La scuola? Un cambiamento senza fine

Questi, secondo l’Aimc, gli elementi di maggior rilievo di questo situazione: “immersione in un cambiamento senza fine, ben diverso da una positiva innovazione graduale e condivisa; mancanza di standard nazionali di riferimento che assicurino un minimo di tenuta del sistema; espansione e consolidamento della tendenza a considerare il criterio organizzativo dominante rispetto alle finalità della scuola, come succede, ad esempio per il tempo scuola prestabilito che condiziona quello su cui centrare l’apprendimento invece di fare il contrario, cioè stabilire l’essenziale da apprendere e determinare poi, di conseguenza, il tempo occorrente per realizzarlo”.
Ne derivano alcune conseguenze di non poco conto – sostiene l’Aimc – che vanno a consolidare un trend degli ultimi anni poco promettente, che contribuisce alla delegittimazione del ruolo istituzionale della scuola e all’erosione, nell’opinione pubblica, del credito sociale degli insegnanti.
Nel documento conclusivo non poteva mancare uno specifico riferimento alle recenti riforme che interessano la scuola primaria, maestro unico e compresenze.
“L’unitarietà dell’apprendimento rimanda all’unitarietà della persona e della cultura e si presuppone venga garantita dall’unicità del docente, mentre nei fatti si realizza solo grazie a una progettazione coerente attenta alla personalizzazione e alla pluralità dei percorsi formativi di ciascuno, capace di muoversi nelle dinamiche proprie dell’elaborazione culturale e sociale dando essenziali coordinate di senso”.
“La compresenza è assimilata al solo spreco di risorse e non colta come elemento di qualità, nell’assicurare la centralità dell’apprendimento.
È importante invece considerare cosa non si riuscirà più a realizzare in favore degli alunni perché le opportunità formative introdotte in questi anni costituiscono la vera novità delle ultime riforme”.
——————————————————————————– TuttoscuolaFOCUS lunedì 16 febbraio 2009 Incertezza e confusione connotano l’attuale momento della scuola e determinano una sorta di destabilizzazione anche nei suoi professionisti.
E’ il parere del Consiglio Nazionale dell’Associazione Italiana Maestri Cattolici, riunitosi a Roma nei giorni scorsi, che si è interrogato sullo “stato d’animo” della scuola in questo momento e sui segnali per il futuro.
Dove va la scuola? di Consiglio Nazionale AIMC ——————————————————————————– http://aimcsicilia.wordpress.com/ Dove va la scuola? Pronunciamento del Consiglio Nazionale Aimc Il CN dell’Associazione Italiana Maestri Cattolici, riunitosi in Roma nei giorni 7-8 febbraio u.
s., si è interrogato sullo “stato d’animo” della scuola in questo momento e sui segnali per il prossimo futuro.
Quanto emerso, viene qui organizzato intorno a tre nuclei, con una struttura comune: il senso del nucleo, la sua argomentazione anche attraverso esemplificazioni, la postazione associativa e il suo ruolo ora problematizzzante, ora propositivo.
Clima che si vive (il presente ossia il “dove” operiamo) Incertezza e confusione sono termini che connotano l’attuale momento della scuola e che determinano una sorta di destabilizzazione anche nei suoi professionisti.
Gli elementi/indicatori di maggior rilievo possono essere sinteticamente indicati nei seguenti: – immersione in un cambiamento senza fine, ben diverso da una positiva innovazione graduale e condivisa; – mancanza di standard nazionali di riferimento che assicurino un minimo di tenuta del sistema; – espansione e consolidamento della tendenza a considerare il criterio organizzativo dominante rispetto alle finalità della scuola; un esempio per tutti: il tempo scuola prestabilito che condiziona quello su cui centrare l’apprendimento invece di stabilire l’essenziale da apprendere e determinare poi, di conseguenza, il tempo occorrente per realizzarlo.
Ne derivano alcune conseguenze di non poco conto che vanno a consolidare un trend di questi ultimi anni poco promettente, che contribuisce alla delegittimazione del ruolo istituzionale della scuola e all’erosione, nell’opinione pubblica, del credito sociale dei professionisti di scuola.
Chiave di lettura (quali chiavi di lettura per interpretare gli eventi) Il CN ha individuato come chiave di lettura, al fine della comprensione e interpretazione di quanto segnalato, una sorta d’incapacità a “reggere” la complessità con conseguente ricorso a categorie e strategie di semplificazione e riduzione, per cui c’è da chiedersi se i punti di approdo siano realmente in grado di risolvere il problema.
Fra le tematiche emerse, che vanno a supportare tale affermazione: – la complessità della valutazione che viene affrontata attraverso la reintroduzione del voto con il rischio, magari non voluto ma possibile nei fatti, di perdere di vista il processo e mirare solo all’esito espresso in termini di prestazioni predefinite; – l’unitarietà dell’apprendimento, che rimanda all’unitarietà della persona e della cultura, che si presuppone venga garantita dall’unicità del docente, mentre nei fatti si realizza solo grazie a una progettazione coerente attenta alla personalizzazione e alla pluralità dei percorsi formativi di ciascuno, capace di muoversi nelle dinamiche proprie dell’elaborazione culturale e sociale dando essenziali coordinate di senso; – la ricchezza del modello pedagogico e didattico non riconducibile alla sola questione del tempo scuola, un’affermazione che trova conferma nell’idea di pensare di garantire il tempo pieno solo attraverso le 40 ore di tempo scuola; – l’autonomia delle istituzioni scolastiche che pare percepita come esito del semplice accostamento dell’autonomia dei singoli soggetti, più che come attenzione ai legami propri dell’interazione fra di loro e con la comunità sociale; – l’innovazione vista come esito finale di tanti e notevoli cambiamenti che non sono mai stati sistematicamente valutati, con la conseguente mancata capitalizzazione dei passi di avanzamento realizzati; – la compresenza assimilata al solo spreco di risorse e non colta come elemento di qualità, nell’assicurare la centralità dell’apprendimento.
È importante invece considerare cosa non si riuscirà più a realizzare in favore degli alunni perché le opportunità formative introdotte in questi anni costituiscono la vera novità delle ultime riforme.
Le conseguenze che ne derivano: – il prospettare una visione “velata”, quasi “virtuale” (staccata dalla realtà) della scuola, che perde la connotazione, per l’Aimc irrinunciabile, di comunità educativa; – l’esasperazione del localismo, che può anche essere di eccellenza (se misurato secondo il rispetto degli standard nazionali), ma che comunque rompe i legami di sistema.
Una visione di scuola OGM? (quale futuro per la scuola?) Si avverte da tempo l’esigenza di un quadro normativo di riferimento che superi l’approccio “a frammento” (presa in carico di singoli aspetti, non interrelati); assuma il nuovo rapporto Stato/Regioni/Enti e autonomie locali contestualizzando l’autonomia scolastica in termini educativo-formativi e istituzionali, non alienabili ad altri soggetti; ridisegni uno stato giuridico, ormai obsoleto, dei docenti.
Fra le proposte di legge in campo, la 953, firmataria l’on.
Aprea, sembra la sola a presentare un disegno organico di autogoverno della scuola e stato giuridico dei docenti.
Per decidere se la si può considerare strumento contenente potenziali-tà per valorizzare la scuola e i suoi professionisti, è opportuno esaminarla alla luce di una idea-guida che faccia da chiave di lettura: il diritto all’educazione di cui l’ alunno-persona è portatore, ossia il diritto a una scuola che assicuri a ciascuno il pieno sviluppo e educhi progressivamente a quella competenza di vita che fa sentire responsabili della comunità e del mondo in cui si vive.
In rapporto a questo diritto primario sono da considerare anche i diritti di cui sono portatori i professionisti di scuola.
Tutto ciò che è favorente in tal senso è da accettare (anche se costa impegno, fatica di “cambiare”, rischio di esporsi alla valutazione sociale) e tutto ciò che ostacola è da respingere (anche se più comodo, più gratificante, meno rischioso), pur assicurando il dovuto rispetto della normativa.
Esaminando la proposta di legge Aprea attraverso questa chiave di lettura, riscontriamo: – l’uso di una terminologia e la scelta di soluzioni che richiamano l’idea di una scuola centrata più sulla dimensione amministrativa che su quella comunitaria, con il rischio di limitare il senso di appartenenza e di cittadinanza della scuola e dei soggetti che la compongono.
Occorre una proposta che contemperi partecipazione della comunità territoriale nell’organo di governo della scuola, tutela della natura della scuola stessa, garanzia della legittimità degli atti; – l’accentuazione di una prospettiva economicistica che va ben al di là dell’esigenza del risparmio indotta dalla congiuntura del momento, che rischia di svuotare una visione pedagogico-educatica garante della natura propria del mandato costituzionale dell’istituzione scolastica; – lo schiacciamento della scuola primaria (che pure insieme a quella dell’infanzia è riconosciuta di eccellenza in campo internazionale) ad opera del modello della scuola secondaria, con una visione estremamente riduttiva della primarietà; quasi una scuola piccola per bambini piccoli, che hanno bisogno solo delle strumentalità del “leggere, scrivere e far di conto”.
Come arginarlo? È da coltivare anzitutto nella mentalità e nell’atteggiamento dei professionisti, perchè non si riconsegnino a questa logica apparentemente rassicurante, come avverrebbe ad esempio enfatizzando la proposta di articolazione del Collegio Docenti in dipartimenti disciplinari o sottovalutando il valore e la dignità della cultura di scuola.
Uno spazio percorribile è quello della riqualificazione del tirocinio nel corso di laurea in termini di autentico partenariato università-scuola e non semplicemente università-docente accogliente, riprendendo, aggiornandola, la ricca elaborazione associativa a suo tempo portata avanti in proposito.
L’Associazione intravede tre aspetti, in particolare, che preoccupano e necessitano di attenzione, in quanto segni del debole profilo che la professione assumerebbe se la proposta di legge andasse in porto così com’è e che rischia di render ancor meno allettante la scelta di dedicarsi all’insegnamento.
 Una linea di sviluppo della professione che, nonostante le dichiarazioni contrarie, si verrebbe a profilare comunque gerarchizzata, perché i tre “livelli” previsti non configurano solo una progressione economica, ma l’attribuzione di compiti e la possibilità di accesso a funzioni che, di fatto, pongono alcuni in posizione sovraordinata rispetto ad altri.
Non si vuole certo sostenere l’omogeneità professionale ed è giusto che chi lavora di più e meglio abbia di più; non sembra, però, promettente che la progressione verso il livello di “esperto” avvenga prevalentemente attraverso compiti e funzioni che allontanano dalla diretta relazione educativa.
Siamo coscienti di un contesto di mobilità professionale che comporta l’esigenza di confrontarsi con i criteri di sviluppo della professione applicati per lo meno in altri Paesi dell’Occidente europeo, ma l’uso stesso della terminologia proposta potrebbe ingenerare nelle famiglie interrogativi inquietanti: ogni bambino/ragazzo ha diritto alla qualità alta e intera dell’insegnamento, che si potrebbe leggere invece presente in “quote diverse” nell’insegnante iniziale e in quello esperto.
 Una evidente debolezza del Collegio dei Docenti riscontrabile nelle scarne righe dedicate alle sue potestà e funzioni, che sembrano privilegiare aspetti tecnico-funzionalistici nonostante a tale organo competa l’elaborazione del Pof.
In particolare, non è mai affermato che i processi decisionali riguardanti la scuola nel suo divenire devono essere collegiali.
Occorre mantenere la collegialità nell’intera linea decisionale, lasciando alle articolazioni (la cui composizione va affidata al regolamento di ciascuna scuola) compiti istruttori.
Il Collegio va potenziato senza renderlo, però, l’unico organismo “politico” e contemperando le sue potestà con l’esigenza di salvaguardare la partecipazione delle famiglie e della comunità.
Una proposta praticabile potrebbe essere il rendere vincolanti le linee di indirizzo del Consiglio che il Collegio deve assumere e tradurre nell’elaborazione del Pof, così che l’unico elemento per non adottarlo da parte del Consiglio stesso sia il mancato rispetto di tali linee.
 Un vuoto pesante: la mancanza di un momento/contesto/organismo di autotutela della professione che garantisca la possibilità di accesso alle procedure concorsuali previa “validazione” del possesso delle competenze che caratterizzano l’insegnante.
Chi può certificare che l’aspirante al concorso è un professionista? L’Organismo tecnico regionale, composto di rappresentanti della professione, potrebbe intervenire in sede di discussione e formulazione del giudizio con attribuzione del punteggio da parte della commissione di valutazione, per portare a compimento (sulla base di indicatori nazionali della “qualità” del lavoro d’aula) il processo sia di autovalutazione che di valutazione della comunità professionale locale.
Va tenuto presente che l’aspetto più problematico per una seria valutazione del docente è proprio quello relativo al lavoro d’aula, fatto anche di modalità comunicative e relazionali, clima collaborativo costruito, coinvolgimento dei soggetti in apprendimento… aspetti non direttamente rilevabili attraverso gli esiti di apprendimento degli alunni e per i quali occorre condividere necessari indicatori.
Relativamente alla formazione in servizio, si ritiene giunto il momento di chiedere con forza che essa, in qualsiasi momento della “carriera”, torni ad essere un dovere e non solo un diritto dei docenti e sia legata in percentuale consistente agli obiettivi che l’istituzione scolastica di appartenenza dichiara nel Piano dell’Offerta Formativa Infine, l’Aimc segnala una carenza registrabile in tutte le proposte in campo.
Non si fa mai riferimento a un organismo che possa dirimere eventuali conflitti.
Non vorremmo leggere questo come poca stima e attenzione ai processi decisionali che sono il cuore pulsante dell’autonomia.
Se ci crediamo, occorre pensare anche a chi e come possano essere gestite prevedibili conflittualità affinché la scuola non diventi campo di inutili diatribe da risolversi di caso in caso.
Il Consiglio Nazionale Aimc Roma, 8 febbraio 2009

D. Cravero, Prendi il largo

D.
Cravero Prendi il largo per la scuola secondaria di primo grado Il taglio dell’opera Il percorso proposto dal manuale si pone come principale scopo di scoprire il legame tra i dati esperienziali e l’insegnamento cristiano, di cui si mettono in luce l’attualità e la freschezza.
Scoprire la propria identità, vivere con intensità i momenti felici e quelli difficili, amare la vita che Dio ci ha donato, rispettarla, valorizzarla, scoprirne il significato per realizzare, attraverso l’insegnamento del Cristo, un modo più autentico di stare al mondo e per aprirsi in modo fecondo al futuro: questa è la proposta educativa rivolta dal manuale agli studenti nella difficile fase della preadolescenza.
Il progetto educativo Seguendo il percorso proposto dal libro si può comprendere e realizzare l’invito di Gesù a trovare il significato autentico e il valore delle esperienze, secondo un percorso che accompagna lo studente nella crescita, gli permette di realizzarsi autenticamente come persona, lo indirizza a sviluppare il proprio senso critico.
Un’opera che fornisce gli spunti per trovare una via verso la libertà e l’autenticità nelle relazioni, per essere propositivi e aperti, per rispondere alle esigenze individuali e sociali, per sviluppare la propria creatività, per diventare persone assertive, moralmente mature e affettivamente stabili, scoprendo che la nostra individualità va coltivata perché è una ricchezza e che quella altrui va accolta e rispettata perché aiuta a crescere.
Il percorso didattico Una proposta fresca e vivace, che, attraverso una didattica attiva e coinvolgente, incontra le attese dei preadolescenti e offre loro la possibilità di imparare a riflettere attraverso attività variate, giochi di ruolo, riflessioni esperienziali, cooperative learning.
Materiali per il docente Una presentazione dell’esperienza didattica che è all’origine del libro offre suggerimenti per un proficuo uso attivo del libro.
Suggerimenti di ulteriori attività completano l’offerta didattica.

Per raffigurare il Figlio di Dio

È suggestivo in questo senso un frammentario rilievo del IV secolo ai Musei Vaticani: rappresenta una barca in cui i rematori sono gli evangelisti [Joh]annes, Lucas, Marcus (Matheus doveva trovarsi nel pezzo mancante, a sinistra), mentre il timoniere è Iesus, il quale incoraggia tutti con un gesto della mano destra.
I volti degli evangelisti sono leggibili, quello di Gesù molto meno, causa l’abrasione avvenuta in epoca imprecisabile per motivi sconosciuti o per caso.
Questo rilievo paleocristiano – oltre alla funzione metaforica che vorrei attribuirgli – aiuta poi a riscoprire uno stile esegetico utile al presente discorso: attento ai dettagli ma convinto che questi vanno reinseriti nel contesto globale definito dal “timoniere” Cristo e non dai singoli testi, ognuno dei quali, come un rematore isolato, risulta inadeguato al progresso della nave.
Mentre il modo moderno di leggere i Vangeli distingue i contorni dei singoli testi, voglio dire, quello antico era più preoccupato di trovare i fils rouges lessicali e concettuali che permettevano di coglierne l’unicità del senso.
Lo sviluppo di “codici iconici” dell’interiorità nella raffigurazione di Gesù attraverso i secoli appartiene a questo stile.
Un altro principio ermeneutico da tener presente è che, almeno in passato, l’artista era chiamato a rispondere alle attese del suo pubblico e specificamente del committente dell’opera in oggetto.
Nella fattispecie, chi s’accingeva a raffigurare Cristo rispondeva alla domanda della Chiesa di visualizzare “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo” fino a quando Dio non le abbia “rivelate per mezzo dello Spirito” (1 Corinzi, 2, 9-10; cfr.
Isaia, 64, 3).
L’ambito della raffigurazione era cioè una novità di sguardo la cui chiave ermeneutica è la fede, “fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” (Ebrei, 11, 1).
Una piccola placchetta votiva del iii-iv secolo (conservata pure questa ai Musei Vaticani) aiuta a immaginare questo modo di vedere: è una sottile lamina d’oro con due occhi spalancati e – frammezzo – la croce.
Questo “sguardo nuovo” prepara i cristiani a guardare al mondo attraverso il mistero pasquale, in cui diventa palese che tutte le cose – spirituali ma anche materiali – “sussistono in lui”, Cristo, che le “riconcilia” e le “rappacifica” “con il sangue della sua croce” (cfr.
Colossesi, 1, 17-20).
I puntini che animano la forma di croce nella placchetta vaticanense alludono all’uso del periodo di tempestare la superficie di croci liturgiche con pietre preziose in segno della gloria sfociata dall’umiliazione del Golgotha: una magnifica croce gemmata delle stesse collezioni vaticanensi illustra il concetto.
Tale modo misterico di vedere le cose risale agli inizi della cultura cristiana.
Una straordinaria descrizione è fornita da Giustino Martire, che già nel ii secolo aveva riconosciuto la croce come struttura nascosta di ogni realtà terrestre: della nave che solca il mare grazie alla vela sostenuta dalla varea, la parte più alta del pennone, cruciforme; dell’aratro dell’agricoltore similmente configurato, come degli attrezzi di artigiani ed artisti.
Secondo Giustino Martire perfino “la figura dell’uomo si distingue da quelle degli animali precisamente in questo: che l’uomo sta in piedi e può allargare le braccia, e ha sul viso, scendente dalla sua fronte, il naso attraverso il quale passa il respiro della creatura vivente: e questo mostra esattamente la forma della croce”.
Se però agli occhi della fede il segno distintivo di ogni cosa creata e perfino dell’uomo è la croce, “logica” nascosta di ogni realtà umana, quanto più non sarà leggibile questa forma in Cristo, Logos divino per cui tutto l’esistente è stato fatto! Un mosaico del v secolo, nella serie di episodi della Vita Christi in Sant’Apollinare nuovo a Ravenna, esplicita questo assunto: narrando La moltiplicazione dei pani e pesci l’anonimo maestro dà a Gesù la posa che egli assumerà su Golgotha, intuendo che ogni racconto di un pasto nel Nuovo Testamento prepara a comprendere il pasto decisivo in cui, la notte prima di morire, Gesù offrì il proprio corpo e sangue nei segni del pane e del vino per soddisfare la fame spirituale di quanti l’avrebbero seguito, dando poi concretamente il corpo e sangue il giorno dopo sulla croce.
Innovativa in quest’opera è la “ipostatica unione” del segno con la persona reale.
Laddove un artista d’epoca classica avrebbe rispettato il limite narrativo dell’evento, il maestro paleocristiano inverte le coordinate, lasciando intendere che in Cristo ogni limite narrativo è superato.
Non solo il miracolo compiuto durante il ministero pubblico viene letto alla luce della successiva crocifissione, ma questa poi viene interpretata alla luce dell’ancor successiva ascensione: qui infatti il Cristo cruciforme veste la porpora imperiale, un modo adoperato all’epoca per evocare la sua gloria finale.
Ecco un primo “codice iconico dell’interiorità” di Cristo: il mistero pasquale che traspare in tutta la sua persona.
Una sottolineatura del codice riguarda poi il rapporto dell’uomo cruciforme con le parole che, attraverso i secoli, hanno espresso la fede e l’attesa, il dolore, la speranza e la gioia di quanti desideravano la salvezza.
Eloquente in questo senso è la prima delle “illustrazioni” di un’antologia poetica composta dal monaco Rabano Mauro nel primo ix secolo e dedicata al figlio di Carlomagno, l’imperatore Lodovico il Pio: De laudibus sanctae crucis.
L’immagine fa vedere il corpo di Gesù crocifisso sovrapporsi alle parole di un testo, o meglio, il corpo che sembra plasmarsi da esse, come se contemplassimo l’atto stesso dell’Incarnazione, il Verbo mentre diventa carne umana.
Del resto non si tratta del casuale abbinamento di un’immagine a delle parole, ma di un carmen figuratum in cui il posizionamento di ogni lettera di ogni frase nel campo visivo è calcolato di sorta che alcune delle lettere – quelle evidenziate dal disegno sovrapposto – formino parole e frasi che spieghino il disegno; intorno al volto, per esempio, leggiamo Iste est rex gloriae.
In un carmen figuratum, senza le parole che la costituiscono l’immagine non ha pieno senso, né le parole senza l’immagine che dà loro specificità – che cioè le “incarna”! La stessa mistica sintesi condizionerà l’iconografia cristiana fino al Quattrocento, ma dal xii-xiii secolo in avanti avvertiamo anche un’attenzione biografica.
Il disegno dell’inglese Matthew Paris, monaco benedettino e scrittore, autore della Chronica maiora con preziose informazioni intorno all’Inghilterra e l’Europa tra il 1235-1259, illustra questa tendenza.
Accanto al Signore risorto e glorioso lo stesso foglio fa vedere il momento storico precedente – il volto agonizzante di Cristo in croce – come per insistere che quanto contempleremo un giorno nel Risorto includerà il suo ricordo personale della passio; questi due volti sono poi introdotti da un altro momento storico, perché nella parte alta del medesimo foglio l’artista fa vedere Gesù bambino che incrocia lo sguardo di Maria.
Leggendo dall’alto verso il basso, i tre volti di Cristo obbligano a collegare la gloria alla precedente sofferenza e questa poi all’amore imparato tra le braccia della madre! Guardando ai tre volti capiamo che Colui che nacque era pronto a morire, come afferma la lettera agli Ebrei; che poi morendo con accanto sua madre si ricordò della propria infanzia; e che nell’ascensione al cielo portò con sé l’una e l’altra esperienza.
Ecco dunque un nuovo codice iconico: la compresenza nell’unica persona di Cristo, vero uomo e vero Dio, di esperienze sia storiche che eterne.
Questi due codici – la leggibilità del mistero pasquale col volto come cifra delle Scritture, e la storia umana e divina compresenti in Cristo – confluiranno alla fine del Medioevo in un unico linguaggio la cui sintassi e grammatica vengono definite nello stile caratterizzato come proto-rinascimentale.
Esempio eccelso è il bel Cristo benedicente di Raleigh, North Carolina, databile al secondo decennio del Trecento, quasi certamente un autografo di Giotto.
Il dipinto parla l’idioma corporeo sviluppato dall’artista fiorentino, con un calore negli incarnati e una morbidezza nel modellato lontani dalle tinte gemmate e le forme appiattite della coeva arte bizantina.
Il senso teologico di queste novità è suggerito poi dalla giustapposizione del libro chiuso nella sinistra del Salvatore con la sua destra aperta in benedizione, quasi un’illustrazione dell’affermazione neotestamentaria secondo cui “Dio che aveva già parlato molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio…
che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (Ebrei, 1, 1-3).
“Irradiazione” e “impronta” sono termini visivi evocanti illuminazione e tridimensionalità, e ben descrivono questo straordinario Cristo benedicente.
Nella mezza-figura dipinta da Giotto, la nuova corporeità umana coesiste con attributi divini codificati dalla tradizione: lo sguardo fisso, la posa regalmente ieratica e le vesti dai colori simboleggianti le due nature del Salvatore: rosso per la terra degli uomini e il blu del cielo di Dio.
L’effetto globale è di una corporeità capax Dei, capace della dignità divina.
La simmetria dei tratti poi, insieme alla carnagione pulsante di salute e le labbra tenere e ben formate fanno di questo Cristo davvero “il più bello tra i figli dell’uomo” (Salmi, 45[44], 3), il Diletto “bianco e vermiglio, riconoscibile fra mille e mille” (Cantico dei cantici, 5, 10), lo Sposo a cui la Chiesa dice “Vieni!” (Apocalisse, 22, 17).
Si tratta cioè di una corporeità attraente, anzi fisicamente affascinante, e pure questa dimensione umana coesiste con la dignità divina.
Un ultimo particolare qualifica questa icona di divinità umanata: la ferita al centro della mano destra, segno che il Verbo fattosi carne non fu riconosciuto dal mondo e che quando “venne fra la sua gente…
i suoi non l’hanno accolto” (Giovanni, 1, 10-11).
Il sangue nel palmo aperto ci rammenta che il Credo cristiano, subito dopo l’asserto et incarnatus est de Virgine Maria et homo factus est, aggiunge: crucifixus etiam pro nobis sub Pontio Pilato; ricorda soprattutto che le parole di Gesù sul pane e vino, “questo è il mio corpo, questo è il calice del mio sangue”, furono pronunciate in vista dell’offerta sacrificale del suo corpo e sangue sulla croce.
La tavola di Giotto infatti è parte di una pala d’altare, e il Cristo benedicente era originalmente collocato sulla mensa eucaristica al punto dove il sacerdote consacrava il pane e vino che, transustanziati, diventavano corpo e sangue di Cristo, sebbene inalterati nell’aspetto visivo.
La plasticità del Cristo dipinto da Giotto coincideva cioè con la sua “reale presenza” sacramentale, in uno scambio di visio e fides simile a quello enunciato dal Salvatore quando l’apostolo Tommaso verificò la realtà corporea della sua risurrezione toccando con mano le piaghe.
(©L’Osservatore Romano – 16-17 febbraio 2009  Con una frase tratta dall’Antico Testamento, la liturgia della Chiesa caratterizza il Figlio di Dio come “il più bello tra i figli dell’uomo” (Salmi, 45[44], 3) mentre un testo paolino invita a riconoscere in lui addirittura “l’immagine del Dio invisibile” (Colossesi, 1, 15); all’apostolo che gli chiede di vedere l’Altissimo Cristo stesso risponderà: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Giovanni, 14, 9).
Ma del concreto aspetto fisico del Salvatore il nuovo Testamento non dice una parola, né esistono coevi ritratti, così che ogni riflessione sul suo “volto” prende le mosse da basi testuali non specifiche: dai Vangeli che lo rivelano come persona interiore ma che non lo descrivono esteriormente.
)

Pensiero estetico e teologia cristiana

“Il corpo del Logos.
Pensiero estetico e teologia cristiana” è il titolo del convegno che si svolge il 17 e il 18 febbraio a Milano presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale.
Anticipiamo stralci dell’intervento introduttivo e di una delle relazioni.
Due giorni interi dedicati a riflettere su una nuova alleanza tra arte e fede, anzi tra estetica e teologia.
E non solo a riflettere; ma si potrà anche vedere e sperimentare, perché il convegno gioca consapevolmente su molti registri: il pensiero filosofico, la riflessione teologica; la cristologia dei volti, l’arte contemporanea; l’estetizzazione della vita sociale, la forma della chiesa nella città postmoderna, la bellezza della ritualità cristiana.
Lo spazio dei chiostri sarà anche occupato da una mostra di istallazioni del Sacro dello scultore Tarshito – a partire da mercoledì 17 febbraio – fino al gran finale previsto per il pomeriggio del 18 e consistente in un concerto di Olivier Messiaen, Quatuor pour la fin du temps, eseguito dall’Oikos Ensemble.
Il tema potrà sorprendere qualcuno.
In realtà è noto che la Scuola di Teologia di Milano, sotto la regia appassionata di monsignor Pierangelo Sequeri, si è già segnalata nel panorama italiano per una ripresa forte della dimensione estetica nel pensiero teologico.
E ha generato una lunga fila di discepoli non solo dedita a scandagliare i sentieri inesplorati dell’affectus fidei – cioè del momento sensibile del sapere della fede – ma che ha riletto autori spirituali e pensatori della modernità, che la teologia disdegnava di frequentare.
Attivando anche una collaborazione stretta con la vicina Accademia di Brera in un decennio di interazioni con il dipartimento di Arte e antropologia del sacro.
L’appuntamento, così, arriva forte di una lunga esperienza.
Ci si attende da esso il rilancio di una “nuova alleanza”.
In Italia l’alleanza arte e fede non solo ha dato origine al 60 per cento del patrimonio artistico dell’umanità, ma ha iscritto nell’architettura, nella pittura, nella musica, nella letteratura, nonché nell’immaginario, nel gusto, nello stile – e, più in generale, nella cultura – l’esperienza che la poiesis è una forma di abitare il mondo e di entrare nel mistero della vita.
Per questo arte e fede si tengono per mano.
Non solo per quanto riguarda i prodotti dell’arte e le forme della fede.
Il pensiero riflesso e la teologia cristiana sanno che occorre ripercorrere i temi della fenomenologia, dell’ontologia, della metafisica, della spiritualità, dentro un orizzonte dove è direttamente coinvolta la problematica dell’estetico.
Dalla dottrina trinitaria di Dio all’incarnazione del Lògos, dalla dottrina sacramentaria alla risurrezione dei corpi, dalla forma di chiesa al modo di abitare lo spazio della vita sociale, la riflessione mette in luce un nesso fra il sensibile, lo spirituale, il metafisico, largamente oltre la questione dei modi di relazione fra “arte” e “sacro”.
La via pulchritudinis al cristianesimo non ha solo il significato debole, e tutto sommato ingenuo, di una correzione all’enfasi posta sull’ortodossia o alla cattiva fama della morale.
Se è così la “bellezza” della fede appare come un orpello ornamentale.
“Il bello è lo splendore del vero e del bene” (veritatis splendor), che fa accogliere con amore, e quindi in piena libertà, il vero e il bene.
Esso attraversa tutti i linguaggi: poesia, musica, pittura, architettura, forme dell’abitare, costruzione della città, ma – e questa è la sfida del pensiero – esso è la forma tipicamente umana della percezione e della dedizione alla verità del mondo e della vita.
Dunque, anche della rivelazione di Dio.
La teologia cristiana sa che il Lògos di Dio si dà a vedere, anzi si dona all’uomo nei mysteria carnis di Gesù.
Il corpo del Lògos non è un’occasione per l’apparizione di Dio, ma è l’immagine visibile del Dio inaccessibile.
Dottrina della percezione e teologia del rapimento sono al centro della teologia cristiana, come dice in modo splendido il prefazio di Natale, che Hans Urs von Balthasar ha disegnato come architrave della sua estetica teologica: “Mentre conosciamo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle realtà invisibili”.
Questa è la via maestra della teologia cristiana perché ne abita il roveto ardente: “Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente una nuova luce del tuo splendore”.
Lux tuae claritatis infulsit: questa luce abbagliante non è solo per vedere, ma anche da pensare.
Sì, perché il pensiero non ha paura della luce che risplende nel corpo del Lògos.
Il convegno si apre nella mattinata di martedì 17 febbraio con il saluto del preside della Facoltà e le prime due relazioni affidate a Pierangelo Sequeri, su “La possibilità radicale dell’estetica teologica: c’è posto, nel cielo di Dio, per corpi e affetti sensibili?”, e a Massimo Cacciari, su “L’azzardo dell’estetica fra idealismo e nichilismo”.
Seguiranno nel pomeriggio la relazione di Timothy Verdon “Primi piani del Figlio di Dio: codici iconici dell’interiorità nel Volto di Gesù”, e di Andrea Del Guericio su “Il sistema contemporaneo dell’arte: nuovi intrecci fra soggettività e tradizione”.
Nella seconda giornata sono previste due relazioni al mattino, quella di Pietro Barcellona – “Estetizzazione della vita e della politica: effetto o causa della decostruzione etico-religiosa?” – e quella di Severino Dianich – “Immagine di Chiesa: la percezione della forma ecclesiae nello spazio della città post-moderna”.
Al pomeriggio l’ultima relazione prevista sarà tenuta dal monaco benedettino Jordi-Augustí Piqué Collado – “L’universo estetico del sacramento: formatività e performatività dell’evento rituale cristiano”.
di Franco Giulio Brambilla Vescovo ausiliare di Milano e preside della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (©L’Osservatore Romano – 16-17 febbraio 2009)

Classe prima – Febbraio

1) Nei panni di Geremia La sua azione, il suo tempo Ai tempi di questo grande profeta, il popolo ebraico subiva ancora le conseguenze della conquista del Regno settentrionale di Israele da parte degli Assiri (722 a.C.), un evento che l’aveva reso loro provincia; al Regno meridionale di Giuda, con capitale Gerusalemme, era stato poi imposto il pagamento di pesanti tributi.
Dipendenza politica e religiosa spesso coincidevano, con il predominio delle divinità del popolo dominante; gli Ebrei vissero un secolo oscuro, caratterizzato da una vasta penetrazione di divinità mesopotamiche.
Intorno al 630 a.C., mentre l’impero assiro andava decadendo, il ventunenne re ebreo Giosia, del Regno di Giuda, avviò una riforma religiosa, abolendo i culti stranieri; contemporaneamente, l’altrettanto giovane Geremia iniziò la sua missione profetica.
Giosia fu un grande re, mosso dalla fede, desideroso di guidare il popolo, e sembrò rendere possibile la riunificazione dei due Regni.
Geremia era figlio del sacerdote di Anatot Chelkia e operò soprattutto nel Regno d’Israele, a Nord, tra coloro che gli Assiri non avevano deportato, “le pecore sperdute della casa d’Israele”, prevedendo anche un ritorno dei fratelli deportati.
Egli si nutrì di una religiosità fondata sui ricordi dell’Esodo e su una continua riflessione sull’Alleanza tra Dio e il Suo popolo.
Purtroppo, il saggio re Giosia morì combattendo contro il faraone d’ Egitto Necao, intenzionato a sottomettere la Mesopotamia approfittando della debolezza assira…
Nel periodo del dominio egizio sui territori Siro-palestinesi, Joakin figlio di Giosia divenne re-vassallo dell’Egitto, troppo debole per contrastare il ritorno di culti stranieri.
Geremia, in questa pericolosa situazione religiosa, profetizzò a Gerusalemme chiedendo, in nome di Dio, il ritorno a Lui, nello spirito della riforma di Giosia, preannunciando anche una grande catastrofe in caso contrario.
Essa sarebbe stata rappresentata da una nuova grande potenza: Babilonia.
Il famoso re Nabucodonosor espugnò Gerusalemme nel 598 a.C.
e organizzò una prima deportazione in Babilonia di moltissimi Ebrei.
Geremia esortò ad accettare la sottomissione ai Babilonesi, strumenti di un “salutare” castigo divino causato dall’infedeltà del popolo, una prova necessaria per riscoprire attraverso il dolore di senso dell’esistenza.
Unità di Lavoro biblica, per l’approfondimento e l’attualizzazione Seconda parte OSA di riferimento  Conoscenze – Il libro della Bibbia, documento storico-culturale e Parola di Dio.   Abilità – Saper ricostruire le tappe della storia di Israele.
– Individuare il messaggio centrale di alcuni testi biblici, utilizzando informazioni storico-letterarie e seguendo metodi diversi di lettura.
Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e saper descrivere il ruolo del profetismo biblico.
– Individuare i messaggi fondamentali dei brani dell’Antico Testamento presentati.
– Saper individuare figure profetiche del nostro tempo, descrivendone le caratteristiche utili per un autentico rinnovamento sociale.  Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale  – Sviluppo di un reale interesse inerente percorsi di riflessione sulla “verità” e sulla distinzione tra bene e male.
– Capacità di prendere in considerazione il progetto di vita cristiano come ipotesi di interpretazione della realtà sociale e individuale, sulla base di fondamentali conoscenze bibliche e dottrinali.  1) Nei panni di Geremia Il suo libro Il libro del profeta Geremia riporta i tre grandi periodi della sua attività: – sotto il buon re Giosia, i messaggi di consolazione ai superstiti del regno d’Israele (627-609 a.C.); – sotto l’iniquo re Joakin, l’appello alla conversione di Gerusalemme, nuovamente infedele nei confronti di Dio, e il fallimento delle sue esortazioni, che rende inevitabile la sventura (609-598 a.C.); – sotto il debole re Sedecia, l’appello alla sottomissione ai Babilonesi, strumenti di un giusto castigo divino e l’annuncio della possibilità di un nuovo futuro.
Baruc lo scriba, amico e “segretario” del profeta, scrisse per lui i suoi detti, narrando anche episodi dettagliati della sua vita: la storia stessa di Geremia divenne messaggio di Dio, oltre alle sue parole.
In seguito, altri scribi appartenenti a una scuola importante, teologicamente e letterariamente dipendenti dal Deuteronomio, rielaborarono le parole del profeta durante l’esilio.
1) Nei panni di Geremia “Io, Geremia…” Per me ci fu la Parola, la Parola soltanto.
Essa fu la mia vita, il mio cibo…
e il mio tormento.
Per Lei sono stato schernito, odiato, percosso…
e verrò condannato.
Il mio Signore mi ha scelto, consacrato per portare al Suo popolo la verità sul suo destino, sui suoi errori, sulla necessità di percorrere nuove vie…
il Suo amore paterno mi ha attraversato cuore e mente come il fuoco, un amore talvolta così tenero nel farmi sentire necessario e talvolta severo, più duro della roccia nel chiedermi di dare tutto a Lui e al popolo, senza trattenere per me né un istante del mio tempo né il desiderio di trovare pace e conforto.
Io, un “nahar”, un ragazzino inesperto e pieno di sogni non potevo che obbedire…
tremando.
Chi mi avrebbe dato retta quando avessi parlato in nome Suo? Il fuoco della Verità scalda, illumina, fa scorrere nelle vene un’ardente gioia di vivere perché è meraviglioso sapere con certezza cosa conti realmente in ogni esistenza…
ma la Verità provoca anche dolore: perché venga riconosciuta occorre lottare.
Amore e dolore hanno riempito la mia vita, una vita così piena e intensa che, comunque, rivivrei nello stesso modo.
«Prima che ti formassi nel grembo materno Io ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato…».
Il Signore mi parlò così interiormente e mi sconvolse con la Sua tenerezza.
Ero stato sognato da Lui, la mia esistenza aveva un grande significato…
Fu facile, allora, accettare con gioia immensa di fare da tramite tra Lui e il popolo sbandato, immemore di Mosé, del Decalogo, della Sua protezione costante, perso dietro agli idoli…
Certo, con qualche sacrificio sugli altari gli dei mesopotamici diventano benevoli…
e, nel loro infinito gelido silenzio, non chiedono di distinguere tra bene e male, di rinnovare i rapporti dopo aver cambiato il cuore, di fare sacrifici perché il bene scoperto trionfi…
Essi non chiedono nulla perché sono il Nulla, io per il Signore dovetti rinunciare ai miei idoli personali, al bisogno di essere approvato e stimato: facendo spazio alla Parola, scaricavo tutta la pesante zavorra dell’egoismo.
“Il Signore stese la mano e mi toccò la bocca”…
Diventai la Sua bocca e iniziò un viaggio nel buio.
E tu, Baruc, amico mio…
hai voluto metterti in viaggio con me, non hai mai esitato.
«La Mia Parola non è forse come il fuoco e come un martello che spacca la roccia?» (Ger 23,29) Dovetti consolare le genti sbandate di Israele, e provai una grande compassione per la povertà della loro anima, rassegnata alla sola ricerca di cibo e sicurezza.
Erano come figli ingrati, come mogli traditrici del vincolo matrimoniale…
stentavano a comprendermi, ma non disperavo: ero giovane, entusiasta, la forza di Dio era con me…
li amai come me stesso, anzi di più.
Potevo essere portavoce del Signore soltanto vedendo i Suoi figli – tutti – con i Suoi occhi: diedi tutto con un pizzico di umana incoscienza, i miei anni, le mie poche qualità.
Non conservai alcun distacco, vissi per il loro bene, per riportarli da nostro Padre.
Non misurai la fatica, avevo tante energie! Speravo nella riforma di Giosia.
Alcuni Israeliti – o molti – mi ascoltarono e piansero di rimorso; mi accadde allora di danzare di gioia, da solo, sotto le stelle del Signore in sere limpide e fresche.
Poi tutto divenne più difficile, fino all’insostenibile.
Quando il buon re morì – il Signore lo accolga – capii di dover combattere per Lui con la mia voce, a Gerusalemme; non trovai più traccia della coraggiosa riforma del sovrano.
Fu terribile: sentivo tutto l’amore del Signore esplodere in me; era amore per coloro che avvicinavo per le vie della città; erano indifferenti e sprezzanti e io cercavo invano un’anima fedele.
Mi sentivo terribilmente solo, ma il peggio doveva ancora arrivare.
Dovetti avvisarli, questi fratelli perduti, delle intenzioni del Signore: rieducarli attraverso la prova.
Solo una catastrofe li avrebbe costretti a riscoprire ciò che realmente conta, a compiere ciascuno un cammino interiore, insieme un cammino per riscoprirsi popolo unito nel Suo nome, l’unico portatore di salvezza.
Più della povera gente, spesso inconsapevole di una verità da tempo trascurata, erano responsabili del tradimento dell’Alleanza le guide, i sacerdoti incapaci o corrotti.
In Giuda non si seguivano altri dei, ma non si seguiva neppure il Signore se non in modo esteriore e ipocrita, senza alcun impegno di vita.
Il mio annuncio di sventura mi attirò addosso un’inaudita ostilità.
Nelle notti insonni, pensavo a tutti quelli che sarebbero stati ridotti in schiavitù, trucidati…
mi parve per colpa mia, per la mia incapacità di persuasione.
Capii in seguito come fosse in gioco una libera scelta di ciascuno per il bene, che non dipendeva da me.
Anche i miei parenti mi hanno voltato le spalle.
Non ne posso più! In passato le autorità mi hanno fatto flagellare: è un dolore fisico quasi insostenibile, ma non come quello dell’abbandono da parte di tutti, del fraintendimento in cattiva fede.
Sento in me il dolore di Dio stesso, Padre abbandonato.
Darei la vita per ciascuno di loro, anzi, l’ho già data e loro oggi mi condanneranno a morte.
Mi odiano, e io non posso smettere di amarli: se potessi subire il castigo che verrà al posto loro, non esiterei.
Mi pare di soffocare…
è troppo.
Non sono più giovane.
Mi uccidano alla svelta: sarò libero da loro, anche dall’incarico del Signore…
Baruc ha conservato per scritto, con pietà profonda, le mie preghiere al Signore, il diario del mio rapporto con Lui talvolta burrascoso (Confessioni: Ger 11-12; 15, 17-18, 20).
Talvolta mi sono ribellato, stufo di accettare senza capire: perché in terra il malvagio senza Dio trionfa sempre, mentre l’innocente viene calpestato? Il Signore promette giustizia, salvezza: ma quando? I Suoi tempi sono troppo, troppo lunghi.
Sì, sono andato in crisi, ho tentato persino di allontanarmi da Lui, sono arrivato a maledire il giorno della mia nascita.
Niente da fare: il Signore non mi ha lasciato andare, mi ha sorretto, mi ha fatto capire che io devo seminare, ma che sarà Lui a curare il raccolto…
che i Suoi tempi non sono i miei, che il dolore è un potente fertilizzante…
non posso che fidarmi del Signore: intravedo qualcosa dei Suoi progetti, so che le mie parole serviranno, un giorno, al mio, al Suo amato popolo…
ho donato la mia vita: solo così la ritroverò.
La mia fede rimarrà salda fino alla fine.
Tutto si compirà, in un tempo lontano, con il “germoglio giusto” della casa di Davide che nascerà.
1) Nei panni di Geremia Un drammatico tramonto Nel capitolo 26 del libro di Geremia, si narra del processo che dovette subire: i sacerdoti e tutte le autorità religiose di Gerusalemme ritennero che meritasse la morte per aver predetto la distruzione del Tempio; precedentemente era già stato arrestato e flagellato…
Anche da parte delle autorità politiche giunsero le persecuzioni: i ministri del debole re Sedecia lo accusarono di tradimento, di collaborazionismo con i Babilonesi, e indussero il sovrano a condannarlo a morte abbandonandolo sul fondo di una cisterna.
Venne salvato da uno straniero che, impietosito, persuase il re a risparmiarlo.
Dopo la presa babilonese di Gerusalemme, il profeta non seguì i deportati in Babilonia, dove probabilmente avrebbe ricevuto un buon trattamento; rimase tra i poveri, gli sbandati, coloro che non valeva neppure la pena di deportare.
In seguito, fu condotto prigioniero in Egitto, con lo scriba Baruc, fedele amico e segretario, da un gruppo di Ebrei sbandati…
fu come ritornare schiavi, prima della nascita di Mosé; secondo un’antica tradizione, durante questo esilio sconsolato il profeta morì martire per mano dei suoi stessi connazionali.
Quarta fase dell’attività L’insegnante propone agli allievi le seguenti domande a cui rispondere per scritto, concludendo con un confronto di opinioni: – quali messaggi, in Geremia, ti sembrano utili per l’uomo di oggi? E per un giovane alla ricerca della propria strada? – il dolore e la fatica, in Geremia, hanno degli aspetti positivi? Quali? Che cosa ne pensi? – nel “diario di Geremia”, quali comportamenti da lui descritti – soprattutto riguardanti il suo modo di amare – o affermazioni sembrano aprire la via al Cristianesimo? – quando si è soli contro tutti come il profeta e certi di essere dalla parte della verità affrontando questioni importanti, è giusto perseverare? In quali modi? Facciamo degli esempi.
Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida Terza fase dell’attività L’insegnante invita gli allievi a “viaggiare nel tempo” tramite i testi-guida, fino a…
mettersi nei panni di uno dei grandi profeti, Geremia: un uomo grande, ma con le sue fragilità, con un mondo interiore complesso e tormentato; in qualche modo vicino a ogni giovane in cerca della propria strada.

Corsi di Iconografia bizantina

Calendario Corsi Iconografia 2009 L’Arte di scrivere la Parola Vedere Dio è la speranza di ogni credente.
L’icona è il viatico di questa visione.
Nei corsi del Forum Europeo di Iconografia Cristiana imparare a scrivere un’icona non è soltanto un “fare”, ma anzitutto un inoltrarsi nella fede.
Pochi giorni bastano appena per scoprire il mistero della tecnica, dell’estetica e della teologia delle icone, ma possono disvelare l’epifania del volto dell’Assoluto.
A conclusione dell’Anno Paolino CORSO DI ICONOGRAFIA PAOLINA Formula week-end Tutti i 5 week-end di maggio 2009 Villa Clerici – Milano CORSO DI ICONOGRAFIA PAOLINA Formula residenziale (10 giorni) 20-29 giugno 2009 Monastero Benedettine – Pontasserchio (Pisa) CORSO DI ICONOGRAFIA BIZANTINA per allievi avanzati L’ANNUNCIAZIONE 14-23 luglio 2009 Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) CORSO DI ICONOGRAFIA MARIANA 06-15 agosto 2009 Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) CORSI MONOGRAFICI DI PERFEZIONAMENTO per allievi avanzati IL DISEGNO E LA GRAFIA 03-04 ottobre 2009 Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) LE LUMEGGIATURE 23-25 ottobre 2009 Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) LA DORATURA A MISSIONE 07-08 novembre 2009 Villa Clerici – Milano I COLORI NATURALI 28-29 novembre 2009 Villa Clerici – Milano IL VOLTO 27-30 dicembre 2009 Villa Chaminade Pallanza (Verbania) CORSO DI ICONOGRAFIA BASE 25 agosto – 3 settembre 2009 Santuario di Sant’Ignazio Pessinetto (Torino) CORSO DI ICONOGRAFIA BIZANTINA SCRIVERE GLI ANGELI 10-19 settembre 2009 Oasi San Francesco – La Verna (Arezzo) Per chi vuole essere assistito ad personam durante la realizzazione di una propria icona CORSO “OPEN” PER GLI ALLIEVI ICONOGRAFI Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) 03-05 aprile 2009 Per info e prenotazioni clicca qui       Corsi Residenziali Monografici Week End        

La remissione della scomunica.

Giovanni paolo II, Congr.
per i vescovi, Pont.
cons.
per i testi legislativi di B.
card.
Gantin, Giovanni Paolo II, J.
Herranz, M.
Maccarelli Regno-doc.
n.3, 2009, p.77 All’indomani della remissione della scomunica ai vescovi lefebvriani, l’opinione pubblica ecclesiale ha iniziato a interrogarsi sulla nuova situazione canonica e pastorale degli aderenti alla Fraternità San Pio X: su quali atti cioè siano ancora necessari perché essi possano dirsi in piena comunione con la Chiesa di Roma.
Come contributo alla riflessione, riproponiamo nell’allegato i principali atti ufficiali con cui la Santa Sede aveva definito, per tutto il periodo di durata della scomunica, tale situazione: il decreto di scomunica, il motu proprio Ecclesia Dei una risposta della Congregazione per i vescovi ad alcuni quesiti del vescovo svizzero N.
Brunner e una nota che il Pontificio consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi ha redatto su richiesta della stessa Congregazione per i vescovi.
Ne emergono: la scomunica per chi aderiva formalmente a quel «movimento scismatico», l’acefalia dei chierici ordinati da Lefebvre prima del 1988, l’illiceità della partecipazione alle loro celebrazioni.
Vedi nell’allegato Regno-doc.
15,1988,477ss Regno-doc.
17,1997,528ss.
Benedetto XVI, Santa Sede, Fraternità San Pio X, vescovi di Benedetto XVI, G.
Re, B.
Fellay, J.
Ricard, vescovi francesi, tedeschi, svizzeri Regno-doc.
n.3, 2009, p.69 La remissione della scomunica ai quattro vescovi della Fraternità sacerdotale di San Pio X ricompone l’unità cattolica con il movimento lefebvriano e avvia il processo di comunione piena.
Il papa, Benedetto XVI, ha commentato la decisione così: «Auspico che a questo mio gesto faccia seguito il sollecito impegno da parte loro di compiere gli ulteriori passi necessari per realizzare la piena comunione con la Chiesa…».
Nella risposta di mons.
Bernard Fellay si afferma che «la Tradizione cattolica non è più scomunicata» e si confermano «le riserve a proposito del Vaticano II».
Riserve che i vescovi svizzeri, tedeschi e francesi rifiutano: «In nessun caso il concilio Vaticano II sarà negoziabile».
Come precisa una nota della Segreteria di stato: per un futuro riconoscimento della Fraternità «è condizione indispensabile il pieno riconoscimento del concilio Vaticano II» (n.
2).
 Nell’allegato i testi relativi alle posizioni negazioniste del vescovo lefebvriano R.
Williamson (pp.
72-73).

Il teologo protestante Reinhold Niebuhr maestro di Obama

Se il realismo di Niebuhr arriva alla Casa Bianca di Gianni Dessì In un colloquio di qualche tempo fa con David Brooks, uno dei più noti tra i commentatori politici conservatori del “New York Times”, il neoeletto presidente Obama ha ricordato Reinhold Niebuhr come uno dei suoi autori preferiti (1).
Niebuhr, figura poco nota in Italia, è stato un teologo protestante, insegnante di etica sociale alla Columbia University di New York, che ha avuto una grande influenza sulla cultura politica nordamericana almeno a partire dal 1932, anno nel quale pubblicò “Uomo morale e società immorale”, sino al 1971, anno della sua morte.
Al suo realismo politico si sono riferiti intellettuali e politici, conservatori e liberali.
Hans Morgenthau e George Kennan, i più noti tra i liberali conservatori che nell’immediato dopoguerra elaborarono quell’insieme di motivazioni che avrebbero costituito il riferimento intellettuale di molti americani negli anni della guerra fredda, della contrapposizione al blocco sovietico, si riferirono esplicitamente a Niebuhr e al suo realismo politico (2).
D’altra parte anche Martin Luther King, certamente non un conservatore, fu particolarmente sensibile alle critiche di Niebuhr all’ottimismo della cultura liberale e all’idea che la giustizia potesse essere realizzata attraverso esortazioni morali: egli riconobbe che doveva a Niebuhr la consapevolezza della profondità e della persistenza del male nella vita umana (3).
Obama, intervistato da Brooks, affermava di dovere a Niebuhr “l’idea irrefutabile che c’è il male vero, la fatica e il dolore nel mondo.
Noi dovremmo essere umili e modesti nel nostro credere di poter eliminare queste cose.
Ma non dovremmo usarlo come scusa per il cinismo e l’inattività”.
In poche espressioni vengono sottolineati alcuni aspetti essenziali delle posizioni di Niebuhr.
L’idea che dal mondo siano ineliminabili “il male vero, la fatica, il dolore” rimanda alla critica di Niebuhr all’ottimismo che egli riteneva uno dei tratti costitutivi del pensiero religioso e sociale americano; così l’idea che anche colui che agendo politicamente si trovi a lottare contro la presenza dell’ingiustizia e del male debba essere “umile”, rinvia alla consapevolezza che non è possibile eliminare il male dalla storia ed è pericolosa illusione crederlo.
D’altra parte tale persistenza del male non può essere scusa per “il cinismo e l’inattività”.
Viene delineata una posizione che intende evitare sia “l’idealismo ingenuo” sia il “realismo amaro” (nel linguaggio di Niebuhr: sia il sentimentalismo sia il cinismo).
Come nelle opere di Niebuhr si definisce questa prospettiva? Quali i suoi riferimenti storici e culturali? Luigi Giussani, in Italia, già dalla fine degli anni Sessanta aveva colto la rilevanza del realismo di Niebuhr nel pensiero teologico e, più in generale, nella cultura statunitense.
Giussani ricordava come nella formazione del pastore protestante avesse certamente svolto un ruolo l’esistenzialismo teologico europeo, ma una “netta originalità segna sin dagli inizi la sua produzione, la cui ispirazione e le cui tendenze chiave si formano e delineano nell’esperienza vissuta come pastore della luterana Bethel Evangelical Church di Detroit” (4).
Niebuhr, giovanissimo, si trovò a essere pastore di una piccola comunità di Detroit negli anni dello sviluppo della casa automobilistica Ford e della prima guerra mondiale, tra il 1915 e il 1928.
Di formazione liberale, egli sperimentò l’inadeguatezza dell’ottimismo antropologico di tale concezione e della sua declinazione sociale, quella del movimento del Social Gospel, nel comprendere la persistenza del male individuale e dell’ingiustizia.
Furono gli anni dell’autocritica alle proprie convinzioni liberali e ottimistiche.
Di fronte alle speranze di una moralizzazione della società attraverso la predicazione religiosa egli, in un appunto del 1927, constatava che “una città costruita attorno a un processo produttivo e che solo casualmente pensa e offre un’attenzione accidentale ai propri problemi è realmente una sorta di inferno” (5).
Tale autocritica trovò piena espressione nel libro “Uomo morale e società immorale”.
In esso, come ha scritto Giussani, la “realtà inevitabile del male […] è affermata e documentata contro ogni ottimismo che non veda l’impossibilità esistenziale del passaggio dalla coscienza del bene, che l’individuo ha, alla realizzazione di esso, impossibilità che specialmente nella sfera del collettivo si accusa in modo inesorabile” (6).
Il libro, del 1932, scritto durante gli anni nei quali Niebuhr subì l’influenza del marxismo, rappresentò negli Stati Uniti degli anni Trenta la denuncia forse più incisiva dell’ottimismo e del moralismo, da una parte, e dell’indifferenza e del cinismo, dall’altra, che avevano caratterizzato la società americana negli anni successivi alla prima guerra mondiale.
Nel breve periodo che va dal 1917, l’anno dell’entrata in guerra dell’America, al 1919, l’anno dei trattati di pace che penalizzarono fortemente le nazioni sconfitte, si consumò l’idealismo del movimento progressista e del presidente Woodrow Wilson.
Le motivazioni morali che Wilson e molti intellettuali progressisti avevano indicato come ragioni della partecipazione degli americani alla guerra erano state contraddette dall’esasperato realismo dei trattati di pace che esprimevano in modo palese la sanzione dei nuovi rapporti di forza tra le potenze vincitrici e quelle sconfitte.
Nell’America degli anni Venti, proprio in reazione alle crociate ideali di Wilson, si affermò un’esigenza di ritorno alla normalità, che trovò espressione nell’elezione del presidente Warren Harding il quale a tale ideale aveva ispirato la propria campagna elettorale.
In realtà la società americana di quegli anni conobbe uno sviluppo economico mai visto, la diffusione della pubblicità e del consumo di massa, insieme a una forte polarizzazione tra ricchi e poveri.
Tale società appariva agli occhi di un attento osservatore come Niebuhr la sconfessione, o la riduzione a retorica, di ogni forma di moralismo ed era caratterizzata dall’emergere di atteggiamenti sempre più cinici e disillusi.
L’emendamento XVIII alla costituzione, che vietava la produzione, il trasporto e la vendita di alcolici sul territorio americano, può essere considerato emblematico di questa situazione: esso, approvato nel 1919, come simbolo della battaglia per la moralizzazione dei costumi, favoriva di fatto lo sviluppo di diverse forme di criminalità organizzata che proprio dal commercio illegale di alcolici traevano i maggiori profitti.
Niebuhr, in quegli anni, riteneva che una società più giusta non sarebbe stata la conseguenza di esortazioni morali o religiose, ma di concrete iniziative storiche e politiche, che proprio in quanto tali avrebbero dovuto confrontarsi con realtà poco elevate.
Egli, che dal 1928 aveva lasciato Detroit e aveva iniziato a insegnare alla Columbia University di New York, ricorderà come proprio le esigenze dell’insegnamento lo abbiano condotto ad approfondire la conoscenza di sant’Agostino.
In una intervista del 1956 affermava: “Mi sorprende, in un esame retrospettivo, notare quanto tardi io abbia iniziato lo studio di Agostino: ciò è ancora più sorprendente se si tiene presente che il pensiero di questo teologo doveva rispondere a molte mie domande ancora irrisolte e liberarmi finalmente dalla nozione che la fede cristiana fosse in qualche modo identica all’idealismo morale del secolo scorso” (7).
Il riferimento a sant’Agostino è stato centrale sia per quanto riguarda la consapevolezza delle ragioni che distinguono la fede dall’idealismo, sia per superare alcune aporie che Niebuhr aveva maturato nei primi anni della propria riflessione.
Il cristianesimo appare al giovane Niebuhr segnato da un aspetto, quello dell’assoluta gratuità, che si pone oltre ogni tentativo umano di realizzare gli ideali etici.
L’uomo può, con grande sincerità, impegnarsi per realizzare sfere di convivenza caratterizzate da quello che Niebuhr definisce “mutual love”, amore fondato sulla reciprocità: Cristo è invece testimone di un altro tipo di amore, definito “sacrifical love”.
Nel 1935 in “An Interpretation of Christian Ethics” egli aveva esplicitamente richiamato tale radicale differenza scrivendo: “Le esigenze etiche poste da Gesù sono d’impossibile compimento nell’esistenza presente dell’uomo […].
Qualunque cosa meno dell’amore perfetto nella vita umana è distruttivo della vita.
Ogni vita umana sta sotto un incombente disastro perché non vive la legge dell’amore” (8).
Nel 1940, riprendendo alcune di queste riflessioni e riferendole all’ambito politico, aveva sostenuto che una concezione “che aveva semplicemente e sentimentalmente trasformato l’ideale di perfezione del Vangelo in una semplice possibilità storica” aveva prodotto una “cattiva religione” e una “cattiva politica”, una religione in contrasto con il dato essenziale della fede cristiana, e una politica irrealistica, che rendeva le nazioni democratiche sempre più deboli (9).
D’altra parte, pur criticando il sentimentalismo e l’ottimismo della cultura liberale, egli constatava l’ineliminabile presenza della certezza del significato dell’esistenza, della sua positività, come tratto caratteristico di un’esistenza sana.
Questa certezza, scrive, “non è qualcosa che risulti da un’analisi sofisticata delle forze e dei fatti che circondano l’esperienza umana.
È qualcosa che è riconosciuto in ogni vita sana […].
Gli uomini possono non essere in grado di definire il significato della vita e malgrado ciò vivere attraverso la semplice fede la certezza che essa ha significato” (10).
L’opera nella quale tali diverse suggestioni trovano una sintesi è “The Nature and Destiny of Man”, pubblicata in due volumi tra il 1941 e il 1943.
In essa si legge: “L’uomo, secondo la concezione biblica, è un’esistenza creata e finita sia nel corpo, sia nello spirito” (11).
La chiave per comprendere la natura umana è da una parte il riconoscimento della creazione: l’ottimismo essenziale che caratterizza un’esistenza sana è legato alla percezione di essere creato, voluto da Dio.
Dall’altra è la libertà umana, che, come segno posto da Dio nel cuore dell’uomo, come possibilità di aderire a tale intuizione o di rifiutarla, diviene assolutamente centrale.
L’uomo può (e Niebuhr sembra dire “inevitabilmente”) cercare soddisfazione nei beni creati e non in Dio.
Il male nasce quando l’uomo conferisce a un bene particolare un valore assoluto: è l’uso sbagliato della libertà – il peccato – che genera il male, non la sensibilità o la materialità.
La presenza di Agostino in questa che è l’opera maggiore e più sistematica di Niebuhr è evidente e costante: la concezione realistica della natura umana che Niebuhr propone rimanda esplicitamente alla concezione biblica e ai testi agostiniani.
In un saggio del 1953, “Augustine’s Political Realism”, incluso nel volume dello stesso anno “Christian Realism and Political Problems”, Niebuhr riconosce esplicitamente il suo debito nei confronti di Agostino e precisa in quale senso il santo sia da ritenere il primo grande realista del pensiero occidentale e perché la sua prospettiva gli sembri attuale.
Niebuhr inizia questo saggio offrendo una schematica definizione del termine realismo: esso “indica la disposizione a prendere in considerazione tutti i fattori che in una situazione politica e sociale offrono resistenza alle norme stabilite, particolarmente i fattori di interesse personale e di potere”.
Al contrario, l’idealismo, per i suoi sostenitori, è “caratterizzato dalla fedeltà agli ideali e alle norme morali, piuttosto che al proprio interesse”; cioè, per i suoi critici, da “una disposizione a ignorare o a essere indifferenti alle forze che, nella vita umana, offrono resistenza agli ideali e alle norme universali” (12).
Niebuhr precisa che idealismo e realismo in politica sono disposizioni, più che teorie.
In altri termini anche il più idealista degli individui dovrà inevitabilmente confrontarsi con i fatti, con la forza di ciò che è; anche il più realista dovrà confrontarsi con la tendenza umana a ispirare l’azione a valori ideali, a ciò che deve essere (13).
Niebuhr ritiene che sant’Agostino sia stato “per riconoscimento universale il primo grande realista nella storia occidentale.
Egli ha meritato questo riconoscimento perché l’immagine della realtà sociale, nella sua ‘Civitas Dei’, offre un’adeguata considerazione delle forze sociali, delle tensioni e competizioni che sappiamo essere quasi universali a ogni livello di comunità” (14).
Per il teologo protestante il realismo di sant’Agostino si lega alla sua concezione della natura umana, e in modo particolare al giudizio sulla presenza del male nella storia.
Infatti per sant’Agostino “la fonte del male è l’amor proprio, piuttosto che un qualche residuo impulso naturale che la ragione non ha ancora dominato”.
Il male non deriva quindi né dalla sensibilità né dalla materialità, che non sono contrapposte allo spirituale.
Il fare dei propri interessi materiali o ideali un fine ultimo è una caratteristica umana che ha a che vedere con la libertà e che si esprime in ogni livello dell’esistenza umana e collettiva, dalla famiglia alla nazione all’ipotetica comunità mondiale.
Il realismo di Agostino permette inoltre di rispondere all’accusa rivolta dai liberali a coloro che sostengono una concezione non ottimistica della natura umana: all’accusa cioè di considerare nello stesso modo e quindi di approvare qualsiasi forma di potere.
“Il realismo pessimistico – scrive Niebuhr – ha infatti spinto sia Hobbes sia Lutero a una inqualificabile approvazione dello stato di potere; ma questo soltanto perché non sono stati abbastanza realisti.
Essi hanno visto il pericolo dell’anarchia nell’egoismo dei cittadini, ma hanno sbagliato nel percepire il pericolo della tirannia nell’egoismo dei governanti” (15).
Il realismo di sant’Agostino, in altri termini, non cede al cinismo e all’indifferenza nei confronti del potere perché “mentre l’egoismo è naturale nel senso che è universale, non è naturale nel senso che non è conforme alla natura dell’uomo”.
Infatti “un realismo diviene moralmente cinico o nichilistico quando assume che una caratteristica universale del comportamento umano debba essere considerata anche come normativa.
La descrizione biblica del comportamento umano, sulla quale Agostino basa il suo pensiero, può rifuggire sia l’illusione sia il cinismo perché essa riconosce che la corruzione della libertà umana può rendere universale un modello di comportamento senza farlo diventare normativo” (16).
L’idea di un realismo che sia in grado di evitare l’indifferenza, il cinismo e l’approvazione incondizionata di qualsiasi forma di potere, così come il sentimentalismo, l’idealismo e le illusioni nei confronti della politica e dell’esistenza umana, emerge con forza da questa rilettura che Niebuhr propone di sant’Agostino.
A questa prospettiva – che, come ricordava Niebuhr, esprime una disposizione più che una teoria – sembra riferirsi Obama.
NOTE (1) C.
Blake, “Obama and Niebuhr”, in “The New Republic”, 3 maggio 2007.
(2) Cfr.
R.C.
Good, “The National Interest and Political Realism: Niebuhr’s ‘Debate’ with Morgenthau and Kennan”, in “The Journal of Politics”, n.
4, 1960, pp.
597-619.
(3) C.
Carson, “Martin Luther King, Jr., and the African-American Social Gospel”, in Paul E.
Johnson (ed.), “African American Christianity” University of California Press, Berkeley 1994, pp.
168-170.
(4) L.
Giussani, “Grandi linee della teologia protestante americana.
Profilo storico dalle origini agli anni Cinquanta”, Jaca Book, Milano 1988 (I edizione 1969), p.
131.
(5) R.
Niebuhr, “Leaves from the Notebook of a Tamed Cynic”, The World Publishing Company, Cleveland 1957 (I edizione 1929), p.
169.
(6) L.
Giussani, “Teologia protestante americana”, cit., p.
132.
(7) R.
Niebuhr, tr.it., “Una teologia per la prassi”, Queriniana, Brescia 1977, p.
55.
(8) R.
Niebuhr, “An Interpretation of Christian Ethics”, Scribner’s, New York 1935, p.
67.
(9) R.
Niebuhr, “Christianity and Power Politics”, Scribner’s, New York 1952 (I edizione 1940), pp.
IX-X.
(10) Ibid., p.
178.
(11) R.
Niebuhr, “The Nature and Destiny of Man.
A Christian Interpretation.
Vol.
I, Human Nature”, Scribner’s, New York 1964 (I edizione 1941), p.
12.
(12) R.
Niebuhr, tr.it., “Il realismo politico di Agostino”, in G.
Dessì, “Niebuhr.
Antropologia cristiana e democrazia”, Studium, Roma 1993, pp.
77-78.
(13) Riprendo questa terminologia da Alessandro Ferrara, “La forza dell’esempio.
Il paradigma del giudizio”, Feltrinelli, Milano 2008, pp.
17-33.
Una terza grande forza, oggetto del libro, è quella di “ciò che è come dovrebbe essere”.
(14) R.
Niebuhr, tr.it., “Il realismo politico di Agostino”, cit., p.
79.
(15) Ibid., p.
85.
(16) Ibid., p.
88.
La rivista sulla quale – per ora solo nell’edizione italiana – è uscito il saggio di Gianni Dessì su Reinhold Niebuhr: > 30 Giorni __________ L’articolo di p.
Robert Imbelli su “L’Osservatore Romano” del 28 gennaio 2009, di commento al discorso di insediamento di Obama: > Per un vero patto di cittadinanza.
Obama, Lincoln e gli angeli
__________ Una presentazione del libro dell’arcivescovo di Denver, Charles Chaput, “Render Unto Caesar”, pubblicato poco prima delle elezioni presidenziali: > Come far politica da cattolici.
Il promemoria di Denver
(13.8.2008) __________ Un’analisi della geopolitica vaticana, con una particolare attenzione alla sua componente “realista”: > Tra Venere e Marte, la Chiesa di Roma sceglie tutti e due (12.12.2005) __________ L’insediamento di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti è stato salutato dalla Santa Sede con espressioni di fiducia.
Su “L’Osservatore Romano” del 28 gennaio il sacerdote e teologo newyorkese Robert Imbelli ha commentato positivamente il discorso inaugurale del nuovo presidente, in una nota in prima pagina dal titolo: “Per un vero patto di cittadinanza.
Obama, Lincoln e gli angeli”.
Tuttavia le righe finali della nota facevano balenare un timore.
Imbelli accostava il discorso di Obama a quello di Abraham Lincoln del 1861, che terminava con una preghiera affinché prevalessero “gli angeli migliori della nostra natura”.
E proseguiva: “Questa resta la speranza e la preghiera dell’America.
Ma noi preghiamo anche affinché non vengano trascurati gli angeli dei bambini concepiti, ma ancora non nati.
Preghiamo affinché i vincoli d’affetto della nazione raggiungano anche loro.
Affinché non vengano esclusi dal patto di cittadinanza”.
Imbelli è lo stesso che ha recensito con favore su “L’Osservatore Romano”, la scorsa estate, il libro “Render Unto Caesar” dell’arcivescovo di Denver, Charles J.
Chaput: un appello ai cattolici americani perché il loro “dare a Cesare”, cioè il servire la nazione, consista nel vivere integralmente la propria fede nella vita politica.
L’arcivescovo Chaput, prima e dopo le elezioni presidenziali, è stato uno dei più decisi nel criticare il cedimento pro aborto di tanti cattolici e cristiani americani.
E i primi passi della nuova amministrazione hanno confermato i suoi timori.
In un’intervista al settimanale italiano “Tempi” del 5 febbraio, alla domanda se Obama sia “un protestante da caffetteria”, lui che “dice di essere cristiano ma è considerato il presidente più favorevole all’aborto di sempre”, Chaput ha risposto: “Nessuno può giustificare l’aborto e al tempo stesso proclamarsi cristiano fedele, ortodosso, protestante o cattolico che sia.
[…] Penso però che il cristianesimo protestante, vista la sua grande enfasi sulla coscienza individuale, è più portato ad essere una ‘caffetteria’ di credenze”.
Sta di fatto che, tra i primi atti della sua presidenza, Obama ha autorizzato i finanziamenti federali alle organizzazioni che promuovono l’aborto come mezzo di controllo delle nascite nei paesi poveri.
Inoltre, ha annunciato il suo sostegno al Freedom of Choice Act, che toglierà i limiti all’aborto, e il finanziamento all’utilizzo delle cellule staminali embrionali.
* * * Ciò non toglie che Obama sia, tra i presidenti americani, uno dei più espliciti nel dichiarare il fondamento religioso della propria visione.
In ripetute occasioni ha anche fatto i nomi dei suoi autori di riferimento, noti e meno noti: da Dorothy Day a Martin Luther King, da John Leland ad Al Sharpton.
Tra quelli da lui citati, ce n’è uno che ha un’importanza particolarissima: è il protestante Reinhold Niebuhr (1892-1971), professore alla Columbia University e poi allo Union Theological Seminary di New York.
Niebuhr fu anzitutto teologo, e di prima grandezzza, ma i suoi studi hanno inciso anche nel campo politico.
È considerato un maestro del “realismo” nella politica internazionale, i cui massimi esponenti negli Stati Uniti, nella seconda metà del Novecento, sono stati Hans Morgenthau, George Kennan, Henry Kissinger.
Ispirarsi o no a Niebuhr – e alla sua interpretazione e attualizzazione della “Città di Dio” di sant’Agostino – è decisione che orienta in modo determinante la visione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo.
Ad esempio, niente è più distante dalle posizioni di Niebuhr del pacifismo.
Ma è l’insieme del pensiero di questo grande teologo che è utile approfondire.
È quanto fa, nel saggio che segue, il massimo esperto italiano di Niebuhr, Gianni Dessì, docente di filosofia e di storia delle dottrine politiche all’Università di Roma Tor Vergata.
Il saggio è uscito pochi giorni fa sull’ultimo numero dell’edizione italiana di “30 Giorni”, il mensile cattolico forse più letto dai vescovi di tutto il mondo, nelle sue edizioni in più lingue.
“30 Giorni” è diretto dall’anziano senatore Giulio Andreotti – più volte presidente del consiglio e ministro degli esteri – e si occupa spesso di politica internazionale secondo una linea che si potrebbe definire “realista moderata”: una linea che coincide con quella tradizionale della diplomazia vaticana.

Il dibattito sul caso Englaro

Eluana, Napolitano non firma il decreto Il governo approva ddl in tempo record Berlusconi: «Seduta straordinaria del Senato, potrebbe non essere tardi».
Il Vaticano: «Ci hanno ascoltato» UDINE – Il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge che obbliga alimentazione e idratazione per soggetti non autosufficienti.
Il testo recepisce le linee del decreto approvato venerdì mattina dal governo ma su cui il presidente Napolitano non ha apposto la firma.
Alla riunione, presieduta dal premier Berlusconi, hanno partecipato il sottosegretario Gianni Letta, i ministri Altero Matteoli, Andrea Ronchi, Giorgia Meloni e Stefania Prestigiacomo.
Assenti per motivi “logistici” i ministri della Lega, che però hanno chiamato il presidente del Consiglio per esprimere il proprio sostegno all’iniziativa.
Il ddl è stato immediatamente inviato al Senato e Berlusconi non esclude che il via libera possa arrivare a breve: «Dipende da loro.
I gruppi sono già in stretto contatto».
Il presidente Napolitano ha autorizzato la presentazione alle Camere del disegno di legge.
BERLUSCONI: APPELLO A SCHIFANI – «Abbiamo preso atto del rifiuto del capo dello Stato ma abbiamo ribadito l’urgenza del provvedimento – ha detto Berlusconi al termine del vertice di governo -.
Ci siamo riuniti e abbiamo approvato un disegno di legge che recepisce il testo del decreto».
Il premier ha detto che la risposta del Parlamento arriverà in breve tempo: «Il governo – ha spiegato – ha rivolto un accorato appello al presidente del Senato per una immediata convocazione del Senato in seduta straordinaria.
Credo che convocherà subito una riunione dei gruppi e poi i gruppi decideranno quando potersi riunire.
Se ci sarà la volontà di fare presto, noi crediamo ci possa essere una risposta da parte del Parlamento in pochissimo tempo».
«Potrebbe non essere troppo tardi per Eluana – ha aggiunto Berlusconi -.
Per una persona normale è possibile stare due o tre giorni senza bere, rivolgetevi a Pannella».
«Siamo pronti a lavorare anche sabato e domenica per approvare la norma ‘salva-Eluana’» ha detto il presidente dei senatori dell’Udc Giampiero D’Alia.
L’ITER PARLAMENTARE – In realtà, salvo accelerazioni, il ddl inizierà il suo iter lunedì, dopo la conferenza dei capigruppo (prevista alle 12) che decide l’assegnazione del testo, presumibilmente alla commissione Sanità dove è già in atto la discussione sul testamento biologico.
A quel punto il presidente della commissione Antonio Tomassini convoca l’ufficio di presidenza per disporre le procedure necessarie e verifica se esiste una volontà politica concorde per accelerare l’esame del provvedimento che, se approvato in sede deliberante, non dovrebbe passare in Aula.
Nel caso non dovesse riscontrarsi un clima di concordia politica fra le diverse forze, sulla base dell’art.
72 della Costituzione, o il governo o un decimo dei componenti della Camera o un quinto dei commissari possono richiedere il passaggio in Aula.
Si tratterebbe di una decisione strategica cui la maggioranza potrebbe fare ricorso perché, una volta in Aula, è possibile contingentare i tempi e far decadere eventuali emendamenti.
SCONTRO ISTITUZIONALE – La vicenda di Eluana Englaro, dopo l’avvio della procedura di graduale abbandono delle terapie nella clinica La Quiete di Udine, ha assunto il risvolto di un gravissimo scontro istituzionale dopo che il presidente Napolitano si è rifiutato di firmare il decreto legge del governo.
Il conflitto è esploso a metà giornata, quando il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legge per bloccare i medici nonostante la contrarietà del presidente della Repubblica.
Dopo il via libera, Giorgio Napolitano ha però confermato la propria posizione: non firmerà il provvedimento.
La decisione del Consiglio del ministri è stata invece accolta positivamente dal Vaticano: «Una scelta coraggiosa».
Diversa la posizione del presidente della Camera: Gianfranco Fini ha espresso «preoccupazione» per il no del Consiglio dei ministri all’invito di Napolitano, mentre un altro esponente di An, Ignazio La Russa, ha sottolineato che «si apre un problema serio.
Ora la soluzione è quella del ddl da approvare in tempi rapidi».
Critiche dall’opposizione: per il leader del Pd Veltroni Silvio Berlusconi vuole «un incidente istituzionale» e si è macchiato di «un comportamento totalmente irresponsabile».
ISPETTORI NELLA CLINICA – E mentre i legali della famiglia Englaro hanno assicurato che si andrà avanti con la procedura, il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha inviato gli ispettori a Udine.
Un fatto che non preoccupa i legali della famiglia Englaro, come spiegato dall’avvocato Giuseppe Campeis: «Stiamo operando al di fuori del servizio sanitario nazionale, in quanto si tratta di un servizio appaltato tra l’associazione ‘Per Eluana’ e la casa di riposo».
«Il decreto legge emanato dal governo Berlusconi non ha la firma del capo dello Stato per cui come tale noi andiamo avanti con il protocollo – ha aggiunto Campeis -.
Se non ci saranno fatti nuovi e se non avverranno altri impedimenti, si proseguirà».
Circa il fascicolo aperto dalla Procura di Udine, l’avvocato ha precisato che «c’è già stato un chiarimento da parte del procuratore generale di Trieste per cui noi andiamo avanti nella legalità».
Beppino Englaro, il padre di Eluana, rilascia un unico commento: «Sono sconvolto, è un tormento senza fine, non riesco neppure a pensare e riflettere e preferisco continuare a restare nel silenzio».
Leggi il testo della lettera di Napolitano al governo IL CONSIGLIO DEI MINISTRI – Lo strappo tra governo e Quirinale si è consumato dopo la lettera del presidente della Repubblica al Consiglio dei ministri.
«Non sussistono le ragioni di necessità e di urgenza», ha spiegato nella missiva Giorgio Napolitano, esprimendo perplessità anche sulla nuova bozza riformulata dal ministero del Welfare e che conterrebbe, secondo quanto annunciato dal governo, i rilievi del presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida; questi però ha negato con fermezza: «Hanno strumentalizzato le mie parole, disconosco nella maniera più assoluta qualunque mia partecipazione alla stesura del testo di un decreto legge che non ritengo nemmeno di commentare».
Il via libera dal Consiglio dei ministri al provvedimento è arrivato ugualmente.
Una decisione adottata all’unanimità dopo una lunga discussione (la Prestigiacomo era orientata all’astensione, ma sarebbe stata convinta a votare sì).
Berlusconi ha incassato anche il sostegno dell’Udc: Casini ha telefonato al premier per esprimere il suo consenso all’iniziativa del governo.
LA RUSSA: «QUASI VOTO DI FIDUCIA» – Al momento della votazione in Consiglio dei ministri sul varo del decreto Berlusconi «ha quasi posto il voto di fiducia».
Lo ha detto il ministro della Difesa La Russa.
«Prestigiacomo non ha preso la parola e alla fine, quando si votava, ha dato l’impressione di volersi astenere.
Il presidente del Consiglio le ha detto che preferiva una non astensione: su questa questione ha quasi posto il voto di fiducia.
Qualcuno aveva espresso problemi di opportunità, io tra questi, ma non c’erano stati interventi contrari».
E sulla differente posizione di Fini: «Sì, ha espresso una posizione diversa, ma non era in Consiglio dei ministri a dover votare in un modo o nell’altro e a dover dare una valenza politica alla questione su chi deve decidere riguardo alla necessità e all’urgenza.
Decisione che spetta al governo».
Guarda il video della conferenza stampa «PRESUPPOSTI DI URGENZA» – Il premier, in conferenza stampa, ha spiegato che nel caso di Eluana «sussistono i presupposti di necessità e urgenza, presupposti che sono affidati alla responsabilità del governo: poi spetta al Parlamento decidere se confermare o meno questi presupposti».
«Eluana è una persona viva – ha aggiunto Berlusconi – respira, le sue cellule cerebrali sono vive e potrebbe in ipotesi fare anche dei figli.
È necessario ogni sforzo per non farla morire».
Il premier ha poi criticato l’atteggiamento di Napolitano: «Con la sua lettera si introduce una innovazione: il capo dello Stato in corso d’opera del Cdm può intervenire anticipando la decisione sulla necessità e urgenza di un provvedimento.
Per questo abbiamo deciso all’unanimità di affermare con forza che il giudizio è assegnato alla responsabilità del governo.
Se il capo dello Stato non firmasse e si caricasse di questa responsabilità nei confronti di una vita, noi inviteremmo immediatamente il Parlamento a riunirsi ad horas e approvare in due o tre giorni una legge che anticipasse quella legge che è già nell’iter legislativo».
A una specifica domanda di un giornalista, Berlusconi ha comunque assicurato che i rapporti con il presidente della Repubblica restano «cordiali» e che non sta pensando assolutamente all’impeachment.
NAPOLITANO NON FIRMA – Poco dopo, però, Napolitano ha confermato di non voler firmare il decreto.
Il presidente, si legge in un comunicato, «ha preso atto con rammarico della deliberazione da parte del Consiglio dei ministri del decreto legge relativo al caso Englaro.
Avendo verificato che il testo approvato non supera le obiezioni di incostituzionalità da lui tempestivamente rappresentate e motivate, il presidente – conclude la nota – ritiene di non poter procedere alla emanazione del decreto».
Napolitano ha ricevuto l’appoggio di Fini: «Desta forte preoccupazione – ha dichiarato il presidente della Camera – che il Consiglio dei ministri non abbia accolto l’invito del capo dello Stato, ampiamente motivato sotto il profilo costituzionale e giuridico, a evitare un contrasto formale in materia di decretazione d’urgenza».
L’analisi – Napolitano, sfidato, ha risposto.
Lo strappo lascerà i segni di Marzio Breda
PLAUSO DEL VATICANO – All’esecutivo arriva invece il plauso del Vaticano.
Approvando il decreto legge sul caso di Eluana Englaro, ha affermato monsignor Rino Fisichella, presidente della Pontificia accademia per la vita, «il governo ha fatto un gesto di grande coraggio, che sarà apprezzato dalla grande maggioranza di tutti i cittadini».
«Pur nella differenza delle competenze che abbiamo – conclude Fisichella – ci rallegriamo che le istanze che abbiamo portato avanti in questi mesi sono state ascoltate e accolte».
Il Vaticano critica Napolitano: «Sono costernato che in tutte queste diatribe politiche si ammazzi una persona – ha affermato il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio consiglio giustizia e pace – e sono profondamente deluso (dalla decisione del presidente di non firmare il decreto, ndr)».
AVANTI LA PROCEDURA – Intanto, nella clinica friulana dove si trova Eluana Englaro, la “fase due” della procedura per la riduzione della nutrizione è iniziata.
La conferma arriva dall’avvocato Franca Alessio, curatrice di Eluana: «Penso che tutto si stia svolgendo come previsto.
Il protocollo prevede che dopo tre giorni cominci lo stop all’alimentazione – ha aggiunto il legale -.
I tre giorni sono passati e non intervenendo fatti nuovi si procede come previsto».
Nella clinica sono attesi sabato gli ispettori inviati dal ministro Sacconi per verificare alcune caratteristiche della struttura.
I medici, coordinati dall’anestesista Amato De Monte, vanno avanti con il protocollo concordato tra La Quiete, l’Azienda Sanitaria 4 Medio Friuli e l’associazione «Per Eluana», in attuazione del decreto della Corte di Appello di Milano.
Venerdì sera due consulenti della Procura di Udine hanno controllato e verificato la congruità dell’operato dell’equipe medica.
Per sabato è prevista una nuova riduzione, l’ultima domenica: poi termineranno nutrizione e idratazione artificiali.
Corriere della Sera 6 febbraio 2009 IL CASO ENGLARO La natura e il suo corso di Ernesto Galli Della Loggia E così alla fine il governo è intervenuto in prima persona con un provvedimento d’urgenza nella vicenda di Eluana Englaro.
È giusto comprenderne le indubbie motivazioni di carattere umanitario, ma non per questo si può passare sotto silenzio il vulnus che il governo stesso, se questa sua decisione avesse avuto corso, avrebbe inferto alle regole dello Stato costituzionale di diritto.
Un cui principio fondamentale, come fin dall’inizio ha giustamente ricordato il presidente Napolitano, è che l’esecutivo non può emanare decreti con lo scopo di modificare o rendere nullo quanto deciso in via definitiva da un tribunale.
E se Napolitano ha mantenuto questa sua opposizione fino al punto di rifiutarsi di controfirmare il decreto uscito dal Consiglio dei ministri, non si può che apprezzare la coerenza e la fermezza del capo dello Stato.
Il che non vuole affatto dire però, si badi bene, che ciò che in questo caso i giudici hanno stabilito non lasci nell’opinione pubblica (e certamente, e fortunatamente, non solo in quella cattolica) profonde e giustificatissime perplessità.
Le quali, data la materia di cui si tratta, possono arrivare talvolta a prendere perfino la forma di un vero sentimento di rivolta morale.
A suscitare forti dubbi è proprio il fondamento stesso della decisione finale presa dalla magistratura e cioè l’asserita volontà (ricostruita ex post su base totalmente indiziaria; ripeto: totalmente indiziaria) di Eluana; la quale, si sostiene, piuttosto che vivere nelle condizioni in cui da diciotto anni le è toccato di vivere, avrebbe certamente preferito morire.
L’altissima opinabilità di questa ricostruzione è dimostrata dal semplice fatto che in precedenza per ben due volte (Tribunale di Lecco nel 2005, Corte d’appello di Milano nel 2006) le conclusioni dei giudici erano andate in direzione opposta a quella successiva: allora, infatti, essi sostennero che non esistevano prove vere e affidabili per stabilire la reale volontà della ragazza, intesa come «personale, consapevole e attuale determinazione volitiva, maturata con assoluta cognizione di causa».
Poi la sentenza terremoto della Corte di cassazione; prove simili non furono più ritenute necessarie: per decidere della vita e della morte di Eluana, stabiliscono i giudici, basta adesso tener conto «della sua personalità, del suo stile di vita, delle sue inclinazioni, dei suoi valori di riferimento e delle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche» (si sta parlando, lo si ricordi sempre, di una persona che all’età dell’incidente aveva diciotto anni).
Ed è precisamente sulla base di questa direttiva emanata dai giudici supremi che la Corte d’appello di Milano cambia nel 2008 il proprio orientamento e quelli che prima erano indizi generici si tramutano in prove della personalità di Eluana «caratterizzata da un forte senso d’indipendenza, intolleranza delle regole e degli schemi, amante della libertà e della vita dinamica, molto ferma nelle sue convinzioni ».
Dunque si proceda pure alla sua eliminazione.
Mi sembra appropriato il commento di un giurista di vaglia, Lorenzo D’Avack, sull’Avvenire di giovedì: «Giovani liberi, tendenzialmente anticonformisti, un poco anarchici, dinamici, attivi, con qualche entusiasmo per lo sport, diventano così per la Corte i soggetti ideali per un presunto dissenso, ora per allora, verso terapie di sostegno vitale ».
C’è o non c’è, mi chiedo, motivo di qualche perplessità? Tanto più che contemporaneamente, come fa notare sempre d’Avack, la stessa Cassazione, in un caso di rifiuto delle cure da parte di un Testimone di Geova, stabilisce, invece, che a tale rifiuto i medici devono sì ottemperare, ma solo se esso è contenuto «in una dichiarazione articolata, puntuale ed espressa, dalla quale inequivocabilmente emerga detta volontà».
Ma guarda un po’! Torno a chiedermi: c’è o non c’è motivo di qualche perplessità, forse anzi più d’una? Detto ciò della ricostruzione della volontà di Eluana — che pure, non lo si dimentichi, allo stato attuale è premessa assolutamente dirimente per qualunque decisione da prendere—resta un’ultima questione, quella del «lasciar fare alla natura il suo corso», come si dice da parte di chi pensa che si possa tranquillamente far morire la giovane.
Un’ultima questione, cioè un’ultima domanda: davvero l’espressione «lasciar fare alla natura il suo corso» può arrivare a significare il divieto di idratazione e di alimentazione di un corpo umano? Davvero «far fare alla natura il suo corso» può voler dire far spegnere una persona per mancanza d’acqua? La coscienza di ognuno di noi risponda come può e come sa.
Ma per tutto questo tempo, in realtà, il corpo di Eluana Englaro non ha ricevuto solo liquidi e alimenti; esso è stato anche costantemente sottoposto ad una penetrante protezione farmacologica senza la quale assai probabilmente non avrebbe mai potuto sopravvivere così a lungo.
È proprio da qui si potrebbe forse partire per immaginare quale soluzione dare in futuro ad altri casi analoghi.
Una soluzione, questa volta legislativa, che proprio il decreto di ieri del governo mette in modo ultimativo all’ordine del giorno dei lavori parlamentari, e che potrebbe fondarsi sul concetto di divieto di accanimento terapeutico, ormai pacificamente accolto nelle nostre leggi.
Tale divieto, com’ è noto, si sostanzia in un obbligo di non fare, di non procedere alla somministrazioni di cure allorché è ragionevole pensare che esse non possano in alcun modo servire alla guarigione o a qualche miglioramento significativo delle condizioni del paziente; limitando in questi casi l’opera del medico solo al sollievo dal dolore.
Si tratta peraltro—ed è questo un aspetto decisivo—di un obbligo/ divieto che per valere non ha bisogno di essere convalidato da alcuna decisione particolare del malato, dal momento che fa parte del codice deontologico di tutti coloro che esercitano la professione medica.
Ebbene, non riesco a vedere una ragione valida per cui nel divieto di accanimento ora detto non possa essere fatto rientrare la non somministrazione di farmaci a chi, come è il caso di Eluana Englaro, si trova da tempo in condizioni di stato vegetativo persistente al quale quelle medicine stesse non possono arrecare alcun giovamento ma al massimo assicurarne l’indefinita prosecuzione.
Non produrre la morte di alcuno negandogli l’idratazione e l’alimentazione.
Togliere invece ogni medicamento.
Questo sì mi sembrerebbe un vero «lasciar fare alla natura il suo corso»: rimettendosi al caso o ai disegni imperscrutabili da cui dipendono le nostre vite.
Corriere della Sera 07 febbraio 2009  NOTIZIE CORRELATE La bozza del decreto Papà Beppino: «Mia figlia oggetto di violenza inaudita» Eluana, Napolitano non firma il decreto Il governo approva ddl in tempo record Scontro tra Napolitano e Berlusconi Governo vara disegno di legge record l Papa: dignità per la vita umana, anche quando è debole e sofferente Udine, i medici: «Andiamo avanti» A Eluana azzerati alimenti e acqua Caso englaro: lo scontro istituzionale Napolitano: ecco perché non firmerò Il testo della lettera che il capo dello Stato ha inviato a Berlusconi prima che il CdM approvasse il decreto Signor Presidente, lei certamente comprenderà come io condivida le ansietà sue e del Governo rispetto ad una vicenda dolorosissima sul piano umano e quanto mai delicata sul piano istituzionale.
Io non posso peraltro, nell’esercizio delle mie funzioni, farmi guidare da altro che un esame obiettivo della rispondenza o meno di un provvedimento legislativo di urgenza alle condizioni specifiche prescritte dalla Costituzione e ai principi da essa sanciti.
I temi della disciplina della fine della vita, del testamento biologico e dei trattamenti di alimentazione e di idratazione meccanica sono da tempo all’attenzione dell’opinione pubblica, delle forze politiche e del Parlamento, specialmente da quando sono stati resi particolarmente acuti dal progresso delle tecniche mediche.
Non è un caso se in ragione della loro complessità, dell’incidenza su diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti e della diversità di posizioni che si sono manifestate, trasversalmente rispetto agli schieramenti politici, non si sia finora pervenuti a decisioni legislative integrative dell’ordinamento giuridico vigente.
Già sotto questo profilo il ricorso al decreto legge – piuttosto che un rinnovato impegno del Parlamento ad adottare con legge ordinaria una disciplina organica – appare soluzione inappropriata.
Devo inoltre rilevare che rispetto allo sviluppo della discussione parlamentare non è intervenuto nessun fatto nuovo che possa configurarsi come caso straordinario di necessità ed urgenza ai sensi dell’art.
77 della Costituzione se non l’impulso pur comprensibilmente suscitato dalla pubblicità e drammaticità di un singolo caso.
Ma il fondamentale principio della distinzione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato non consente di disattendere la soluzione che per esso è stata individuata da una decisione giudiziaria definitiva sulla base dei principi, anche costituzionali, desumibili dall’ordinamento giuridico vigente.
Decisione definitiva, sotto il profilo dei presupposti di diritto, deve infatti considerarsi, anche un decreto emesso nel corso di un procedimento di volontaria giurisdizione, non ulteriormente impugnabile, che ha avuto ad oggetto contrapposte posizioni di diritto soggettivo e in relazione al quale la Corte di cassazione ha ritenuto ammissibile pronunciarsi a norma dell’articolo 111 della Costituzione: decreto che ha dato applicazione al principio di diritto fissato da una sentenza della Corte di cassazione e che, al pari di questa, non è stato ritenuto invasivo da parte della Corte costituzionale della sfera di competenza del potere legislativo.
Desta inoltre gravi perplessità l’adozione di una disciplina dichiaratamente provvisoria e a tempo indeterminato, delle modalità di tutela di diritti della persona costituzionalmente garantiti dal combinato disposto degli articoli 3, 13 e 32 della Costituzione: disciplina altresì circoscritta alle persone che non siano più in grado di manifestare la propria volontà in ordine ad atti costrittivi di disposizione del loro corpo.
Ricordo infine che il potere del Presidente della Repubblica di rifiutare la sottoscrizione di provvedimenti di urgenza manifestamente privi dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza previsti dall’art.
77 della Costituzione o per altro verso manifestamente lesivi di norme e principi costituzionali discende dalla natura della funzione di garanzia istituzionale che la Costituzione assegna al Capo dello Stato ed è confermata da più precedenti consistenti sia in formali dinieghi di emanazione di decreti legge sia in espresse dichiarazioni di principio di miei predecessori (si indicano nel poscritto i più significativi esempi in tal senso).
Confido che una pacata considerazione delle ragioni da me indicate in questa lettera valga ad evitare un contrasto formale in materia di decretazione di urgenza che finora ci siamo congiuntamente adoperati per evitare.
Poscritto Con una lettera del 24 giugno 1980, il Presidente Pertini rifiutò l’emanazione di un decreto-legge a lui sottoposto per la firma in materia di verifica delle sottoscrizioni delle richieste di referendum abrogativo; il 3 giugno 1981, sempre il Presidente Pertini, chiamato a sottoscrivere un provvedimento di urgenza, richiese al Presidente del Consiglio di riconsiderare la congruità dell’emanazione per decreto-legge di norme per la disciplina delle prestazioni di cura erogate dal Servizio Sanitario Nazionale.
Nel caso specifico, uno degli argomenti addotti dal Capo dello Stato consisteva nel rilievo della contraddizione tra la disciplina del decreto-legge emanando e “un indirizzo giurisprudenziale in via di definizione”; con lettera 10 luglio 1989 al Presidente del Consiglio De Mita, il Presidente Cossiga manifestò la sua riserva in ordine alla presenza dei presupposti costituzionali di necessità e urgenza ai fini dell’emanazione di un decreto-legge in materia di profili professionali del personale dell’ANAS e affermò: “Ritengo, pertanto, che, allo stato, sia opportuno soprassedere all’emanazione del provvedimento, in attesa della conclusione del dibattito parlamentare sull’analogo decreto relativo al personale del Ministero dell’interno”; in quella stessa lettera e successivamente nella lettera al Presidente del Consiglio Andreotti del 6 febbraio 1990, il Presidente Cossiga richiamò all’osservanza delle specifiche condizioni di urgenza e necessità che giustificano il ricorso alla decretazione di urgenza, ritenendo legittimo da parte sua – in caso di non soddisfacente e convincente motivazione del provvedimento – il puro e semplice rifiuto di emanazione del decreto – legge; con un comunicato del 7 marzo 1993, il Presidente Scalfaro, in rapporto all’emanazione di un decreto-legge in materia di finanziamento dei partiti politici invitò il Governo a riconsiderare l’intera questione, ritenendo più appropriata la presentazione alle Camere di un provvedimento in forma diversa da quella del decreto-legge.
06 febbraio 2009 Giovanni Reale: «Farla sopravvivere è andare contro natura» Il filosofo cattolico: la Chiesa e il governo politicizzano una cosa metapolitica di Daniela Monti «Ma ancora non c’è nulla di deciso, vero?», chiede Giovanni Reale.
«Il decreto del governo è un errore, si oppone all’idea di libertà su cui è radicato il concetto occidentale dell’uomo.
E lo dico da cattolico».
«Napolitano ha fatto il suo dovere di Presidente, ha richiamato l’attenzione sulla sostanza della Costituzione.
Un uomo saggio.
Almeno uno».
«Sopravvivenza a prezzo di vita».
Quando entra nel merito della vicenda di Eluana Englaro, cita il francese Jean Baudrillard.
Da 17 anni, per Reale, Eluana Englaro sopravvive a prezzo della vita.
«La tesi portata avanti da molti uomini della Chiesa, e ora anche del governo, è sbagliata e va corretta — dice il filosofo —.
Nel caso di Eluana vedo un abuso da parte di una civiltà tecnologica totalizzante, così gonfia di sé e dei suoi successi da volersi sostituire alla natura.
Si è perduta la saggezza della giusta misura.
La Chiesa, e il governo insieme a lei, sono vittime di questo paradigma culturale dominante».
Racconta di sua madre.
«Era all’ospedale con il cancro, i medici volevano riempirla di tubi.
“Potremmo prolungarle la vita di qualche mese”, dicevano.
Io ero frastornato.
È stata lei a decidere: lasciatemi morire a casa, nel mio letto.
In quel periodo stavo traducendo il Fedone di Platone e anche lì, con parole diverse, ho ritrovato il senso di quel desiderio di mia madre.
Quando Socrate deve bere la cicuta, qualcuno gli suggerisce: “C’è ancora qualche ora, attendi finché il sole non sia tramontato”.
Ma non ha senso aggrapparsi alla vita quando ormai non ce n’è più».
Se mi trovassi nella condizione di non aver più speranze di guarigione, aggiunge Reale, «non avrei dubbi su cosa scegliere».
Anche la Chiesa condanna l’accanimento terapeutico.
Ma un sondino per l’alimentazione è accanimento terapeutico? Su questo ci si divide.
«La Chiesa dice molte cose sagge.
Per esempio: si può rinunciare all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo.
Ed è proprio questo il caso di Eluana: qui non c’è stata proporzione e non c’è nessuna ragionevole speranza di esito positivo.
E allora? Perché questo accanirsi contro di lei?».
Reale, da credente, rivendica la libertà di coscienza dei cattolici sul caso di Eluana.
Di più: dice che la libertà di coscienza «è un preciso dovere morale» e si affida a un’altra citazione, questa volta un aforisma di Gomez Davila: «Ciò che si pensa contro la Chiesa, se non lo si pensa da dentro la Chiesa, è privo di interesse».
«Ecco — riprende — molte critiche che vengono dall’interno sono costruttive.
Io critico il paradigma culturale che vorrebbe tenere in vita Eluana contro la natura, e la fede con questo non ha nulla a che fare, la fede è al di sopra della cultura, il suo compito è fecondare la cultura stessa».
Se il diritto alla vita perde la precedenza su tutti gli altri valori, sa anche lei quale potrebbe essere il prossimo passo: parlare in termini meno ideologici di eutanasia.
«Errore.
Io non lascio aperto nessuno spiraglio all’eutanasia.
Non dico: fammi morire.
Ma: lasciami morire come ha stabilito la natura.
Né io, né tu.
La natura.
Prendiamo il caso di Piergiorgio Welby, che ho seguito da vicino.
Welby sostanzialmente non disse: staccate la spina.
Ma: lasciate che la natura faccia il suo corso, non fatemi restare vittima di una tecnologia che costruisce qualcosa di sostitutivo e artificiale rispetto alla natura.
È un’affermazione identica a quella che si dice abbia fatto Giovanni Paolo II: lasciatemi tornare alla casa del padre.
Il secondo aveva fede, il primo no.
Per Welby era andare nella notte assoluta, per il Papa nella vita.
Ma dal punto di vista umano è la stessa condivisibile richiesta».
A complicare il caso di Eluana c’è la questione della ricostruzione della sua volontà presunta.
«Chi più del padre e della madre ama quella ragazza? Mi sembra che nessuno più di loro abbia il diritto di dire che cosa avrebbe voluto fare la figlia, ora che lei non è più in grado di esprimersi».
Giovanni Reale in più occasioni, durante questa intervista, usa il «noi»: «Noi pensiamo che la vita di Eluana sia artificiale».
«Secondo noi questo sistema che si è sostituito alla natura per un tempo così spaventosamente lungo è aberrante».
Reale parla per sé, ma la sua non è una voce isolata.
Attorno al diritto all’autodeterminazione e all’idea di libertà di coscienza dei cattolici si è costituito un gruppo di filosofi: da Vito Mancuso a Roberta De Monticelli, da Vittorio Possenti a, appunto, Giovanni Reale, le «intelligenze più acute del cattolicesimo italiano», come li ha definiti Luigi Manconi su L’Unità.
Che succede ora: nella Chiesa si arriverà a una sintesi? «Gettiamo semi, non tocca a noi raccogliere frutti.
Speriamo li diano.
Ma l’errore che con Eluana stanno facendo religiosi e uomini di governo è di cadere nella politicizzazione di qualcosa che con la politica non c’entra niente, che è metapolitico».
Corriere della Sera 07 febbraio 2009 Sul caso Eluana, il governo potrebbe varare un decreto legge volto ad impedire l’esecuzione della sentenza della Corte d’appello di Milano, a sua volta giudicata corretta dalla Cassazione.
Il provvedimento, secondo quanto sostiene l’Ansa, contiene un solo articolo dal titolo: «Disposizioni urgenti in materia di alimentazione ed idratazione».
Questo è il testo: «In attesa dell’approvazione di una completa e organica disciplina legislativa in materia di fine vita l’alimentazione e l’idratazione, in quanto forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze, non possono in alcun caso essere rifiutate dai soggetti interessati o sospese da chi assiste soggetti non in grado di provvedere a se stessi».
«E’ un omicidio, quel decreto è un dovere»    «Lo Stato ha il diritto di proteggere la vita di ogni suo cittadino»  Intervista al cardinale Camillo Ruini di Aldo Cazzullo  Cardinal Ruini, quali sono i suoi sentimenti in queste ore decisive per la sorte di Eluana Englaro? «Sofferenza.
Non ho mai conosciuto Eluana, ma prego per lei ogni giorno.
Preoccupazione.
Speranza.
E impegno a fare tutto il possibile.
Innanzitutto, per far sapere quali sono le sue reali condizioni: chi è informato bene, di solito non ha più dubbi.
È stato importante che la suora che l’ha assistita sia andata in tv a raccontare la sua esperienza con Eluana.
Non ha senso attribuire all’Eluana di oggi, dopo quel tragico incidente, le aspirazioni e i desideri di prima.
Eluana è stata sfortunata.
Ha perduto molto.
Ora ha bisogno di poco, è protesa verso quel poco, con poco può vivere senza soffrire.
Non colpiamola una seconda volta.
Non togliamole anche questo poco».
Lasciarla morire equivale a un omicidio? «Lasciarla morire, o più esattamente — per chiamare le cose con il loro nome — farla morire di fame e di sete, è oggettivamente, al di là delle intenzioni di chi vuole questo, l’uccisione di un essere umano.
Un omicidio.
Purtroppo inferto in maniera terribile, senza che nessuno possa essere certo che Eluana non soffrirà».
È giusto che il governo sia intervenuto con un decreto? E il capo dello Stato avrebbe dovuto firmarlo? «Non ho ancora avuto modo di conoscere il testo del decreto del governo e della lettera del capo dello Stato, ma conosco le obiezioni secondo le quali questo decreto sarebbe una prevaricazione nei rapporti tra i poteri dello Stato.
Di prevaricazioni però in questa vicenda se ne sono già fatte molte.
A cominciare dai giudici che hanno applicato una legge che non esiste e che, soprattutto, non hanno tenuto conto della situazione reale di Eluana.
Ad ogni modo, ritengo che lo Stato abbia il diritto, e aggiungerei il dovere, di proteggere la vita di ogni suo cittadino».
Una legge sul testamento biologico ora è necessaria? E come andrebbe impostata? «Preferisco parlare di legge sulla fine della vita.
La parola testamento implica infatti che si disponga di un oggetto, ma la vita non è un oggetto, non è un appartamento o una somma di denaro.
La legge dovrebbe evitare sia l’eutanasia sia l’accanimento terapeutico.
Ma è ovvio che la nutrizione e l’idratazione non possono essere lasciate alla decisione dei singoli, perché toglierle significa provocare la morte.
Se eutanasia significa morte “dolce”, “buona”, la fine di Eluana sarebbe peggio dell’eutanasia: Eluana morirebbe di fame e di sete.
La sua sarebbe una morte pessima».
Il padre, Beppino Englaro, ha avuto parole dure su quella che considera un’ingerenza della Chiesa.
Ha torto? «Il rispetto è dovuto a tutti, ma il rispetto massimo è dovuto al signor Englaro, che vive questa terribile esperienza di persona.
Nessuno di noi può sindacare su come reagiscono i genitori toccati così profondamente dal dolore.
Ho conosciuto genitori che si ribellavano di fronte a quella che ritenevano un’ingiustizia divina, e altri che la accettavano.
Ricorderò sempre il giorno in cui fui testimone di un incidente stradale a Regnano, sulle colline di Reggio Emilia.
Stavo guidando.
Davanti a me, un giovane cadde dalla moto.
Non andava forte, ma c’era ghiaia sulla strada e perse il controllo, la moto gli cadde addosso.
Mi fermai, gli diedi l’estrema unzione, ma era già morto.
Gli abitanti del paese mi dissero: la madre è malata di cuore, vada lei a darle la notizia.
Mi feci carico del duro compito.
Quella donna, una contadina, rimase a lungo in silenzio.
Poi mi guardò e disse: “La Madonna ha sofferto di più”…».
(Il cardinale si interrompe, commosso).
Parlavamo dell’ingerenza.
«Non ingerenza, ma adempimento della missione della Chiesa.
Come ha detto con una formula molto efficace Giovanni Paolo II, nell’enciclica Redemptor hominis, “sulla via che conduce da Cristo all’uomo la Chiesa non può essere fermata da nessuno”.
Ogni essere umano è degno di rispetto e amore; tanto più gli innocenti, gli inconsapevoli, i colpiti dal destino».
L’ha colpita il gesto delle suore che erano pronte ad accogliere Eluana e occuparsi di lei negli anni a venire? «Mi ha toccato profondamente, ma non mi ha sorpreso.
Ho avuto molte esperienze in merito.
Penso alle suore delle case di carità di Reggio Emilia, che ora sono anche qui a Roma.
Donne che accolgono persone in condizioni gravissime e le accudiscono con dedizione totale e con gioia.
E molti sono i volontari che le affiancano».
Quali casi ha conosciuto di persona? «Ad esempio, famiglie che hanno figli cerebrolesi dalla nascita, incoscienti eppure non indifferenti, perché in modo istintivo percepiscono le correnti di affetto.
Ci sono genitori che rifiutano figli così, ma ci sono altri che li accettano.
La vita di quei ragazzi, che talora ho visto diventare adulti, non è meno preziosa.
Non posso accettare l’idea che la loro vita valga meno della mia o di qualsiasi altra».
Quali sensibilità ha colto sulla vicenda nell’opinione pubblica, credente o non credente? I sondaggi indicano che in molti sostengono le ragioni di Beppino Englaro.
«Io non ho fatto sondaggi, ma ho discusso in varie occasioni con la gente comune.
All’inizio l’interesse era minore, e in tanti consideravano giusto che fosse il padre a decidere.
Ma non appena vengono informati sulle reali condizioni di Eluana, in pochissimi restano favorevoli a lasciarla morire.
Uno dei miei interlocutori si è proprio arrabbiato: “Ma perché i giornali non scrivono queste cose?”».
E lei come ha trovato i giornali? «In buona parte schierati.
Mentre le tv lo sono state meno, hanno dato spazio anche alle nostre ragioni, come già accadde per il referendum sulla procreazione assistita».
Diceva delle sue discussioni con la gente comune.
«Il fattore che la orienta non è tanto quello religioso.
Non ci sono i credenti di qua e i non credenti di là.
L’impressione è che ci siano piuttosto gli informati e i non informati.
L’esperienza mi ha insegnato inoltre che i malati, per quanto gravi, sperano sempre di continuare a vivere».
In un’intervista a Giacomo Galeazzi della «Stampa», l’arcivescovo Casale, schierandosi con papà Englaro, dice: «Anche Giovanni Paolo II ha richiesto di non insistere con interventi terapeutici inutili».
«Penso di aver conosciuto bene Giovanni Paolo II, e ho vissuto quei giorni in stretto contatto con il suo segretario Don Stanislao Dziwisz, mio carissimo amico.
So bene dunque il senso delle ultime parole del Papa, “lasciatemi andare”.
Quando non c’è più niente da fare, il credente sa che, con la morte, per lui la vita non finisce, ma in un certo senso comincia.
Sia credenti sia non credenti possono dire “lasciatemi andare” in modo eticamente legittimo, ma per un credente queste parole indicano anche una speranza, significano “lasciatemi tornare alla casa del Padre”.
Chi ha un’esperienza anche piccola del modo in cui Giovanni Paolo II viveva il suo rapporto con Dio non ha dubbi al riguardo».
Lei era capo dei vescovi quando si visse il dramma di Piergiorgio Welby.
Diverso da quello di Eluana perché il malato era cosciente e aveva chiesto di morire.
Ripensandoci oggi, non era possibile un atteggiamento diverso da parte della Chiesa? Ad esempio concedere i funerali? «È vero, quel caso era molto diverso.
Non solo Welby era cosciente; era molto più dipendente dalla tecnologia per continuare a vivere.
Nel mezzo della prova, lui scelse di porre fine alla sua vita.
Una scelta che Eluana non ha mai fatto.
Quanto alla mia decisione, la Chiesa non può consentire — tanto più quando un caso ha rilevanza pubblica — che si rivendichi nello stesso tempo l’appartenenza al cattolicesimo e l’autonomia nel decidere sulla propria vita.
Non si può dire: “Io sono cattolico, e decido io”».
Può un cattolico, tanto più un vescovo, negare la Shoah? È una semplice opinione personale in contrasto con quanto sostiene la Chiesa, o è un dato incompatibile con la presenza della Chiesa stessa? «A questa domanda ha già risposto la Santa Sede, con la nota della Segreteria di Stato pubblicata sull’Osservatore Romano secondo la quale, per essere ammesso alle funzioni episcopali, Williamson deve “prendere in modo inequivocabile e pubblico le distanze dalla sua posizione sulla Shoah”.
Se non lo fa, non può fare il vescovo».
Come giudica l’invito del cancelliere Angela Merkel al Papa a fare chiarezza sul negazionismo dei lefebvriani? «Quanto meno superfluo.
Basta ricordare o rileggere quanto disse Benedetto XVI ad Auschwitz, domenica 28 maggio 2006, con parole che toccarono profondamente tutti i presenti, me compreso».
La vicenda Englaro le pare collegata alla denuncia del vuoto di valori e del relativismo etico, temi-chiave del pontificato di Ratzinger? «Uno dei caratteri del magistero di Benedetto XVI e della teologia di Joseph Ratzinger è la denuncia del relativismo etico o, per usare la formula da lui coniata, della dittatura del relativismo.
In Italia, e ancor più in altri Paesi dell’Occidente, esiste un’emergenza educativa, che rappresenta un’ipoteca sul nostro futuro e ha le sue radici nella mentalità diffusa, secondo la quale non esistono più punti di riferimento che precedano e possano illuminare le nostre scelte.
Quando non siamo più d’accordo su cos’è l’uomo, quando l’uomo viene ricondotto totalmente ed esclusivamente alla natura, salta ogni differenza qualitativa, viene meno lo specifico umano, cadono o cambiano radicalmente i parametri educativi.
Si aprono così le porte al nichilismo, che nasce, come ha spiegato bene il suo primo sostenitore, Federico Nietzsche, con la “morte di Dio”.
La Chiesa italiana è pronta a un grande sforzo sull’educazione, collaborando con altri soggetti per il futuro del Paese, e pubblicherà in merito un “rapporto-proposta”.
Stiamo lavorando inoltre ad un grande evento internazionale per il dicembre prossimo a Roma, dove arriveranno alcuni tra i più importanti studiosi del mondo a confrontarsi sul tema di Dio e del suo significato per la nostra vita, anche in rapporto con la scienza».  Corriere della sera 07 febbraio 2009

Il digiuno per essere amici di Dio e attenti a chi ha bisogno

“Scegliendo liberamente di privarci di qualcosa per aiutare gli altri, mostriamo concretamente che il prossimo in difficoltà non ci è estraneo”.
Lo scrive il Papa nel messaggio per la Quaresima 2009, presentato martedì mattina, 3 febbraio, nella Sala Stampa della Santa Sede.
Benedetto XVI invita in particolare le parrocchie a riscoprire la pratica di donare ai poveri i frutti delle rinunce dei fedeli.
Cari fratelli e sorelle! All’inizio della Quaresima, che costituisce un cammino di più intenso allenamento spirituale, la Liturgia ci ripropone tre pratiche penitenziali molto care alla tradizione biblica e cristiana – la preghiera, l’elemosina, il digiuno – per disporci a celebrare meglio la Pasqua e a fare così esperienza della potenza di Dio che, come ascolteremo nella Veglia pasquale, “sconfigge il male, lava le colpe, restituisce l’innocenza ai peccatori, la gioia agli afflitti.
Dissipa l’odio, piega la durezza dei potenti, promuove la concordia e la pace” (Preconio pasquale).
Nel consueto mio Messaggio quaresimale, vorrei soffermarmi quest’anno a riflettere in particolare sul valore e sul senso del digiuno.
La Quaresima infatti richiama alla mente i quaranta giorni di digiuno vissuti dal Signore nel deserto prima di intraprendere la sua missione pubblica.
Leggiamo nel Vangelo: “Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo.
Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame” (Mt 4, 1-2).
Come Mosè prima di ricevere le Tavole della Legge (cfr.
Es 34, 28), come Elia prima di incontrare il Signore sul monte Oreb (cfr.
1 Re 19, 8), così Gesù pregando e digiunando si preparò alla sua missione, il cui inizio fu un duro scontro con il tentatore.
Possiamo domandarci quale valore e quale senso abbia per noi cristiani il privarci di un qualcosa che sarebbe in se stesso buono e utile per il nostro sostentamento.
Le Sacre Scritture e tutta la tradizione cristiana insegnano che il digiuno è di grande aiuto per evitare il peccato e tutto ciò che ad esso induce.
Per questo nella storia della salvezza ricorre più volte l’invito a digiunare.
Già nelle prime pagine della Sacra Scrittura il Signore comanda all’uomo di astenersi dal consumare il frutto proibito: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire” (Gn 2, 16-17).
Commentando l’ingiunzione divina, san Basilio osserva che “il digiuno è stato ordinato in Paradiso”, e “il primo comando in tal senso è stato dato ad Adamo”.
Egli pertanto conclude: “Il “non devi mangiare” è, dunque, la legge del digiuno e dell’astinenza” (cfr.
Sermo de jejunio: PG 31, 163, 98).
Poiché tutti siamo appesantiti dal peccato e dalle sue conseguenze, il digiuno ci viene offerto come un mezzo per riannodare l’amicizia con il Signore.
Così fece Esdra prima del viaggio di ritorno dall’esilio alla Terra Promessa, invitando il popolo riunito a digiunare “per umiliarci – disse – davanti al nostro Dio” (8, 21).
L’Onnipotente ascoltò la loro preghiera e assicurò il suo favore e la sua protezione.
Altrettanto fecero gli abitanti di Ninive che, sensibili all’appello di Giona al pentimento, proclamarono, quale testimonianza della loro sincerità, un digiuno dicendo: “Chi sa che Dio non cambi, si ravveda, deponga il suo ardente sdegno e noi non abbiamo a perire!” (3, 9).
Anche allora Dio vide le loro opere e li risparmiò.
Nel Nuovo Testamento, Gesù pone in luce la ragione profonda del digiuno, stigmatizzando l’atteggiamento dei farisei, i quali osservavano con scrupolo le prescrizioni imposte dalla legge, ma il loro cuore era lontano da Dio.
Il vero digiuno, ripete anche altrove il divino Maestro, è piuttosto compiere la volontà del Padre celeste, il quale “vede nel segreto, e ti ricompenserà” (Mt 6, 18).
Egli stesso ne dà l’esempio rispondendo a satana, al termine dei 40 giorni passati nel deserto, che “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4, 4).
Il vero digiuno è dunque finalizzato a mangiare il “vero cibo”, che è fare la volontà del Padre (cfr.
Gv 4, 34).
Se pertanto Adamo disobbedì al comando del Signore “di non mangiare del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male”, con il digiuno il credente intende sottomettersi umilmente a Dio, confidando nella sua bontà e misericordia.
Troviamo la pratica del digiuno molto presente nella prima comunità cristiana (cfr.
At 13, 3; 14, 22; 27, 21; 2 Cor 6, 5).
Anche i Padri della Chiesa parlano della forza del digiuno, capace di tenere a freno il peccato, reprimere le bramosie del “vecchio Adamo”, ed aprire nel cuore del credente la strada a Dio.
Il digiuno è inoltre una pratica ricorrente e raccomandata dai santi di ogni epoca.
Scrive san Pietro Crisologo: “Il digiuno è l’anima della preghiera e la misericordia la vita del digiuno, perciò chi prega digiuni.
Chi digiuna abbia misericordia.
Chi nel domandare desidera di essere esaudito, esaudisca chi gli rivolge domanda.
Chi vuol trovare aperto verso di sé il cuore di Dio non chiuda il suo a chi lo supplica” (Sermo 43: PL 52, 320.
332).
Ai nostri giorni, la pratica del digiuno pare aver perso un po’ della sua valenza spirituale e aver acquistato piuttosto, in una cultura segnata dalla ricerca del benessere materiale, il valore di una misura terapeutica per la cura del proprio corpo.
Digiunare giova certamente al benessere fisico, ma per i credenti è in primo luogo una “terapia” per curare tutto ciò che impedisce loro di conformare se stessi alla volontà di Dio.
Nella Costituzione apostolica Pænitemini del 1966, il Servo di Dio Paolo VI ravvisava la necessità di collocare il digiuno nel contesto della chiamata di ogni cristiano a “non più vivere per se stesso, ma per colui che lo amò e diede se stesso per lui, e …
anche a vivere per i fratelli” (cfr.
Cap.
i).
La Quaresima potrebbe essere un’occasione opportuna per riprendere le norme contenute nella citata Costituzione apostolica, valorizzando il significato autentico e perenne di quest’antica pratica penitenziale, che può aiutarci a mortificare il nostro egoismo e ad aprire il cuore all’amore di Dio e del prossimo, primo e sommo comandamento della nuova Legge e compendio di tutto il Vangelo (cfr.
Mt 22, 34-40).
La fedele pratica del digiuno contribuisce inoltre a conferire unità alla persona, corpo ed anima, aiutandola ad evitare il peccato e a crescere nell’intimità con il Signore.
Sant’Agostino, che ben conosceva le proprie inclinazioni negative e le definiva “nodo tortuoso e aggrovigliato” (Confessioni, ii, 10.18), nel suo trattato L’utilità del digiuno, scriveva: “Mi dò certo un supplizio, ma perché Egli mi perdoni; da me stesso mi castigo perché Egli mi aiuti, per piacere ai suoi occhi, per arrivare al diletto della sua dolcezza” (Sermo 400, 3, 3: PL 40, 708).
Privarsi del cibo materiale che nutre il corpo facilita un’interiore disposizione ad ascoltare Cristo e a nutrirsi della sua parola di salvezza.
Con il digiuno e la preghiera permettiamo a Lui di venire a saziare la fame più profonda che sperimentiamo nel nostro intimo: la fame e sete di Dio.
Al tempo stesso, il digiuno ci aiuta a prendere coscienza della situazione in cui vivono tanti nostri fratelli.
Nella sua Prima Lettera san Giovanni ammonisce: “Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio?” (3, 17).
Digiunare volontariamente ci aiuta a coltivare lo stile del Buon Samaritano, che si china e va in soccorso del fratello sofferente (cfr.
Enc.
Deus caritas est, 15).
Scegliendo liberamente di privarci di qualcosa per aiutare gli altri, mostriamo concretamente che il prossimo in difficoltà non ci è estraneo.
Proprio per mantenere vivo questo atteggiamento di accoglienza e di attenzione verso i fratelli, incoraggio le parrocchie ed ogni altra comunità ad intensificare in Quaresima la pratica del digiuno personale e comunitario, coltivando altresì l’ascolto della Parola di Dio, la preghiera e l’elemosina.
Questo è stato, sin dall’inizio, lo stile della comunità cristiana, nella quale venivano fatte speciali collette (cfr.
2 Cor 8-9; Rm 15, 25-27), e i fedeli erano invitati a dare ai poveri quanto, grazie al digiuno, era stato messo da parte (cfr.
Didascalia Ap., v, 20, 18).
Anche oggi tale pratica va riscoperta ed incoraggiata, soprattutto durante il tempo liturgico quaresimale.
Da quanto ho detto emerge con grande chiarezza che il digiuno rappresenta una pratica ascetica importante, un’arma spirituale per lottare contro ogni eventuale attaccamento disordinato a noi stessi.
Privarsi volontariamente del piacere del cibo e di altri beni materiali, aiuta il discepolo di Cristo a controllare gli appetiti della natura indebolita dalla colpa d’origine, i cui effetti negativi investono l’intera personalità umana.
Opportunamente esorta un antico inno liturgico quaresimale: “Utamur ergo parcius, / verbis, cibis et potibus, / somno, iocis et arctius / perstemus in custodia – Usiamo in modo più sobrio parole, cibi, bevande, sonno e giochi, e rimaniamo con maggior attenzione vigilanti”.
Cari fratelli e sorelle, a ben vedere il digiuno ha come sua ultima finalità di aiutare ciascuno di noi, come scriveva il Servo di Dio Papa Giovanni Paolo II, a fare di sé dono totale a Dio (cfr.
Enc.
Veritatis splendor, 21).
La Quaresima sia pertanto valorizzata in ogni famiglia e in ogni comunità cristiana per allontanare tutto ciò che distrae lo spirito e per intensificare ciò che nutre l’anima aprendola all’amore di Dio e del prossimo.
Penso in particolare ad un maggior impegno nella preghiera, nella lectio divina, nel ricorso al Sacramento della Riconciliazione e nell’attiva partecipazione all’Eucaristia, soprattutto alla Santa Messa domenicale.
Con questa interiore disposizione entriamo nel clima penitenziale della Quaresima.
Ci accompagni la Beata Vergine Maria, Causa nostræ laetitiæ, e ci sostenga nello sforzo di liberare il nostro cuore dalla schiavitù del peccato per renderlo sempre più “tabernacolo vivente di Dio”.
Con questo augurio, mentre assicuro la mia preghiera perché ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra un proficuo itinerario quaresimale, imparto di cuore a tutti la Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 11 Dicembre 2008 (©L’Osservatore Romano – 4 febbraio 2009)