un grande invito al dialogo su ciò che è essenziale del cristianesimo, in un mondo in cerca di punti di riferimento, in cui le differenti tradizioni religiose faticano a trasmettere alle nuove generazioni l’eredità della saggezza religiosa dell’umanità.
Dialogo dunque all’interno della Chiesa, dialogo con le altre confessioni cristiane, dialogo con gli Ebrei il cui coinvolgimento storico in quanto popolo nella condanna a morte di Gesù viene una volta di più escluso. Dialogo infine con altre tradizioni religiose sul senso di Dio e dell’uomo che emana dalla figura di Gesù, così propizia alla pace e all’unità del genere umano.
Al termine d’una prima lettura, avendo maggiormente gustato la Verità di cui con umiltà e passione è testimone l’autore, sento il bisogno di dar seguito a questo incontro di Gesù di Nazaret sia con l’invitare altri a leggerlo che riprendendone la lettura una seconda volta come meditazione del tempo liturgico di Quaresima e di Pasqua. Credo che la Chiesa debba rendere grazie a Dio per questo libro storico, per quest’opera cerniera tra due epoche, che inaugura una nuova era dell’esegesi teologica. Questo libro avrà un effetto liberatorio per stimolare l’amore della Sacra Scrittura, per incoraggiare la lectio divina e per aiutare i preti a predicare la Parola di Dio.
Alla fine di questo rapido volo su un’opera che avvicina il lettore al vero volto di Dio in Gesù Cristo, non mi rimane che dire: Grazie, Santo Padre! Consentitemi tuttavia di aggiungere ancora un’ultima parola, una domanda, poiché un simile servizio reso alla Chiesa e al mondo nelle circostanze che si conoscono e con i condizionamenti che si possono intuire, merita più d’una parola o d’un gesto di gratitudine. Il Santo Padre tiene la mano di Gesù sulle onde burrascose e ci tende l’altra mano perché insieme noi non facciano che uno con Lui. Chi afferrerà questa mano tesa che ci trasmette le parole della Vita eterna?

di M Aarc Ouellet

L’osservatore Romano 11  03 2011

 


  • RASSEGNA STAMPA
“il pontefice analizza, dal punto di vista storico, teologico ed esegetico, gli ultimi giorni della vita terrena di Cristo culminati con la Resurrezione… Tema centrale, la lettura della Passione nella quale Ratzinger rilancia lo storico documento conciliare Nostra Aetate con cui 46 anni fa la Chiesa cattolica cancellò l’infamante accusa di deicidi contro «tutto il popolo ebraico»”
“Al caso giudiziario del processo di Gerusalemme, al rapporto tra la verità e il potere (politico e religioso) è dedicato uno dei capitoli più penetranti del nuovo libro del Papa dedicato a Gesù di Nazaret… Un libro che contiene importanti novità in particolare perché sottolinea «il legame del cristianesimo con l’ebraismo»… Ma che apre al dialogo con le altre confessioni cristiane in particolare protestanti e con le altre religioni”
“particolare rilevanza la parte dedicata alla risurrezione, dove il papa dice senza mezzi termini che se la si elimina dalla storia di Gesù il cristianesimo può restare un insieme di buone idee sull’uomo e sul suo essere, ma la fede cristiana «è morta». (ndr.: davvero la resurrezione è un fatto storico, accertabile con gli strumenti della ricerca storica? Davvero la tomba vuota è un presupposto necessario per la resurrezione? diversi studiosi, biblisti e teologi hanno opinioni differenti)
“Si tratta infatti di mettere in luce la contraddizione tra lo spirito evangelico e una politica gretta ed egoista.”
“La preoccupazione del Papa concerne… il legame tra il Gesù della storia reale e il Cristo professato dalla fede… narrazione evangelica = storia reale… però in questo nuovo volume egli stesso… prende atto che “nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze”… Significa allora che tutta la costruzione cristiana crolla? No di certo, significa piuttosto che essa è, fin dalle sue origini, un’impresa di libertà… ne viene che non esiste nessun ambito della vita di fede dove la libertà di coscienza non debba avere il primato”
“«la Chiesa ha diritto a far sentire la sua voce e a orientare l’opinione dei cittadini, ma non a imporre i propri valori a chi non li condivide mediante accordi politici non sempre disinteressati»… Che senso ha la resurrezione per un laico? «La resurrezione di Gesù ha avuto ed ha un significato più universale. Significa far passare il messaggio che ciascuno può risollevarsi dopo ogni caduta, riformulare e ricominciare da capo la propria vita… anche l’antica figura del destino appare sconfitta»”
“il Gesù uomo… lottando si innalza alla superiore realizzazione di se stesso, che è sacrificarsi per la salvezza degli altri… non è proprio questo che avviene pure in ogni uomo… quando riesce a vincere l’ansia per la sua sorte particolare, e a realizzare un valore che trascende la sua individualità accidentale, psicologica? Un valore che è sempre per tutti, perché ogni gesto d’amore e di vero coraggio… è sempre per tutti… L’eterno non è il tempo che continua senza fine… è la vita nelle sue epifanie essenziali – dolore, felicità, amore, conoscenza della verità – sempre presenti; è il kairós dei greci… è l’attimo di Michelstaedter, sempre vissuto come se fosse l’ultimo”
“Racconta molto su Ratzinger questo secondo volume sulla passione e resurrezione di Gesù. Mentre esalta la fiducia nel Cristo, che tiene le sue mani stese sui fedeli e l’umanità, il testo rivela il profondo e permanente pessimismo di Benedetto XVI sui rapporti tra Chiesa e società.”
Antisemitismo di origine cristiana. “Benedetto XVI segue l’opinione condivisa a livello scientifico che gli Ebrei di cui parla il vangelo di Giovanni, così come la richiesta dell’esecuzione di Gesù, non possano venir riferiti all’intero popolo d’Israele”

I nuovi padri: intervista a Massimo Recalcati

Massimo Recalcati, Cosa resta del padre?,  Cortina Editore, pag. 190, euro 14.


“Papi”: è così che gli adolescenti di oggi chiamano il proprio genitore, con un nomignolo che suona come un sinonimo dello svuotamento di autorità della figura paterna. Per dirla meglio, con Massimo Recalcati: «La figura del padre ridotta a “papi”, invece di sostenere il valore virtuoso del limite, ne autorizza la sua più totale dissoluzione. E riflette la tendenza di fondo della famiglia ipermoderna: entrambi i genitori sono più preoccupati di farsi amare dai loro figli che di educarli. Più ansiosi di proteggerli dai fallimenti che di sopportarne il conflitto, e dunque meno capaci di rappresentare ancora la differenza generazionale». Recalcati è uno psicoanalista, e lacaniano per giunta, eppure il suo Uomo senza inconscio ha venduto più di diecimila copie. Un successo dovuto alla capacità di raccontare i disagi della nostra civiltà senza un eccesso di tecnicismi scolastici.
Oggi esce il suo nuovo libro sulla paternità nell’epoca ipermoderna, sull’evaporazione del padre, secondo l’espressione coniata da Lacan già alla fine degli anni Sessanta. È un tema che incide sui cambiamenti della cultura occidentale, venendo a mancare il principio fondativo della famiglia e del corpo sociale – oltre a investire profondamente la condizione esistenziale di ciascuno. Già l’interrogativo del titolo allude a un vuoto difficilmente colmabile: Cosa resta del padre? (Cortina, pagg. 190, euro 14).

Cosa resta dell’uomo che assicurava l’ordine del mondo e della vita dei suoi figli?
«Certamente non l’ideale del Padre, il pater familias, il padre come erede in terra della potenza trascendente di Dio, e nemmeno il padre edipico celebrato da Freud come perno della realtà psichica. Non possiamo più ricorrere all’autorità simbolica del padre, che ormai si è dissolta: lo dicono gli psicoanalisti, i sociologi, i filosofi della politica… Si tratta allora di pensare al padre come “resto”, non più Ideale normativo ma atto singolare e irripetibile, antagonista all’insegnamento esemplare, all’intenzione pedagogica. Quel che resta del padre ha la dimensione di una testimonianza etica, è l’incarnazione della possibilità di vivere ancora animati da passioni, vocazioni, progetti creativi. Seppure senza il ricorso alla fede nella parola dogmatica o attraverso sermoni morali».

 

Il padre è un uomo che sa ancora trasmettere il sentimento della speranza?
«È un uomo che dice “sì!” a ciò che esiste, senza sprofondare nell’abisso di un puro godimento distruttivo, senza rendere la vita equivalente alla volontà di morire o impazzire. La verità che può trasmettere è necessariamente indebolita, perché non vanta modelli esemplari o universali: la sua testimonianza infatti buca ogni esemplarità e ogni universalità, risultando eccentrica e anarchica nei confronti di qualunque retorica educativa. Quel che conta – e resta a un figlio – è come, nella buia notte di un mondo senza Dio, un padre mantenga acceso il fuoco della vita, non la manifestazione di una pura negazione repressiva, ma piuttosto la donazione della fiducia nell’avvenire».

 

In un rapporto che rimane del tutto asimmetrico?
«Assolutamente. Le farò un esempio molto semplice: l’insulto di un padre rivolto a un figlio può avere un effetto indelebile che il contrario non comporta in alcun modo… Quando Freud gli attribuiva il saper “tenere gli occhi chiusi”, intendeva sottolineare il carattere “umanizzato” della Legge che rappresenta. Non ascoltare una parola insolente o non vedere un gesto osceno, a volte può essere la condizione per proseguire la partita… È il doppio compito della funzione paterna: introdurre un “no!” che sia davvero un “no!”, e al tempo stesso saper incarnare un desiderio vitale e capace di realizzazione».

 

Famiglie monoparentali, ultracinquantenni che diventano mamme senza un compagno, coppie gay con figli, single con diritto all’adozione… C’era una volta lo schema edipico – sintetizzando: il padre “interdice” il godimento incestuoso e “separa” la madre dal figlio. Ma il mondo non sarà davvero “nuovo” e certi modelli ormai inservibili?
«Lo schema edipico continua ad avere il suo valore, se però si abbandona il teatrino familiare.
Intesa come legame “naturale”, la famiglia composta da una coppia eterosessuale e dai loro figli non è più il nucleo immobile dei legami sociali. Esistono organizzazioni sociali e culturali sempre più complesse, l’importante è che non venga meno la funzione educativa del legame familiare che vuol dire umanizzare la vita, iscriverla in un’appartenenza, farla partecipare a una cultura di gruppo, darle una casa e cioè una radice, una disponibilità alla cura e alla presenza… Se non si può più trasmettere il vero senso della vita, è però ancora possibile mostrare di dare un senso alla vita».

 

Oltre a Freud e soprattutto Lacan, lei ricorre alla letteratura con Philip Roth (Patrimonio) e Cormac McCharty (La strada). E poi a quel cinema di Clint Eastwood che rompe appunto “l’ordine del sangue”. Prendiamo Million Dollar Baby…
«Intanto ogni paternità, come amava ripetere Françoise Dolto, è sempre adottiva, è sempre un’adozione simbolica che trascende il sangue e la biologia… “Io voglio lei!”. “Sarò il tuo allenatore!”: Frankie riconosce il desiderio di Maggie di diventare un pugile professionista, di avere lui e non altri come allenatore, risponde alla sua domanda facendo  eccezione alla propria etica (“Io non alleno ragazze!”) e al funzionamento della sua palestra, frequentata solo da uomini. In questo modo l’atto della paternità si produce come rottura di un ordine universale: l’ordine della morale normativa, del sangue e della genealogia, l’ordine dei dogmi. Frankie accoglie Maggie, non l’abbandona come “una causa persa”, alla fine sarà il suo infermiere, la sua luce, il suo padre amato».

Ma a cosa è legata oggi la funzione del padre?
«Se non può più essere legata al sangue, al sesso, alla biologia, alla discendenza genealogica, allora aveva forse ragione papa Luciani a sconvolgere secoli di teologia dicendo che Dio è anche madre».

 

in “la Repubblica” del 9 marzo 2011

Cultura digitale, sfida per la comunità ecclesiale

“La riflessione sui linguaggi sviluppati dalle nuove tecnologie è urgente”.
È quanto ha ribadito oggi Benedetto XVI ricevendo in udienza i partecipanti all’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali.
Il Papa ha sottolineato l’importanza del “lavoro che svolge il Pontificio Consiglio nell’approfondire la ‘cultura digitale’, stimolando e sostenendo la riflessione per una maggiore consapevolezza circa le sfide che attendono la comunità ecclesiale e civile.
Non si tratta solamente di esprimere il messaggio evangelico nel linguaggio di oggi, ma occorre avere il coraggio di pensare in modo più profondo, come è avvenuto in altre epoche, il rapporto tra la fede, la vita della Chiesa e i mutamenti che l’uomo sta vivendo”.
Il Pontefice ha ricordato che “la cultura digitale pone nuove sfide alla nostra capacità di parlare e di ascoltare un linguaggio simbolico che parli della trascendenza.
Gesù stesso nell’annuncio del Regno ha saputo utilizzare elementi della cultura e dell’ambiente del suo tempo: il gregge, i campi, il banchetto, i semi e così via.
Oggi siamo chiamati a scoprire, anche nella cultura digitale, simboli e metafore significative per le persone, che possano essere di aiuto nel parlare del Regno di Dio all’uomo contemporaneo”.
Per Benedetto XVI, “è l’appello ai valori spirituali che permetterà di promuovere una comunicazione veramente umana: al di là di ogni facile entusiasmo o scetticismo, sappiamo che essa è una risposta alla chiamata impressa nella nostra natura di esseri creati a immagine e somiglianza del Dio della comunione”.
Per questo, “la comunicazione biblica secondo la volontà di Dio è sempre legata al dialogo e alla responsabilità, come testimoniano, ad esempio, le figure di Abramo, Mosè, Giobbe e i Profeti, e mai alla seduzione linguistica, come è invece il caso del serpente, o di incomunicabilità e di violenza come nel caso di Caino.
Il contributo dei credenti allora potrà essere di aiuto per lo stesso mondo dei media, aprendo orizzonti di senso e di valore che la cultura digitale non è capace da sola di intravedere e rappresentare”.
In conclusione il Pontefice ha ricordato la figura di padre Matteo Ricci, “del quale abbiamo celebrato il IV centenario della morte”: “Nella sua opera di diffusione del messaggio di Cristo ha considerato sempre la persona, il suo contesto culturale e filosofico, i suoi valori, il suo linguaggio, cogliendo tutto ciò che di positivo si trovava nella sua tradizione, e offrendo di animarlo ed elevarlo con la sapienza e la verità di Cristo”.

IL TESTO DEL DISCORSO