Pasqua in immagini: ultima cena secondo Leonardo 

Il Vangelo della Passione di Gesù è stato letto o cantato due giorni fa in tutte le chiese cattoliche di rito romano, nella domenica che precede la Pasqua.
Quest’anno nella versione di Marco.
Ma c’è anche una Passione che parla con le immagini.
Che raggiunge e commuove un numero sterminato di persone di ogni fede.
È ad esempio quella messa in scena dalle processioni che contrassegnano la settimana santa.
O più semplicemente è quella raffigurata dall’arte pittorica.
C’è un capolavoro dell’arte universale che è forse il più conosciuto al mondo, tra quelli che rappresentano la Passione di Gesù.
È l’Ultima Cena affrescata da Leonardo da Vinci nel refettorio del convento domenicano di Santa Maria delle Grazie, a Milano.
Tantissimi conoscono e ammirano questo dipinto.
Ma pochi sanno quale momento preciso dell’ultima cena rappresenti.
Pochi sanno leggere i significati dei gesti di Gesù e degli apostoli.
E meno ancora sanno che questo affresco può essere capito solo assieme a un altro dipinto che occupa la parete di fronte del medesimo refettorio e rappresenta la crocifissione.
Sfortunatamente, quel romanzo dalla spropositata fortuna che è stato “Il Codice da Vinci” ha contribuito ad estendere non solo la fama dell’Ultima Cena di Leonardo, ma anche la sua incomprensione.
È giusto quindi strappare il velo che rende ciechi.
È ciò che fa Timothy Verdon nel testo che segue, uscito su “L’Osservatore Romano” del 30 marzo 2009.
Verdon è storico dell’arte e sacerdote.
È americano ma vive da molti anni a Firenze, dove dirige l’ufficio diocesano per la catechesi attraverso l’arte.
È uno dei maggiori esperti mondiali di arte cristiana.
Chiamato da Benedetto XV, ha partecipato agli ultimi due sinodi dei vescovi, sull’eucaristia e sulle Sacre Scritture.
In questo articolo egli spiega in chiave artistica, teologica, liturgica il senso profondo del capolavoro di Leonardo da Vinci.
Una via artisticamente sublime per capire quell’atto d’inizio della passione di Gesù che è la sua ultima cena.
E per farsene coinvolgere, come ogni grande opera d’arte sa fare.
”Se il Cristo di Leonardo alzasse lo sguardo, vedrebbe la croce” di Timothy Verdon Il Cenacolo di Leonardo da Vinci fu dipinto in un refettorio: la cena di Cristo in un luogo dove si mangia.
Ha importanza poi il fatto che il refettorio era quello di una comunità consacrata, i domenicani del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano.
L’Ultima Cena, nel corso della quale il protagonista, Cristo, assunse un gravoso impegno, fu dipinta per dei cristiani impegnati a seguirlo.
È inoltre significativo che questo refettorio si trovi a pochi passi dalla chiesa in cui i consacrati ascoltavano le Scritture che davano senso al loro impegno, e dove venivano alimentati del corpo e sangue originariamente offerti da Cristo nel contesto dell’evento raffigurato da Leonardo.
Ed è fondamentale ricordare che i frati si recavano al refettorio dalla chiesa: andavano a pranzo – almeno nelle grandi occasioni e nei giorni di festa – subito dopo la solenne messa comunitaria.
Vedevano cioè il Cenacolo di Leonardo nel contesto di un impegno che coinvolgeva tutta la loro vita, e dopo aver ascoltato il Vangelo e ricevuto l’eucaristia.
*** Ovviamente tale modo di guardare l’opera non era l’unico, e anche all’epoca il dipinto suggeriva altri significati.
La raffigurazione del Cenacolo più celebre di tutti i tempi illustra, ad esempio, in maniera singolare, il rapporto con i coevi “misteri” teatrali.
Eseguita tra il 1495-97, riassume inoltre l’ardita ricerca stilistica iniziata, elaborata e codificata da altri maestri fiorentini: in primo luogo Giotto, poi Donatello e Masaccio, infine Leon Battista Alberti.
Il cenacolo fu subito riconosciuto come una pietra miliare della cultura artistica del Rinascimento.
*** Le due cose non sono affatto contraddittorie.
L’Ultima Cena venne commissionata a Leonardo dall’allora duca di Milano, Ludovico Sforza, nel contesto di un progetto di ammodernamento e abbellimento del convento e della chiesa di Santa Maria delle Grazie, in cui il principe intendeva situare la propria sepoltura.
Nel quadro globale del progetto, diretto dall’architetto Donato Bramante, la Cena di Leonardo aveva una duplice funzione: da una parte doveva essere un’opera d’arte sacra – l’immagine della “coena Domini” nella sala dove i frati prendevano i loro pasti – e dall’altra doveva appagare l’ambizione del duca di dare lustro alla sua capitale con opere di architettura e arte nello stile moderno.
Oltre gli elementi di contenuto religioso nel dipinto, Leonardo vi creò infatti l’esempio più perfetto mai visto in Italia settentrionale della nuova prospettiva inaugurata dall’arte fiorentina, aprendo la parete di fondo del refettorio con l’illusione di una stanza spaziosa dal soffitto a cassettoni.
Questa stanza – come il grandioso presbiterio a cupola che Bramante realizzava contemporaneamente per la chiesa – aggiornava una struttura preesistente, definendone un’estensione ideale, a un livello più alto: lo spazio di Cristo nel convento dei frati.
In realtà i due aspetti del Cenacolo – quello tecnico e quello mistico – si sovrappongono, perché è anche grazie all’uso della prospettiva che Leonardo riesce a mostrare che la vita della comunità religiosa è un’estensione della vita di Cristo e degli apostoli.
Attraverso la sua costruzione prospettica, l’artista focalizza l’attenzione su Cristo, facendo della sua figura il punto d’incrocio dell’intero cosmo pittorico definito dalla sala.
Infatti le linee diagonali che portano l’occhio in profondità conducono inevitabilmente a Cristo, tutto si ricollega a Lui, è Lui il perno della logica visiva oltre che narrativa dell’insieme.
Egli non è il punto ultimo, il punto di fuga prospettica; le linee diagonali convergono piuttosto dietro Cristo, nell’aria vespertina che è oltre la finestra; ma quel punto ultimo rimane nascosto.
Cercando l’infinità, il nostro sguardo si ferma a Cristo, come se egli ancora dicesse: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Giovanni 14, 9).
La forza di questa concentrazione prospettico-cristologica ideata da Leonardo diventa chiara se si raffronta la sua Cena con altre interpretazioni del tema nella pittura coeva.
Domenico Ghirlandaio, ad esempio, negli anni 1480-1490 ne dipinse due, quasi identiche, nei conventi di Ognissanti e San Marco a Firenze.
Come Leonardo, questo artista si servì della prospettiva per dare l’illusione di uno spazio reale, senza però costruire lo spazio in diretto rapporto a Cristo.
Nelle Cene dipinte dal Ghirlandaio, l’occhio avanza da sinistra a destra, fermandosi su ciascuna delle tredici figure separate ma più o meno uguali, senza cogliere immediatamente quale di esse rappresenti Gesù.
Due sono in posizioni diverse dagli altri: Giuda, seduto dalla nostra parte della tavola, e il giovane san Giovanni che si riposa, con la testa tra le braccia incrociate sulla tavola.
Per un processo di eliminazione, si capisce che la figura su cui Giovanni si poggia – l’uomo posto di fronte a Giuda – deve essere Cristo.
Ma la cosa non è subito chiara.
Questa impostazione – che era classica nell’arte fiorentina, adoperata sin dal Trecento nei refettori – aiuta a capire la novità della lettura di Leonardo da Vinci.
*** Sappiamo da un suo disegno ora conservato a Venezia che, in un primo momento, pure Leonardo aveva pensato di sistemare gli apostoli lungo la tavola come tante unità separate, con san Giovanni addormentato accanto a Cristo e Giuda dall’altra parte.
A un certo punto però Leonardo sembra aver capito che l’effetto di tale frammentazione sarebbe stato come nel Ghirlandaio: dodici uomini isolati gli uni dagli altri, che reagiscono alla spicciolata, ognuno a modo suo, all’annuncio sconvolgente che invece interessa tutti: l’annuncio che li mette in crisi non tanto come individui ma come gruppo, come comunità: “In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà” (Giovanni 13, 21).
Per evitare tale frammentazione narrativa, Leonardo ha preferito allora unire i dodici intorno a Cristo in quattro grandi gruppi, in cui l’elemento che colpisce è appunto l’eloquenza corale di più persone accomunate da un solo impeto emotivo.
Con particolare attenzione alla diversità di tipologie e gesti, il pittore rappresenta ciò che poteva essere veramente accaduto in una comunità di uomini vissuti insieme per tre anni.
I dodici si suddividono naturalmente in gruppi diversificati gli uni dagli altri ma connessi tra loro; all’interno di ogni gruppo si discute sul significato di quanto Cristo ha detto, ma l’attenzione psicologica, espressa mediante sguardi e gesti, dai due lati della tavola torna necessariamente verso il centro, verso Cristo.
Tale movimento centripeto ha perciò, in superficie, la stessa funzione che hanno le linee prospettiche in profondità: conducono l’attenzione sull’attore principale, nel momento stesso del suo grande discorso, del gesto misterioso e commovente: il dono della sua vita nei segni del pane e del vino.
Notiamo poi come, nei gruppi posti immediatamente a destra e sinistra di Gesù, il movimento viene invertito: gli apostoli ai lati di Cristo si tirano indietro, il flusso dei loro sentimenti non raggiunge il Salvatore, che pronuncia il suo discorso e compie il suo gesto in maestosa solitudine.
I movimenti dei corpi a destra e a sinistra, i gesti delle mani, non lo toccano: sono come onde che lambiscono un promontorio senza bagnarne la cima.
Eppure intuiamo che l’intensità di sentimento in questi uomini – la loro capacità di agire con “un cuore solo e un’anima sola”, il loro comune desiderio di trasparenza davanti alla commozione di un Maestro che si è fatto servo e che ora parla loro di tradimento e di morte – dipende da Gesù, nasce in rapporto a Gesù: è Lui che motiva e fonda l’apertura con cui, ad esempio, Filippo, a destra, con le mani invita a leggere nel suo cuore.
Nel corso della cena Gesù si è aperto a loro, ha lasciato vedere la propria angoscia, ne ha parlato, si è dato totalmente in un modo nuovo, corpo e spirito insieme, e ora gli apostoli si trovano capaci anch’essi di aprirsi, disposti anch’essi a darsi.
A contatto con la realtà di questo Signore-Servo, di quest’uomo che parla da Dio, i suoi discepoli scoprono una capacità di risposta oltre i normali limiti della natura, una capacità soprannaturale simile all’apertura di Gesù stesso.
“Il nuovo e grande mistero che avvolge la nostra esistenza – aveva scritto san Gregorio Nazianzeno mille anni prima di Leonardo – è questa partecipazione alla vita di Cristo.
Egli si è comunicato interamente a noi: tutto ciò che Egli è, è diventato completamente nostro.
Sotto ogni aspetto noi siamo Lui.
Per Lui portiamo in noi l’immagine di Dio dal quale e per il quale siamo stati creati.
La fisionomia, l’impronta che ci caratterizza è ormai quella di Dio” (Discorso 7, Patrologia Greca 35, 786-87).
Nel Cristo di Leonardo convergono le linee portanti all’infinità, convergono i sentimenti di molti cuori, e convergono – s’intrecciano, si sovrappongono, s’identificano – la natura divina con quella umana.
In questa straordinaria figura il pittore raccoglie tutti i fili del racconto evangelico: il “desiderio ardente” di condivisione in Gesù; la piena consapevolezza di ciò che gli sarebbe accaduto; il senso poi di essere arrivato al momento supremo, di compiere per l’ultima volta un gesto comune, aprendone il significato verso un orizzonte sconfinato.
La composizione piramidale che suggerisce quiete e forza; l’eloquenza con cui Cristo apre le braccia e allunga le mani: quella destra (alla nostra sinistra) verso il bicchiere di vino, quella sinistra (alla nostra destra) che mostra il pane; il regale isolamento in mezzo agli apostoli, la testa stagliata contro la luce del tardo pomeriggio, senza aureola ma incorniciata dalla nobile architettura della sala; e l’aria di sottile tristezza nell’inclinazione del capo come anche in ciò che rimane dell’espressione in questo dipinto danneggiato: tutto è fedele all’immagine che il Nuovo Testamento offre del Salvatore la notte in cui fu tradito, l’immagine di uno che si dona spontaneamente e nel contempo istituisce un rito eterno; uno che parla del suo regno, quindi un re; e soprattutto un uomo consapevole di andare incontro alla morte che accettava liberamente, “sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani, e che era venuto da Dio e a Dio ritornava” (Giovanni 13, 3); “sapendo”, “accettando”, ma soffrendo umanamente, “rilassando le redini dell’emotività”, come dirà Gianfrancesco Pico della Mirandola in un trattato sull’immaginazione stilato negli stessi anni.
*** Cerchiamo di cogliere l’impatto di questa figura nel suo contesto d’uso originario.
Le costitutioni dell’ordine domenicano, riformulate dal capitolo generale tenutosi a Milano nel 1505 nel convento di Santa Maria delle Grazie, lo stesso del Cenacolo di Leonardo, descrivono con precisione il rituale d’ingresso a un refettorio, indicando anche la funzione di eventuali immagini collocate in tali spazi comunitari.
“Suonata la campana – leggiamo – i fratelli debbono recarsi silenziosamente ma con decorosa rapidità al luogo in cui dovranno lavarsi le mani.
Lavate le mani, devono andare poi, nell’ordine consueto, a sedersi sulla panca disposta fuori del refettorio, e in quella posizione recitare il ‘De profundis’.
Quando infine il priore suonerà per l’ingresso nel refettorio, devono entrare a due a due, incominciando dai più giovani.
E quando sono in mezzo al refettorio, devono fare un inchino alla croce o all’immagine dipinta ivi collocata, e, fatto il segno della croce, devono andare a sedere a tavola”.
Come suggerisce questo testo, il significato religioso del Cenacolo e di altre immagini nei refettori va meditato all’interno di un sistema di riti e segni elaborato dalla tradizione monastica attraverso molti secoli.
La “croce o immagine dipinta” nel refettorio dove si mangiava, e il salmo recitato prima di entrare mentre i frati si lavavano le mani, riportavano al senso eterno di azioni ordinarie, quotidiane: la pulizia e l’alimentazione.
Il Salmo 130, chiamato il “De profundis”, attribuiva ad esempio un significato spirituale al comune atto d’igiene.
“Dal profondo” della propria colpevolezza, il salmista (e con lui il frate che si lavava) esprimeva la sua fede che Dio è capace di purificarlo: “Presso il Signore è la misericordia e grande presso di Lui la redenzione.
Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe”.
Nello stesso modo, la croce o immagine dipinta sulla parete del refettorio dava un senso religioso all’atto di mangiare, invitando i commensali a leggere nel pasto un significato spirituale oltre a quello fisico: non solo sostentamento del corpo, ma sostegno della vita interiore.
In pratica, i significati dei due momenti – del “De profundis” fuori della porta e dell’inchino all’immagine della passione dentro il refettorio – erano collegati.
Se l’atto di lavarsi esprimeva la fede nel perdono divino, quello di accostarsi alla mensa comunicava il coraggio di vivere.
Il peccatore perdonato mangia e si mantiene in vita perché accetta il perdono del Dio misericordioso; s’inchina davanti alla croce o altra immagine nel refettorio perché in essa ravvisa l’espressione di tale misericordia: Cristo che offre la propria vita in riscatto per i peccati degli uomini.
La croce esprime sempre questa “redenzione”, e la “immagine dipinta” più usata nei refettori, l’ultima cena, lo comunica ugualmente: nel racconto evangelico, Gesù durante la cena dà il vino ai suoi discepoli con le parole: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti in remissione dei peccati” (Matteo 26, 27-28).
*** Tornando a guardare l’Ultima Cena che gli estensori delle costituzioni domenicane avevano davanti agli occhi nel 1505, il dipinto di Leonardo, dobbiamo ancora notare che nel refettorio di Santa Maria delle Grazie ci sono due dipinti, a entrambi dei quali ci si doveva inchinare.
Negli stessi anni, infatti, in cui Leonardo dipinse l’Ultima Cena, un artista milanese, Donato Montorfano, affrescò la parete di fronte a essa con una monumentale Crocifissione, tuttora visibile all’altro capo della sala.
Di conseguenza, “lavate le mani” con fede nella misericordia divina, i frati che accedevano al refettorio si trovavano abbracciati d’ambo le parti da quella misericordia: davanti e dietro di sé avevano immagini della “grande redenzione” operata a favore dei peccatori da Cristo.
Su una delle due pareti di fondo vedevano, nell’Ultima Cena, l’impegno di Gesù a offrire il suo corpo e sangue “per la remissione dei peccati”, e sulla parete opposta vedevano nella Crocifissione l’adempimento dell’impegno, quando Cristo offrì la sua vita fisicamente sulla croce.
Avendo rammentato il loro bisogno di perdono, i frati andavano cioè a tavola tra i due momenti nei quali tale perdono era stato realizzato: tra il giovedì sera e il venerdì pomeriggio dell'”ora” di Gesù, tra la Cena e la Croce.
Che Leonardo stesso abbia concepito i due dipinti del refettorio come componenti di un programma unitario è confermato dalla sua decisione di abbandonare il suo primo progetto compositivo, quello del disegno veneziano, per l’impianto che abbiamo descritto.
Al posto del Cristo che si sporge per dare il boccone a Giuda, l’artista ha ideato un Cristo regale e sacerdotale che, allargando le braccia, mostra il pane e sta per prendere il vino.
Cioè al posto di una figura narrativa – il Cristo del disegno veneziano, che interagisce con Giuda – Leonardo ha preferito un Signore tutto interiore, che invita all’introspezione psicologica.
Lo sguardo velato di tristezza, la testa inclinata, l’isolamento della figura suggeriscono un momento di profonda interiorità.
*** Leonardo deriva la composizione del suo Cristo da tre fonti.
La prima è l’immagine del re e giudice fornita dal grande Cristo a mosaico del Battistero della sua città, Firenze: l’eterno sacerdote vestito del cielo e della terra, con le braccia estese per accogliere o respingere in virtù del mistero della sua passione.
La seconda è l’immagine del legislatore tipica dell’arte paleocristiana e medievale: il Signore che allarga le braccia per trasmettere il rotolo o libro del suo Vangelo ai credenti.
La pala d’altare dell’Orcagna in Santa Maria Novella, la chiesa dell’ordine domenicano a Firenze, presenta Cristo in questo modo: un re legislatore, che con la destra affida a san Tommaso d’Aquino il libro della teologia, mentre con la sinistra dà le chiavi del regno celeste a san Pietro.
Tra i temi toccati da Gesù nella cena c’erano infatti quelli del “regno” e della “nuova legge” dell’amore.
San Tommaso, nel suo commento teologico al discorso dell’ultima cena, collega proprio queste idee, ricordando che all’ultimo pasto preso con i suoi discepoli Cristo fungeva simultaneamente da re, da legislatore e da sacerdote.
Inoltre san Tommaso – la cui interpretazione doveva essere familiare ai domenicani di Santa Maria delle Grazie – dice che queste tre funzioni, che normalmente interessano categorie distinte di persone, in Cristo “confluiscono”.
Ma è la terza fonte del suo Cristo che permette a Leonardo di fondere perfettamente le altre due.
La posa del Salvatore con le braccia estese e la testa inclinata in segno di tristezza o di morte corrisponde a quella comunemente adoperata all’epoca per le immagini del “Vir dolorum”, dell’Uomo dei dolori, che facevano vedere il corpo di Gesù deposto dalla croce con la testa inclinata e le braccia estese per mostrare le piaghe.
La maestà regale, la ieraticità sacerdotale e la dignità legale sono comprese, ricapitolate, approfondite all’infinito in quest’allusione visiva al Servo Sofferente, perché Cristo regna dalla croce quando offre se stesso come sacerdote, vittima e altare, per istituire con il proprio sangue la nuova alleanza per il perdono dei peccati.
Nella Cena del refettorio di Santa Maria delle Grazie, Cristo apre le braccia nel gesto compiuto il giorno dopo sulla croce.
La posa del Cristo leonardiano è stata cioè ideata in funzione dell’atto successivo del dramma sacro, raffigurato sulla parete opposta del refettorio.
La maestosa presenza psicologica, l’insondabile interiorità sono attributi di chi contempla e accetta la propria morte.
Se il Cristo di Leonardo alzasse lo sguardo, vedrebbe infatti la croce del giorno seguente.
La testa inclinata, la mano aperta che indica il pane, sono preannunci di ciò che deve venire dopo.
E la vita dei frati – il loro mangiare, il coraggio con cui, peccatori perdonati, si mantengono in vita – è compresa in quel “mentre”: nell’interstizio tra l’accettazione e la realizzazione, nello spazio quotidiano della sequela, in una fedeltà spesso sofferta, che li configura a Cristo.
__________  Il giornale della Santa Sede su cui è uscito l’articolo di Timothy Verdon: > L’Osservatore Romano __________ Su questi temi, in www.chiesa: > Focus su ARTE E MUSICA

Concordato: riforma incompiuta.

Vorrei soffermarmi, in apertura, sul contesto storico della riforma del Concordato nel 1984 e sulle prospettive che la revisione ha aperto nel nostro e in altri ordinamenti.
Vorrei trattare, cioè, del Concordato italiano del 1984 in un orizzonte riformatore più ampio rispetto al testo dell’accordo, in relazione all’ordinamento italiano e all’evoluzione del diritto europeo.
In altri termini, vorrei riprendere la lezione di Francesco Ruffini che già nell’Ottocento aveva sprovincializzato la cultura italiana introducendo e facendo conoscere le grandi acquisizioni della laicità in diversi paesi, e che per primo a livello scientifico (dopo Alexis de Tocqueville) aveva chiarito la differenza tra il separatismo amico delle Chiese degli Stati Uniti d’America e il separatismo ostile alle Chiese e alla religione della Francia illuminista.
Per la consultazione del contributo  concordato .Cardia Regno-att.
n.4, 2009, p.120

Homo religiosus nella storia/6

Bibliografia: R.
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Eliade, Le sa­cré et le profane, Paris 1955 (tr.
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35-102; Homo religiosus, Sacré, Sainteté, in ibid., III , 1986, pp.
331-384; F.A.
Pastor, L’uomo e la ricerca di Dio, in Aa.Vv., Vaticano II.
Bilancio e prospettive (a cura di R.
Latourelle), Citta­della, Assisi 1987, pp.
923-938.
 L’uomo religioso assume nel mondo un modo specifico di esistenza, che si esprime nelle numerose forme religiose, che la storia ci mostra.
Egli si riconosce dal suo stile di vita; «crede sempre all’esistenza di una realtà assoluta, il sacro, che trascende questo mondo ma che in esso si manifesta e che quindi lo santifica e lo rende reale» (Eliade, Le sacré et le profane, 171).
L’uomo religioso vive un’esperienza religiosa; si trova in una serie di situazioni esistenziali che lo mettono il rapporto con il Trascendente.
Attraverso le diverse situazioni che egli assume, riu­sciamo a penetrare nel suo universo spiri­tuale.
Queste situazioni hanno lasciato delle tracce.
In definitiva, la storia delle religioni è la storia dell’homo religiosus colto nella realtà esistenziale delle sue credenze, delle sue esperienze e del suo comportamento.
Quest’uomo crede all’origine sacra della vita e al senso dell’esi­stenza umana come partecipazione a una Realtà che va al di là di questa esistenza.
Così, l’homo religiosus è l’uomo che «prende coscienza del sacro, perché que­sto si mostra, si manifesta come qualcosa di totalmente differente dal profano» (Le sacré…, 14).
Il sacro si manifesta come una potenza di un ordine completamente diverso da quello delle forze naturali.
Per designare questa manifestazione del sacro percepita dall’homo religiosus, Eliade usa un termine: ierofania.
Dal punto di vista della struttura, l’atto di manifestazione del sacro è sempre identico: un atto miste­rioso, la manifestazione di qualcosa «totalmente altra».
Questa manifestazione è l’elemento misterioso che costituisce la natura sui generis di ogni ierofania.
La storia delle religioni ci mostra che la strut­tura e la dialettica della ierofania sono sempre identiche.
Ciò è di importanza fondamentale: nella vita religiosa non ci sono rotture, l’esperienza religiosa ha la stessa specificità in tempi e luoghi diversi.
Essa è l’esperienza esistenziale dell’homo religiosus.
Anche se tutte le ierofanie hanno la stessa struttura e si presentano, quindi, come omogenee, esse sono, tuttavia, eterogenee dal punto di vista della forma: riti, miti, forme divine, oggetti, simboli, animali, piante, uomini.
Il sacro si manifesta, dun­que, per l’homo religiosus a livelli diversi, il che spiega la grande varietà dell’espe­rienza religiosa, da una ierofania che ha luogo in una pietra fino alla teofania su­prema, l’Incarnazione di Dio in Gesù Cristo.
L’homo religiosus è insieme.
testi­mone e messaggero.
Il fenomenologo vede il testimone, l’ermeneuta cerca di comprendere il messaggero e il suo mes­saggio.
Si può affermare che attraverso lo studio dell’homo religiosus la storia delle religioni identifica il trascendente nell’e­sperienza religiosa.
Nella vita dell’uomo religioso il linguag­gio delle ierofanie è costituito dal sim­bolo, attraverso il quale il mondo parla e rivela le modalità del reale che non sono evidenti di per sé stesse.
I simboli religiosi che toccano le strutture della vita mettono in rilievo una dimensione che trascende la dimensione umana, e rendono possibile una comprensione diretta della Realtà ul­tima.
II pensiero simbolico precede il lin­guaggio e costituisce la sostanza della vita religiosa.
L’homo religiosus è un homo symbolicus.
L’esperienza del mito è an­ch’essa un’esperienza del sacro poiché mette l’uomo in contatto con il mondo soprannaturale.
Il mito si presenta come una storia vera, sacra ed esemplare, che fornisce all’uomo religioso dei modelli di condotta.
I miti cosmogonici, i miti d’ori­gine, i miti di rinnovamento, i miti escato­logici orientano l’attività dell’homo reli­giosus dandogli un messaggio normativo.
II mito, andando a sfociare nell’imita­zione di un modello trascendente, sulla ripetizione di una storia esemplare, man­tiene nell’uomo la coscienza del divino: grazie al mito il mondo diviene traspa­rente.
Nel mito è presente il riferimento a un archetipo che conferisce potenza ed efficacia all’azione umana.
L’archetipo si presenta come un modello primordiale che ha origine nel mondo soprannaturale.
L’uomo religioso realizza questo modello sulla terra.
Per far questo egli ha bisogno di un rituale che dia forza ed efficacia alla sua realizzazione, mettendola in perfetto accordo con l’archetipo.
L’effetto del ri­tuale consiste nel conferire una dimen­sione di realtà all’azione dell’uomo religioso.
I riti di passaggio rappresentano il passaggio dalla condizione profana a un’esistenza nuova segnata dal sacro.
L’ i­niziazione equivale a una mutazione onto­logica del regime esistenziale.
È dunque per mezzo dei simboli, dei miti e dei riti che il sacro esercita la sua funzione di Mediazione nella vita dell’homo religio­so, al quale dà la possibilità di entrare in contatto con la fonte stessa del sacro, cioè sacro in quanto Realtà trascendente.
homo religiosus è in definitiva un lettore e un messaggero del sacro.
Se l’uomo religioso appare nello specchio della storia delle religioni come homo in­sieme storico e transtorico, in quanto uomo nella totalità delle sue dimensioni, cosa significa quell’altro tipo umano che è l’uomo areligioso? Per Eliade è l’uomo che «rifiuta la trascendenza, accetta la re­latività della “realtà” e arriva fino a dubi­tare del senso dell’esistenza» (Le sacré et le profane, 172).
Questo tipo d’uomo è andato fiorendo soprattutto nelle società moderne occidentali.
Costruisce se stesso desacralizzando il mondo.
«Il sacro è l’o­stacolo per eccellenza alla sua libertà» (op.
cit., 172).
Egli discende dall’homo religiosus per via di un processo di desa­cralizzazione, ma conserva numerose tracce del comportamento dell’uomo reli­gioso di cui è l’erede.
È portatore di una mitologia camuffata e di ritualismi dete­riorati.
Il processo di desacralizzazione ha portato inoltre alla nascita delle ideolo­gie, delle mistiche politiche, di certi mo­vimenti laici che fanno gran caso al sog­getto iniziatico e alla nostalgia delle origini.­     Julien Ries

La mobilità degli Insegnanti di Religione

Pubblichiamo in approfondimento il testo dell’O.M.
sulla mobilità per i docenti di religione per a.s.
2009/10, pubblicata oggi.
 Ordinanza Ministeriale n.36 Prot.
n.3812 Roma, 23 marzo 2009 MOBILITA’ DEL PERSONALE DOCENTE DI RELIGIONE CATTOLICA ANNO SCOLASTICO 2009/2010 IL MINISTRO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITÀ E DELLA RICERCA Vista la legge 25-3-1985, n.
121, Visto il DPR 16-12-1985, n.
751, Visto il DPR 23-6-1990, n.
202, Vista la legge 23-10-1992, n.
421, Visto il DL 27-8-1993, n.
321, convertito dalla legge 27-10-1993, n.
423, Vista la legge 14-1-1994, n.
20, Visto il DLgs 16-4-1994, n.
297, e successive modificazioni e integrazioni, Vista la legge 23-12-1996, n.
662, Vista la legge 31-12-1996, n.
675 e successive modificazioni e integrazioni, Vista la legge 15-3-1997, n.
59, Vista la legge 15-5-1997, n.
127, e successive modificazioni, Visto il Dpr 18-6-1998, n.
233, Visto il Dpr 8-3-1999, n.
275, Vista la legge 3-5-1999, n.
124, Visto il Dpr 28-12-2000, n.
445, Visto DLgs 30-3-2001, n.
165, e successive modificazioni e integrazioni, Visto il DL 3-7-2001, n.
255, convertito, con modificazioni, dalla legge 20-8-2001, n.
333, Visto il DLgs 30-6-2003, n.
196, Vista la legge 18-7-2003, n.
186, Visto il Dpr 21-12-2007, n.
260, Visto il DM 24-3-2005, n.
42, Visto il DM 13-4-2006, n.
37, Visto il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del Comparto Scuola per il quadriennio giuridico 2006-09 e per il biennio economico 2006-07 sottoscritto il 29-11-2007, Visto il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro relativo al personale del Comparto Scuola per il biennio economico 2008-2009 sottoscritto il 23-1-2009, Visto il Contratto Collettivo Nazionale Integrativo concernente la mobilità del personale docente, educativo ed a.t.a.
per l’anno scolastico 2009-10, sottoscritto il 12-2-2009, Vista l’Ordinanza Ministeriale 13-2-2009, n.
18, sulla mobilità del personale della scuola, Vista l’Ordinanza Ministeriale 21-2-2008, n.
27, sulla mobilità del personale docente di religione cattolica per l’anno scolastico 2008-09, Considerato che gli insegnanti di religione cattolica, ancorché assunti nei ruoli dello Stato, sono vincolati da specifiche norme di natura concordataria e sono assegnati, ed ivi incardinati, a circoscrizioni territoriali diocesane che non coincidono con le circoscrizioni amministrative che regolano la titolarità del restante personale della scuola, Ritenuto di non poter trattare in maniera meccanizzata la mobilità degli insegnanti di religione cat-tolica, ma di dover ricorrere, anche per quest’anno, ad una gestione manuale di detto perso-nale, Sentite le Organizzazioni Sindacali del Comparto Scuola che hanno sottoscritto il Contratto Collet-tivo Nazionale Integrativo sulla mobilità del personale della scuola per l’anno scolastico 2009-10, ORDINA Articolo 1 – Campo di applicazione dell’ordinanza e principi generali 1.
La presente Ordinanza disciplina la mobilità per l’anno scolastico 2009-10 degli insegnan-ti di religione cattolica assunti nei ruoli di cui alla legge 186/03.
Le disposizioni contenute nella presente Ordinanza determinano le modalità di applicazione delle disposizioni dell’art.
37bis del Contratto Collettivo Nazionale Integrativo sottoscritto il 12-2-2009, concernente la mobilità del per-sonale della scuola.
2.
Nel rispetto della normativa concordataria vigente, in tutte le operazioni di mobilità che li riguardano gli insegnanti di religione cattolica devono essere in possesso del riconoscimento di ido-neità rilasciato dall’ordinario della diocesi di destinazione e deve essere raggiunta una intesa sulla utilizzazione tra il medesimo ordinario diocesano e il Direttore Generale dell’Ufficio scolastico re-gionale o un suo delegato relativamente alla sede o alle sedi di servizio.
Nell’individuare un posto di insegnamento le autorità scolastica ed ecclesiastica citate possono eccezionalmente configurare cat-tedre o posti misti, articolati contemporaneamente su scuola dell’infanzia e scuola primaria o su scuola secondaria di primo e secondo grado.
3.
Gli insegnanti di religione cattolica hanno titolarità in un organico regionale articolato per diocesi e sono utilizzati nelle singole sedi scolastiche sulla base di un’intesa raggiunta, al momento della prima assunzione, tra il Direttore Generale dell’Ufficio scolastico regionale e l’ordinario dioce-sano competente.
Detta assegnazione di sede si intende confermata automaticamente di anno in an-no qualora permangano le condizioni e i requisiti prescritti dalle vigenti disposizioni di legge.
4.
Possono partecipare alle operazioni di mobilità territoriale a domanda per transitare nel contingente di diocesi diversa da quella di appartenenza, ubicata nella stessa regione di titolarità, gli insegnanti di religione cattolica che con l’anno scolastico 2008-09 abbiano almeno due anni di an-zianità giuridica di servizio in ruolo.
5.
Possono partecipare alle operazioni di mobilità territoriale a domanda per acquisire la tito-larità in altra regione, con conseguente assegnazione al contingente di altra diocesi, gli insegnanti di religione cattolica che con l’anno scolastico 2008-09 abbiano almeno tre anni di anzianità giuridica di servizio in ruolo.
6.
La mobilità professionale degli insegnanti di religione cattolica, ai sensi dell’art.
4, c.
1, della legge 186/03, è limitata al passaggio dal settore formativo corrispondente al ruolo per l’inse-gnamento della religione cattolica nella scuola dell’infanzia e primaria al settore formativo corri-spondente al ruolo per l’insegnamento della religione cattolica nella scuola secondaria di primo e secondo grado, o viceversa.
Possono partecipare a detta mobilità professionale gli insegnanti che, avendo superato il periodo di prova, siano in possesso dell’idoneità concorsuale anche per il settore formativo richiesto e dell’idoneità ecclesiastica rilasciata, per l’ordine e grado di scuola richiesto, dall’ordinario diocesano competente.
7.
Gli insegnanti di religione cattolica assunti nel ruolo della scuola dell’infanzia e primaria ma assegnati alla scuola dell’infanzia in quanto in possesso dei soli titoli di qualificazione per l’inse-gnamento nella scuola dell’infanzia possono partecipare alle operazioni di mobilità territoriale uni-camente per essere utilizzati in scuole dell’infanzia.
Ove abbiano conseguito nel frattempo una qua-lificazione che li abiliti ad insegnare anche nella scuola primaria, e siano in possesso della specifica idoneità all’insegnamento della religione cattolica anche nella scuola primaria, possono partecipare alle operazioni di mobilità, sempre d’intesa con l’autorità ecclesiastica competente, su una sede di scuola primaria o su un posto misto di scuola primaria e dell’infanzia.
8.
Le tabelle allegate al Contratto Collettivo Nazionale Integrativo concernente la mobilità del personale della scuola, sottoscritto il 12-2-2009, sono valide, con le precisazioni di cui al suc-cessivo articolo 4, anche per la mobilità degli insegnanti di religione cattolica.
9.
La presente Ordinanza è diramata a mezzo della rete Intranet e Internet ed affissa agli albi degli Uffici scolastici regionali, degli Uffici scolastici provinciali e delle Istituzioni scolastiche.
Articolo 2 – Termini per le operazioni di mobilità 1.
Le domande di mobilità devono essere presentate da tutto il personale di cui al precedente articolo dal 30 marzo al 28 aprile 2009.
Le domande sono elaborate manualmente dagli uffici indi-cati negli articoli successivi.
2.
Il termine per la pubblicazione di tutti i movimenti di detto personale, come definiti dal-l’articolo 37bis del CCNI sottoscritto il 12 febbraio 2009, è fissato al 30 giugno 2009.
3.
Il termine ultimo per la presentazione della richiesta di revoca delle domande è fissato al 15 giugno 2009.
Articolo 3 – Presentazione delle domande 1.
Gli insegnanti di religione cattolica di cui all’art.
1 devono indirizzare le domande di tra-sferimento e di passaggio, redatte in conformità agli appositi modelli riportati negli allegati alla pre-sente Ordinanza e corredate dalla relativa documentazione, all’Ufficio scolastico regionale della Regione di titolarità e presentarle al dirigente dell’Istituzione scolastica presso la quale prestano ser-vizio.
2.
Nel caso di diocesi che insistono sul territorio di più Regioni, gli insegnanti di religione cattolica, a prescindere dall’ubicazione della sede diocesana, devono indirizzare le domande di tra-sferimento e di passaggio, sempre redatte in conformità ai modelli allegati e corredate della relativa documentazione, all’Ufficio scolastico regionale della Regione in cui si trova l’Istituzione scolastica presso la quale prestano servizio e presentarla al dirigente scolastico della medesima Istituzione scolastica.
3.
Le domande dei docenti appartenenti ai ruoli della Val d’Aosta, intese ad ottenere il trasfe-rimento o il passaggio nelle scuole del rimanente territorio nazionale, devono essere inviate all’Uffi-cio scolastico regionale per il Piemonte.
4.
Le domande devono contenere le seguenti indicazioni: generalità dell’interessato , regione di titolarità, diocesi e scuola presso la quale l’insegnante presta servizio per utilizzazione nel corren-te anno scolastico.
5.
I docenti devono redigere le domande, sia di trasferimento che di passaggio, in conformità ai seguenti allegati e secondo le istruzioni riferite agli allegati medesimi: – scuole dell’infanzia e primarie Allegato TR1 (trasferimenti) e Allegato PR1 (passaggi) – scuole secondarie di I e II grado Allegato TR2 (trasferimenti) e Allegato PR2 (passaggi) 6.
I docenti che intendono chiedere contemporaneamente il trasferimento ed il passaggio de-vono presentare distintamente una domanda per il trasferimento e una domanda per il passaggio, precisando nella domanda di passaggio a quale delle due intendano dare la precedenza.
In mancanza di indicazioni chiare viene data precedenza al trasferimento.
7.
In caso di richiesta contemporanea di trasferimento e di passaggio è consentito documen-tare una sola delle domande, essendo sufficiente per l’altra il riferimento alla documentazione alle-gata alla prima.
8.
Le domande devono essere corredate dalla documentazione attestante il possesso dei titoli per l’attribuzione dei punteggi previsti dalle tabelle di valutazione allegate al Contratto Collettivo Nazionale Integrativo sottoscritto il 12-2-2009, con le specificazioni previste dal successivo articolo 4.
Le domande di trasferimento devono contenere il certificato di riconoscimento dell’idoneità ec-clesiastica rilasciato dall’ordinario della diocesi di destinazione.
Le domande di passaggio devono contenere l’indicazione relativa al possesso della specifica idoneità concorsuale, oltre all’idoneità ecclesiastica rilasciata, per l’ordine e grado di scuola richiesto, dall’ordinario diocesano competente.
Non saranno prese in considerazione le domande prive della dichiarazione di idoneità dell’ordinario diocesano competente.
9.
I titoli di servizio valutabili ai sensi della relativa tabella devono essere attestati dall’inte-ressato sotto la propria responsabilità con dichiarazione personale in carta semplice e riportati nel-l’apposita casella del modulo domanda.
10.
I titoli valutabili per esigenze di famiglia devono essere documentati secondo quanto in-dicato nell’articolo 9 del Contratto Collettivo Nazionale Integrativo sottoscritto il 12-2-2009, con-cernente la mobilità del personale della scuola.
11.
Le dichiarazioni mendaci, le falsità negli atti e l’uso di atti falsi sono puniti a norma delle disposizioni vigenti.
Articolo 4 – Documentazione delle domande 1.
Le domande sono prese in esame solo se redatte utilizzando l’apposito modulo allegato al-la presente Ordinanza, disponibile nella rete Intranet ed Internet.
Il mancato utilizzo dell’apposito modulo comporta l’annullamento delle domande.
2.
Le domande vanno corredate dalla certificazione di idoneità rilasciata dall’Ordinario Dio-cesano di destinazione, nonché dalle dichiarazioni, in carta semplice, dei servizi prestati, redatte in conformità al modello D allegato alla presente Ordinanza, ovvero dal certificato di servizio.
3.
La valutazione delle esigenze di famiglia e dei titoli deve avvenire ai sensi della tabella al-legata al Contratto Collettivo Nazionale Integrativo sottoscritto il 12-2-2009 e va effettuata esclusi-vamente in base alla documentazione, in carta semplice, da produrre da parte degli interessati uni-tamente alla domanda, nei termini previsti .
4.
In relazione alle Tabelle A) e B) per la valutazione dei titoli ai fini dei trasferimenti a do-manda e d’ufficio e ai fini della mobilità professionale si noti che nei confronti degli insegnanti di religione cattolica non trovano di fatto applicazione i punteggi previsti alle lettere B3) e C1).
Per-tanto non andranno compilate le caselle corrispondenti nel modulo domanda.
In relazione ai titoli generali (punto III), non trova inoltre applicazione il punteggio previsto alla lettera A) e quindi non sono da compilare le corrispondenti caselle dei moduli domanda.
Va invece riconosciuto il punteg-gio relativo alla lettera B), superamento di un pubblico concorso ordinario, data la natura particolare del concorso riservato cui tutti gli insegnanti di religione cattolica hanno partecipato.
Tra i titoli previsti nel medesimo punto alla lettera C) deve essere compreso anche ogni diploma di specializ-zazione di durata almeno biennale riconducibile ad una delle discipline di cui all’allegato A del DM 15-7-1987, conseguito dopo la laurea o la licenza presso facoltà teologiche o istituzioni accademi-che di diritto pontificio comprese negli elenchi forniti dalla Conferenza Episcopale Italiana.
Tra i titoli previsti alla successiva lettera D) deve essere compreso anche ogni diploma di scienze religio-se, magistero in scienze religiose ed ogni titolo di baccalaureato o equivalente, conseguito in una delle discipline di cui all’allegato A del DM 15-7-1987 presso facoltà teologiche o istituzioni acca-demiche di diritto pontificio comprese negli elenchi forniti dalla Conferenza Episcopale Italiana, in aggiunta al titolo che ha consentito l’accesso al ruolo.
Tra i titoli previsti alla lettera E) deve essere compreso anche ogni corso di perfezionamento di durata non inferiore ad un anno ed ogni master di primo o secondo livello attivati da facoltà teologiche o istituzioni accademiche di diritto pontificio comprese negli elenchi forniti dalla Conferenza Episcopale Italiana in materie riconducibili alle di-scipline di cui all’allegato A del DM 15-7-1987.
Tra i titoli previsti alla lettera F) deve essere com-preso anche ogni titolo di licenza o equivalente conseguito in una delle discipline di cui all’allegato A del DM 15-7-1987 presso facoltà teologiche o istituzioni accademiche di diritto pontificio com-prese negli elenchi forniti dalla Conferenza Episcopale Italiana, in aggiunta al titolo che ha consen-tito l’accesso al ruolo.
Tra i titoli previsti alla lettera G) deve essere compreso anche il consegui-mento del dottorato in una delle discipline di cui all’allegato A del DM 15-7-1987 presso facoltà te-ologiche o istituzioni accademiche di diritto pontificio comprese negli elenchi forniti dalla Confe-renza Episcopale Italiana, in aggiunta al titolo che ha consentito l’accesso al ruolo.
Non trova infine applicazione il punteggio previsto alla lettera I).
Pertanto non vanno compilate le corrispondenti ca-selle dei moduli domanda.
5.
Il servizio prestato, per almeno 180 giorni o alle condizioni previste dalla nota 4 dell’allegato D del Contratto Collettivo Nazionale Integrativo sottoscritto il 12-2-2009, in insegna-mento diverso da quello di religione cattolica è da valutare con lo stesso punteggio previsto per il servizio non di ruolo.
Non è riconoscibile il servizio prestato nell’insegnamento della religione cat-tolica, successivamente al 1 settembre 1990, senza il possesso del prescritto titolo di qualificazione.
Nel caso di titolo conseguito in costanza di servizio, il servizio medesimo è riconoscibile a partire dalla data di conseguimento.
6.
A tutti gli insegnanti di religione cattolica è consentito far valere come titolo di accesso al ruolo quello più conveniente tra quelli eventualmente posseduti e, di conseguenza, far valere gli al-tri come titoli aggiuntivi, a prescindere da quelli effettivamente utilizzati e valutati in occasione del concorso per l’accesso al ruolo.
Come previsto al punto 4.6.2.
del DPR 751/1985, sono in ogni caso da ritenere dotati della qualificazione necessaria per il loro insegnamento «gli insegnanti di religio-ne cattolica delle scuole secondarie e quelli incaricati di sostituire nell’insegnamento della religione cattolica l’insegnante di classe nelle scuole elementari, che con l’anno scolastico 1985-86 abbiano cinque anni di servizio».
Pertanto, i servizi prestati dai soggetti in possesso dei requisiti sopra citati sono da valutare ai fini della mobilità, ivi incluso il quinquennio utilizzato come titolo di qualifica-zione.
7.
Ai fini della validità di tale documentazione si richiamano le disposizioni contenute nelle predette tabelle di valutazione, che valgono per gli insegnanti di entrambi i ruoli.
8.
Relativamente alla lettera C) del punto II – esigenze di famiglia – della tabella di valuta-zione (Allegato D), lo stato di figlio maggiorenne che, a causa di infermità o difetto fisico o menta-le, si trovi nell’assoluta o permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro, deve essere documentato con certificazione o copia autenticata della stessa rilasciata dalla A.S.L.
o dalle preesi-stenti commissioni sanitarie provinciali.
Relativamente alla lettera D) del punto II – esigenze di fa-miglia – della medesima tabella, il ricovero permanente del figlio, del coniuge o del genitore deve essere documentato con certificato rilasciato dall’istituto di cura.
Il bisogno, da parte dei medesimi, di cure continuative tali da comportare di necessità la residenza nella sede dell’istituto di cura, deve essere, invece, documentato con certificato rilasciato da ente pubblico ospedaliero o dall’azienda sanitaria locale o dall’ufficiale sanitario o da un medico militare.
L’interessato deve, altresì, comprovare con dichiarazione personale, redatta a norma delle di-sposizioni contenute nel DPR 28 dicembre 2000, n.
445, così come modificato e integrato dall’art.
15 della legge 16 gennaio 2003, n.
3, che il figlio, il coniuge, il genitore può essere assistito soltanto in un comune sito nel territorio della diocesi richiesta per trasferimento, in quanto nel territorio della diocesi di attuale titolarità non esiste un istituto di cura presso il quale il medesimo può essere assi-stito.
Per i figli tossicodipendenti l’attuazione di un programma terapeutico e socio-riabilitativo deve essere documentata con certificazione rilasciata dalla struttura pubblica o privata in cui avviene la riabilitazione stessa (artt.
114, 118 e 122 del DPR 9-10-1990, n.
309).
L’interessato deve comprovare, sempre con dichiarazione personale, che il figlio tossicodi-pendente può essere assistito soltanto nel comune sito nel territorio della diocesi richiesta per trasfe-rimento in quanto nella diocesi di attuale titolarità non esiste una struttura pubblica o privata presso la quale il medesimo può essere sottoposto a programma terapeutico e socio-riabilitativo, ovvero perché in tale comune – residenza abituale – il figlio tossicodipendente viene sottoposto a pro-gramma terapeutico con l’assistenza di un medico di fiducia come previsto dall’art.
122, c.
3, del ci-tato DPR n.
309/90.
In mancanza di detta dichiarazione, la documentazione esibita non viene presa in considerazione.
9 .
Nel caso dei trasferimenti per i quali si intendano far valere le precedenze di cui all’art.
7 del CCNI sulla mobilità sottoscritto il 12-2-2009, il comune di residenza dei familiari deve apparte-nere al territorio della diocesi per la quale si chiede il trasferimento.
L’effettiva assegnazione dell’in-segnante di religione cattolica ad una scuola situata nel comune di residenza dei familiari è tuttavia regolata dall’intesa che l’Ufficio scolastico regionale raggiunge con l’ordinario diocesano per l’uti-lizzazione dell’insegnante.
10.
A norma delle disposizioni contenute nel DPR 28 dicembre 2000, n.
445, così come mo-dificato e integrato dall’art.
15 della legge 16 gennaio 2003, n.
3, l’interessato può attestare con di-chiarazioni personali l’esistenza di figli minorenni (precisando in tal caso la data di nascita), lo stato di celibe, nubile, coniugato, vedovo o divorziato, il rapporto di parentela con le persone con cui chiede di ricongiungersi, la residenza delle medesime , l’inclusione nella graduatoria di merito in pubblico concorso per esami , i diplomi di specializzazione, i diplomi universitari, i corsi di perfe-zionamento, i diplomi di laurea, il dottorato di ricerca.
Ai fini dell’attribuzione del punteggio previ-sto dalla lettera E) del punto III – titoli generali – della tabella, nella relativa certificazione deve es-sere indicata la durata, almeno annuale, del corso con il superamento della prova finale.
Per gli in-segnanti della scuola secondaria, nel caso in cui il titolo di accesso al ruolo sia costituito da un di-ploma di laurea valido nell’ordinamento italiano, unitamente a un diploma rilasciato da un istituto di scienze religiose riconosciuto dalla Conferenza Episcopale Italiana, i titoli devono essere valutati congiuntamente e uno dei due non può essere valutato separatamente come titolo aggiuntivo.
11.
Il personale che chiede il passaggio deve dichiarare di possedere l’idoneità concorsuale relativa al ruolo richiesto e deve allegare il riconoscimento di idoneità ecclesiastica relativa all’inse-gnamento della religione cattolica nell’ordine e grado richiesto, rilasciato dall’ordinario diocesano competente per territorio.
12.
In attuazione dell’art.
7, c.
1, punto VIII) del Contratto Collettivo Nazionale Integrativo sottoscritto il 12-2-2009, concernente la mobilità del personale della scuola, il personale che a se-guito della riduzione del numero delle aspettative sindacali retribuite intenda avvalersi della prece-denza nei trasferimenti interregionali a domanda deve dichiarare di aver svolto attività sindacale e di aver avuto il domicilio negli ultimi tre anni nel territorio della diocesi richiesta; tale diritto può essere esercitato solo nell’anno successivo al venire meno del distacco sindacale.
13.
I responsabili dell’Ufficio scolastico regionale potranno procedere, ove ne ravvisino l’opportunità, ad una verifica d’ufficio della veridicità delle dichiarazioni personali rilasciate .
14.
Le dichiarazioni mendaci, la falsità negli atti e l’uso di atti falsi, nei casi previsti dal DPR 28 dicembre 2000, n.
445, così come modificato e integrato dall’art.
15 della legge 16 gennaio 2003, n.
3, sono puniti a norma delle disposizioni vigenti in materia.
Articolo 5 – Rettifiche, revoche e rinunce 1.
Successivamente alla scadenza dei termini per la presentazione delle domande di trasfe-rimento e di passaggio non è più consentito integrare o modificare (anche per quanto riguarda l’or-dine) le preferenze già espresse, né la documentazione allegata.
2.
È consentita la revoca delle domande di movimento presentate.
La richiesta di revoca de-ve essere inviata tramite la scuola di servizio o presentata all’Ufficio scolastico regionale della Re-gione di titolarità dell’interessato ed è presa in considerazione soltanto se pervenuta entro il 15 giu-gno 2009.
3.
L’aspirante, qualora abbia presentato più domande di movimento, sia di trasferimento che di passaggio, deve dichiarare esplicitamente se intende revocare tutte le domande o solo una.
In tale ultimo caso deve chiaramente indicare la domanda per la quale chiede la revoca.
In mancanza di ta-le precisazione la revoca si intende riferita a tutte le domande di movimento.
4.
Non è ammessa la rinuncia, a domanda, del trasferimento concesso, salvo che tale rinun-cia non venga richiesta per gravi sopravvenuti motivi, debitamente comprovati, e a condizione, al-tresì, che il posto di provenienza sia rimasto vacante e che la rinuncia non incida negativamente sul-le operazioni relative alla gestione dell’organico di fatto.
Il posto reso disponibile dal rinunciatario non influisce sui trasferimenti già effettuati e non comporta, quindi, il rifacimento degli stessi.
5.
Il procedimento di accettazione o diniego della richiesta di rinuncia o di revoca deve, a norma dell’art.
2 della legge 241/90, essere concluso con un provvedimento espresso.
Articolo 6 – Organi competenti a disporre i trasferimenti ed i passaggi.
Pubblicazione del movimento e adempimenti successivi 1.
I trasferimenti ed i passaggi degli insegnanti di religione cattolica sono disposti dal Diret-tore Generale dell’Ufficio scolastico regionale o da un suo delegato per ciascuna delle diocesi di competenza entro le date stabilite dal precedente articolo 2.
L’elenco graduato di coloro che hanno ottenuto il trasferimento o il passaggio viene affisso all’albo dell’Ufficio scolastico regionale, con l’indicazione, a fianco di ogni nominativo, della diocesi di destinazione, del punteggio complessivo e delle eventuali precedenze, nel rispetto delle norme di cui alla legge 675/96 e al DLgs 196/03.
2.
Agli insegnanti che hanno ottenuto il trasferimento o il passaggio viene data comunica-zione del provvedimento presso la scuola di servizio.
3.
Contemporaneamente alla pubblicazione degli elenchi e alla comunicazione del provve-dimento alle Istituzioni scolastiche, gli Uffici scolastici regionali provvedono alle relative comuni-cazioni: alla Istituzione scolastica di provenienza, alla diocesi di provenienza, alla diocesi di desti-nazione, al locale dipartimento provinciale del Tesoro.
4.
L’elenco di coloro che hanno ottenuto il trasferimento o il passaggio viene trasmesso dal-l’Ufficio scolastico regionale all’ordinario diocesano competente.
Contestualmente a detta trasmis-sione il Direttore Generale dell’Ufficio scolastico regionale o un suo delegato stabilisce gli opportu-ni contatti con le diocesi di competenza per definire l’intesa relativa alla sede di utilizzazione degli insegnanti oggetto di detti movimenti.
5.
L’intesa sulla sede di utilizzazione di ciascun insegnante deve essere raggiunta entro il 31 luglio 2009 e di essa deve essere data comunicazione ai dirigenti scolastici delle scuole di prove-nienza e di destinazione degli insegnanti interessati.
Il dirigente scolastico della scuola di destina-zione deve comunicare l’avvenuta assunzione di servizio con l’inizio del nuovo anno scolastico al-l’Ufficio scolastico regionale, alla diocesi e al competente dipartimento provinciale del Tesoro.
Articolo 7 – Fascicolo personale 1.
I dati personali dei soggetti interessati alla mobilità devono essere utilizzati solo per fini di carattere istituzionale e per l’espletamento delle procedure legate alla stessa mobilità; i dati in questione possono essere comunicati o diffusi ai soggetti pubblici alle condizioni di cui ai commi 2 e 3 dell’art.
19 del DLgs 30 giugno 2003, n.
196, “Codice in materia di protezione dei dati persona-li”.
Per quanto attiene al trattamento dei dati sensibili personali si fa riferimento ai principi generali richiamati dal citato DLgs 30-6-2003, n.
196, che ha sostituito il DLgs 11-5-1999, n.
135, recante disposizioni integrative della legge 31-12-1996, n.
675, in materia di trattamento dei dati sensibili da parte di soggetti pubblici.
2.
I fascicoli personali di coloro che risultano trasferiti sono trasmessi, a cura dell’Istituzione scolastica di provenienza all’Istituzione scolastica di destinazione con l’inizio del nuovo anno scola-stico.
Articolo 8 – Domanda di trasferimento e di passaggio 1.
Gli insegnanti di religione cattolica possono chiedere l’utilizzazione in altra sede della stessa diocesi in occasione dei movimenti di assegnazione provvisoria e utilizzazione regolati da apposito Contratto Collettivo Nazionale Integrativo.
In quella stessa occasione gli insegnanti in ser-vizio in diocesi che insistono sul territorio di più regioni possono presentare domanda di utilizza-zione in una sede scolastica appartenente alla stessa diocesi ma ad una regione diversa.
In questo caso i Direttori Generali degli Uffici scolastici regionali coinvolti stabiliscono i necessari accordi per le opportune compensazioni di organico.
2.
Le sedi assegnate per utilizzazione agli insegnanti di religione cattolica si intendono con-fermate automaticamente di anno in anno qualora permangano le condizioni e i requisiti prescritti dalle vigenti disposizioni di legge, cioè finché permanga la disponibilità oraria nell’Istituzione sco-lastica e finché non sia revocata l’idoneità rilasciata dall’ordinario diocesano competente.
In caso di utilizzazione con completamento orario esterno la conferma automatica riguarda la sede in cui l’in-segnante ha il maggior numero di ore ovvero quella che figura per prima nel decreto di utilizzazio-ne; ferma restando tale sede, in caso di variazione oraria in una delle sedi deve essere comunque raggiunta una specifica intesa con l’ordinario diocesano competente.
3.
Gli insegnanti di religione cattolica, con una stessa domanda, possono chiedere il trasfe-rimento in altre diocesi della medesima regione o in altre diocesi di diversa regione, o congiunta-mente per le une e per le altre.
4.
In materia di mobilità professionale gli insegnanti di religione cattolica, ai sensi dell’arti-colo 4, c.
1, della legge 186/03, possono chiedere solo il passaggio al ruolo del medesimo insegna-mento di religione cattolica in diverso settore formativo, qualora siano in possesso dell’idoneità concorsuale relativa all’altro settore formativo e dell’idoneità ecclesiastica rilasciata dall’ordinario diocesano competente per l’ordine e grado scolastico richiesto.
Gli insegnanti di religione cattolica, pertanto, non possono chiedere il passaggio ad altro tipo di insegnamento anche se in possesso dei titoli di qualificazione previsti per tale servizio.
5.
Gli insegnanti che intendono chiedere contemporaneamente trasferimento e passaggio de-vono precisare, nell’apposita sezione del modulo domanda di passaggio, a quale movimento (trasfe-rimento o passaggio) intendono dare precedenza.
In mancanza di indicazioni chiare viene data pre-cedenza al trasferimento.
6.
È consentito il passaggio alle scuole con lingua d’insegnamento slovena (o viceversa) a condizione che l’aspirante sia in possesso dei titoli di accesso specificamente richiesti e che sul mo-vimento si raggiunga l’intesa con l’ordinario diocesano competente.
Articolo 9 – Indicazione delle preferenze 1.
Le preferenze devono essere indicate nell’apposita sezione del modulo-domanda e sono relative agli ambiti territoriali della regione e della diocesi.
2.
Gli insegnanti di religione cattolica possono chiedere il trasferimento o il passaggio in al-tra diocesi della stessa o di diversa regione a condizione di essere in possesso di idoneità riconosciu-ta dall’ordinario della diocesi richiesta.
A tale scopo, l’attestato di riconoscimento di idoneità deve essere allegato alla domanda, con la specificazione dell’ordine e grado di scuola per il quale l’inse-gnante è riconosciuto idoneo.
In mancanza di tale ultima specificazione l’insegnante è considerato idoneo per tutti gli ordini e gradi scolastici, fermo restando che la sua destinazione su una sede spe-cifica deve essere oggetto di intesa tra il Direttore Generale dell’Ufficio scolastico regionale e l’or-dinario diocesano competente per territorio.
3.
Con una stessa domanda è possibile chiedere il trasferimento in più di una diocesi.
Per ciascuna delle diocesi richieste deve essere allegato l’attestato di riconoscimento dell’idoneità rila-sciato dall’ordinario della diocesi richiesta.
4.
Nell’assegnazione di nuova titolarità si segue l’ordine delle operazioni fissato dall’art.
37bis, c.
4, del vigente CCNI sulla mobilità.
5.
È possibile esprimere preferenze fino a un massimo di cinque diocesi situate oltre che nel-la regione di appartenenza anche in un’altra regione per entrambi i ruoli di provenienza degli aspi-ranti.
6.
Qualora una diocesi insista sul territorio di più regioni, l’insegnante deve precisare nella porzione del territorio diocesano corrispondente a quale regione intende chiedere il trasferimento.
Ciascuna porzione è trattata come se fosse una distinta diocesi.
7.
Qualsiasi richiesta formulata in difformità alle disposizioni contenute nel presente articolo è da ritenere nulla e non produttiva di effetti.
Articolo 10 – Adempimenti dei dirigenti scolastici e degli uffici amministrativi 1.
Il dirigente scolastico, dopo l’accertamento della esatta corrispondenza fra la documenta-zione allegata alla domanda e quella elencata, procede all’acquisizione della domanda.
Effettuate ta-li operazioni, il dirigente scolastico deve inviare all’Ufficio scolastico regionale competente le do-mande originali di trasferimento e di passaggio corredate della documentazione entro l’8 maggio 2009.
2.
L’Ufficio scolastico regionale, a mano a mano che riceve le domande, procede alla valuta-zione delle stesse ed all’assegnazione dei punti sulla base delle apposite tabelle allegate al Contratto sulla mobilità, nonché al riconoscimento di eventuali diritti di precedenza, comunicando entro il 4 giugno 2009 alla scuola di servizio dell’insegnante, per l’immediata notifica, il punteggio assegnato e gli eventuali diritti riconosciuti.
L’insegnante ha facoltà di far pervenire all’Ufficio scolastico re-gionale, entro 5 giorni dalla ricezione, motivato reclamo, secondo le indicazioni contenute nell’art.
12 del Contratto Collettivo Nazionale Integrativo sottoscritto il 12-2-2009, concernente la mobilità del personale della scuola.
In tale sede ed entro il termine suddetto il docente può anche richiedere, in modo esplicito, le opportune rettifiche a preferenze già espresse nel modulo domanda in modo errato, indicando l’esatta preferenza da apporre nella domanda.
L’Ufficio competente, esaminati i reclami, apporta le eventuali rettifiche.
3.
Per gli insegnanti di religione cattolica non si dà luogo alla compilazione e pubblicazione di graduatorie d’istituto, ma si procede ugualmente all’attribuzione di un punteggio sulla base delle tabelle allegate al Contratto Collettivo Nazionale Integrativo sottoscritto il 12-2-2009.
Detta docu-mentazione è inviata dalle scuole all’Ufficio scolastico regionale entro l’8 maggio 2009.
4.
L’Ufficio scolastico regionale, una volta ricevuta la documentazione di cui al comma 3, predispone, entro il 22 giugno 2009, per ciascun ruolo, una graduatoria unica regionale degli inse-gnanti di religione cattolica, suddivisa per diocesi, al solo scopo di individuare il personale even-tualmente in esubero.
Articolo 11 – Disposizioni generali sui passaggi di ruolo 1.
Gli insegnanti di religione cattolica possono chiedere unicamente il passaggio di ruolo per transitare dal ruolo per l’insegnamento della religione cattolica nella scuola dell’infanzia e primaria al ruolo per l’insegnamento della religione cattolica nella scuola secondaria di primo e secondo gra-do, o viceversa.
2.
La domanda di passaggio di ruolo è subordinata al possesso della specifica idoneità rico-nosciuta dall’ordinario diocesano competente per l’ordine e grado di scuola richiesto.
Tale certifica-zione deve essere allegata alla domanda.
Ove il certificato di idoneità ecclesiastica non specifichi l’ordine e grado di scuola per il quale l’insegnante è riconosciuto idoneo, l’insegnante medesimo è considerato idoneo per tutti gli ordini e gradi scolastici.
3.
Il passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria (o viceversa) ed il passaggio dalla scuola secondaria di primo grado alla scuola secondaria di secondo grado (o viceversa) non si configurano come passaggi di ruolo in quanto si tratta di movimenti effettuati all’interno del mede-simo ruolo di appartenenza e vanno quindi trattati in sede di utilizzazione, secondo le procedure stabilite nella relativa ordinanza.
4.
Con una stessa domanda è possibile chiedere il passaggio in più di una diocesi.
Per cia-scuna delle diocesi richieste deve essere allegato l’attestato di riconoscimento dell’idoneità rilasciato dall’ordinario della diocesi richiesta.
5.
Nell’assegnazione di nuova titolarità si segue l’ordine delle operazioni fissato dall’art.
37bis, c.
4, del vigente CCNI sulla mobilità.
6.
È possibile esprimere preferenze fino a un massimo di cinque diocesi situate oltre che nel-la regione di appartenenza anche in un’altra regione per entrambi i ruoli di provenienza degli aspi-ranti.
Articolo 12 – Modalità di presentazione delle domande di passaggio di ruolo 1.
Le domande, redatte in conformità agli appositi moduli, devono contenere tutte le indica-zioni ivi richieste e devono essere presentate nei termini stabiliti dall’art.
2 e secondo le disposizioni previste dal precedente articolo 11.
2.
Le domande prodotte fuori termine o in difformità a quanto stabilito nel precedente com-ma non vengono prese in considerazione.
3.
Per eventuali rettifiche, revoche o rinunce si applicano le precedenti disposizioni relative alle domande di trasferimento.
Allegati Allegato TR1 – Domanda di trasferimento per insegnanti di religione cattolica delle scuole dell’in-fanzia e primaria Allegato PR1 – Domanda di passaggio di ruolo per le scuole dell’infanzia e primaria Allegato TR2 – Domanda di trasferimento per insegnanti di religione cattolica delle scuole secon-darie di primo e secondo grado Allegato PR2 – Domanda di passaggio di ruolo per le scuole secondarie di primo e secondo grado.
Allegato C – Elenco ufficiale delle diocesi italiane.
Allegato D – Modello di dichiarazione dell’anzianità di servizio.
IL MINISTRO F.to Gelmini

«La Chiesa sta dalla parte delle persone reali»

«La Chiesa sta con le persone reali» Angelo Card.
Bagnasco Venerati e cari Confratelli, ci ritroviamo come Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale italiana a distanza di due mesi appena dal precedente incontro, mentre perdura la maggior parte delle grandi questioni già allora aperte.
Così questa prolusione, avvio del consueto discernimento comunitario che sappiamo fecondo in ordine al lavoro apostolico, ha quasi la fisionomia di uno sviluppo, o meglio di un aggiornamento, della riflessione allora effettuata.
1.
Di certo si è prolungato, oltre ogni buon senso, un pesante lavorio di critica − dall’Italia e soprattutto dall’estero − nei riguardi del nostro amatissimo Papa, a proposito dapprima della remissione della scomunica ai quattro Vescovi consacrati da Monsignor Lefebvre nel 1988, e al caso Williamson che imponderabilmente vi si è come sovrapposto.
Sul merito di queste due vicende, quello che di importante c’era da dire l’abbiamo sollecitamente detto appunto in occasione della precedente prolusione.
Nessuno tuttavia poteva aspettarsi che le polemiche sarebbero proseguite, e in maniera tanto pretestuosa, fino a configurare un vero e proprio disagio, cui ha inteso porre un punto fermo lo stesso Pontefice con l’ammirevole Lettera del 10 marzo 2009, indirizzata ai Vescovi della Chiesa Cattolica.
Di proposito non vogliamo tornare sulle accuse maldestre rivolte con troppa noncuranza al Santo Padre.
Merita molto di più invece concentrarci sulla citata Lettera che, come atto autenticamente nuovo, ha subito attirato un vasto consenso.
La grande impressione che essa ha suscitato è per buona parte dovuta alla forza interiore che emerge dall’intero testo e da ciascuna delle sue parole, anche le più amare.
La sua disamina, per certi versi conturbante, degli ultimi episodi − ma, per analogia, anche di certe discutibili e ricorrenti prassi ecclesiali − ha fatto emergere come per contrasto il candore di chi non ha nulla da nascondere circa le proprie reali intenzioni, le motivazioni concrete delle proprie scelte, la coerenza di una vita vissuta unicamente all’insegna del servizio più trasparente alla Chiesa di Cristo.
Per questo non stentiamo affatto a riconoscere nell’iniziativa papale l’azione di quello Spirito di Dio che svela i disegni dei cuori e sa trarre il massimo bene anche dalle situazioni più irte e penose.
Il che non significa naturalmente attenuare la severità di un giudizio che nella carità va pur dato circa atteggiamenti e parole che hanno portato a una situazione cui non si sarebbe dovuti arrivare, alimentando interpretazioni sistematicamente allarmistiche e comportamenti diffidenti nei riguardi della Gerarchia.
Con ferma e concreta convinzione facciamo nostro l’appello alla riconciliazione più genuina e disarmata cui la Lettera papale sollecita l’intera Chiesa.
E questo naturalmente esclude che si perpetuino letture volte a far dire al Papa ciò che egli con tutta evidenza non dice.
Che è un modo discutibilissimo, persino un po’ insolente, per costruirsi una posizione distinta dal corretto agire ecclesiale.
Molto meglio identificarsi in quella che è la migliore tradizione del nostro cattolicesimo: stare con il Papa, sempre e incondizionatamente.
Il che da una parte comporta il nostro sintonizzarci sulle ancor più evidenti priorità del suo ministero: «Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia» e «avere a cuore l’unità dei credenti», priorità che coinvolgono tutti, ciascuno per la propria responsabilità.
E, dall’altra, esige di pregare intensamente per lui e con lui, ossia con le sue stesse intenzioni: e questo aiuta a purificare il nostro sguardo sulla Chiesa, mistero di salvezza per il mondo.
2.
In queste ore peraltro il Santo Padre sta portando a termine un’importante visita apostolica nel Camerun e in Angola.
Nelle sue intenzioni essa aveva «per orizzonte» l’intero continente africano (cfr Benedetto XVI, Saluto all’arrivo a Luanda, 20 marzo 2009).
Si è trattato di un viaggio impegnativo e ad un tempo ricco di speranza.
Ciò che lì è avvenuto e il magistero che vi si è esplicato hanno avuto localmente una grande eco, come in noi hanno suscitato un profondo coinvolgimento e una viva commozione: per questo non mancheremo di ritornare sul significato di codesto pellegrinaggio, che fin dall’inizio è stato sovrastato nell’attenzione degli occidentali da una polemica – sui preservativi − che francamente non aveva ragione d’essere.
Non a caso, sui media africani non si è riscontrato alcun autonomo interesse, se non fosse stato per l’insistenza pregiudiziale delle agenzie internazionali, e per le dichiarazioni di alcuni esponenti politici europei o di organismi sovranazionali, cioè di quella classe che per ruolo e responsabilità non dovrebbe essere superficiale nelle analisi né precipitosa nei giudizi.
Si è avuta come la sensazione che si intendesse non lasciarsi disturbare dalle problematiche concrete che un simile viaggio avrebbe suscitato, specie in una fase di acutissima crisi economica che richiede ai rappresentanti delle istituzioni più influenti una mentalità aperta e una visione inclusiva.
Non ci sfugge tuttavia che nella circostanza non ci si è limitati ad un libero dissenso, ma si è arrivati ad un ostracismo che esula dagli stessi canoni laici.
L’irrisione e la volgarità tuttavia non potranno far mai parte del linguaggio civile, e fatalmente ricadono su chi li pratica.
Infatti, la conferma più significativa circa la pertinenza delle parole del Papa sull’argomento è venuta da quanti – professionisti, politici e volontari – operano nel campo della salute e dell’istruzione.
C’è da promuovere un’opera di educazione ad ampio raggio, che va inquadrata nella mentalità degli africani e si concretizza in particolare nella promozione effettiva della donna; soprattutto bisogna alimentare le esperienze di cura e di assistenza, finanziando la distribuzione di medicinali accessibili a tutti.
Com’è noto la Chiesa, compresa quella italiana, è coinvolta con persone e mezzi in questa linea di sviluppo.
Ma chiediamo anche ai governi di mantenere i propri impegni, al di là della demagogia e di logiche di controllo neo-colonialista.
E mentre invitiamo i diversi interlocutori a non abbandonare mai il linguaggio di quel rispetto che è indice di civiltà, vorremmo anche dire – sommessamente ma con energia − che non accetteremo che il Papa, sui media o altrove, venga irriso o offeso.
Per tutti egli rappresenta un’autorità morale che questo viaggio ha semmai fatto ancor più apprezzare.
Per i cattolici è Pietro che, con le reti del pescatore e nel nome del Signore Gesù, continua a raggiungere i lidi del mondo.
Noi, che con trepidazione e preghiera l’abbiamo accompagnato in questo pellegrinaggio, ci apprestiamo ora a salutare con affetto il suo felice ritorno.
3.
La dinamica contestativa di cui dicevamo, per le forme subdole che talora assume ma anche per gli appoggi clamorosi di cui gode, è una delle tracce che ci portano a identificare la cifra più marcata del nostro tempo qual è il secolarismo.
È su questo che vorrei dire oggi una parola.
Sembra a me infatti che vari segnali ci rendano vieppiù avvertiti che il trapasso culturale dentro al quale ci troviamo vada assumendo il carattere di un vero e proprio spartiacque.
Chi, tempo addietro, paventava uno scontro di civiltà, facendolo magari derivare in parte da divaricanti matrici religiose, oggi si trova dinanzi agli occhi una situazione alquanto diversa, e non necessariamente più complessa da descrivere: si fronteggiano sostanzialmente due culture riferibili all’uso della ragione.
Al centro di entrambe c’è – come sempre – una specifica risposta alla domanda sull’uomo.
Da cui discendono due diverse, per molti aspetti antitetiche, visioni antropologiche.
Su un versante c’è la cultura che considera l’uomo come una realtà che si differenzia dal resto della natura in forza di qualcosa di irriducibile rispetto alla materia.
Qualcosa che è qualitativamente diverso e che costituisce la radice del suo valore e il fondamento della sua dignità.
In altri termini, l’uomo − prima di metter mano a se stesso – si accoglie come dono che ha un’identità e una consistenza iscritte nella struttura del suo essere.
Dono che non dipende da lui, che precede ogni sua autodeterminazione, e che ne fa quello che egli è: persona, appunto.
È a partire da questo dato ontologico, e tenendolo fermo quale fatto oggettivo, che il soggetto cresce e si compie nello sviluppo della vita.
In questa prospettiva, la natura umana, dentro lo scorrere della storia, è un perno fermo e insieme bussola per l’esercizio della libertà personale.
Nel gioco stesso dell’uomo, la libertà trova così i riferimenti oggettivi per le scelte e i comportamenti coerenti alla sua autentica umanità.
Nell’altro versante, invece, si esplica una cultura per la quale il soggetto umano è un mero prodotto dell’evoluzione del cosmo, ivi inclusa la sua autocoscienza.
In quanto risultato di un processo evolutivo mai concluso, l’uomo sarebbe solamente un segmento di storia, sganciato cioè da qualunque fondamento ontologico permanente e comune a tutti gli uomini, privo quindi di riferimenti etici certi e universali.
Essendo semplicemente uno sghiribizzo culturale fluttuante nella storia, l’individuo si trova sostanzialmente prigioniero di sé ma anche solo con se stesso.
E se è ovvio che non sia questa la sede per richiamare, neppure nelle sue coordinate generali, la questione dell’evoluzionismo, di cui s’è infatti parlato recentemente in sedi autorevoli (cfr la Conferenza internazionale svoltasi alla Pontificia Università Gregoriana su «Evoluzione biologica: fatti e teorie», Roma 3-7 marzo 2009), dobbiamo tuttavia segnalare come si annidi, proprio nella posizione che prima evocavamo, un’interpretazione esasperata e unilaterale del paradigma evoluzionistico.
Nel contempo, collegata alle due citate visioni antropologiche, e alla dialettica che le contrassegna, c’è una diversa concezione della libertà.
Da una parte si ritiene – in base ad una riflessione millenaria e all’esperienza universale – che la libertà umana sia uno dei valori più grandi (per i cristiani essa è addirittura dono di Dio creatore), non però un valore assoluto né solitario.
La libertà infatti deve fare i conti con altri valori − come la vita, la pace, la giustizia, la solidarietà… − che in qualche modo vengono prima e le danno come sostanza, anzi la rendono vera in quanto sono per il bene dell’uomo, e lo realizzano secondo quella linea di appartenenza che si identifica nella natura umana e con i vettori che dall’interno le danno sviluppo pieno.
Il tipo di società che ne deriva è chiaramente aperto e solidale: in essa il farsi carico degli altri – specialmente dei più deboli, dei meno dotati ed efficienti – è congenito e vitale.
Dall’altra parte, invece, si afferma una libertà individuale non solo come valore, ma come valore assolutamente primo, sciolto da qualsiasi altro vincolo che lo possa misurare, con il pretesto che la libertà non può negare se stessa, andando con ciò − se occorre − anche contro la persona.
In questa prospettiva, la libertà sembra priva di relazione, è legge a se stessa, al di fuori di ogni contesto relazionale.
L’individuo, paradossalmente, finisce schiacciato dalla propria libertà, e ritenendo di essere pieno e assoluto padrone di se stesso arriva a disporre di sé a prescindere da ciò che egli è fin dal principio del suo esistere.
E concepisce ogni suo desiderio, magari confuso in qualche caso anche con l’istinto, quale diritto che la società dovrebbe riconoscere come elemento costitutivo di se stessa.
In questa direzione, si scivola inevitabilmente verso un nichilismo di senso e di valori che induce alla disgregazione dell’uomo e ad una società individualista fino all’ingiustizia ed alla violenza.
Anzi, verso un nichilismo gaio e trionfante, in quanto illuso di aver liberato la libertà, mentre semplicemente la inganna rispetto ad una necessaria e impegnativa educazione della stessa.
La divina Provvidenza ci dona quest’ora da amare con fede e intelligenza: e quest’ora vogliamo servire con tutto noi stessi.
La comunità cristiana deve però lasciar da parte improvvisazione e autoreferenzialità, ingenuità ed empirismo – lo dico anche alle nostre associazioni, e ai nostri movimenti e gruppi – per investirci tutti della responsabilità credente, dell’«esserci» con simpatia e competenza, e con larga capacità di dialogo e di sensata interlocuzione rispetto alle più diverse situazioni di vita.
Tra l’altro, ci sono alcuni nostri strumenti culturali e mediatici che proprio a questo mirano: a servircene saremmo semplicemente utili a noi stessi.
4.
E siamo al caso che più ha colpito il nostro Paese nell’ultimo periodo, quello di Eluana Englaro, la ragazza lecchese che per 17 anni è vissuta in stato vegetativo persistente e che è stata fatta morire a Udine il 9 febbraio scorso.
Benché non fosse attaccata ad alcuna macchina – dato che l’opinione pubblica ha scoperto solo con grande fatica – e benché sia da tempo invalso nei vari ambiti della nostra vita sociale quel saggio «principio di precauzione» per il quale nulla di irripristinabile va compiuto se i dati scientifici non consentono una valutazione obiettiva del rischio, s’è voluto decretare che a certe condizioni poteva morire.
Un procedimento che, in un solo atto, avrebbe voluto ribaltare tutta una cultura giuridica minuziosamente costruita sul favor vitae, contraddicendo un’intera civiltà basata sul rispetto incondizionato della vita umana, e smentendo un lungo processo storico che ci aveva portato ad affermare l’indisponibilità di qualunque esistenza, non solo a fronte di soprusi o violenze, ma anche di condanne penali quale la pena di morte.
Tutto, per certe intenzioni, messo a repentaglio, attraverso una operazione tesa ad affermare un «diritto» di libertà inedito quanto raccapricciante, il diritto a morire, cioè a darsi e a dare la morte in talune situazioni da definire.
Come se la vita potesse, in alcuni frangenti − i più critici −, cessare di essere un «bene relazionale».
E come se la vita a ciascuno di noi così cara, e così salvaguardata ed educata a caro prezzo anche dalla collettività, di colpo divenisse un bene «inerme», anzi un non-bene.
E non fosse vero piuttosto che, proprio quando è più fragile, l’esistenza di ciascuno di noi diventa allora più moralmente preziosa, nel senso che è più direttamente protesa a cementare il bene comune suscitando in ciascuno e nella società ulteriori energie di altruismo e di dedizione.
L’ammanto di pietà attraverso cui, con grande sforzo, si cerca di far passare questo ulteriore improbabile «diritto», non può non indurre la persona equipaggiata di intelligenza a porsi una serie di interrogativi consequenziali, il primo dei quali è: non stiamo attribuendo al «sistema» un diritto all’eliminazione dei soggetti inabili, quasi che costoro possano configurarsi come cittadini di serie B? E questo «diritto», che per ora si affaccia appena, una volta immesso nel corpus giuridico e nel costume pubblico, non è forse destinato a diventare col tempo più incalzante e spietato? E tale meccanismo non riguarderà anzitutto coloro che sono più deboli, bisognosi di assistenza e di premura da parte della collettività, perché segnati dalla vecchiaia o dalla malattia o dalla fragilità mentale? E se la “qualità della vita” è fatta dipendere principalmente dalle relazioni consapevoli, quanti altri sono i soggetti che di tali relazioni non hanno coscienza, pur non vivendo in stato di coma vegetativo persistente? Che cosa ci autorizza ad escludere che, al di là delle nostre più ravvicinate determinazioni, potremmo un giorno restarne in un modo o nell’altro coinvolti? E un’autorizzazione legalizzata di questo segno, cosa potrà produrre in termini di cultura, e dunque di gestione delle cure, nelle più diverse strutture sanitarie come nell’intero sistema socio-assistenziale, fino alle compatibilità ultime di budget? Qualunque deriva eutanasica, per quanto tecnicamente circoscritta o concettualmente edulcorata, è in realtà per gli uomini d’oggi, se ci si pensa bene, «una falsa soluzione» (cfr.
Benedetto XVI, Discorso all’Angelus, 1° febbraio 2009).
Falsa soluzione rispetto agli stessi disagi personali gravi, che richiedono non la soppressione della vita ma la vicinanza e l’accompagnamento delle persone.
La prima cura, per qualsiasi forma di malattia, è non far sentire solo il malato, solo con il suo male, e abbandonato a se stesso.
Garantirgli una presenza competente, amorevole e quotidiana, è per la società una responsabilità più ardua e impegnativa rispetto ad altre “scorciatoie” apparentemente pietose.
Ma è qui, non nei proclami astratti e ripetuti, che una società getta come la maschera e rivela il suo vero volto, manifestando il proprio livello di umanità o, al contrario, di inciviltà.
Nelle moderne democrazie, la vita va difesa perché è indispensabile limitare il potere «biopolitico» sia della scienza sia dello Stato, il che trova sostanza nel fermo «sì» alla tutela dei diritti umani di tutti, di chi economicamente è in grado di difendersi come di chi non può farlo, e in un altrettanto netto «no» alla pena di morte, al commercio degli organi, alle mutilazioni sessuali, alle alterazioni fecondative, a qualsiasi manipolazione non terapeutica del corpo umano, pur se liberamente volute da persone adulte, informate e consenzienti.
5.
Ha peraltro qualche componente grottesca il fatto che si sia tentato di far passare la tribolata vicenda − con profili in realtà civilmente tanto rilevanti e potenzialmente tanto intrusivi rispetto al vissuto di ciascuno − come mera conseguenza di un altolà della Chiesa, ossia come un’iniziativa di polemica ideologica, quando di ideologia qui non c’era nulla, ma solo concretezza palpitante di vita e pertinenza all’umano dell’uomo.
Allorché un cuore batte in autonomia, il corpo è caldo, i polmoni respirano, gli occhi si aprono alla luce del giorno e poi si chiudono, come si può parlare di morte? E cosa c’entrano i guelfi e i ghibellini? Qui c’entra anzitutto il vero, c’entra il reale-concreto, non perché sia alienante il riferimento al progetto di Dio sulle proprie creature, anzi, ma perché nessuno può darsi impunemente degli alibi allorché si tratta di constatare che si va verso l’alterazione del principio di eguaglianza tra tutti i cittadini.
Per questo motivo ci ha causato una grande tristezza la storia dolorosa eppure umanissima di Eluana, con l’obnubilamento in cui si è caduti circa i limiti che sono intrinseci all’esistenza terrena, quasi che essa potesse esistere solo nei termini in cui la desideriamo noi, priva di imperfezioni e asperità, di imprevisti o evenienze, che comunque fanno parte del suo impasto.
Non essere all’altezza dello standard vigente non può equivalere a una squalifica.
Il rifiuto anche solo dell’idea di malattia, di vecchiaia, di sofferenza fisica e morale è qualcosa che merita una riflessione rigorosa su se stessi, e ha a che fare con un’autocoscienza bonificata dal risentimento verso un destino percepito amaro o ingiusto.
So bene che qui si entra nel sacrario dei pensieri e dei sentimenti che ogni persona custodisce gelosamente dentro di sé.
Ma in una cultura in cui giustamente si vuol far valere il criterio della ragione e della ragionevolezza, questo non può avvenire solo fino ad un certo punto.
Bisogna piuttosto vigilare sui meccanismi nascosti dell’auto-indulgenza, ed essere moralmente forti, ossia interiormente attrezzati, nell’accettare la vita per quello che è, e partendo da questo dato operare per migliorarne le condizioni.
Con tutti gli avanzamenti, i progressi, le innovazioni che essa offre, ma anche con le sue sospensioni, le sue incompletezze, le sue incongruità, le sue aporie.
Alla fine è sulla nostra maturità che siamo sfidati, e sull’effettiva disponibilità a solidarizzare con il più debole: non a parole o a tratti, ma con la vita vissuta, che non per questo cesserà di rivelare panorami di bellezza indicibile.
Quando il dolore bussa, e non può essere neutralizzato del tutto, quando chiede ascolto, quando ci domanda di essere introdotto come un nuovo parametro di ordinarietà e dedizione, non bisogna fuggire.
E serve a poco imprecare, fino a isterilirsi.
Domanda: come pensiamo di cavarcela con i nostri giovani rispetto a quella innegabile componente della vita che, in un modo o nell’altro, si presenta ed è rappresentata dal dolore, dalla sofferenza, dalla fatica magari ingrata, dalla possibilità di far fronte all’insuccesso e all’ineluttabile? Non stiamo qui, per caso e involontariamente, ponendo le basi verso un’infelicità strutturale delle nuove generazioni, con i presupposti di una loro fatale inadeguatezza e i criteri non dichiarati, eppure meschini, di un nuovo tipo di selezione alla vita? 6.
Un fatto tuttavia ci ha confortato, e cioè che più si palesava l’azione mossa nei confronti della vita di Eluana, più la gente è sembrata farsi cauta, quasi pensosa, come intuisse in maniera un po’ più nitida l’effettiva posta in gioco.
Al momento della morte – evento che avremmo voluto scongiurare – si è percepito un sentimento di diffuso dolore, come di una sorella comune che non si era riusciti a salvare.
Ebbene, è opportuno ora che questa tensione non evapori dentro il turbinio mediatico.
Oltre a pregare per la sua anima, per i suoi parenti e i suoi amici, oltre a pregare per quanti si trovano nelle sue condizioni, dobbiamo immaginare una reazione morale e culturale capace di trasformare lo sgomento in un riscatto: se è possibile, in una crescita di consapevolezza e di iniziativa.
Su un versante molto importante spetta alla politica agire nell’approntare e varare, senza lungaggini o strumentali tentennamenti, un inequivoco dispositivo di legge che – in seguito al pronunciamento della Cassazione − preservi il Paese da altre analoghe avventure, ponendo attenzione a coordinarlo con l’altro sospirato provvedimento relativo alla cure palliative, e mettendo mano insieme alle Regioni ad un sistema efficace di hospice, che le famiglie attendono non per sgravarsi di un peso ma per essere aiutate a portarlo.
Sull’altro versante tocca alla società civile mobilitarsi per acquisire in prima persona una coscienza più matura della posta in gioco in termini antropologici e culturali, così da evitare nel futuro ingorghi concettuali e tentazioni di delega.
In questo ambito, c’è in campo l’iniziativa appena annunciata dai tre organismi di collegamento laicale − Scienza & Vita, il Forum delle Associazioni familiari e RetinOpera – che, nel tessuto vivo delle parrocchie, delle aggregazioni laicali, come degli ambienti e dei mezzi di comunicazione, merita di essere da noi incoraggiata e sostenuta.
Come Vescovi non possiamo non avere a cuore il superamento di qualunque rassegnazione culturale, mentre occorre portare conforto e far sentire una concreta vicinanza a tutte quelle famiglie che fanno fronte con sacrifici e dignità alle prove della vita.
Ma c’è un grazie speciale che noi Vescovi vogliamo oggi dire, ed è alla Suore Misericordine della clinica Beato Talamone di Lecco e alla loro splendida, ineffabile testimonianza.
Sappiamo che a loro non piace stare in alcun modo sulla ribalta, che rifuggono da quella notorietà che fare il bene talora procura, che sono disposte a subire anche l’ingiustizia piuttosto che protestare dinanzi a ingiurie e falsità.
Ma questo non significa che la comunità cristiana non sappia riconoscere in loro delle autentiche campionesse della carità secondo l’inno di san Paolo: «[…] La carità è paziente, è benigna […], non è invidiosa […], non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità.
Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta […]».
(1Cor 13,1-13).
Quell’invocazione mansueta e quasi dolente che loro hanno rivolto − «Se c’è chi considera Eluana morta, lasciatela a noi che la sentiamo viva» − è stata per l’opinione pubblica un’autentica scossa, è stata finalmente uno scandalo buono.
In quel «sentire viva» c’era certo l’abilità professionale ma c’era, ad informare l’abilità, l’allenamento del cuore che rende capaci di riconoscere la vita e, nei limiti del possibile, farla palpitare anche nell’immobilità e nell’incoscienza.
«Lasciateci – concludevano le stesse Suore – la libertà di amare e di donarci a chi è debole».
Certo che gli uomini d’oggi ve la lasciano, Sorelle care, questa libertà benedetta, antica e nuova, mite e benefica, che al di là di ogni clamore è garanzia vera per i non garantiti di questa società.
Anzi, proprio questa vostra libertà additiamo alle giovani e ai ragazzi come il destino di una vocazione felice.
Vi ringraziamo, come ha già fatto il vostro Arcivescovo Cardinale Tettamanzi, per ogni giorno del vostro dono, e per il vostro donarvi, come ad Eluana, ad ogni altra creatura che vi è affidata.
Insieme a Voi, ringraziamo quanti Religiose e Religiosi sono sulla vostra stessa filiera di servizio, quanti si chinano ogni giorno con naturalezza e affidamento sui fratelli più piccoli e indifesi, e consumano i loro giorni e se stessi per gli altri.
La loro testimonianza commuove la Chiesa e misteriosamente la edifica nel cuore del mondo.
Ma edifica anche l’umanità intera nella sua autentica e intrinseca vocazione a non abbandonare nessuno, ma a farsi prossimo e solidale con tutti e con ciascuno nell’ora della maggiore debolezza.
7.
Mi pare giusto richiamare a questo punto il Convegno – «Chiesa nel Sud, Chiese del Sud: nel futuro da credenti responsabili» – che si è tenuto a Napoli il 12 e 13 febbraio scorso, e al quale ho avuto la gioia di partecipare almeno per la Concelebrazione eucaristica che si è svolta nella cattedrale partenopea, su invito amabile del confratello Cardinale Crescenzio Sepe.
Il loro riunirsi a vent’anni dallo storico incontro che produsse, tra l’altro, il documento Cei – «Chiesa italiana e Mezzogiorno» – è stata l’occasione per identificare le novità ma anche la persistenza di talune condizioni economiche e sociali del nostro Meridione.
Dalla ricognizione dei drammi e delle risorse di questa parte stupenda e martoriata del nostro Paese, è venuta una rinforzata consapevolezza su una serie di sfide che vanno affrontate con le armi del Vangelo, e forti della compagnia di Gesù Cristo.
In particolare su alcune denunce: un senso di abbandono da parte della collettività nazionale, un tasso di disoccupazione sproporzionato rispetto al resto del Paese, la presa tentacolare della malavita, che peraltro non si autolimita al Meridione essendo ormai presente su varie piazze del Nord come del Centro.
Tutti dobbiamo interrogarci con profonda onestà intellettuale, superando qualunque tentazione divisoria.
Dal canto loro, le Chiese del Sud, diverse ma unite, si sono dette pronte a mettere in rete energie e competenze, con l’obiettivo comune di far lievitare la vitalità ecclesiale.
Devo dire che noi tutti Vescovi d’Italia avvertiamo l’impeto che ci proviene da queste comunità radicate per storia e tradizioni, e che più di quanto forse non avvenga altrove sanno mantenere il profilo di una identità rigogliosa e popolare che è un patrimonio prezioso dell’intera Chiesa italiana.
Non mancheranno le occasioni per riprendere adeguatamente le fila dei discorsi avviati a Napoli, per tesserli in una circolarità di verifiche e di scambio, avendo a cuore il bene reciproco e la forza intrinseca della comunione che è la vera testimonianza da offrire a tutto il Paese.
Guardando più al largo, troviamo sempre qui gli elementi per uscire dalle «sabbie mobili» di una condizione di mediocrità spirituale, e per lasciarci ogni volta «prendere per mano» − che è come un’irruzione che ci cambia il cuore − lungo un cammino di conversione che è meta perenne dei discepoli di Cristo (cfr Benedetto XVI, Saluto all’Angelus, 25 gennaio 2009).
È ciò che ci siamo proposti per il tempo forte della Quaresima che è in atto nelle nostre Chiese e che amiamo considerare alla luce dei fondamentali della vita cristiana.
Il tema del digiuno su cui il Santo Padre ha inteso soffermarsi nel Messaggio di quest’anno ci pare particolarmente adatto per ricomprendere il senso di un impegno che è attuale nella misura in cui riesce ad incidere sul serio sulla nostra vita, inducendoci a prendere le distanze dalle voracità che la zavorrano, e liberarla in considerazione anche dei bisogni dei fratelli.
8.
Questo ci porta a dire una parola ancora sulla gravissima crisi economica che sta attanagliando il mondo intero, con esiti rovinosi in tutta una serie di Paesi, non esclusi alcuni europei.
L’impressione è che purtroppo non si sia ancora toccato il fondo, o quanto meno che non ci sia nessuno in grado di dire con certezza a che punto si è della perigliosa attraversata.
Ci sostiene ancora una volta la parola lucida del Santo Padre che se da una parte scorge il bisogno di «competenza» per parlare con credibilità e fuori da facili moralismi, dall’altra avverte necessaria «una grande consapevolezza etica» informata da una coscienza illuminata dal Vangelo (cfr Discorso all’Incontro con il Clero di Roma, 26 febbraio 2009).
Come già si disse nella precedente prolusione, si rivela sempre più urgente e necessario affermare in modo chiaro e forte e riscoprire a livello concreto l’anima etica della finanza e dell’economia.
Ma l’attuale congiuntura diverrà l’occasione, si chiede il Santo Padre, per capire che «esiste realmente il peccato originale?».
Diversamente non comprenderemo come, nonostante i grandi discorsi e le acute analisi, la ragione è come «oscurata da false promesse» e la «volontà curvata» sul proprio tornaconto: infatti si incappa in una «idolatria che sta contro il vero Dio» falsificandone l’immagine con quella di mammona.
Bisogna risalire alla «radice dell’avarizia», a quell’egoismo che «sta nel volere il mondo per me», quando occorre invece trovare «la strada della ragione, e della ragione vera» (ib).
Il compito che Benedetto XVI intravvede per la Chiesa è quello «di essere vigilante», così da «cercare essa stessa con le migliori forze che ha […] di farsi sentire, anche ai diversi livelli nazionali e internazionali, per aiutare e correggere», ostacolando «la dominazione dell’egoismo, che si presenta sotto pretesti di scienza e di economia».
Il Papa ci invita ad «essere realisti.
[…] La giustizia si realizza solo se ci sono i giusti».
Questo è il punto, avverte, in cui la macroeconomia coincide con la microeconomia: ma «i giusti non ci sono se non c’è il lavoro umile, quotidiano, di convertire i cuori.
[…] Perciò il lavoro dei parroci è così fondamentale, e non solo per la parrocchia, ma per l’umanità.
Perché se non ci sono i giusti, la giustizia rimane astratta.
E le strutture buone non si realizzano se si oppone l’egoismo fosse pure delle persone competenti» (ib).
Nello stesso discorso al clero di Roma, il Santo Padre aveva posto una domanda interessante: «Chi conosce gli uomini di oggi meglio del parroco?».
E aggiungeva: «Dal parroco gli uomini normalmente vanno senza maschera […].
Nessun’altra professione, mi sembra, dà questa possibilità di conoscere l’uomo com’è nella sua umanità» (ib).
Questa affermazione ci suona tra l’altro particolarmente efficace dinanzi all’iniziativa dell’«Anno sacerdotale», appena indetto dal Papa in occasione del 150° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars, e che prenderà avvio il prossimo 19 giugno (Benedetto XVI, Discorso alla Plenaria della Congregazione per il Clero, 16.3.2009).
I sacerdoti, insieme ai religiosi e alle religiose, ma anche a moltissimi laici che partecipano direttamente alla pastorale, sono il volto quotidiano e immediato di una Chiesa tutt’altro che «rigida e fredda»; sono il volto amico di una Chiesa che cammina con la gente.
Il fatto ha una serie di applicazioni importanti e aiuta a individuare la collocazione della Chiesa anche nell’ambito di questa drammatica crisi: stare dalla parte delle persone reali, delle famiglie, dei lavoratori, degli indigenti, senza tuttavia tralasciare il quadro generale, ma essendo capace dentro a questo quadro di esprimere una preferenza ragionata, sulla quale sollecitare anche i pubblici poteri, in particolare quando sono a rischio i posti di lavoro (cfr Benedetto XVI, Saluto all’Angelus, 1 marzo 2009).
E molti sono già persi! È vero che oggi sembra di cogliere una maggiore consapevolezza circa le dimensioni reali di quel che ci attende e la necessità di fare della crisi l’occasione per riassorbire gli squilibri maggiori, ma proprio per questo va intensificata un’azione di supporto concreto e subito efficace verso i soggetti più deboli, e le famiglie che si trovano più scoperte.
A livello pastorale, è noto il fiorire in tantissime diocesi di iniziative di solidarietà concreta, cui si unisce l’importante impegno ai vari livelli della Caritas, come degli Istituti di vita consacrata.
Già è stata annunciata, in seguito all’ultimo Consiglio Permanente, l’istituzione di un fondo di garanzia per le famiglie in difficoltà, che nascerà da una colletta comune da farsi nei modi che decideremo.
La nostra gente sappia che i Vescovi le sono decisamente vicini e che la nostra Chiesa non ha altra ambizione che curvarsi sui più bisognosi, e interpretare in prima persona e senza risparmio nella situazione data la parabola del buon Samaritano (cfr Lc 10,30-37).
Vi ringrazio, venerati Confratelli, per l’attenzione che avete voluto prestare alle mie parole introduttive, ad un tempo, al dibattito che ora segue sugli stessi temi e quindi agli argomenti che sono all’ordine del giorno.
Ci aiuti il pensiero delle nostre Chiese, e la solidarietà che esse puntualmente esprimono a noi pastori.
Ci aiuti soprattutto lo Spirito a cercare e a fare la volontà del Signore Gesù.
Lo chiediamo per intercessione di Maria, che venereremo mercoledì nel mistero gaudioso dell’Annunciazione, e per intercessione di san Giuseppe e dei Santi nostri protettori.
Angelo Card.
Bagnasco Presidente Con il Papa, sempre e incondizionatamente.
“Stare con il Papa, sempre e incondizionatamente”: riferendosi a quella “che è la migliore tradizione del nostro cattolicesimo”, il card.
Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha scelto tale pensiero di solidarietà con Benedetto XVI per sintetizzare l’argomento posto in apertura della prolusione al Consiglio episcopale permanente che ha preso il via questo pomeriggio a Roma.
Dopo aver richiamato la “remissione della scomunica ai quattro vescovi consacrati da monsignor Lefebvre nel 1988”, e il “caso Williamson che imponderabilmente vi si è come sovrapposto”, Bagnasco ha precisato che lo stesso Pontefice ha messo “un punto fermo con l’ammirevole Lettera del 10 marzo 2009, indirizzata ai vescovi della Chiesa cattolica”.
“La sua disanima, per certi versi conturbante, degli ultimi episodi…
ha fatto emergere come per contrasto – ha aggiunto Bagnasco – il candore di chi non ha nulla da nascondere circa le proprie reali intenzioni, le motivazioni concrete delle proprie scelte, la coerenza di una vita vissuta unicamente all’insegna del servizio più trasparente alla Chiesa di Cristo”.
Pensieri analoghi sono stati poi espressi sul viaggio in Africa di Benedetto XVI e sui temi affrontati, per i quali – ha notato – “si è arrivati ad un ostracismo che esula dagli stessi canoni laici”.
Illusione di un nichilismo gaio e trionfante.
Soffermandosi sulle difficoltà vissute da vari Paesi africani, Bagnasco ha richiamato le polemiche sorte sulle dichiarazioni del Papa circa i sistemi di controllo delle nascite e ha espresso l’esigenza di continuare gli aiuti specie in campo sanitario “finanziando la distribuzione di medicinali accessibili a tutti”.
Si è occupato poi del tema del “secolarismo”, parlando del confronto in atto nella nostra società “tra due diverse, per molti aspetti antitetiche visioni antropologiche”.
Nel confronto tra la concezione trascendente e quella immanente della natura umana, Bagnasco ha evidenziato che emerge “una diversa concezione di libertà…
per i cristiani essa è addirittura dono di Dio creatore”.
Sull’altro versante, invece, “l’individuo finisce schiacciato dalla propria libertà, e ritenendo di essere pieno e assoluto padrone di se stesso, arriva a disporre di sé a prescindere da ciò che egli è fin dal principio del suo esistere”.
Il rischio insito in questa visione è di “scivolare inevitabilmente verso un nichilismo di senso e di valori che induce alla disgregazione dell’uomo e ad una società individualista fino all’ingiustizia ed alla violenza.
Anzi – ha aggiunto – verso un nichilismo gaio e trionfante, in quanto illuso di aver liberato la libertà”.
Il caso Englaro è l’eliminazione dei soggetti deboli.
Nella parte centrale della sua prolusione, il card.
Bagnasco ha poi parlato ampiamente di Eluana Englaro, “la ragazza lecchese che per 17 anni è vissuta in stato vegetativo persistente e che è stata fatta morire a Udine il 9 febbraio scorso”.
Ha così descritto il suo caso come “un’operazione tesa ad affermare un «diritto» di libertà inedito quanto raccapricciante, il diritto a morire, cioè a darsi e a dare la morte in talune situazioni da definire”.
Ha poi posto la domanda che deriva dal caso-Englaro: “Non stiamo attribuendo al «sistema» un diritto all’eliminazione dei soggetti inabili, quasi che costoro possano configurarsi come cittadini di serie B? E questo «diritto», che per ora si affaccia appena, una volta immesso nel corpus giuridico e nel costume pubblico, non è forse destinato a diventare col tempo più incalzante e spietato? E tale meccanismo non riguarderà anzitutto coloro che sono più deboli, bisognosi di assistenza e di premura da parte della collettività, perché segnati dalla vecchiaia o dalla malattia o dalla fragilità mentale?”.
Il presidente della Cei ha invece affermato che “nelle moderne democrazie la vita va difesa perché è indispensabile limitare il potere biopolitico sia della scienza sia dello Stato” difendendo “i diritti umani di tutti”.
Deriva eutanasica e compatibilità di budget.
Ancora rifacendosi al caso-Englaro e al rischio che divenga uno standard di comportamento, Bagnasco ha aggiunto: “Un’autorizzazione legalizzata di questo segno, cosa potrà produrre in termini di cultura, e dunque di gestione delle cure, nelle più diverse strutture sanitarie come nell’intero sistema socio-assistenziale, fino alle compatibilità ultime di budget?”.
Ha quindi parlato di “deriva eutanasica, (che) per quanto tecnicamente circoscritta o concettualmente edulcorata, è in realtà per gli uomini d’oggi, se ci si pensa bene, «una falsa soluzione», come ha affermato il Papa il 1 febbraio scorso”.
Di Eluana il card.
Bagnasco ha poi parlato in termini affettuosi e partecipi, rimarcando che “più si palesava l’azione mossa nei suoi confronti…
più la gente è sembrata farsi cauta, quasi pensosa, come intuisse in maniera un po’ più nitida l’effettiva posta in gioco”.
“Al momento della morte – ha poi detto – si è percepito un sentimento di diffuso dolore, come di una sorella comune che non si era riusciti a salvare”.
Insieme al ringraziamento alle Suore Misericordine della clinica lecchese che ha accolto Eluana per tanti anni, Bagnasco ha richiamato l’iniziativa di Scienza & Vita, Forum delle associazioni familiari e Retinopera, col manifesto “Liberi per Vivere.
Amare la Vita, fino alla fine”, assicurando il sostegno ideale dei vescovi italiani.
Crisi del sud e crisi economico-finanziaria.
Avviandosi verso la conclusione della prolusione, il presidente della Cei si è poi occupato del convegno “Chiesa nel Sud, Chiese del Sud: nel futuro da credenti responsabili”, svolto nel febbraio scorso.
Parlando di “questa parte stupenda e martoriata del nostro Paese – ha detto – è venuta una rinforzata consapevolezza su una serie di sfide che vanno affrontate con le armi del Vangelo”.
Ha così citato i temi della disoccupazione “sproporzionata rispetto al resto del Paese”, della malavita “che peraltro non si autolimita al Meridione, di un “senso di abbandono da parte della collettività nazionale”.
Passando poi al tema della crisi economica e finanziaria in corso, ha affermato che “l’impressione è che purtroppo non si sia ancora toccato il fondo, o quanto meno che non ci sia nessuno in grado di dire con certezza a che punto si è della perigliosa traversata”.
Ha quindi esortato, citando recenti interventi del Papa, “a riscoprire l’anima etica della finanza e dell’economia”, rinunciando “all’idolatria che sta contro il vero Dio” e invitando alla giustizia in campo economico e finanziario, che “si realizza solo se ci sono i giusti”.
Il volto amico della Chiesa.
L’ultimo argomento affrontato dal card.
Bagnasco nella prolusione è stato quello dell’“Anno Sacerdotale”, indetto dal Papa in occasione del 150° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars, che prenderà avvio il 19 giugno.
“I sacerdoti, insieme ai religiosi e alle religiose, ma anche a moltissimi laici che partecipano direttamente alla pastorale – ha detto a questo proposito – sono il volto quotidiano e immediato di una Chiesa tutt’altro che «rigida e fredda»; sono il volto amico di una Chiesa che cammina con la gente.
Il fatto ha una serie di applicazioni importanti e aiuta a individuare la collocazione della Chiesa anche nell’ambito di questa drammatica crisi: stare dalla parte delle persone reali, delle famiglie, dei lavoratori, degli indigenti, senza tuttavia tralasciare il quadro generale, ma essendo capace dentro a questo quadro di esprimere una preferenza ragionata, sulla quale sollecitare anche i pubblici poteri, in particolare quando sono a rischio i posti di lavoro (cfr Benedetto XVI, Saluto all’Angelus, 1 marzo 2009).
E molti sono già persi!”, ha concluso.
Riferendosi a questa sensibilità e vicinanza ai problemi della gente, ha qui richiamato le tante iniziative di solidarietà avviate nelle diocesi italiane.
Avvenire, 23 Marzo 2009 La Chiesa sta «dalla parte delle persone reali, delle famiglie, dei lavoratori, degli indigenti».
Lo ha detto il cardinale Angelo Bagnasco, concludendo la sua prolusione al Consiglio permanente della Conferenza Episcopale Italiana (Cei), rivendicando una peculiarità della Chiesa, «volto amico che cammina con la gente».
Il presidente della Cei ha insistito su questo aspetto, quasi a contrapporre la realtà della vita quotidiana del popolo italiano con la visione distorta che ne danno i media, come dimostrano i casi – che il cardinal Bagnasco ha analizzato – degli attacchi al Papa, del caso Englaro e della deriva eutanasica, e della crisi economica.
Ma ecco in sintesi i principali passaggi della prolusione.
Il profluvio di critiche contro il Papa «si è prolungato oltre ogni buon senso» e «non accetteremo che il Papa, sui media o altrove, venga irriso o offeso».
Lo ha affermato il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, nel suo discorso di apertura del Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana, invitando i vescovi a stringersi attorno al pontefice.
LE POLEMICHE – Una accorata difesa del Pontefice dalle critiche, spostatesi negli ultimi giorni dal fronte dei lefebvriani a quello dei preservativi, ha occupato tutta la prima parte del discorso del cardinale.
«Di certo si è prolungato, oltre ogni buon senso – ha detto – un pesante lavorio di critica, dall’Italia e soprattutto dall’estero, nei riguardi del nostro amatissimo Papa», sulla revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani e sul caso Williamson «che imponderabilmente vi si è come sovrapposto».
«Nessuno tuttavia – aggiunge il porporato – poteva aspettarsi che le polemiche sarebbero proseguite, e in maniera tanto pretestuosa, fino a configurare un vero e proprio disagio» sfociato poi nella lettera del Papa ai vescovi.
IL VIAGGIO IN AFRICA – Peggio ancora è andata con il «pellegrinaggio in Africa», un «viaggio impegnativo ed a un tempo ricco di speranza sovrastato nell’attenzione degli occidentali da una polemica, sui preservativi, che francamente non aveva ragion d’essere».
E in questa occasione «non ci si è limitati ad un libero dissenso – ha affermato con forza Bagnasco – ma si è arrivati ad un ostracismo che esula dagli stessi canoni laici».
Il presidente dei vescovi italiani parla di «irrisione» e «volgarità» giunta non solo dai media, ma anche da «alcuni esponenti politici europei» e «organismi sovranazionali».
«E mentre invitiamo i diversi interlocutori a non abbandonare mai il linguaggio di quel rispetto che è indice di civiltà, vorremmo dire, sommessamente ma con energia – ha concluso – che non accetteremo che il Papa, sui media o altrove, venga irriso o offeso».
ELUANA – Poi il cardinale ha parlato del caso di Eluana Englaro che ha rappresentato «un’operazione tesa ad affermare un diritto di libertà inedito quanto raccapricciante: il diritto a morire, darsi e dare la morte in talune situazioni da definire».
Quindi la richiesta: «Spetta alla politica agire nell’approntare e varare, senza lungaggini o strumentali tentennamenti, un inequivoco dispositivo di legge che – in seguito al pronunciamento della Cassazione – preservi il Paese da altre analoghe avventure, ponendo attenzione a coordinarlo con l’altro sospirato provvedimento relativo alla cure palliative, e mettendo mano insieme alle Regioni ad un sistema efficace di hospice, che le famiglie attendono non per sgravarsi di un peso ma per essere aiutate a portarlo».
DERIVA EUTANASICA – «Qualunque deriva eutanasica, per quanto circoscritta o edulcorata, è una falsa soluzione.
Nelle moderne democrazie, la vita va difesa perché è indispensabile limitare il potere «biopolitico» sia della scienza sia dello Stato.
Come vescovi», afferma il cardinale, «non possiamo non avere a cuore il superamento di qualunque rassegnazione culturale, che trova sostanza nel fermo sì alla tutela dei diritti umani di tutti e in un altrettanto netto no alla pena di morte, al commercio degli organi, alle mutilazioni sessuali, alle alterazioni fecondative, a qualsiasi manipolazione non terapeutica del corpo umano, pur se liberamente volute da persone adulte, informate e consenzienti».
Poi ha proseguito l’arcivescovo di Genova: «Ci ha causato una grande tristezza la storia dolorosa eppure umanissima di Eluana, quasi che essa potesse esistere solo nei termini in cui la desideriamo noi, priva di imperfezioni o asperità».
SCONTRO TRA CHI CREDE E CHI NO – Secondo Bagnasco, quindi, il vero scontro di civiltà è quello fra credenti e non credenti.
Non quindi un conflitto fra culture religiose diverse, ma tra chi fa discendere l’uomo da Dio, e da chi lo colloca nel mezzo di un’evoluzione ancora in corso «nell’esasperato paradigma evoluzionista» Corriere, 24 marzo ’09 NOTIZIE CORRELATE ·               La Ue al Papa: «Preservativi essenziali nella lotta all’Aids» ·               Lefebvriani, il Papa ai vescovi: «Colpito dalle ostilità» ·               Il Papa: dignità per la vita umana, anche quando è debole e sofferente        

Islam: Consigli a un discepolo

La fede è affermazione della lingua, accettazione del cuore, operare se¬condo i principi.
E le prove dell’im¬portanza delle opere sono innumere¬voli.
Certo, l’uomo ottiene il Paradiso dalla grazia dell’Altissimo e dalla sua generosità, senonché lo ottiene dopo esservisi preparato mediante l’obbedienza e la devozione, perché «la mi¬sericordia di Dio è vicina a quelli che fanno il bene».
E se qualcuno dicesse: «Il Paradiso si ottiene unicamente con la fede», risponderemmo: «Sì, ma quando si ottiene? E quanti duri osta¬coli bisogna superare per arrivarci? La prima di tali difficoltà viene appunto dalla fede: il credente scamperà alla perdita della fede o no? E quando ar¬riva in Paradiso, non vi giungerà forse spoglio e sprovvisto?».
Dice al-Hasan di Bàssora: «L’Altissimo dirà ai suoi servi, nel Giorno del Giudizio: “Servi miei, entrate in Paradiso, per mia mi¬sericordia, e spartitevelo secondo le vostre opere”».
O giovane, finché non operi, non tro¬verai premio.
Si racconta di un certo israelita che aveva adorato l’Altissimo per lo spazio di settant’anni; Dio volle farlo conoscere agli angeli, e mandò un angelo a portargli la notizia che, malgrado quella sua adorazione, non meritava di entrare in Paradiso.
A que¬sto annuncio il devoto esclamò: «Sia¬mo stati creati per l’adorazione e biso¬gna che Lo adoriamo!».
L’angelo tornò indietro e disse: «Mio Dio, tu sai bene che cosa ha risposto».
Dichiarò allora Iddio: «Se lui non cessa di ado¬rarci, noi, con la nostra generosità, non lo abbandoneremo.
Siate testi¬moni, o angeli, che gli ho perdonato».
E ha detto l’Inviato di Dio: «Fate i con¬ti con la vostra coscienza, prima che al¬tri vi chiami alla resa dei conti, e pesa¬te le vostre condizioni prima che altri ve le pesi».
E diceva Ali: «Chi crede di arrivare in Paradiso senza sforzo è un illuso, e chi crede di arrivarci soltanto con lo sforzo è un presuntuoso».
E di¬ceva al-Hasan di Bàssora: «Ricercare il Paradiso senza opere è un peccato», e diceva: «Contrassegno della verità: prescindere dalla ricompensa delle opere, ma non rinunciare alle opere».
Sappi che chi segue la strada di Dio ha bisogno di uno sheikh, educatore e guida, che con la sua disciplina espella da lui le cattive inclinazioni, ponendo al loro posto quelle buone.
L’educa¬zione è simile al lavoro del contadino, che sradica le spine e toglie le erbe estranee dal seminato, perché vegeti bene e raggiunga uno sviluppo perfet¬to.
E chi segue la strada di Dio non può fare a meno di uno slteikh che lo edu¬chi e lo guidi su quella strada, perché Dio mandò ai suoi servi un Inviato, per guidarli sulla sua via, e costui morendo lasciò i califfi al suo posto, perché gui¬dassero (i musulmani) a Dio.
O giovane, l’essenziale della scienza è che tu conosca che cosa sono l’obbe¬dienza e la devozione.
Sappi che obbe¬dienza e devozione consistono nel se¬guire il Legislatore, nei comandamen¬ti e nei divieti, con le parole e con le azioni.
Vale a dire: tutto quel che fai, e dici, e ometti, sia conforme alla legge.
Così, se tu digiuni il giorno della Festa o i tre giorni successivi, sei un ribelle.
O se tu eseguissi la preghiera indossan¬do un vestito rubato, peccheresti pur avendo l’apparenza della devozione.
O giovane, bisogna che le tue parole e i tuoi atti siano conformi alla legge, perché la scienza e le opere, senza la guida della legge, sono un errore.
Ed è necessario che tu non ti lasci inganna¬re dagli aspetti emotivi dell’ascetico-¬mistica.
La via mistica è quella del com¬battimento spirituale; è necessario troncare le passioni dell’anima carna¬le, uccidere le sue brame con la spada dell’ascesi, non con le frenesie e le fu¬tilità.
Sappi anche che alcune delle do¬mande che mi hai rivolto non comportano risposta, né scritta né a parole: chi raggiunge gli stati mistici sa che cosa sono, non è possibile conoscerli altri¬menti, perché sono dati di esperienza immediata, e queste esperienze tutte sono indescrivibili, come la dolcezza del dolce e l’amarezza dell’amaro, che puoi conoscere soltanto sperimentan¬dole…
Si racconta che ash-Shibli, dopo aver studiato con quaranta maestri, di¬ceva: – Ho letto quattromila hadìth, poi ne ho prescelto uno solo e l’ho messo in pratica, ad esclusione di tutti gli altri, perché meditandolo vi ho tro¬vato la mia liberazione e la mia salvez¬za.
La scienza degli antichi e dei mo¬derni c’è dentro tutta, e mi è stato suf¬ficiente.
Eccolo: «Un giorno l’Inviato di Dio disse ad uno dei suoi compagni: Opera per la tua vita mondana nella misura del tempo che dimorerai in questo mondo, opera per la tua vita fu¬tura nella misura della sua durata.
Opera per Dio nella misura del bisogno che hai di Lui, ed opera per il Fuo¬co nella misura in cui sarai capace di sopportarlo».
Famoso insegnante di scienze religiose a Naysàbu re o Baghdad prima di praticare una sorta di vita monastica in accordo con la tradizione sufica, il persiano Abu-Hamid Muhammad al-Ghazàli (1058 ca.- 1111), considerato il maggior teologo islamico, ha lasciato un gran numero di opere.
I passi che riportiamo di seguito sono tratti da: O giovane!, un breve scritto in cui al-Ghazali ha sin¬tetizzato le sue convinzioni religiose, morali e mi¬stiche per consegnarle a un suo discepolo che ne aveva fatto richiesta (trad.
da Le più belle pagine della letteratura araba, Milano 1957, pp.
235¬-38).

Classe seconda – Marzo

1) Per Bartolomeo Una ragazza energica e generosa Lia Varesio nasce a Torino nel 1945 da una famiglia in cui la fede è il valore fondamentale.
Un suo ricordo d’infanzia sempre vivo è quello della macchina da cucire con cui la mamma confezionava semplici sacchetti di stoffa, da riempire con il riso acquistato dal papà in grandi quantità; li avrebbero portati alle famiglie poverissime che abitavano nelle soffitte del centro storico…
Lia cresce di età, ma rimane piccola e minuta: a 9 anni, una malattia le ha bloccato la crescita e le ha causato una malformazione ossea e difficoltà di respirazione.
I problemi di salute, tuttavia, non hanno mai ostacolato la sua voglia di vivere, il suo ottimismo, la sua energia, il suo desiderio di comunicare con gli altri e di offrire solidarietà.
Già da ragazza, in Parrocchia, si era data un gran da fare seguendo persone malate e anziani soli, collaborando con una missione di Capoverde; in FIAT, era impiegata nell’assistenza sociale e si occupava delle persone indigenti che scrivevano alla Fondazione Agnelli.
Una mattina, proprio andando al lavoro, Lia fa un incontro particolare, che le rivoluzionerà la vita.
Ha 33 anni.
«Mentre camminavo per strada mi sono imbattuta in una donna scalza, scarmigliata, con mani e piedi laccati di rosso, che urlava.
Sono rimasta sconvolta, non tanto perché lei urlava ma perché la gente scappava via terrorizzata.
Mi sono chiesta “Scappi anche tu?” e mi sono data la risposta.
Mi sono avvicinata e le ho chiesto “Perché gridi così?”.
La risposta è stata “Grido al mondo la mia disperazione ma nessuno si ferma”.
La salutai: “Sono Lia”; mi disse che si chiamava Ester, era uscita dal manicomio e nessuno si era preso cura di lei; erano tre giorni che non mangiava.
Vicino c’era un bar che conoscevo perché ci andavo ogni tanto, invece di andare al lavoro ho telefonato in FIAT e mi sono presa un giorno di ferie.
Quando ci siamo sedute al tavolo del bar la donna ha cominciato a mangiare cornetti e cappuccini; intanto mi ha raccontato la sua storia.
Era stata in manicomio, adesso era per strada, andava a mangiare al Cottolengo e dormiva alla stazione.
Io l’accompagnai al Cottolengo e poi a Porta Nuova dove mi fece incontrare gli altri, i suoi amici, gli abitanti della stazione”.
Da quel giorno nasce ancora più forte in Lia il desiderio di conoscere queste persone, di parlare con loro, di aiutare.
Ne parla al fratello e a un gruppo di amici e con loro prende l’abitudine di andare a trovare questa gente, portando bevande calde, cibo, coperte, all’inizio solo a Porta Nuova, poi anche nelle altre stazioni, infine le “ronde” in giro per la città.
Una sera d’inverno del 1980 manca all’appello uno dei soliti, Bartolomeo, lo cercano nei posti consueti, non lo trovano.
Decidono di andare a vedere nel centro storico, fra i ruderi di una vecchia casa.
Non lo trovano neanche lì, stanno per andarsene quando Lia inciampa in un mucchio di stracci; quando si rialza si accorge che da quel mucchio di stracci spuntano un piede e una gamba.
È Bartolomeo, morto di freddo e di stenti nel cuore della città.
Si fortifica quella sera la necessità di continuare il cammino intrapreso e viene così fondata dopo breve tempo l’associazione “Bartolomeo & C”.
In quegli anni sindaco della città è Diego Novelli.
Lia lo convince ad accompagnarla nei suoi giri notturni; lui, conquistato da tanta determinazione, la chiama a lavorare in comune, all’ufficio dei senza fissa dimora.
Dal 1986 al 1990 lavora anche nelle carceri di Corso Vittorio e delle Vallette come assistente volontaria penitenziaria.
In quegli anni frequenta la Scuola di Cultura religiosa diocesana; è anche componente della Commissione diocesana per la sanità e l’assistenza.
«Sono laica ma credente, il mio impegno è un atto di fede in Dio in favore degli uomini».
Nel 1994 va in pensione e inizia a dedicarsi a tempo pieno alle attività della Bartolomeo & C.
Negli anni viene aperto un dormitorio, la sede si allarga, il numero degli utenti cresce.
Nelle vie della grande città, Lia cerca i vicoli e gli angoli della disperazione e incontra tossicodipendenti e alcolizzati totalmente abbandonati, malati psichici, ex carcerati…
Li conosce, li ascolta, si dà da fare per procurare una doccia, abiti, qualche soldo…
Per molti, grazie a lei, è l’inizio di una vita nuova, con una casa, un lavoro.
2) Lia scrive…
Ma niente paura per chi crede, c’è un bel dono che il Signore fa a chi ha ancora voglia di vivere la fede.
Fede semplice ma concreta che ha nutrito i nostri antenati, fede fatta di poche cose essenziali, ma che dà speranza quando ti senti in crisi, ti dà forza quando ti senti spento.
Non lasciamola morire, Amici, è il perno della nostra vita, è la sorgente delle nostre aspirazioni, è il movimento della nostra anima e delle nostre azioni.
È tutto per chi crede, perché è un dono che il Signore fa …fede non è sapere che l’altro esiste, è vivere dentro di lui, calarsi nella pelle dell’amico che passa, che ti interpella come un pugno nello stomaco, non ti lascia tregua, ti ricorda che esisti… E ti fa chiedere: perché vivi? Per chi vivi, dove stai andando?» (da Giornalino Bartolomeo & C, anno 2005) L’associazione «Ne abbiamo sistemati 250», ricorda Lia con fierezza.
All’inizio dell’avventura dell’Associazione, trova subito l’appoggio e la collaborazione dei suoi famigliari.
Fra i primi ad accorrere alla stazione per passare le notti insieme ai barboni ci fu anche il fratello di Lia.
Molta più sorpresa creò questa “conversione” fra i vicini di casa, che da quel giorno cominciarono a vedere bussare alla porta dei Varesio personaggi come Zeus, 39 anni, perito elettrotecnico, afflitto da delirio mistico (ha tappezzato tutta la città di scritte «Zeus ti vede» e si arrabbia un sacco perché non riesce a fare miracoli); come Angelo, che distrutto da un trattamento sbagliato, ha vissuto i suoi anni come un animale in perenne fuga.
La Bartolomeo & C ha cominciato la sua attività di “ronde notturne” alla ricerca dei disperati nel 1979.
Nel 1984 si è costituita in associazione.
Nel frattempo il Comune ha offerto a Lia Varesio la possibilità di occuparsi a tempo pieno dei “senza fissa dimora” come assistente sociale.
Dopo qualche esitazione ha accettato.
«Ma non ho smesso», ci tiene a precisare, «di rompere le scatole ai responsabili perché si rendano conto dei loro doveri».
Adesso le “ronde notturne” si sono un po’ ridotte di numero e di… pericolosità.
«I primi anni eravamo proprio degli incoscienti», ricorda Lia.
«Per fortuna, però, fra minacce, coltelli e sparatorie ci è sempre andata bene».
Ora i volontari del gruppo si limitano quasi esclusivamente ad andare a trovare le persone “sistemate” in alloggi, offrendo loro tutto il supporto necessario dal punto di vista psicologico e pratico (assistenza per documenti o certificati, piccoli lavori, ma anche feste, cene, gite).
Poi c’è l’ufficio aperto tutti i pomeriggi e tutte le sere (fino alle 23) alla stazione di Porta Nuova.
È qui, nel crocevia della disperazione, che la Bartolomeo & C.
è nata ed è qui che continua ad essere presente.
Nel 1990 quella soglia di speranza è stata varcata per 5193 volte; 229 persone sono entrate per la prima volta al centro.
Oltre la sede di Porta Nuova da qualche tempo la Bartolomeo & C.
ne ha anche un’altra, in via Fiocchetto 13, proprio dietro Porta Palazzo.
Un altro crocevia di disperazione per un’altra casa della speranza.
Qui si ritrovano gli alcolisti in trattamento, i volontari per i corsi di formazione, tutti coloro che hanno bisogno dell’ambulatorio per le cure mediche o della cappella per un momento di preghiera.
La Bartolomeo & C.
si finanzia attraverso l’autotassazione dei soci, qualche contributo pubblico e le offerte donate dalla generosità della gente.
«Le sovvenzioni che ci sono più care, anche se sono le più misere», dice Lia Varesio, «sono quelle degli ex-barboni, la gente che noi abbiamo aiutato e che adesso ha una casa, un lavoro, una vita sociale.
Ci vengono a trovare e per quanto possibile ci danno il loro contributo perché altri possano tornare a vivere, come è successo a loro».
«Non mi spavento, sai? Sono abituata a lottare, se avessi avuto paura mi sarei fermata molto tempo fa».
Lia continua, anno dopo anno: ogni inverno vede ancora “amici” che muoiono di freddo, nel centro caotico e indifferente della città.
Negli ultimi anni, nonostante i problemi di salute e i frequenti ricoveri, la sua attenzione resta sempre rivolta agli altri.
Dei momenti passati in ospedale ricorda: «Soprattutto la sera, quando tutto era in silenzio, le mie emozioni erano tutte rivolte all’ascolto dei malati che telefonavano ai loro cari, a qualche persona amica: quanto bisogno di contatti umani! Si raccontavano, ed è proprio questo che a volte manca.
Non siamo più capaci di raccontarci, abbiamo troppa fretta e non riusciamo a sentire i gemiti di chi soffre.
Passiamo accanto alla gente e non ci accorgiamo di loro, dei loro bisogni.
Devo dire che ho trovato tanta solidarietà attorno a me, ma ho scoperto anche tanta solitudine e disperazione.
A volte è sufficiente una parola, un gesto, un sorriso e le persone possono guarire psicologicamente e uscire dal loro autismo.
Ed è proprio questo che mi stimola ad andare avanti e continuare a lavorare per uomini e donne della città che non hanno ancora trovato spazio, cure, dignità, attenzione, giustizia e solidarietà».
L’11 marzo 2008, circondata dall’affetto del fratello e degli amici, Lia muore, all’Ospedale Mauriziano, mentre risuonano nelle orecchie di tutti le parole che tante volte aveva pronunciato: «Non dobbiamo fare da spettatori ma chiederci che cosa stiamo facendo concretamente per gli altri.
Se il nostro fratello non ce la fa da solo a portare la croce, noi abbiamo il dovere di aiutarlo.
È ora di smetterla di essere spettatori.
Occorre diventare protagonisti attraverso il nostro impegno concreto e quotidiano».
Prima fase dell’attività L’insegnante presenta l’esperienza di Lia Varesio e degli amici dell’associazione “Bartolomeo & C”.
Al termine della lettura, gli allievi potranno: – sottolineare in rosso le “azioni importanti” di Lia, dall’infanzia alla morte; – sottolineare in blu le affermazioni e i comportamenti che ne rivelano il carattere e le qualità umane; – sottolineare in verde le affermazioni e i comportamenti che ne rivelano la fede.
Seconda fase dell’attività L’insegnante propone il ripasso di alcuni concetti generali studiati con gli allievi.
– La Chiesa è la comunità dei battezzati credenti in Cristo risorto; vive e testimonia il Vangelo.
– La Chiesa si esprime tramite:  • l’evangelizzazione, che comprende iniziative di annuncio, diffusione di conoscenze e testimonianze di vita che presentino il messaggio evangelico a chi non lo conosce o lo conosce in modo superficiale;  • la catechesi, percorso educativo dei Cristiani che vogliono approfondire le verità di fede;  • le azioni liturgiche, con tutti i momenti di preghiera comunitaria, le celebrazioni eucaristiche e i Sacramenti con cui le comunità cercano l’unione con il Padre attraverso il Figlio e per opera dello Spirito Santo;  • la promozione umana, che è azione della Chiesa in favore dell’intera umanità, amore che si traduce, imitando Cristo, in una lotta contro le ingiustizie e contro tutte le violazioni della dignità della persona.
L’affamato, l’emarginato devono trovare nella Chiesa la loro difesa; la Chiesa ha denunciato le ingiustizie planetarie, dallo sfruttamento del Terzo Mondo alla corsa agli armamenti, attraverso le parole e le encicliche dei Papi e tutti i documenti del magistero; attraverso il sostegno dei cristiani a iniziative in favore dell’integrazione di ogni uomo nella società; attraverso l’azione di Cristiani presenti in politica, in favore di leggi in difesa della famiglia e della vita…  • I ministeri, compiti diversi e specifici, sono quelli del Papa, successore di Pietro e guida della Chiesa universale; dei Vescovi, successori degli Apostoli, responsabili delle comunità cristiane locali (diocesi) e con il potere di consacrare altri vescovi, sacerdoti e diaconi; dei sacerdoti, che hanno il compito di predicare il Vangelo, celebrare la Messa e i Sacramenti; dei diaconi, che collaborano con i sacerdoti nella liturgia, nelle opere di carità e nella catechesi tramite un impegno costante; dei religiosi, frati e suore che vivono in povertà, castità e obbedienza alla Chiesa mettendo in pratica un Vangelo profetico ed estremo; dei laici, battezzati che fanno parte del “popolo di Dio” (da “laòs”, popolo) e sono chiamati a vivere il Vangelo nell’esistenza quotidiana, attraverso la famiglia, il lavoro…
L’insegnante propone gli allievi un approfondimento sul ministero dei laici, seguito da dibattito, analizzando l’esperienza di Lia Varesio; sarà opportuno tenere sott’occhio le sottolineature in vari colori.
– «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27).
Il “Comandamento Nuovo” di Gesù è l’anima dell’azione del Cristiano nel mondo: in quali modi Lia ne mette in pratica i tre aspetti? – Lia agisce “all’interno” della Chiesa e “nel mondo fuori”, migliorandolo.
Distingui e completa la descrizione del suo modo di essere Cristiana “laica”.
All’interno della Chiesa…
– Lia coinvolge amici e familiari che condividono l’ideale evangelico nella sua attività a favore degli ultimi, diffonde uno “stile di vita”, il più coerente possibile con il Vangelo.
Nel mondo…
– Lia agisce nell’immediato facendo il “poco” che può (esempio di Ester), senza delegare la soluzione dei problemi alle istituzioni; tuttavia, richiama le istituzioni alle loro responsabilità.
Continua tu! – In quali campi e modi i laici, secondo te, possono contribuire alla promozione umana? E all’evangelizzazione e alla catechesi? In particolare, che cosa possono fare i giovani? E le famiglie in quanto tali? – La fede può fornire una forza e delle motivazioni particolari in un percorso di solidarietà? Se sì, quali? La sintesi delle osservazioni, preparata con l’aiuto dell’insegnante, potrà essere riportata sui quaderni.
A casa.
Racconta per scritto una vicenda di laicato cristiano “ben riuscito”, pensando a qualcuno che conosci (anche a un’associazione, a un gruppo particolare…) o facendo una ricerca tra gli articoli di giornale.
Potrai presentare alla classe i risultati; i testi potranno essere esposti su cartelloni.
Unità di Lavoro di approfondimento sull’apostolato dei laici nella Chiesa cattolica, tramite l’analisi di un’esperienza, in seguito allo studio sulla missione e l’identità della Chiesa stessa.
OSA di riferimento Conoscenze – La missione della Chiesa nel mondo e la testimonianza della carità.
Abilità – Documentare come le parole e le opere di Gesù abbiano ispirato scelte di vita fraterna, di carità.
– Individuare caratteristiche e responsabilità di ministeri e stati di vita.
Obiettivi Formativi ipotizzabili – Nell’ambito della descrizione dei compiti della Chiesa (evangelizzazione, catechesi e promozione umana), conoscere e saper spiegare in particolare il concetto di “promozione umana”, anche tramite esempi concreti.
– Conoscere e saper descrivere i diversi ministeri nell’ambito ecclesiale; in particolare, saper descrivere il ruolo del laico.
– Saper analizzare l’esperienza presentata cogliendo i valori umani e religiosi della protagonista (sentimenti, convinzioni, obiettivi).
– Saper esprimere opinioni personali riguardanti l’urgenza dell’accoglienza e della solidarietà nella società attuale.
Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale: – Saper prendere in considerazione il progetto di vita cristiano e la visione cristiana dell’esistenza come ipotesi di interpretazione della realtà sociale e individuale.
– Sul piano della crescita umano-relazionale, sviluppare capacità di dialogo, ascolto, conoscenza e rispetto dell’altro, condivisione e accoglienza.
– Possedere essenziali conoscenze inerenti il Cristianesimo (in particolare, l’identità e la storia della Chiesa cattolica).

Classe prima – Marzo

Seconda fase dell’attività a) La classe si divide in gruppetti di quattro o cinque persone, con portavoce.
In ciascun gruppo, tutti saranno dotati di un testo dei Vangeli.
Alcuni gruppi leggeranno, in Luca e Matteo, i “Vangeli dell’infanzia”; gli altri, dai racconti della Passione e Resurrezione alla conclusione, nell’ambito di uno dei quattro Vangeli.
I gruppi riassumeranno per scritto gli “interventi angelici” ritrovati nei testi, annotando poi: – la missione dell’Angelo o degli Angeli; – il modo di interagire con gli esseri umani e il tipo di rapporto instaurato con loro; – eventuali rapporti instaurati tra gli Angeli e Gesù.
I testi elaborati verranno presentati dai portavoce, confrontando le risposte dei gruppi in relazione agli stessi passi esaminati.
L’insegnante aiuterà poi la classe a sintetizzare per scritto, in breve, le giuste osservazioni.
b) L’insegnante propone agli allievi un questionario scritto; seguirà un confronto conclusivo delle risposte, in dibattito.
– Rispondi in breve: chi sono gli Angeli, secondo l’Antico e il Nuovo Testamento? Qual è il loro ruolo nella “Storia della Salvezza”? – Quale importanza può avere la loro esistenza, nell’ambito della storia umana e della storia di ogni singola persona, secondo i credenti? – Ci sono valori, vissuti o insegnati dagli Angeli, che qualsiasi essere umano, anche non credente, potrebbe condividere?  Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida 2) Nella Bibbia: Antico Testamento Nella Torah e nei Profeti l’angelo è soprattutto una “figura teologica” che indica una manifestazione di Dio, una personificazione della Sua Parola che salva e giudica.
Nel roveto ardente, Mosè vede “l’angelo del Signore”, ma subito dopo la narrazione continua così: «Il Signore vide che Mosè si era avvicinato e lo chiamò dal roveto» (Es 3,2-4).
L’identificazione Angelo-Dio si ritrova in molti altri passi biblici, per esempio in quello del sacrificio di Isacco (Gn 22,11-17).
In questo ruolo, l’angelo può assumere l’aspetto umano per rendersi visibile: Dio è “Altro” dall’uomo, ma anche a lui vicino, simile.
Nel capitolo 18 della Genesi, ripreso nella celebre icona del pittore A.
Rublev, quasi simboleggiando la Trinità tre Angeli si presentano davanti alla tenda di Abramo come viandanti, per annunciargli la nascita di Isacco; come un uomo misterioso un angelo lotta di notte con il patriarca Giacobbe, convinto tuttavia di “aver visto Dio faccia a faccia”.
L’Angelo è Parola che benedice, ma anche Parola che giudica: pensiamo all’essere che toglie la vita ai primogeniti degli Egiziani nell’Esodo…
Nella visione della “scala di Giacobbe” (Gn 28,12), gli Angeli che salgono e scendono indicano una Parola che rivela il collegamento tra cielo e terra, finito e infinito, Dio e uomo.
In moltissimi altri testi, gli Angeli si presentano non come simboli ma come entità reali, con identità proprie, soprattutto a partire dai testi successivi all’esilio babilonese degli Ebrei (dal VI secolo a.C.
in poi).
Diviene indiscutibile la presenza di un “angelo custode” a tutela del giusto.
L’idea di un angelo che non lascia solo il povero ritorna nei Salmi: «L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono e li salva…
Il Signore darà ordine ai suoi Angeli di custodirti in tutti i tuoi passi; sulle loro mani ti porteranno perché non inciampi nella pietra il tuo piede» (Sal 34, 91,11-12).
Nei Libro di Giobbe appare anche l’angelo che intercede per l’uomo presso il Signore.
Oltre a vegliare sugli individui, nella Bibbia miriadi di Angeli presiedono al destino delle nazioni (Dn 10,13-21); in una sorta di gerarchia angelica, spiccano Angeli con nomi che rivelano la loro missione, come Michele (“Chi è come Dio?”), protettore di Israele, grande combattente contro il male; Gabriele (“Dio è mia forza”), interprete incaricato di rendere comprensibili all’uomo i misteri della Rivelazione e Raffaele (“Dio guarisce”), incaricato delle guarigioni.
I “Cori angelici” esprimono la melodia e l’armonia perfetta dell’Amore di Dio; le loro gerarchie corrispondono a compiti d’immensa importanza.
Nella Gerarchia suprema, che loda e contempla Dio, i Serafini rappresentano il perfetto Amore, i Cherubini la conoscenza e la sapienza, i Troni la giustizia…
Nella seconda Gerarchia gli Angeli portano al mondo giusto ordine e bellezza e contrastano il male; nella Gerarchia inferiore, gli Angeli hanno incarichi di grande importanza presso gli uomini, sono ambasciatori della volontà di Dio.
Afferma S.
Agostino: «Dio li investe della Sua sapienza e della Sua gloria, e il loro sguardo sull’umanità è tenerezza infinita, innocenza di bambino…»  1) Chi sono? Il palcoscenico è avvolto nel buio.
Si accende un cono di luce che va a inquadrare un angelo, avvolto in una veste bianca.
È il prologo di un dramma di Santucci, uno dei più noti scrittori contemporanei, dal titolo L’angelo di Caino.
«Battezzati – esclama l’angelo rivolgendosi agli spettatori – porgetemi orecchio.
Nel dramma che ascolterete io sono l’angelo.
Chi sono gli angeli? C’è qualcuno tra voi che lo ricorda?».
Sulla platea scende un fitto silenzio.
L’angelo guarda negli occhi i suoi spettatori.
La pausa è densa di interrogativi.
«Ho udito i vostri pensieri.
No, non tutte queste cose soltanto».
Stende la mano e punta l’indice sulla platea immersa nel buio.
«Tu hai pensato a tua madre.
E tu al tuo piccino morto.
E voi altri a una musica, ad una immagine appesa in capo al letto.
Ma è giusto che voi sappiate.
Forse non potrete sopportare la nostra presenza, se ci pensate come siamo davvero, vicini a voi, in ogni istante!…
Ci pensiate o no, noi siamo con voi, o battezzati, nel modo preciso e perentorio che Dio ha voluto, sempre, sempre.
Senza distrazioni, senza vacanze».
                                                                           (C.
Fiore, I temi male detti, p.
29, Elledici) Afferma ancora lo scrittore Santucci: «Tanto rozzi siamo diventati che agli angeli più nessuno pensa.
Non vedendoli sul metrò o negli snack-bar o ai caselli dell’autostrada con gomito sporgente dal finestrino, li abbiamo aboliti.
Ne facciamo qualche accenno ai bambini.
Neppure più diremmo alla donna del cuore: sei il mio angelo.
Rideremmo entrambi…
Eppure gli angeli ci strappano come nessun’altra cosa dal puzzo di benzina, dal gracchiare del telegiornale…» In tutte le culture antiche compaiono esseri superiori agli uomini ma inferiori a Dio, “esseri-tramite”: li ritroviamo nelle primitive religioni animiste, in quelle dell’area mesopotamica, nei miti greco-romani; oggi nell’Induismo, nel Buddhismo, nell’Islam…
Soprattutto, sono chiaramente presenti nella Bibbia, nell’Antico e nel Nuovo Testamento; per i credenti, la “prova” dell’esistenza degli angeli risiede nella Parola di Dio.
Il termine greco “anghelos”, “messaggero”, traduce l’ebraico “mal ’akh”; esso ricorre nella Bibbia 215 volte.
Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, «gli angeli sono creature spirituali che incessantemente glorificano Dio e servono i Suoi disegni salvifici nei confronti delle altre creature»; sono creature libere di scegliere, interamente spirituali, incaricate di sostenere gli uomini, di illuminarli, di aiutarli a compiere la volontà di Dio.
Secondo il teologo G.
Gozzelino, «hanno un misterioso potere sul cosmo e sulla storia.
Contribuiscono con Gesù, con la Chiesa e i Cristiani alla lotta contro le forze del male.
Annunciano agli uomini gli interventi divini e li aiutano a comprenderne il senso.
In breve: sono adoratori di fronte a Dio, governatori del cosmo e della storia di fronte al mondo, annunciatori e guide di fronte agli uomini».
3) Nel Nuovo Testamento L’angelo “interprete” del Nuovo Testamento aiuta e spiega l’azione di Dio (vedi Apocalisse), soprattutto il significato dell’Incarnazione di Cristo.
Le gerarchie angeliche hanno grandi poteri, ma è chiaro come siano semplicemente incaricate di un ministero: Gesù è l’unico Mediatore di una Nuova Alleanza tra Dio e uomo; l’angelo “spiega” e invita all’adesione della fede.
Nei Vangeli, gli Angeli compaiono soprattutto in quelli “dell’infanzia” (Mt 1-2 e Lc 1-2) e nei racconti di resurrezione (Mc 15 e paralleli).
Gabriele annuncia a Zaccaria la nascita di Giovanni Battista (Lc 1,11-20) e a Maria la nascita di Gesù (Lc 1,26-28); un angelo guida Giuseppe alla scoperta della sua missione nei confronti di Gesù, cori angelici annunciano la Natività…
Angeli annunciano la resurrezione, presentati anche come “un giovane” (Mc 16,5), due uomini (Lc 24,4)…
Si ritrovano inoltre nei momenti in cui Gesù prega (Mt 4,11; Mc 1,13), specialmente nel Getsemani (Lc 22,43).
Gli Angeli proteggono gli uomini (Mt 18,10) e faranno da corona quando il Cristo tornerà per il giudizio finale e la vittoria definitiva sul male e sulla morte, alla fine dei tempi (Mt 16,27, Lc 12,8)…
Nel Nuovo Testamento Michele, l’Angelo del popolo ebraico, sembra divenire protettore della Chiesa universale (Ap 12,7).
La certezza della presenza dell’angelo custode (Mt 12,15) è ratificata dal Salvatore (Mt 18,10); gli Angeli sono anche accompagnatori delle anime nell’altra vita (Lc 16,22).
Essi, come noi, sono stati voluti dal Creatore di “tutte le cose visibili e invisibili”.
Il diavolo, dal greco “diabolos”, “colui che divide”, in ebraico “satan”, “avversario”, indica uno degli Angeli – potentissimo – che hanno usato male la loro libertà contrapponendosi a Dio in un sogno folle di potere; Satana sceglie il male, tenta di contrastare il Disegno di Dio soprattutto agendo come tentatore nei confronti dell’uomo.
Il Nuovo Testamento mette in risalto la vittoria di Cristo su ogni forma di male e sul diavolo.
Ci sono dunque esseri, secondo la Bibbia, che riempiono l’universo con la pienezza della Verità e dell’Amore; esseri capaci di lodare Dio e di servirlo con incessante fermezza (essi sono ciò che noi non siamo…
ma che possiamo diventare), potenti perché uniti a Lui e per amore Suo capaci di amare immensamente noi esseri umani, aiutandoci a elevarci; proteggendoci dai pericoli e da noi stessi, suscitando in noi il desiderio del bene; divenendo portatori della Parola, nella Scrittura e nei cuori.
Gli Angeli ci insegnano la dedizione assoluta a una missione di bene, l’amore-donazione gratuito e illimitato.
Unità di Lavoro biblica, per l’approfondimento e l’attualizzazione OSA di riferimento  Conoscenze   – Ricerca umana e Rivelazione di Dio nella storia.
– Il libro della Bibbia, documento storico-culturale e Parola di Dio.   Abilità  – Individuare il messaggio centrale di alcuni testi biblici, utilizzando informazioni storico-letterarie e seguendo metodi diversi di lettura.
Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e descrivere le caratteristiche degli angeli e il loro ruolo nella “Storia della Salvezza”.
– Comprendere e saper spiegare il significato essenziale di alcuni brani biblici inerenti gli angeli.
– Elaborare ed esprimere opinioni personali in merito ai valori espressi dal messaggio biblico sugli angeli.   Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale  – Possedere essenziali conoscenze bibliche, storiche e dottrinali inerenti il Cristianesimo e riconoscere il contributo del pensiero cristiano al progresso culturale, artistico e sociale dell’intera umanità.
– Sapersi esprimere in modo personale oralmente e per scritto nell’ambito del linguaggio specifico, tramite testi di riflessione ed esperimenti di analisi e sintesi.
Prima fase dell’attività L’insegnante presenta agli allievi i testi-guida motivando il percorso.
Nella tradizione cristiana, gli angeli occupano un ruolo discreto, ma di primo piano; creature più evolute nella vicinanza a Dio, possono rappresentare il meglio di ciò che è “invisibile”, ma che può essere reale e che può spalancare nuovi, meravigliosi orizzonti all’esperienza umana.
Essi trasmettono valori degni di attenzione per chiunque voglia provare a migliorare il mondo.

Classe terza – Marzo

Marta e Maria (Lc 10,38-42) 38Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò.
39Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola.
40Marta invece era distolta per i molti servizi.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti».
41Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, 42ma di una cosa sola c’è bisogno.
Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».
«Oggi noi assistiamo nel nostro mondo occidentale a questo darsi da fare, a questo correre, a questa superficialità, a questa premura di cui siamo tutti un po’ vittime.
Non c’è tempo per scrivere una lettera, per leggere un libro, per fare una visita.
Non c’è tempo.
Il brano di Marta e Maria cade a proposito: intendiamo bene che il Signore non rimprovera a Marta il servizio; Gesù stesso ha detto “Sono venuto per servire”.
Egli rimprovera a Marta l’agitazione, l’affanno e la preoccupazione: nella nostra vita, che è tesa, piena di cose da fare, come si situa l’ascolto del Maestro che abbiamo scelto di seguire? La preghiera è dialogo autentico, non monologo con noi stessi; è uscire da noi stessi per ascoltare prima di tutto Lui» (P.
Francesco Peyron) (Nella seconda parte: le varie forme di preghiera possibili oggi; i giovani e la preghiera – testimonianze –; l’effetto trasformante della preghiera; le attività per valutare il raggiungimento degli Obiettivi Formativi).  Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida Parabola della “vedova importuna” (Lc 18,2-8) 2«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno.
3In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
4Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi».
6E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto.
7E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente.
Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
4) Regole essenziali Gesù insegna a chiedere con perseveranza, certi della risposta (vedi “parabola dell’amico importuno”, Lc 11,5-13; Lc 18,1-8), con fede assoluta nella bontà del Padre (Mt 7,11); occorre essere umili e autentici, presentarsi a Lui senza barriere, senza maschere né giustificazioni, riconoscendo limiti ed errori per lasciarsi “guarire” (vedi “il fariseo e il pubblicano”, Lc 18,9-14).
Occorre chiedere il dono del Suo Spirito per essere illuminati, per ricevere forza e saggezza; occorre comprendere come il fine della preghiera sia fare la volontà del Padre, non indurre Lui a fare la nostra (Mt 6,10; Lc 22,42).
Non si può raggiungere Dio-Amore senza sforzarsi contemporaneamente di amare i fratelli, di promuovere la riconciliazione e di perdonare (Mt 5,23-24; 6,12).
La “scuola di preghiera” di Gesù culmina nel “Padre Nostro”, come abbiamo visto nel secondo anno (Mt 6,9-13; Lc 11,2-4).
È «il programma di una relazione in cui immettersi» (E.
Bianchi) ed è anche una promessa di impegno, essenziale nella preghiera.
Ci si impegna a costruire e diffondere il Suo Regno, il mondo nuovo basato sull’amore, con energia e creatività; a testimoniare la grandezza del Signore facendolo conoscere e insegnando ad amarlo; ci si impegna ad accogliere la Sua volontà anche quando “capire” e “accettare” sembrano due verbi impossibili; a lottare contro le tentazioni di egoismo, a lavorare su di sé per riuscire a perdonare…
Nella gerarchia dei valori di un Cristiano convinto, il rapporto con Dio occupa il primo posto, è modello di ogni altro rapporto e diviene il motore e l’obiettivo finale di tutte le esperienze.
Se credente, sono certo che i rapporti che coltivo, gli sforzi che faccio per contribuire a “fare giustizia” mi condurranno a conoscere Lui che è Amore e Verità e a incontrarlo nel profondo del cuore, sempre meglio.
1) Tutti gli uomini pregano? Afferma C.M.
Martini, già Arcivescovo di Milano: «Anche chi si dice lontano dalla pratica religiosa ha non di rado moti interiori e aspirazioni che si possono definire preghiera.
Vi sono esempi di preghiera di non credenti, per quanto paradossale possa sembrare la cosa».
Poche, commoventi parole, da un muro di Roma, sono arrivate a un giornale: «In questa città ho paura, nessuno mi conosce, solo Dio».
Molti psicanalisti confermano: anche colui che è certo di non credere in Dio, talvolta, prega; per un po’, segretamente, spera di essersi sbagliato, di vedere smentite tutte le sue convinzioni razionali di ateo e di incontrare la Fonte della vita e del suo significato, una potente Forza amorosa e “riordinatrice”.
È innegabile: nel cuore della persona umana esiste un’“area di solitudine”, incolmabile dagli effetti umani, abitata dalle paure più grandi e dalle domande senza risposta…
Chi prega tenacemente apre le porte interiori a una Presenza che riempia la solitudine, a una Parola di Verità che gli venga rivolta personalmente.
IN DIRETTA DAI VANGELI Parabola dell’“amico importuno” (Lc 11,5-13)  5Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, 6perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”, 7e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, 8vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
9Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto.
10Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.
11Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? 12O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? 13Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».
3) La preghiera di Gesù «Nessuno viene al Padre se non attraverso di me»…
(Gv 14,6) Gesù è la Parola definitiva del Padre; attraverso di Lui, mentre agisce e mentre insegna, si manifesta il Volto amoroso di Dio: è come il pastore che cerca ansiosamente la pecorella smarrita, come il padre del figlio spendaccione e ingrato della parabola, che ritorna da lui senza sperare nel perdono, e che pure lo riceve…
Sempre per amore, il Padre è giusto, può essere severo…
mai indifferente.
Il Cristiano raggiunge il Padre attraverso il Figlio; il rapporto con Lui è prioritario, Egli è il Maestro da cui farsi istruire in tutto, il Dio-Uomo vicinissimo a noi per Sua scelta, anche con le esperienze vissute tramite la Sua umanità; attraverso di Lui riceviamo lo Spirito Santo, Forza di Dio che agisce in noi anche perché impariamo a pregare nel modo giusto…
Il Figlio è della stessa natura divina del Padre, eppure Gesù-uomo Gli è totalmente sottomesso («Non come voglio io, ma come vuoi Tu…», dice nel Getsemani, prima dell’arresto); Gli si rivolge con il termine aramaico “Abbà” (“papà”, “babbo”), usato dai bambini, è cosciente di un legame di totale intimità con Lui che Lo ha generato “da sempre”.
Gesù pregava nei momenti delle feste religiose ebraiche comunitarie, in sinagoga e al Tempio…
spesso si ritirava in luoghi solitari per dialogare con il Padre (Mt 14,23, Mc 1,35; 6,46…).
Egli pregò con particolare intensità in momenti cruciali della Sua esperienza terrena: in occasione del Battesimo, prima di chiamare gli Apostoli, prima di far risorgere l’amico Lazzaro, durante l’ultima drammatica notte prima dell’arresto e al momento della morte…
Tuttavia, ogni istante della Sua giornata era vissuta alla presenza di Dio: il dialogo era in realtà costante, ininterrotto.
Prima fase dell’attività L’insegnante presenta alla classe i primi testi-guida, che propongono la visione biblica della preghiera approfondendo temi già avviati nel secondo anno.
In tutte le religioni è fondamentale la preghiera, la ricerca umana di comunicazione con Dio in molte forme; la preghiera autentica conduce al dialogo e poi al rapporto profondo, un rapporto che può “plasmare” la persona, trasformarla e permetterle di vedere ogni cosa in un’ottica particolare…
dal punto di vista di Dio stesso.
Parabola “il fariseo e il pubblicano” (Lc 18,9-14) 9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.
12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Unità di Lavoro-Riflessione sull’esperienza, con approfondimenti biblici e teologici Prima parte OSA di riferimento Conoscenze – La fede, alleanza tra Dio e l’uomo, vocazione e progetto di vita.
– Gesù, via, verità e vita per l’umanità.
Abilità – Riconoscere le dimensioni fondamentali dell’esperienza di fede.
– Individuare l’originalità della speranza cristiana.
Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e saper descrivere aspetti vari della preghiera cristiana.
– Conoscere e saper descrivere l’azione trasformante della preghiera secondo i credenti.
– Conoscere e saper spiegare il significato essenziale di alcuni passi biblici riguardanti la preghiera.
– Elaborare e saper esprimere opinioni personali motivate inerenti l’importanza della preghiera nell’esperienza umana.
Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale – Consolidare o almeno avviare percorsi di introspezione, in vista di una sempre più approfondita conoscenza di sé e dello sviluppo di opinioni personali.
– Prendere in considerazione il progetto di vita cristiano e la visione cristiana dell’esistenza.
– Possedere essenziali conoscenze bibliche e dottrinali inerenti il Cristianesimo.
2) Preghiera biblica: Antico Testamento Nella Bibbia il “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” (Es 3,6.15) si rivela nella storia, prende l’iniziativa di una relazione e rivolge all’uomo una Parola, tramite profeti ed eventi, che richiede ascolto; manifesta la Sua Volontà in essa e chiama per amore a un rapporto profondo, l’Alleanza.
L’uomo “può” rispondere: è «libertà dialogante con Dio» (E.
Bianchi), con il suo volergli rispondere diviene persona umana nella pienezza di tutto il suo essere.
La preghiera biblica è ascolto della Parola e risposta nella fede, tramite lode e supplica.
Nei Salmi le due dimensioni sono evidenti come benedizione e ringraziamenti e anche come invocazioni, richieste e intercessioni (suppliche per altri).
Nell’Antico Testamento le grandi figure profetiche trovano nella preghiera la forza di obbedire a Dio senza temere gli uomini o gli ostacoli: pensiamo ad Abramo, Mosè, Geremia…
La risposta alla Parola, nella preghiera, può e deve essere personale come comunitaria, espressione della fede e della speranza che unisce il “Popolo di Dio” – ieri il popolo ebraico, oggi la Chiesa –, dell’unione di anime che insieme lodano o chiedono.

Il papa si confessa.

L’impressionante lettera che Benedetto XVI ha scritto sei giorni fa ai vescovi di tutto il mondo è molto più che un’occasionale risposta alla “valanga di proteste” contro la sua decisione di revocare la scomunica ai lefebvriani.
È una lettera che ricorda quelle di Paolo e dei Padri apostolici.
Non a caso il papa vi ha citato la lettera ai Galati (nell’illustrazione, il suo inizio in un papiro egiziano dell’anno 200).
Erano testi rivolti a comunità cristiane concrete, di cui prendevano di petto le debolezze e le lacerazioni.
Ma anche andavano dritti ai fondamenti della fede, dicevano ciò per cui la Chiesa sta o cade.
Benedetto XVI ha fatto lo stesso.
Nella sua lettera non ha taciuto nulla delle contestazioni che l’hanno colpito.
Ma ha anche scritto ciò che per lui vale più di ogni cosa, in queste poche righe fulminanti: “Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del successore di Pietro in questo tempo.
Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti”.
La lettera del 10 marzo 2009 è quindi un testo capitale per capire il pontificato di Joseph Ratzinger.
Segna la strada che egli sta percorrendo deciso, senza deflettere in nulla sotto i colpi della contestazione.
Proprio nei giorni in cui Benedetto XVI stava scrivendo la sua lettera, c’è stato un cardinale che ha provato, di sua iniziativa, a decifrare il senso profondo di questo pontificato, a individuarne le “priorità” e a spiegarle a una platea di ascoltatori, in una conferenza pubblica.
“La prima e maggiore priorità è Dio stesso”, ha esordito, quasi con le stesse parole di Benedetto XVI nella sua lettera.
La stupefacente sintonia tra l’analisi del cardinale e la confessione che il papa ha fatto di sé, nella lettera, induce a leggere per esteso il testo della conferenza.
Il cardinale è Camillo Ruini, che fino a un anno fa è stato il vicario di Benedetto XVI nel reggere la diocesi di Roma.
Ha tenuto la conferenza il 1 marzo 2009 a Vicenza, nella scuola di cultura cattolica “Mariano Rumor”.
Le priorità del pontificato di Benedetto XVI di Camillo Ruini Nell’omelia di inizio del pontificato, Benedetto XVI affermava di non avere un proprio programma, se non quello che ci viene dal Signore Gesù Cristo.
Era questo un chiaro richiamo a ciò che è essenziale nel cristianesimo.
Il nuovo pontificato si poneva inoltre nella continuità sostanziale con quello di Giovanni Paolo II, di cui Joseph Ratzinger era stato, per i contenuti decisivi, il primo collaboratore.
In questo quadro non è difficile individuare alcune priorità del pontificato di Benedetto XVI.
La prima e maggiore priorità è Dio stesso, quel Dio che troppo facilmente viene messo al margine della nostra vita, protesa al “fare”, soprattutto mediante la “tecno-scienza”, e al godere-consumare.
Quel Dio, anzi, che è espressamente negato da una “metafisica” evoluzionistica che riduce tutto alla natura, cioè alla materia-energia, al caso (le mutazioni casuali) e alla necessità (la selezione naturale), o più frequentemente è dichiarato non conoscibile in base al principio che “latet omne verum”, ogni verità è nascosta, in conseguenza della restrizione degli orizzonti della nostra ragione a ciò che è sperimentabile e calcolabile, secondo la linea oggi prevalente.
Quel Dio, infine, di cui è stata proclamata la “morte”, con l’affermarsi del nichilismo e con la conseguente caduta di tutte le certezze.
Il primo impegno del pontificato è dunque riaprire la strada a Dio: non però facendosi dettare l’agenda da coloro che in Dio non credono e contano soltanto su se stessi.
Al contrario, l’iniziativa appartiene a Dio e questa iniziativa ha un nome, Gesù Cristo: Dio si rivela in qualche modo a noi nella natura e nella coscienza, ma in maniera diretta e personale si è rivelato ad Abramo, a Mosè, ai profeti dell’Antico Testamento, e in maniera inaudita si è rivelato nel Figlio, nell’incarnazione, croce e risurrezione di Cristo.
Vi sono dunque due vie, quella della nostra ricerca di Dio e quella di Dio che viene alla ricerca di noi, ma soltanto quest’ultima ci permette di conoscere il volto di Dio, il suo mistero intimo, il suo atteggiamento verso di noi.
Giungiamo così alla seconda priorità del pontificato: la preghiera.
Non soltanto quella personale ma anche e soprattutto quella “nel” e “del” popolo di Dio e corpo di Cristo, ossia la preghiera liturgica della Chiesa.
Nella prefazione al primo volume delle sue “Opera omnia”, uscito da poco in lingua tedesca, Benedetto XVI scrive: “La liturgia della Chiesa è stata per me, fin dalla mia infanzia, l’attività centrale della mia vita ed è diventata anche il centro del mio lavoro teologico”.
Possiamo aggiungere che oggi è il centro del suo pontificato.
Arriviamo così a un punto controverso, specialmente dopo il motu proprio che consente l’uso della liturgia preconciliare e ancor più dopo la remissione della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani.
Già in precedenza però Joseph Ratzinger aveva chiarito questo punto molto bene.
Egli è stato uno dei grandi sostenitori del movimento liturgico che ha preparato il Concilio e uno dei protagonisti del Vaticano II, e tale è sempre rimasto.
Fin dall’attuazione della riforma liturgica nei primi anni del dopo-Concilio, egli aveva contestato però la proibizione dell’uso del messale di San Pio V, vedendovi una causa di sofferenza non necessaria per tante persone amanti di quella liturgia, oltre che una rottura rispetto alla prassi precedente della Chiesa che, in occasione delle riforme della liturgia succedutesi nella storia, non aveva proibito l’uso delle liturgie fino allora in uso.
Da pontefice ha pertanto ritenuto di dover rimediare a questo inconveniente consentendo più facilmente l’uso del rito romano nella sua forma preconciliare.
Lo spingeva a questo anche il suo dovere fondamentale di promotore dell’unità della Chiesa.
Si muoveva inoltre nella linea già iniziata da Giovanni Paolo II.
In questo spirito la remissione della scomunica è stata concessa per facilitare il ritorno dei lefebvriani, ma non certamente per rinunciare alla condizione decisiva di questo ritorno, che è la piena accettazione del Concilio Vaticano II, compresa la validità della messa celebrata secondo il messale di Paolo VI.
In positivo Benedetto XVI ha precisato l’interpretazione del Vaticano II nel discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005, prendendo le distanze da una “ermeneutica della rottura”, che ha due forme: una prevalente, in base alla quale il Concilio costituirebbe una novità radicale e sarebbe importante “lo spirito del Concilio” ben più della lettera dei suoi testi; l’altra, contrapposta, per la quale conterebbe soltanto la tradizione precedente al Concilio, rispetto a cui il Concilio avrebbe rappresentato una rottura densa di conseguenze funeste, come sostengono appunto i lefebvriani.
Benedetto XVI propone invece l'”ermeneutica della riforma”, ossia della novità nella continuità, sostenuta già da Paolo VI e Giovanni Paolo II: il Concilio costituisce cioè una grande novità ma nella continuità dell’unica tradizione cattolica.
Soltanto questo tipo di ermeneutica è teologicamente sostenibile e pastoralmente fruttuoso.
Abbiamo messo a fuoco così un’ulteriore priorità del pontificato: promuovere l’attuazione del Concilio, sulla base di questa ermeneutica.
Nella medesima prospettiva, possiamo parlare di una “priorità cristologica” o “cristocentrica” del pontificato.
Essa si esprime in particolare nel libro “Gesù di Nazaret”, impegno non consueto per un papa, al quale Benedetto XVI dedica “tutti i momenti liberi”.
Gesù Cristo infatti è la via a Dio Padre, è la sostanza del cristianesimo, è il nostro unico Salvatore.
Perciò è terribilmente pericoloso il distacco tra il Gesù della storia e il Cristo della fede, distacco che è frutto di un’assolutizzazione unilaterale del metodo storico-critico e più precisamente di un impiego di questo metodo sulla base del presupposto che Dio non agisca nella storia.
Un tale presupposto, già da solo, rappresenta infatti la negazione dei Vangeli e del cristianesimo.
Anche in questo caso si tratta di allargare gli spazi della razionalità, dando credito a una ragione aperta, e non chiusa, alla presenza di Dio nella storia.
Questo libro ci mette in contatto con Gesù e così ci introduce nella sostanza, nella profondità e novità del cristianesimo: leggerlo è un impegno che costa un po’ di fatica ma che ripaga abbondantemente.
*** A questo punto possiamo ritornare alla prima priorità, Dio, per prendere in considerazione l’impegno anche razionale e culturale di Benedetto XVI al fine di allargare a Dio la ragione contemporanea e di fare spazio a Dio nei comportamenti e nella vita personale e sociale, pubblica e privata: sono particolarmente importanti qui il discorso di Ratisbona, quello più recente di Parigi e anche quello di Verona del 2006.
Quanto alla ragione contemporanea, Benedetto XVI sviluppa una “critica dall’interno” della razionalità scientifico-tecnologica, che oggi esercita una leadership culturale.
La critica non riguarda questa razionalità in se stessa, che ha anzi grande valore e grandi meriti, dato che ci fa conoscere la natura e noi stessi come mai era stato possibile prima e ci permette di migliorare enormemente le condizioni pratiche della nostra vita.
Riguarda invece la sua assolutizzazione, come se questa razionalità costituisse l’unica conoscenza valida della realtà.
Tale assolutizzazione non proviene dalla scienza come tale, né dai grandi uomini di scienza, che ben conoscono i limiti della scienza stessa, bensì da una “vulgata” oggi molto diffusa e influente, che però non è la scienza ma una sua interpretazione filosofica, piuttosto vecchia e superficiale.
La scienza infatti deve i suoi successi alla sua rigorosa limitazione metodologica a ciò che è sperimentabile e calcolabile.
Se però questa limitazione viene universalizzata, applicandola non solo alla ricerca scientifica ma alla ragione e alla conoscenza umana come tali, essa diventa insostenibile e disumana, dato che ci impedirebbe di interrogarci razionalmente sulle domande decisive della nostra vita, che riguardano il senso e lo scopo per cui esistiamo, l’orientamento da dare alla nostra esistenza, e ci costringerebbe ad affidare la risposta a queste domande soltanto ai nostri sentimenti o a scelte arbitrarie, distaccate dalla ragione.
È questo, forse il problema più profondo e anche il dramma della nostra attuale civiltà.
Joseph Ratzinger-Benedetto XVI fa un passo in più, mostrando che la riflessione sulla struttura stessa della conoscenza scientifica apre la strada verso Dio.
Una caratteristica fondamentale di tale conoscenza è infatti la sinergia tra matematica ed esperienza, tra le ipotesi formulate matematicamente e la loro verifica sperimentale: si ottengono così i risultati giganteschi e sempre crescenti che la scienza mette a nostra disposizione.
La matematica è però un frutto puro e “astratto” della nostra razionalità, che si spinge al di là di tutto ciò che noi possiamo immaginare e rappresentare sensibilmente: così avviene in particolare nella fisica quantistica – dove una medesima formulazione matematica corrisponde all’immagine di un’onda e al tempo stesso di un corpuscolo – e nella teoria della relatività, che implica l’immagine della “curvatura” dello spazio.
La corrispondenza tra matematica e strutture reali dell’universo, senza la quale le nostre previsioni scientifiche non si avvererebbero e le tecnologie non funzionerebbero, implica dunque che l’universo stesso sia strutturato in maniera razionale, così che esista una corrispondenza profonda tra la ragione che è in noi e la ragione “oggettivata” nella natura, ossia intrinseca alla natura stessa.
Dobbiamo chiederci però come questa corrispondenza sia possibile: emerge così l’ipotesi di un’Intelligenza creatrice, che sia l’origine comune della natura e della nostra razionalità.
L’analisi, non scientifica ma filosofica, delle condizioni che rendono possibile la scienza ci riporta dunque verso il “Logos”, il Verbo di cui parla san Giovanni all’inizio del suo Vangelo.
Benedetto XVI non è però un razionalista, conosce bene gli ostacoli che oscurano la nostra ragione, la “strana penombra” in cui viviamo.
Perciò, anche a livello filosofico, non propone il ragionamento che abbiamo visto come una dimostrazione apodittica, ma come “l’ipotesi migliore”, che richiede da parte nostra “di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile”: il contrario dunque di quell’atteggiamento oggi diffuso che viene chiamato “scientismo”.
Allo stesso modo non può essere presentata come “scientifica” la riduzione dell’uomo a un prodotto della natura, in ultima analisi omogeneo agli altri, negando quella differenza qualitativa che caratterizza la nostra intelligenza e la nostra libertà.
Una simile riduzione costituisce in realtà il capovolgimento totale del punto di partenza della cultura moderna, che consisteva nella rivendicazione del soggetto umano, della sua ragione e della sua libertà.
Perciò, come Benedetto XVI ha detto a Verona, la fede cristiana proprio oggi si pone come il “grande sì” all’uomo, alla sua ragione e alla sua libertà, in un contesto socio-culturale nel quale la libertà individuale viene enfatizzata sul piano sociale facendone il criterio supremo di ogni scelta etica e giuridica, in particolare nell'”etica pubblica”, salvo però negare la libertà stessa come realtà a noi intrinseca, cioè come nostra capacità personale di scegliere e di decidere, al di là dei condizionamenti ed automatismi biologici, psicologici, ambientali, esistenziali.
Proprio il ristabilimento di un genuino concetto di libertà è un’altra priorità del pontificato, l’ultima di cui parlerò.
Essa riguarda la vita personale e sociale, le strutture pubbliche come i comportamenti personali.
Benedetto XVI contesta cioè quell’etica e quella concezione del ruolo dello Stato e della sua laicità che egli stesso ha definito “dittatura del relativismo”, per la quale non esisterebbe più qualcosa che sia bene o male in se stesso, oggettivamente, ma tutto dovrebbe subordinarsi alle nostre scelte personali, che diventano automaticamente “diritti di libertà”.
Vengono escluse così, almeno a livello pubblico, non solo le norme etiche del cristianesimo e di ogni altra tradizione religiosa, ma anche le indicazioni etiche che si fondano sulla natura dell’uomo, cioè sulla realtà profonda del nostro essere.
È questa una cesura radicale, un autentico taglio, rispetto alla storia dell’umanità: una cesura che isola l’Occidente secolarizzato dal resto del mondo.
In realtà la libertà personale è intrinsecamente relativa alle altre persone e alla realtà, è libertà non solo “da” ma “con” e “per”, è libertà condivisa che si realizza soltanto unitamente alla responsabilità.
In concreto, Benedetto XVI è talvolta accusato di insistere unilateralmente sui temi antropologici e bioetici, come la famiglia e la vita umana, ma in realtà egli insiste analogamente sui temi sociali ed ecologici (certamente senza indulgere ad “inquinamenti ideologici”).
Proprio ai temi sociali sarà dedicata la sua terza enciclica ormai imminente.
La radice comune di questa duplice insistenza è il “sì” di Dio all’uomo in Gesù Cristo, e in concreto è l’etica cristiana dell’amore del prossimo, a cominciare dai più deboli.
Concludo tornando all’inizio.
Parlando a Subiaco il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II, il cardinale Ratzinger invitava tutti, anche quegli uomini di buona volontà che non riescono a credere, a vivere “veluti si Deus daretur”, come se Dio esistesse.
Ma al tempo stesso affermava la necessità di uomini che tengano lo sguardo fisso verso Dio e in base a questo sguardo si comportino nella vita.
Soltanto così infatti Dio potrà tornare nel mondo.
È questo il senso e lo scopo dell’attuale pontificato.
__________ __________ 16.3.2009 La lettera del 10 marzo 2009 di Benedetto XVI ai vescovi di tutto il mondo: > “Se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi gli uni gli altri” __________ Gli altri grandi testi del pontificato di Benedetto XVI citati dal cardinale Ruini: > Alla curia romana, 22 dicembre 2005 > A Ratisbona, 12 settembre 2006 > A Verona, 19 ottobre 2006 > A Parigi, 12 settembre 2008__________ Il commento del cardinale Ruini alla lettera di Benedetto XVI del 10 marzo 2009, pubblicato su “L’Osservatore Romano” del 14 marzo: > Il senso della Chiesa In esso tra l’altro Ruini scrive: “Di fronte all’inclinazione a ‘mordersi e divorarsi a vicenda’, purtroppo oggi presente tra noi come fu presente tra i Galati a cui scriveva san Paolo, tocchiamo un nervo scoperto del cattolicesimo degli ultimi secoli, un punto di fragilità e di sofferenza di cui dobbiamo diventare più e meglio consapevoli.
Mi riferisco all’indebolirsi, e a volte praticamente all’estinguersi, del senso di appartenenza ecclesiale, della gioia cioè e della gratitudine di far parte della Chiesa cattolica”.