I più poveri sono anche i meno istruiti

 

L’ISTAT conferma la correlazione diretta tra basso reddito e basso livello di istruzione scolastica e professionale

 

Forse lo si sapeva già, ma l’evidenza dei numeri forniti dall’ISTAT nel suo ultimo rapporto annuale sulla povertà in Italia conferma ancora una volta che c’è una correlazione diretta tra basso reddito, basso livello di occupazione e basso livello di istruzione scolastica e professionale.

L’associazione di questi tre indici raggiunge la punta massima nel caso degli individui e delle famiglie in condizione di ‘povertà assoluta’, la categoria formata da coloro che non riescono a procurarsi “l’insieme di beni e servizi considerato essenziale per uno standard di vita minimamente accettabile”, disponendo di un reddito inferiore a 992 euro mensili (4,6% delle famiglie, 5,2% della popolazione).

Ma la correlazione trova verifiche anche per le due categorie dei ‘poveri’ (11% delle famiglie), di coloro cioè che vivono in condizioni di ‘povertà relativa’, disponendo di un reddito di 992 euro per due persone, e i ‘quasi poveri’ (7,6% delle famiglie), che dispongono di 1200 euro.

Insomma quasi una famiglia su quattro è in condizioni di povertà (23,2%, che cresce in Calabria, Sicilia e Basilicata al 26, 27 e 28%) ed è in queste famiglie che si concentrano anche i bassi livelli di istruzione e di occupazione. A livello nazionale solo il 5,6% dei diplomati è povero, mentre tra i meno istruiti in cerca di occupazione la povertà raggiunge quasi il 27%.

La distribuzione geografica della povertà, associata a istruzione e occupazione, conferma la correlazione dei dati: la Lombardia e l’Emilia-Romagna sono le regioni dove c’è meno povertà (rispettivamente 4 e 4,5%), ma ci sono contemporaneamente più diplomati, laureati e qualificati, e anche più occupati.

Una curiosità: l’Istat fa sapere che “tra le famiglie con persona di riferimento diplomata o laureata aumenta anche la povertà assoluta (dall’1,7% al 2,1%)” rispetto all’anno precedente (2009). Potrebbe anche trattarsi di famiglie di insegnanti pensionati monoreddito…




–>


tuttoscuola.com

Nucleare addio, parola di teologo


Intervista a Robert Spaemann a cura di Guido Kalberer

 


La Germania abbandona l’energia atomica. Cosa ne pensa?
«Meglio tardi che mai. Ma l’uscita è solo in una legge e non al 100%. Se ci saranno difficoltà di approvvigionamento energetico la legge potrà cambiare o si potrà rimandare lo spegnimento dei reattori. L’unico modo di prevenire queste eventualità è prescrivere l’abbandono dell’energia atomica nella Costituzione».

È ciò che lei propone?
«Sì, benché io non sia favorevole a scrivere nella Costituzione obiettivi politici di attualità. Ma in questo caso la posta in gioco supera ogni normale metro di paragone umano».

Le energie alternative potranno soddisfare il fabbisogno?
«Se non riusciamo a coprire in modo alternativo il fabbisogno energetico, dovremmo ridurre il fabbisogno.
Non possiamo dare per scontato di avere a disposizione in qualunque momento qualunque quantità di energia. È desiderabile ma non possiamo pretenderlo. Se possiamo produrre energia solo con  una tecnologia che minaccia il genere umano, allora è necessario disporre diversamente».

Quindi dobbiamo fare rinunce?
«Sì. Solo quando l’uomo è con le spalle al muro diventa inventivo. È stato sempre così. Finché si pensa che in caso di emergenza si può fare affidamento su ciò che già esiste, non si mobilitano tutte le forze. Solo la certezza che l’energia atomica non è più in gioco attiverà l’ingegno creativo».

Come risponde a chi dice che non è possibile vivere senza energia atomica?
«Questa sarebbe una costrizione oggettiva, ma non è un argomento: le costrizioni sono oggettive quando vogliamo un certo risultato. Allora si è obbligati a fare una cosa e non altre. Se però questa cosa si rivela impraticabile, bisogna cercare alternative. Chi non lo fa è ostile a innovare».

Occorrono disastri per spingere l’uomo a pensare diversamente?
«Sembra di sì. Questo immenso pericolo avrebbe potuto essere riconosciuto molto prima, considerando che nessuna assicurazione è disposta ad assumersene il rischio».

A cosa serve che Svizzera e Germania abbandonino l’energia atomica se la Russia ha in programma 30 nuovi reattori?
«In primo luogo, abbiamo un beneficio locale spegnendo i nostri reattori. È diverso se un reattore va fuori controllo nel nostro Paese o in Giappone. Si può ridurre il rischio locale, senza dover risolvere il problema globale. Poi possiamo essere un esempio. Qualcuno deve pur cominciare; se la Germania saprà fare a meno dell’energia atomica, ciò avrà ripercussioni sul mondo intero».

Quali sono gli argomenti contro l’energia atomica?
«Soprattutto l’incontrollabilità. Chi assicura che si può fare un uso pacifico dell’energia atomica pone sempre condizioni: per esempio che non avvengano guerre o attentati.
Ma il porre condizioni dimostra che l’uomo non sa controllare questa tecnologia. Si immagina un mondo perfetto in cui le maggiori fonti di pericolo vengono nascoste. E ciò che resta lo si dichiara sicuro. Ma ci sono anche argomenti filosofici. Cosa fa l’uomo quando si serve dell’energia atomica?
L’energia degli atomi è alla base della nostra esistenza materiale. Serve a mantenere la realtà quale essa è. E lo fa pacificamente e senza il nostro intervento. Quando sottraiamo questa energia alla sua funzione naturale, quando scindiamo i nuclei degli atomi e ne liberiamo la forza, tocchiamo qualcosa che ci trascende. È arroganza dire che ce la faremo».

L’uomo si sopravvaluta?
«Sì. C’è una situazione analoga in cui i miei argomenti sono altrettanto categorici: è la manipolazione del genoma umano. Proprio come con l’atomo, anche qui tocchiamo una struttura di base della nostra realtà non come materiale, ma come esseri viventi. Con la costruzione di nuove combinazioni genetiche possiamo mettere in moto processi di cui perdiamo il controllo».

Lei argomenta qui come Jürgen Habermas. L’uomo non può progettare il risultato della sua procreazione.
«Su questo siamo d’accordo.
L’umanità si dividerebbe in due classi: chi fa e chi è fatto. E ciò avrebbe conseguenze imprevedibili».

Lei è contrario anche perché ciò sarebbe una manipolazione del Creato?
«Si deve condurre il dibattito su basi puramente razionali. Ma l’argomento diventa più forte se si evoca il concetto di Creato: permette di imbrigliare la superbia dell’uomo che crede di poter fare
tutto».

Hans Jonas prescrive un’etica della responsabilità verso le generazioni future. Condivide il concetto?
«Sì. In relazione alle generazioni future c’è soprattutto il problema dei rifiuti radioattivi. I responsabili delle tecnologie atomiche dicono sempre: troveremo un deposito definitivo.
Qui si fa della suggestione basandola in modo irresponsabile su un ‘principio speranza’.
Sembrerebbe che Dio abbia il dovere di metterci sempre a disposizione ciò che risponde ai nostri bisogni momentanei. Oltre al dovere di considerare i rischi immediati posti da una centrale atomica, vi è l’obbligo di non costruire un reattore, prima di aver trovato un deposito definitivo per le scorie radioattive».

Dove vede il problema principale dei rifiuti radioattivi?
«Come si può oggi garantire per migliaia di anni la sicurezza di un deposito radioattivo definitivo?
Non abbiamo alcuna responsabilità positiva per le persone che popoleranno il pianeta nel futuro, ma non ci è permesso di rovinare la loro esistenza in modi già prevedibili, per esempio con la contaminazione atomica in aree che diventano così invivibili. Abbiamo l’ingenua e diffusa idea che, a differenza del passato, la nostra civiltà scientifico-tecnologica continuerà all’infinito. È assurdo. Il nostro sapere attuale sarà interamente tramandato e sarà a disposizione delle generazioni future?
Oggi non sappiamo più come sia stato possibile realizzare Stonehenge (sito neolitico con megaliti posti in circolo, ndt). Forse i nostri discendenti non conosceranno più i pericoli ai quali noi consapevolmente li esponiamo.
Non può essere questa la nostra eredità. È sconsiderato aumentare con l’energia atomica il potenziale di pericolo che la natura già contiene».

Lei non riesce a trovare niente di buono nell’energia atomica.
«La prima fissione nucleare servì ad annientare esseri umani. Non è un caso che con la prima applicazione dell’energia atomica si siano sterminate centinaia di migliaia di persone a Hiroshima. ‘Funziona davvero’, fu la prima reazione di Carl Friedrich von Weizsäcker (fisico nucleare e filosofotedesco). L’orrore venne più tardi. Se gli scienziati sono solo scienziati, non saranno capaci di aiutarci».

Per lei non c’è progresso, ma progressi. Cosa vuol dire?
«L’Europa vive da secoli della menzogna del progresso al singolare. Progresso vuol dire: migliore, più veloce, più brillante.
Sono cresciuto nel periodo nazista e fui assillato fino alla nausea con lo slogan ‘Con noi avanza la nuova era’. L’ideologia del progresso la proclamavano anche i nazisti. Il mio scetticismo verso il progresso risale a quel periodo buio: essere poco progressivo mi sembrava meglio che mettere le persone in campi di concentramento e ucciderle. Il progresso può essere meraviglioso, ma anche terribile. Da una parte ci sono progressi nella tecnica anestetica, dall’altra progressi della bomba atomica. A chi nomina il progresso dico: progresso di cosa e in quale direzione?».

Il pensiero cristiano ci porterebbe avanti?
«Certo! In tempi in cui la religione cristiana è stata dominante, non si pensava a un futuro infinito, come si fa oggi. Si aspettava la fine del mondo. Come descritto nel Nuovo Testamento, la storia termina con il ritorno di Cristo. Sì, credo che l’esistenza dell’umanità non durerà così a lungo; e ciò più per ragioni immanenti che non religiose. Il mio scetticismo sul fatto che l’umanità  sopravviverà è alimentato dal modo in cui l’uomo prende ora in mano il suo destino».

Come cristiano lei crede all’Apocalisse. Se siamo destinati a finire, a cosa serve lottare contro l’energia atomica?
«La sua domanda si basa sull’idea erronea che se una cosa accade in natura possiamo farla anche noi: se in natura ci sono vulcani, possiamo anche noi fare vulcani; se in natura un ramo cade su un uomo, allora anche noi possiamo fare lo stesso.

Non sappiamo cosa vuole la natura e quali siano i piani di Dio. Siccome Lenin credeva di conoscere il fine della storia, diceva che coloro che lavorano a rendere felice l’umanità non possono essere sottomessi a regole morali. L’arroganza è nel credere che qualcuno conosca quale sia il fine della storia. La concezione cristiana del termine della storia invece implica un’irruzione dall’esterno e non un immanente paradiso come risultato di uno sviluppo continuo. Il regno di Dio è la conseguenza di una fine improvvisa della storia precedente».

(traduzione di Marco Morosini)

in “Avvenire” del 19 lulgio 2011

Bibbia e Corano, i tabù da superare


Oggi, nel mondo musulmano, il Corano non è oggetto di confronto, non viene assolutamente rimesso in discussione.


Alcuni ricercatori musulmani, il più delle volte formati o residenti in Occidente, azzardano qualche interrogativo sulla redazione del Corano, ma incorrono immediatamente nella condanna delle autorità religiose. Il problema dello spirito critico è un problema reale. Tutto quanto riguarda la religione è ancora tabù: è vietato discuterne e lo è ancora di più se si tratta del Corano o della tradizione maomettana; Maometto, la sua vita, ciò che ha fatto e ciò che ha detto, sono tuttora tabù.

Quindi i musulmani non possono parlare delle guerre condotte da Maometto se non in maniera apologetica, per affermare che il suo unico scopo era quello di difendersi dai persecutori. Eppure a leggere le opere delle prime generazioni di musulmani, si rimane colpiti dall’atmosfera più libera che vi si respira. Gli autori esprimevano con molta semplicità il loro punto di vista, positivo o negativo che fosse, per così dire senza complessi.

Lo stesso vale per i rapporti umani di Maometto con altri gruppi, come gli ebrei, i cristiani e soprattutto con i politeisti della città natale e di tutta l’Arabia, nonché per le relazioni con le donne: tutti questi argomenti non sono mai affrontati in modo critico, ma sempre elogiativo e agiografico (dal greco hagios = santo). È lo stile tipico della tradizione cattolica che si adoperava in passato per raccontare la vita dei santi: sono sempre persone straordinarie, che hanno pregato, digiunato e altro ancora sin dall’infanzia. Tuttavia, il lettore sa che quel genere di racconto non vuole essere una descrizione storica dettagliata, ha bensì il solo scopo di incitarlo a imitare le virtù del santo di cui narra la vita.

Ahimè, ancora oggi la vita di Maometto viene raccontata in modo puramente agiografico, si espongono i suoi intrighi come fatti storici realmente accaduti, i racconti abbondano di dettagli presunti, che si amplificano man mano che ci si allontana nel tempo dalla persona del fondatore dell’islam. Sebbene nel Corano non vi sia il seppur minimo accenno ad alcun miracolo compiuto da Maometto, nonostante le richieste avanzate dagli arabi di farne, fosse pure uno solo, a esempio di Mosè e di Gesù, i biografi posteriori ne aggiungono a piacimento. E più passano gli anni, più i biografi scoprono nuovi miracoli, come ha ben dimostrato padre Focà.

Oggi il problema dell’interpretazione del Corano è sicuramente la questione principale sia nella religione musulmana sia nella vita dei musulmani. Molti intellettuali musulmani ne sono consapevoli e sono migliaia coloro che cercano di proporre nuove interpretazioni del Corano, un compito estremamente arduo dal momento che questi studiosi devono scontrarsi con una lunga tradizione e spesso vengono accusati di lasciarsi guidare dall’Occidente e dai non musulmani. Accusa suprema!

In che cosa consiste il problema dell’interpretazione del Corano? Il Corano è presentato come «disceso» dal cielo su Maometto, il quale lo ha proclamato ai suoi contemporanei. Alcuni di essi lo hanno memorizzato nel proprio «petto» (sudur) e dopo qualche decennio lo hanno dettato a degli scribi. In un’ultima fase, i fedeli hanno raccolto tutte queste pagine sparse, scritte su svariati supporti (palme, ossa, ostraca, carta, eccetera), per farne un libro. La stessa parola utilizzata per «libro», mus-haf, non è di origine araba, è bensì un termine etiopico che stava a indicare la Bibbia. Tutte queste osservazioni di carattere filologico sono importanti in quanto permettono di vedere come l’islam nascente abbia integrato elementi provenienti dalla cultura cristiana o dalla cultura giudaica (per le questioni di ordine rituale e giuridico).

Il Corano si presenta quindi come il risultato di questo insieme di procedure. La discesa su Maometto, la declamazione di Maometto, la deposizione di tale declamazione nei «petti» di coloro che l’hanno memorizzata, la recitazione della deposizione ad alcuni scribi, la collazione dei fogli sparsi in un libro che è il Corano. Tutto questo è solo la prima fase.

Il passo successivo venne con l’unificazione del Corano e l’eliminazione di tutte le varianti; si passò poi, con l’inizio dell’VIII secolo, a distinguere le consonanti mediante l’indicazione dei punti. Per finire, nel IX secolo, sotto la pressione dei sapienti furono aggiunte le vocali. Un lungo processo, durato due secoli, che ha portato a un testo: il Corano.

Un testo che i musulmani hanno provveduto a sfrondare di tutte le modalità con cui è stato trasmesso per poter infine affermare che viene direttamente da Dio, che è la parola di Dio trascritta fedelmente e alla lettera, senza possibilità di errore. Tutti i libri musulmani che citano il Corano insistono sulla fedeltà della sua trasmissione in contrasto con la supposta infedeltà della trasmissione dei Vangeli.

A tale scopo, essi fanno riferimento alle teorie più liberali dell’esegesi cristiana, affermando che parecchie generazioni separano il momento in cui il testo dei Vangeli fu stabilito definitivamente, alla fine del I secolo o all’inizio del II secolo, e la morte di Cristo intorno al 30 d.C. Cosa che, al contrario, non succede per il Corano, che è stato trascritto fedelmente senza ombra di errore, poiché, come tutti sanno, i memorizzatori (hafiz, huffaz) e i trasmettitori avevano una memoria da elefanti e Dio ne garantiva l’infallibilità! Si vede dunque come il fenomeno sia stato mitizzato. In virtù di questa mitizzazione del testo coranico, si è giunti ad affermare che il testo oggi in nostro possesso è il dettato letterale fatto da Dio a Maometto, trascritto fedelmente.

Si dice, in termini concreti, che Dio «ha aperto il petto del profeta» e l’arcangelo Gabriele vi ha depositato il Corano. In seguito Maometto non ha dovuto far altro che attingere, per così dire, da questo deposito per recitare i versetti utili in ogni circostanza. Si può quindi concludere che non vi siano intermediari. In questo modo di pensare non possono esserci interpretazioni: l’interpretazione consiste unicamente nell’accertarsi del senso esatto delle parole.

In realtà le prime generazioni di musulmani non hanno mai seguito questa linea di pensiero. Al contrario hanno tentato di comprendere ciascun versetto spiegando il contesto nel quale la frase era stata pronunciata da Maometto. Esistono interi libri, decine di libri (spesso di svariate migliaia di pagine) nella letteratura arabo-islamica che parlano di quelle che vengono definite le circostanze della «discesa» (asbab al-tanzil, che altri chiamano asbab al-nuzul) nel senso di «rivelazione».

Quindi ciascun versetto sarà spiegato in funzione delle circostanze presunte nelle quali Maometto avrebbe trasmesso la parola di Dio. Si tratta di un fatto importantissimo, eppure oggi questo contesto viene completamente ignorato.

 

 

Samir Khalil Samir

Altro che nemiche, fede e ragione devono collaborare

Il sessantesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI il prossimo 29 giugno, sarà certo occasione di molteplici letture del contributo da lui dato alla Chiesa e alla società del nostro tempo. Vorrei limitarmi a offrire qui una sola chiave di interpretazione della sua opera di pensatore e di pastore, cogliendovi specialmente i tratti dell’uomo totalmente «al servizio della parola di Dio che cerca e si procura ascolti tra le mille parole degli uomini» (come egli stesso ebbe a scrivere di sé alcuni anni fa nella Prefazione al volume di Aidan Nichols, “Joseph Ratzinger”).
Chi cerca e si procura ascolti non ha nulla del presuntuoso possessore della verità che voglia imporla agli altri a colpi di clava: Ratzinger pone e accoglie domande vere e non offre mai risposte che non siano rigorosamente argomentate. Ne è prova tra tante il dialogo svoltosi nel gennaio 2004 a Monaco di Baviera fra lui e il filosofo Jürgen Habermas su “I fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale”.

 

Se Habermas può essere considerato fra i più influenti pensatori tedeschi del momento, Ratzinger non è solo il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede divenuto oggi Papa Benedetto XVI, ma anche il fine intellettuale che – ad esempio – nel 1992 è stato accolto nell’Académie des Sciences Morales et Politiques dell'”Institut de France”, lui, uomo di Chiesa tedesco. Il dialogo fra i due – che fu tutt’altro che un dialogo fra sordi – mostra da solo quanto feconda possa essere l’attenzione a quanto il pensatore della fede e pastore universale propone oggi alla riflessione e alle scelte di ciascuno.
Joseph Ratzinger intende l’opera del pensiero e dell’impegno storico come semplice e puro servizio alla verità: ecco perché il vero idolo negativo è da lui identificato nel relativismo, in quella posizione cioè che affermando il pluralismo delle verità – più o meno legate all’arbitrio del soggetto – esclude l’idea della verità da servire e da amare, sostituendola con l’unica certezza che tutto sia relativo. A questo forte senso della verità Ratzinger giunge non in un’avventura individuale senza radici profonde, ma attingendo alla comunione della Chiesa di Dio come vero “uomo ecclesiale”, nel contesto della grande tradizione del pensiero occidentale: dagli studi sull’amatissimo Agostino e su Bonaventura, alla frequentazione dei maestri dell’eredità di Monaco di Baviera (Sailer, Görres, Bardenhewer, Grabmann e Schmaus, per fare solo qualche nome), al dialogo con la sapienza greca, soprattutto platonica, e con la filosofia moderna e contemporanea, il suo percorso si nutre di uno straordinario patrimonio culturale, che egli attualizza e rielabora al fine di dire in modo nuovo il messaggio antico della rivelazione cristiana per l’inquieta cultura del nostro tempo, segnato da cambiamenti tanto rapidi, quanto profondi.
Si può dire veramente che la sua teologia e la sua filosofia più che aristocratico “amore della sapienza”, sono espressione di un’umile e convinta “sapienza dell’amore”, da offrire con generosità agli altri, in ascolto e in dialogo con tutti.

 

Nell’analisi di Ratzinger credere «significa dare il proprio assenso a quel “senso” che non siamo in grado di fabbricarci da noi, ma solo di ricevere come un dono, sicché ci basta accoglierlo e abbandonarci ad esso» (Introduzione al cristianesimo, 41). La fede nasce, insomma, dall’incontro fra il movimento di autotrascendenza dell’uomo e l’offerta assolutamente gratuita e indeducibile della grazia di Dio. Quest’incontro è tutt’altro che scontato: esso va anzi vissuto in tutta la sua dimensione agonica, segnata dall’esperienza della reale alterità dell’Altro: «Il “Credo” cristiano riprende con le sue prime parole il “Credo” d’Israele, accollandosi però al contempo anche la lotta d’Israele, la sua esperienza della fede e la sua battaglia per Dio, che diventano così una dimensione interiore della fede cristiana, la quale non esisterebbe affatto senza tale lotta» (73).

 

La visione che Ratzinger ha della ragione e della fede, è tutt’altro che ingenua: vi sono patologie della religione e vi sono patologie della ragione, come quelle che hanno portato alla violenza dei totalitarismi e all’uso di terribili armi di distruzione. Questo rilievo, però, non esime la fede dal dovere del dialogo con la ragione e Ratzinger non esita a dichiarare che esiste una «necessaria correlazione tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca purificazione e al mutuo risanamento, e che hanno bisogno l’una dell’altra e devono riconoscersi l’una con l’altra».
La fede – lungi dall’essere sacrificio dell’intelligenza – ne è insomma straordinario stimolo e alimento. La ragione che voglia dare ragione di quanto esiste, esercitata fino in fondo, si apre allo stupore davanti al mistero, dove abita l’Altro, che chi crede riconosce come il Dio al tempo stesso sovrano e vicino…
L’unico Dio cui si affida chi crede è, dunque, il mistero del mondo, il senso ultimo della vita e della storia, la ragione inconfutabile per diffidare della miopia di tutto ciò che è penultimo, il fondamento in rapporto al quale si sperimenta «la tensione fra potenza assoluta ed amore assoluto, fra incommensurabile distanza e strettissima vicinanza» (109). È proprio il paradosso della compresenza di queste due caratteristiche che aiuta a  comprendere in che senso il Dio della fede sia il Dio vivente: non un morto oggetto, su cui esercitare il gioco dell’intelligenza, ma il Soggetto vivo e operante, cui corrispondere con la consapevolezza e la libertà dell’accettazione di un’alleanza d’amore. Non un Dio concorrente dell’uomo, ma il Dio umano, la cui gloria è l’uomo vivente!

 

Il compimento del desiderio umano nel Dio vivente è insieme il suo superamento a un livello che il desiderio stesso non avrebbe mai potuto raggiungere. «La vera umanità dell’uomo è l’umanità di Dio, la grazia, che riempie la natura» (154). Fede e ragione, lungi dall’essere nemiche, sono chiamate all’incontro e alla collaborazione: «È importante – afferma Ratzinger a conclusione del suo dialogo con Habermas – per le due grandi componenti della cultura occidentale farsi coinvolgere in una correlazione polifonica, in cui aprano se stesse alla complementarità essenziale tra loro, cosicché possa crescere un processo di purificazione universale, in cui in ultima istanza i valori e le norme essenziali in qualche modo conosciuti o presagiti da tutti gli uomini possano conseguire nuova forza d’illuminazione, cosicché possa ritornare ad avere forza operante quanto tiene unito il mondo».
La corrispondenza di Habermas a questa proposta mostra come essa – avanzata oggi dalla cattedra universale del Successore di Pietro – possa parlare veramente alla cultura del nostro tempo, in Occidente e non solo. Saranno gli uomini e le donne di pensiero così responsabili da corrispondere nel modo più serio a questo appello, al servizio della qualità della vita e del futuro di tutti?


L’augurio è che il servizio sacerdotale di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, per sua definizione rivolto a offrire agli uomini il sacro, trovi in pieno questa corrispondenza feconda.


*Arcivescovo di Chieti-Vasto

in “Il Sole 24 Ore” del 26 giugno 2011

Cercando il «neurone di Dio»

 

L’interesse per il rapporto fra cervello ed esperienza religiosa non nasce con la scienza moderna o la filosofia della mente.

 

L’ermeneutica biblica dell’uomo imago Dei, le tradizioni d’Oriente, la teologia del logos, la dottrina dei «sensi» spirituali delle teologie cristiane, la pretesa di «razionalità» della rivelazione coranica costituiscono un patrimonio immenso di figure e interessi. Un patrimonio che spiega perché Cartesio cercasse di localizzare l’anima in una ghiandola del cervello e perché il rapporto della religiosità con la mente e il cervello susciti tanto interesse nel secolo XX.


Sarebbe sbagliato rappresentare questa ricerca come un banale conflitto fede/scienza. Perché per alcuni — non sempre, non tutti — la scienza non è un metodo, ma un giudice al quale si deve chiedere di «dimostrare» vuoi la illusorietà vuoi la solidità dell’atto religioso. Sia chi crede di provare che l’idea Dio è una mera funzione interna al pensare sia chi pensa che proprio l’esistenza di funzionalità «spirituali» nel cervello dovrebbe convincere tutti che un disegno superiore presiede all’evoluzione della nostra razionalità — gli uni e gli altri condividono un terreno che spesso viene chiamato «neuroteologia» (una espressione dello scrittore di fantascienza Aldous Huxley).


Per gli uni e per gli altri l’esperienza religiosa viene identificata con uno stato di appagamento, di felicità quieta, di acquisizione di «senso» come rassicurazione del sé, una «sensazione» pacificata: una visione che la letteratura ben conosce — come spiegava già la descrizione del paradisiaco istante che precede l’attacco epilettico ne L’idiota di Dostoevskij — e che viene assolutizzata.


È una storia che inizia già con William James (1842-191o). Lo psicologo di Harvard, di fede calvinista, affronta il tema in modo apodittico e pragmatista: la mente sana pensa Dio in positivo come un aiuto, mentre la mente malata vive la fede come espressione di angoscia. Più tardi James H. Leuba (1867-1946), rigido «naturalista», trova nella religione, intesa come esperienza estatica, una espressione primitiva e ripetibile anche grazie a sostanze stupefacenti. Queste teorie della psicologia della religione e le loro evoluzioni diventeranno negli anni Cinquanta oggetto di esperimenti, coerenti però con l’idea che la «sensazione» sia la semantica del religioso. E quando Wilder Penfield (1891-1975) scopre che una stimolazione elettrica del lobo temporale destro produce stati estatici, si apre un nuovo filone che si concentra su questa patologia e sulle sue analogie con la meditazione mistica.


In parte questa ricerca si muove in una direzione dichiaratamente antireligiosa. Ancora nel 1994 Laurence O. McKinney scrive che il sentimento religioso, pur nella varietà delle forme che prende, è «universale» solo perché lo sviluppo cerebrale impedisce di recuperare informazioni sufficienti sull’infanzia e questo «vuoto» genera la domanda sul «da dove veniamo», alla quale il fatto religioso s’incarica di rispondere. Da tempo, comunque, un medico canadese — Michael Persinger, che si presenta come un liberatore dalla mistificazione religiosa e viene contestato da manifestazioni di evangelicali inferociti — ricorre a uno «strumento» per dimostrare sperimentalmente la stessa tesi. Inventa un «casco» che produce disturbi magnetici, durante i quali il lobo temporale farebbe «esperienza» di un Dio: finalmente smascherato come effetto elettrico…


Perfettamente funzionante con molti suoi studenti, il «casco» dà solo serie emicranie a volontari di maggior rango e di sicuro ateismo come Richard Dawkins… Tramite la tomografia a emissione di fotone singolo, Andrew Newberg, Eugene D’Aquili e Vince Rause monitorano il cervello di religiosi in meditazione. La scoperta dei centri attivati dalla pratica religiosa dimostra una attività della corteccia prefrontale: il fatto che la meditazione funzioni come una iperquiescenza basta, secondo loro, a dimostrare che «il cervello ha una capacità innata (built-in) di trascendere la percezione di un sé individuale» e che dunque ciò che si chiama usualmen te religiosità è una sua funzione. Il sarcasmo anticartesiano di Spinoza avrebbe senz’altro definito questa scoperta una «qualità più occulta» di quella che si voleva scoprire. Ciò che invece accade è che molti scienziati percorrono la stessa via in senso apologetico: i nomi di Harold Koenig e Esther M. Sternberg sono molto citati da chi, a partire dagli studi sul nesso fra cervello e sistema immunitario, sostiene che la minor incidenza di malattie nella popolazione «religiosa» sarebbe la riprova di una empirica «salutarità» della fede. E James H. Austin, con il suo Zen and the Brain, dimostra gli effetti benefici della meditazione su mente e cervello: cosa che entusiasma i sostenitori di una apologetica del religioso su base scientifica. Perché — è la tesi di Wentzel van Huyssten — l’idea dell’imago Dei sarebbe il codice cifrato di queste scoperte: la religiosità come attitudine essenziale all’essere uomo sarebbe dimostrata dalla neuroteologia, perché direbbe che mente e cervello hanno i codici per comprendere
l’amore di Dio. A questo upgrade della ricerca neurologica a criterio di decostruzione dell’esperienza religiosa, tipica delle spiritualità fondamentaliste, s’è opposto l’appello di teologi e scienziati ad una certa «neuroumiltà». Strumenti di indagine assai raffinati dimostrano soltanto di saper individuare i correlati neuronali degli stati mentali propri dell’esperienza religiosa: né più né meno. Il tentativo di ridurre Dio a movimenti di neuroni e quello di usare i neuroni per dimostrarne l’esistenza si muovono in un vicolo cieco da ambo i lati. Se c’è una zona del cervello attivata dalla meditazione religiosa, ciò non significa che neurologia e teologia hanno cessato di avere compiti diversi e metodi ai quali ciascuna si deve attenere. Dove il teologo difende la libertà dell’individuo, lo scienziato scopre che credenza, agnosticismo e incertezza pongono alla sua ricerca una unica e identica domanda.


in “Corriere della Sera” del 13 giugno 2011

Potere, regole e vita privata

 

 

La vicenda che ha portato nell’arco di poche ore all’arresto di Dominique Strauss-Kahn appartiene, a pieno diritto, a quegli eventi che segnano in modo definitivo non soltanto la brillante carriera di un uomo politico, ma la biografia stessa di una persona.

 

 

Ora, è abbastanza naturale che, davanti ad accuse tanto gravi quanto quelle di violenza sessuale, la reazione comune sia l’indignazione. In discussione qui, però, non è effettivamente il contegno più o meno irreprensibile di un uomo, ma la violenza da questi impartita ad una donna, per altro palesemente in una condizione sociale e lavorativa più fragile di lui, e quindi particolarmente vulnerabile.
Il caso, al di là delle diverse valutazioni, apre una questione generale che riguarda essenzialmente la difficile coerenza personale, evocata attualmente come in passato, sebbene amplificata dall’onnipresenza dei media. Si tratta della contraddizione tra i comportamenti sociali e personali dei governanti, o, come recitava il titolo di un famoso film di Miklós Jancsó, tra i “vizi privati e le pubbliche virtù”.
Senza voler proporre anacronistici appannaggi o paragoni impossibili, lo scandalo un tempo era come oggi arma di potere e ricatto, tant’è che dappertutto i potenti erano oggetto di critiche e di delegittimazioni shakespeariane. Inoltre, il consenso democratico, cui devono sottoporsi inevitabilmente i politici odierni, ha aggiunto un ulteriore controllo etico, come spiegava Jean Jacques Rousseau nel Contratto sociale. E quindi, reato a parte, non vale la pena propendere per un rigorismo puritano, poco produttivo in assenza di una dimostrata illegalità.
Tuttavia, il problema resta in piedi lo stesso. E optare per una separazione netta, precisa e drastica tra abilità o capacità gestionali – siano esse professionali o politiche – e comportamento individuale diviene assolutamente impossibile, perché totalmente assurda. Questa opinione, d’altronde, non è un prodotto culturale corrente, appartenendo in pieno alla mentalità e, direi perfino, alla cultura giuridica occidentale. Non soltanto Thomas Hobbes nel Leviatano concepì la sfera pubblica come un artificio sostanzialmente distinto dal privato, ma ritenne che l’estraneità delle due dimensioni fosse una condizione prioritaria per rispettare la vera essenza della politica che deve riguardare l’esclusivo esercizio del potere. Il più coerente teorizzatore di questo riduzionismo antropologico è stato Immanuel Kant, il quale nella Critica della ragion pura ha spiegato che l’identità personale è sconosciuta e irraggiungibile, autorizzando senza contraddizione una sorta di “valida incoerenza” nei comportamenti privati, sottoposti, di fatto, solo all’imperativo categorico della moralità pubblica. A ben vedere, quindi, l’attuale moralismo, che si concentra solo sul condannare o giustificare le nefandezze apparenti, presuppone lo stesso smarrimento scettico e originario dell’identità personale, sciolto, questa volta, in un relativismo multiplo, rivelatore sempre delle medesime contraddizioni.
La vera risposta, viceversa, sta nel tornare a parlare e a pensare in termini autenticamente personali.
Noi non siamo dei soggetti che hanno identità variabili e funzionali allo scopo: il mattino un professionista, a colazione un padre di famiglia, la sera un playboy, e così via. Ogni persona possiede in sé il valore e la responsabilità di  un’identità propria, l’Io, la quale non soltanto è e resta permanente, ma va gestita in coscienza e libertà per salvaguardare, tra l’altro, la salute mentale e la completezza stessa della personalità. L’alternativa dolorosa è, per l’appunto, la schizofrenia, la patologia psichiatrica o, usando una metafora letteraria, un’incomunicabilità finale tra il nostro Dottor Jeckyll e l’altrettanto nostro Mister Hyde. Va benissimo, insomma, difendere un amico in difficoltà, come alcuni hanno fatto disperatamente in questi giorni per Strauss-Kahn, specialmente quando il malcapitato è colpevole di un reato gravissimo. Come va benissimo screditare la sua minaccia politica con ogni mezzo. Ma non confondiamo la solidarietà e l’invettiva con la coerenza umana – prima ancora che etica – che è un dovere insostituibile per ciascuno, specialmente se ha assunto volontariamente un’alta responsabilità collettiva.
Il cosiddetto aspetto privato è diverso da quello pubblico e professionale, ma non appartiene ad un’altra persona, bensì alla stessa, la quale – similmente alle altre – deve mirare all’unità d’azione del proprio essere. Perciò, malgrado ogni retta concentrazione per evitare il moralismo, è chiaro che la vita privata di un uomo mi dice moltissimo sul suo essere affidabile o meno dal punto di vista pubblico. A meno che non consideriamo il lavorare una semplice mansione e il governare nulla altro che un potere assoluto, sottraendoci, in tal modo, definitivamente a qualsiasi valutazione antropologica del protagonista al di fuori del relativo e partigiano interesse.

 

di Joaquín Navarro-Valls
in “la Repubblica” del 24 maggio 2011

 

Ma fare festa è sbagliato

 

«Giustizia è fatta!» ha proclamato il Presidente degli Stati Uniti nell’annunciare al suo Paese e al mondo che Osama bin Laden è stato ucciso. Confesso che i sentimenti che mi abitano come cristiano e come cittadino di un Paese che non contempla nel proprio ordinamento la pena di morte sono contrastanti.

Da un lato c’è la soddisfazione legata alla uscita di scena di una persona che, per sua stessa ammissione, ha seminato morte e odio, ha avvelenato la comprensione della religione, usandola come droga per esaltare la violenza, ha inquinato mortalmente la convivenza civile e i rapporti sociali, a livello locale e planetario.

D’altro canto il Vangelo, ma anche la mia coscienza umana, non mi autorizzano a rallegrarmi per la morte di un essere umano, fosse anche il più malvagio sulla terra, fosse anche il nemico mortale che ha attentato alla vita delle persone più care. Non si tratta di evocare l’esortazione cristiana al perdono – argomento su cui a lungo si è riflettuto dopo l’epifania del male assoluto nei campi di sterminio nazisti – ma di riconoscere con gravità e amarezza che la morte di una persona non è mai motivo di gioia: forse di sollievo, perché ormai quel malvagio non potrà più nuocere, anche se il
seme dell’odio gettato non smette per questo di crescere; forse è fonte di appagamento di quel desiderio di vendetta che abbiamo vergogna di confessare e che ci affrettiamo a nobilitare con il termine di giustizia; forse è occasione di rinnovato rimpianto per le vittime della violenza omicida e per non aver saputo fermare prima quello strumento di morte. Ma gioia no, quella non l’ho sentita nascere in me nell’apprendere la notizia dell’uccisione di Bin Laden e non vorrei vederla sul volto di un altro uomo, un uomo come me, un uomo come lo era Bin Laden. Come cristiano penso a Bin Laden ora in giudizio davanti a Dio: quel Dio il cui nome ha bestemmiato per seminare morte e predicare la guerra, quel Dio creatore degli uomini e protettore della vita cui ha dato un volto perverso e mortifero.

E mi è anche difficile fare mie le parole del presidente Obama: «Giustizia è fatta!». E non perché ritenga che l’unica giustizia sia quella divina, che il giudizio autentico sia solo quello che ci attende tutti al cospetto di Dio. Ma perché rimango convinto che ogni essere umano è e resta più grande delle sue colpe, anche quando queste sono spropositate. D’altronde anche la rivelazione biblica e cristiana afferma riguardo all’immagine di Dio impressa in ogni essere umano: l’omicida può smarrire la somiglianza con Dio, ma non può perdere quell’immagine che Dio stesso ha voluto
consegnare a ogni creatura umana, Caino compreso.

Ma anche della giustizia umana ho un concetto che non mi consente di vederla realizzata nell’uccisione mirata di un pluri-assassino: la cattura, il giusto processo, la messa in condizione di non nuocere di un criminale non richiedono necessariamente la sua soppressione fisica e non traggono da questa maggiore autorevolezza o efficacia. Sopprimere l’ingiusto non è ancora fare giustizia: perché giustizia, anche umana, sia fatta, a ciascuno di noi resta un compito che nessuna arma né squadra speciale può svolgere per conto nostro. Resta la vicinanza e la solidarietà con i parenti delle vittime della sua barbarie umana, resta il contrastare nel quotidiano le energie di morte che l’assassino ha scatenato, resta la ricostruzione di un tessuto umano e sociale vivibile, resta il rifiuto di rispondere al male con il male, resta la costruzione della pace con gli strumenti della pace, resta di proseguire tenacemente nell’operare ciò che è giusto. Davvero non basta che un malvagio sia annientato perché giustizia sia fatta.

 

in “La Stampa” del 3 maggio 2011