Qui di seguito è riprodotto il discorso con cui Benedetto XVI ha concluso il suo viaggio, venerdì 15 maggio.
Ma più sotto è riportato anche il discorso pronunciato la stessa mattina dal papa a Gerusalemme, nella basilica del Santo Sepolcro, ultima tappa del suo pellegrinaggio nei Luoghi Santi.
Benedetto XVI l’ha pronunciato subito dopo aver pregato in ginocchio sulla tomba vuota di Gesù, quella della risurrezione.
E fin dall’inizio ha tenuto a proclamare che all’infuori di Gesù risorto “non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati”.
Queste parole non sono una citazione della “Dominus Iesus”, la dichiarazione “sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa” emessa nel 2000 dall’allora cardinale Joseph Ratzinger e criticata anche da molti ebrei.
Ma sono la predicazione di Pietro, nel capitolo quarto degli Atti degli Apostoli.
E oggi del suo successore.
A tutti coloro che soffrono nella terra che fu di Gesù, siano essi ebrei o arabi, cristiani o musulmani, Benedetto XVI ha voluto dare questa consegna, davanti alla tomba vuota del Risorto: “La tomba vuota ci parla di speranza, quella stessa che non ci delude, poiché è dono dello Spirito della vita.
Questo è il messaggio che oggi desidero lasciarvi, a conclusione del mio pellegrinaggio nella Terra Santa”.
__________ Discorso di congedo all’aeroporto di Tel Aviv, 15 maggio 2009 di Benedetto XVI Signor presidente, signor primo ministro, eccellenze, signore e signori, mentre mi dispongo a ritornare a Roma, vorrei condividere con voi alcune delle forti impressioni che il mio pellegrinaggio in Terra Santa ha lasciato dentro di me.
[…] Signor presidente, lei ed io abbiamo piantato un albero di ulivo nella sua residenza, nel giorno del mio arrivo in Israele.
L’albero di ulivo, come ella sa, è un’immagine usata da san Paolo per descrivere le relazioni molto strette tra cristiani ed ebrei.
Nella sua lettera ai Romani, Paolo descrive come la Chiesa dei gentili sia come un germoglio di ulivo selvatico, innestato nell’albero di ulivo buono che è il popolo dell’alleanza (cfr.
11, 17-24).
Traiamo il nostro nutrimento dalle medesime radici spirituali.
Ci incontriamo come fratelli, fratelli che in certi momenti della storia comune hanno avuto un rapporto teso, ma sono adesso fermamente impegnati nella costruzione di ponti di duratura amicizia.
La cerimonia al palazzo presidenziale è stata seguita da uno dei momenti più solenni della mia permanenza in Israele – la mia visita al Memoriale dell’Olocausto a Yad Vashem, dove ho reso omaggio alle vittime della Shoah.
Lì ho anche incontrato alcuni dei sopravvissuti.
Quegli incontri profondamente commoventi hanno rinnovato ricordi della mia visita di tre anni fa al campo della morte di Auschwitz, dove così tanti ebrei – madri, padri, mariti, mogli, figli, figlie, fratelli, sorelle, amici – furono brutalmente sterminati sotto un regime senza Dio che propagava un’ideologia di antisemitismo e odio.
Quello spaventoso capitolo della storia non deve essere mai dimenticato o negato.
Al contrario, quelle buie memorie devono rafforzare la nostra determinazione ad avvicinarci ancor più gli uni agli altri come rami dello stesso ulivo, nutriti dalle stesse radici e uniti da amore fraterno.
Signor presidente, la ringrazio per il calore della sua ospitalità, molto apprezzata, e desidero che consti il fatto che sono venuto a visitare questo paese da amico degli israeliani, così come sono amico del popolo palestinese.
Gli amici amano trascorrere del tempo in reciproca compagnia e si affliggono profondamente nel vedere l’altro soffrire.
Nessun amico degli israeliani e dei palestinesi può evitare di rattristarsi per la continua tensione fra i vostri due popoli.
Nessun amico può fare a meno di piangere per le sofferenze e le perdite di vite umane che entrambi i popoli hanno subito negli ultimi sei decenni.
Mi consenta di rivolgere questo appello a tutto il popolo di queste terre: Non più spargimento di sangue! Non più scontri! Non più terrorismo! Non più guerra! Rompiamo invece il circolo vizioso della violenza.
Possa instaurarsi una pace duratura basata sulla giustizia, vi sia vera riconciliazione e risanamento.
Sia universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti.
Sia ugualmente riconosciuto che il popolo palestinese ha il diritto a una patria indipendente sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente.
Che la “two-State solution”, la soluzione di due Stati, divenga realtà e non rimanga un sogno.
E che la pace possa diffondersi da queste terre; possano essere “luce per le nazioni” (Isaia 42, 6), recando speranza alle molte altre regioni che sono colpite da conflitti.
Una delle visioni più tristi per me durante la mia visita a queste terre è stato il muro.
Mentre lo costeggiavo, ho pregato per un futuro in cui i popoli della Terra Santa possano vivere insieme in pace e armonia senza la necessità di simili strumenti di sicurezza e di separazione, ma rispettandosi e fidandosi l’uno dell’altro, nella rinuncia ad ogni forma di violenza e di aggressione.
Signor presidente, so quanto sarà difficile raggiungere quell’obiettivo.
So quanto sia difficile il suo compito e quello dell’autorità palestinese.
Ma le assicuro che le mie preghiere e le preghiere dei cattolici di tutto il mondo la accompagnano mentre ella prosegue nello sforzo di costruire una pace giusta e duratura in questa regione.
[…] A tutti dico: grazie e che il Signore sia con voi.
Shalom! Quanto al muro che divide Israele dai Territori, la critica che molti ebrei fanno alla Santa Sede è di trascurarne la finalità di barriera di sicurezza, contro le incursioni terroristiche, e di parteggiare più per i palestinesi che per gli israeliani.
Nel suo discorso finale, il papa si è così espresso in proposito: “Una delle visioni più tristi per me durante la mia visita a queste terre è stato il muro.
Mentre lo costeggiavo, ho pregato per un futuro in cui i popoli della Terra Santa possano vivere insieme in pace e armonia senza la necessità di simili strumenti di sicurezza e di separazione, ma rispettandosi e fidandosi l’uno dell’altro, nella rinuncia ad ogni forma di violenza e di aggressione”.
Dicendo così, Benedetto XVI ha riconosciuto da un lato le afflizioni che la barriera infligge al popolo palestinese ma dall’altro – esplicitamente – anche la sua natura di “strumento di sicurezza” per Israele.
E ha invitato tutti, affinché questo muro possa cadere, a coniugare sicurezza e fiducia reciproca, come già aveva fatto lunedì 11 maggio a Gerusalemme, durante la visita “dell’ulivo” al palazzo presidenziale, riflettendo sul doppio significato della parola biblica “betah”.
Inoltre, sempre nel discorso finale all’aeroporto di Tel Aviv, nell’invocare la fine della guerra e del terrorismo e nell’auspicare una “two-State solution”, il papa ha ribadito la necessità che “sia universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti”.
Con ciò papa Ratzinger è andato incontro alla richiesta che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu gli aveva fatto il giorno precedente a Nazaret, in un colloquio a porte chiuse: quella di condannare le posizioni negazioniste dell’Iran circa l’esistenza dello Stato d’Israele Aveva iniziato il suo viaggio dal Monte Nebo ricordando “l’inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebreo” ed esprimendo “il desiderio di superare ogni ostacolo che si frappone alla riconciliazione fra cristiani ed ebrei”.
L’ha concluso, venerdì 15 maggio all’aeroporto di Tel Aviv, di nuovo all’insegna di questa prossimità tra i due popoli.
Nel salutare il presidente di Israele prima di ripartire per Roma, Benedetto XVI ha tenuto a dire che l’ulivo piantato da loro assieme nel giardino del palazzo presidenziale è “l’immagine usata da san Paolo per descrivere le relazioni molto strette tra cristiani ed ebrei”.
La Chiesa delle genti è l’ulivo selvatico innestato sull’ulivo buono che è il popolo dell’alleanza.
Si nutrono dalla stessa radice.
Curiosamente, nel suo discorso finale, questa dell’ulivo ebraico-cristiano è stata la prima immagine richiamata da Benedetto XVI nel rivelare i momenti del viaggio che hanno lasciato dentro di lui “le più forti impressioni”.
A questa immagine egli ha fatto seguire due altre istantanee salienti: il memoriale di Yad Vashem e il muro divisorio tra Israele e i Territori.
Entrambi questi momenti avevano procurato al papa delle critiche.
A Yad Vashem lo si era rimproverato d’essere stato elusivo e freddo nel descrivere e condannare la Shoah, quando in realtà Benedetto XVI – come sempre impolitico – si era distaccato dalle formule usuali per svolgere piuttosto una riflessione originale e profonda sul “nome” di tutte le vittime di allora e di sempre, fin dal tempo di Abele.
Nome indelebile non tanto perché impresso nella memoria degli uomini, ma perchè custodito in vita irrevocabilmente in Dio.
Nome che nella Bibbia coincide con la persona e la missione di ogni creatura.
Su questo punto, nel discorso finale, papa Joseph Ratzinger ha implicitamente risposto ai critici ricordando la sua visita del 2006 ad Auschwitz, “dove così tanti ebrei – madri, padri, mariti, mogli, figli, figlie, fratelli, sorelle, amici – furono brutalmente sterminati sotto un regime senza Dio che propagava un’ideologia di antisemitismo e odio.
Quello spaventoso capitolo della storia non deve essere mai dimenticato o negato”.
Ma soprattutto il papa ha voluto incoraggiare a ricavare dalla riflessione sulla Shoah un motivo in più di rappacificazione tra cristiani ed ebrei, di nuovo ricorrendo al simbolo dell’ulivo: “Quelle buie memorie devono rafforzare la nostra determinazione ad avvicinarci ancor più gli uni agli altri come rami dello stesso ulivo, nutriti dalle stesse radici e uniti da amore fraterno”.
Benedetto XVI l’ha pronunciato subito dopo aver pregato in ginocchio sulla tomba vuota di Gesù, quella della risurrezione.
E fin dall’inizio ha tenuto a proclamare che all’infuori di Gesù risorto “non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati”.
Queste parole non sono una citazione della “Dominus Iesus”, la dichiarazione “sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa” emessa nel 2000 dall’allora cardinale Joseph Ratzinger e criticata anche da molti ebrei.
Ma sono la predicazione di Pietro, nel capitolo quarto degli Atti degli Apostoli.
E oggi del suo successore.
A tutti coloro che soffrono nella terra che fu di Gesù, siano essi ebrei o arabi, cristiani o musulmani, Benedetto XVI ha voluto dare questa consegna, davanti alla tomba vuota del Risorto: “La tomba vuota ci parla di speranza, quella stessa che non ci delude, poiché è dono dello Spirito della vita.
Questo è il messaggio che oggi desidero lasciarvi, a conclusione del mio pellegrinaggio nella Terra Santa”.
Discorso nella basilica del Santo Sepolcro, Gerusalemme, 15 maggio 2009 di Benedetto XVI Cari amici in Cristo, l’inno di lode che abbiamo appena cantato ci unisce alle schiere angeliche ed alla Chiesa di ogni tempo e luogo – “il glorioso coro degli apostoli, la nobile compagnia dei profeti e la candida schiera dei martiri” – mentre diamo gloria a Dio per l’opera della nostra redenzione, compiuta nella passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo.
Davanti a questo Santo Sepolcro, dove il Signore “ha vinto l’aculeo della morte e aperto il regno dei cieli ad ogni credente”, vi saluto tutti nella gioia del tempo pasquale.
[…] Il Vangelo di san Giovanni ci ha trasmesso un suggestivo racconto della visita di Pietro e del discepolo amato alla tomba vuota nel mattino di Pasqua.
Oggi, a distanza di circa venti secoli, il successore di Pietro, il vescovo di Roma, si trova davanti a quella stessa tomba vuota e contempla il mistero della risurrezione.
Sulle orme dell’Apostolo, desidero ancora una volta proclamare, davanti agli uomini e alle donne del nostro tempo, la salda fede della Chiesa che Gesù Cristo “fu crocifisso, morì e fu sepolto”, e che “il terzo giorno risuscitò dai morti”.
Innalzato alla destra del Padre, egli ci ha mandato il suo Spirito per il perdono dei peccati.
All’infuori di Lui, che Dio ha costituito Signore e Cristo, “non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (Atti 4, 12).
Trovandoci in questo santo luogo e considerando quel meraviglioso evento, come potremmo non sentirci “trafiggere il cuore” (cfr.
Atti 2, 37), alla maniera di coloro che per primi udirono la predicazione di Pietro nel giorno di Pentecoste? Qui Cristo morì e risuscitò, per non morire mai più.
Qui la storia dell’umanità fu definitivamente cambiata.
Il lungo dominio del peccato e della morte venne distrutto dal trionfo dell’obbedienza e della vita; il legno della croce svela la verità circa il bene e il male; il giudizio di Dio fu pronunciato su questo mondo e la grazia dello Spirito Santo venne riversata sull’umanità intera.
Qui Cristo, il nuovo Adamo, ci ha insegnato che mai il male ha l’ultima parola, che l’amore è più forte della morte, che il nostro futuro e quello dell’umanità sta nelle mani di un Dio provvido e fedele.
La tomba vuota ci parla di speranza, quella stessa che non ci delude, poiché è dono dello Spirito della vita (cfr.
Romani 5, 5).
Questo è il messaggio che oggi desidero lasciarvi, a conclusione del mio pellegrinaggio nella Terra Santa.
Possa la speranza levarsi sempre di nuovo, per la grazia di Dio, nel cuore di ogni persona che vive in queste terre! Possa radicarsi nei vostri cuori, rimanere nelle vostre famiglie e comunità ed ispirare in ciascuno di voi una testimonianza sempre più fedele al Principe della Pace.
La Chiesa in Terra Santa, che ben spesso ha sperimentato l’oscuro mistero del Golgota, non deve mai cessare di essere un intrepido araldo del luminoso messaggio di speranza che questa tomba vuota proclama.
Il Vangelo ci dice che Dio può far nuove tutte le cose, che la storia non necessariamente si ripete, che le memorie possono essere purificate, che gli amari frutti della recriminazione e dell’ostilità possono essere superati, e che un futuro di giustizia, di pace, di prosperità e di collaborazione può sorgere per ogni uomo e donna, per l’intera famiglia umana, ed in maniera speciale per il popolo che vive in questa terra, così cara al cuore del Salvatore.
Quest’antica chiesa dell’Anastasis reca una sua muta testimonianza sia al peso del nostro passato, con tutte le sue mancanze, incomprensioni e conflitti, sia alla promessa gloriosa che continua ad irradiare dalla tomba vuota di Cristo.
Questo luogo santo, dove la potenza di Dio si rivelò nella debolezza, e le sofferenze umane furono trasfigurate dalla gloria divina, ci invita a guardare ancora una volta con gli occhi della fede al volto del Signore crocifisso e risorto.
Nel contemplare la sua carne glorificata, completamente trasfigurata dallo Spirito, giungiamo a comprendere più pienamente che anche adesso, mediante il Battesimo, portiamo “sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale” (2 Corinzi 4, 10-11).
Anche ora la grazia della risurrezione è all’opera in noi! Possa la contemplazione di questo mistero spronare i nostri sforzi, sia come individui che come membri della comunità ecclesiale, a crescere nella vita dello Spirito mediante la conversione, la penitenza e la preghiera.
Possa inoltre aiutarci a superare, con la potenza di quello stesso Spirito, ogni conflitto e tensione nati dalla carne e rimuovere ogni ostacolo, sia dentro che fuori, che si frappone alla nostra comune testimonianza a Cristo ed al potere del suo amore che riconcilia.
Con tali parole di incoraggiamento, cari amici, concludo il mio pellegrinaggio ai luoghi santi della nostra redenzione e rinascita in Cristo.
Prego che la Chiesa in Terra Santa tragga sempre maggiore forza dalla contemplazione della tomba vuota del Redentore.
In quella tomba essa è chiamata a seppellire tutte le sue ansie e paure, per risorgere nuovamente ogni giorno e continuare il suo viaggio per le vie di Gerusalemme, della Galilea ed oltre, proclamando il trionfo del perdono di Cristo e la promessa di una vita nuova.
Come cristiani, sappiamo che la pace alla quale anela questa terra lacerata da conflitti ha un nome: Gesù Cristo.
“Egli è la nostra pace”, che ci ha riconciliati con Dio in un solo corpo mediante la Croce, ponendo fine all’inimicizia (cfr.
Efesini 2, 14).
Nelle sue mani, pertanto, affidiamo tutta la nostra speranza per il futuro, proprio come nell’ora delle tenebre egli affidò il suo spirito nelle mani del Padre.
Permettetemi di concludere con una speciale parola di incoraggiamento ai miei fratelli vescovi e sacerdoti, come pure ai religiosi e alle religiose che servono l’amata Chiesa in Terra Santa.
Qui, davanti alla tomba vuota, al cuore stesso della Chiesa, vi invito a rinnovare l’entusiasmo della vostra consacrazione a Cristo ed il vostro impegno nell’amorevole servizio al suo mistico Corpo.
Immenso è il vostro privilegio di dare testimonianza a Cristo in questa terra che Egli ha santificato mediante la sua presenza terrena e il suo ministero.
Con pastorale carità rendete capaci i vostri fratelli e sorelle e tutti gli abitanti di questa terra di percepire la presenza che guarisce e l’amore che riconcilia del Risorto.
Gesù chiede a ciascuno di noi di essere testimone di unità e di pace per tutti coloro che vivono in questa Città della Pace.
Come nuovo Adamo, Cristo è la sorgente dell’unità alla quale l’intera famiglia umana è chiamata, quella stessa unità della quale la Chiesa è segno e sacramento.
Come Agnello di Dio, egli è la fonte della riconciliazione, che è al contempo dono di Dio e sacro dovere affidato a noi.
Quale Principe della Pace, Egli è la sorgente di quella pace che supera ogni comprensione, la pace della nuova Gerusalemme.
Possa Egli sostenervi nelle vostre prove, confortarvi nelle vostre afflizioni, e confermarvi nei vostri sforzi di annunciare e di estendere il suo Regno.
A voi tutti e a quanti vanno le vostre premure pastorali imparto cordialmente la mia benedizione apostolica, quale pegno della gioia e della pace di Pasqua.
__________ Il programma, i discorsi, le omelie del viaggio di Benedetto XVI: > Pellegrinaggio in Terra Santa, 8-15 maggio 2009 __________ Qui di seguito è riprodotto il discorso con cui Benedetto XVI ha concluso il suo viaggio, venerdì 15 maggio.
Ma più sotto è riportato anche il discorso pronunciato la stessa mattina dal papa a Gerusalemme, nella basilica del Santo Sepolcro, ultima tappa del suo pellegrinaggio nei Luoghi Santi.
__________ Discorso di congedo all’aeroporto di Tel Aviv, 15 maggio 2009 di Benedetto XVI Signor presidente, signor primo ministro, eccellenze, signore e signori, mentre mi dispongo a ritornare a Roma, vorrei condividere con voi alcune delle forti impressioni che il mio pellegrinaggio in Terra Santa ha lasciato dentro di me.
[…] Signor presidente, lei ed io abbiamo piantato un albero di ulivo nella sua residenza, nel giorno del mio arrivo in Israele.
L’albero di ulivo, come ella sa, è un’immagine usata da san Paolo per descrivere le relazioni molto strette tra cristiani ed ebrei.
Nella sua lettera ai Romani, Paolo descrive come la Chiesa dei gentili sia come un germoglio di ulivo selvatico, innestato nell’albero di ulivo buono che è il popolo dell’alleanza (cfr.
11, 17-24).
Traiamo il nostro nutrimento dalle medesime radici spirituali.
Ci incontriamo come fratelli, fratelli che in certi momenti della storia comune hanno avuto un rapporto teso, ma sono adesso fermamente impegnati nella costruzione di ponti di duratura amicizia.
La cerimonia al palazzo presidenziale è stata seguita da uno dei momenti più solenni della mia permanenza in Israele – la mia visita al Memoriale dell’Olocausto a Yad Vashem, dove ho reso omaggio alle vittime della Shoah.
Lì ho anche incontrato alcuni dei sopravvissuti.
Quegli incontri profondamente commoventi hanno rinnovato ricordi della mia visita di tre anni fa al campo della morte di Auschwitz, dove così tanti ebrei – madri, padri, mariti, mogli, figli, figlie, fratelli, sorelle, amici – furono brutalmente sterminati sotto un regime senza Dio che propagava un’ideologia di antisemitismo e odio.
Quello spaventoso capitolo della storia non deve essere mai dimenticato o negato.
Al contrario, quelle buie memorie devono rafforzare la nostra determinazione ad avvicinarci ancor più gli uni agli altri come rami dello stesso ulivo, nutriti dalle stesse radici e uniti da amore fraterno.
Signor presidente, la ringrazio per il calore della sua ospitalità, molto apprezzata, e desidero che consti il fatto che sono venuto a visitare questo paese da amico degli israeliani, così come sono amico del popolo palestinese.
Gli amici amano trascorrere del tempo in reciproca compagnia e si affliggono profondamente nel vedere l’altro soffrire.
Nessun amico degli israeliani e dei palestinesi può evitare di rattristarsi per la continua tensione fra i vostri due popoli.
Nessun amico può fare a meno di piangere per le sofferenze e le perdite di vite umane che entrambi i popoli hanno subito negli ultimi sei decenni.
Mi consenta di rivolgere questo appello a tutto il popolo di queste terre: Non più spargimento di sangue! Non più scontri! Non più terrorismo! Non più guerra! Rompiamo invece il circolo vizioso della violenza.
Possa instaurarsi una pace duratura basata sulla giustizia, vi sia vera riconciliazione e risanamento.
Sia universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti.
Sia ugualmente riconosciuto che il popolo palestinese ha il diritto a una patria indipendente sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente.
Che la “two-State solution”, la soluzione di due Stati, divenga realtà e non rimanga un sogno.
E che la pace possa diffondersi da queste terre; possano essere “luce per le nazioni” (Isaia 42, 6), recando speranza alle molte altre regioni che sono colpite da conflitti.
Una delle visioni più tristi per me durante la mia visita a queste terre è stato il muro.
Mentre lo costeggiavo, ho pregato per un futuro in cui i popoli della Terra Santa possano vivere insieme in pace e armonia senza la necessità di simili strumenti di sicurezza e di separazione, ma rispettandosi e fidandosi l’uno dell’altro, nella rinuncia ad ogni forma di violenza e di aggressione.
Signor presidente, so quanto sarà difficile raggiungere quell’obiettivo.
So quanto sia difficile il suo compito e quello dell’autorità palestinese.
Ma le assicuro che le mie preghiere e le preghiere dei cattolici di tutto il mondo la accompagnano mentre ella prosegue nello sforzo di costruire una pace giusta e duratura in questa regione.
[…] A tutti dico: grazie e che il Signore sia con voi.
Shalom!
Categoria: Temi
Benedetto XVI a Gerusalemme e Betlemme.
Benedetto XVI ha trascorso l’intera giornata di mercoledì nei Territori palestinesi: a Betlemme e nel campo profughi di Aida.
E questa è stata, inevitabilmente, la giornata più “politica” del suo viaggio.
Il papa si è incontrato a più riprese con il presidente Abu Mazen, ha tenuto dei discorsi a lui e alla popolazione palestinese, ha camminato in luoghi segnati dal conflitto.
Ad Aida l’alto muro che divide Israele dai Territori era visibilissimo, incombente.
Benedetto XVI non si è sottratto alle aspettative.
Ha invocato un superamento del conflitto all’insegna dei due popoli e due Stati.
Ha reclamato sicurezza per Israele.
Ha detto ai palestinesi di rifiutare il terrorismo.
Ha auspicato l’abbattimento del muro.
Un obiettivo di papa Joseph Ratzinger, in questo viaggio, era di conquistare il consenso dei cattolici arabi, fortemente ostili ad Israele.
In Giordania ci è riuscito.
A ovest del Giordano l’impresa era più difficile.
Ma le tappe di Betlemme e di Aida hanno giovato.
Il papa è stato molto sobrio nel richiamare le ragioni di Israele e molto esplicito e partecipe, invece, nel tratteggiare le ragioni dei palestinesi e soprattutto la loro sofferenza.
Sarebbe però riduttivo e fuorviante interpretare in chiave solo politica il messaggio complessivo che Benedetto XVI ha voluto rivolgere ai cristiani di Terra Santa.
A giudizio del papa la Chiesa sarà influente – anche sul terreno politico – se saprà fare altro: se aiuterà anzitutto a “rimuovere i muri che noi costruiamo attorno ai nostri cuori, le barriere che innalziamo contro il nostro prossimo”.
Benedetto XVI mira primariamente a convertire a Dio i cuori e le menti.
L’ha detto e l’ha scritto più volte.
Ed è rimasto fedelissimo a questa sua “priorità” anche in un viaggio pur così carico di valenza politica come questo in Terra Santa.
Per capirlo, basta ripercorrere i gesti e le parole con cui egli ritma il viaggio.
Qui di seguito è riportata una piccola antologia delle parole da lui dette mercoledì 13 maggio a Betlemme e Aida, e il giorno precedente a Gerusalemme.
I passaggi più direttamente politici sono riportati per primi.
Ma in essi già si coglie che lo sguardo di Benedetto XVI va oltre.
E questo “oltre” egli l’ha esplicitato soprattutto nelle omelie delle messe celebrate il 12 maggio a Gerusalemme nella Valle di Giosafat e il 13 maggio a Betlemme nella Piazza della Mangiatoia, presenti migliaia di fedeli, alcuni dei quali accorsi fin da Gaza.
Ai cristiani ha detto di non abbandonare la Terra Santa, come hanno fatto soprattutto negli ultimi anni.
Ma perché restare? La risposta del papa è sorprendente, assolutamente da leggere.
Rimanda al “vedere” e al “toccare” dei primi discepoli di Gesù.
Al fondamento sensibile della fede.
Altri lampi della visione che Ratzinger vuole trasmettere sono i passaggi dedicati a Gerusalemme e a Betlemme: alla potenza simbolica, profetica, teologica di queste città sante.
E infine è tutto da leggere il discorso tenuto da Benedetto XVI ai capi musulmani la mattina del 12 maggio a Gerusalemme, dopo aver visitato – prima volta assoluta per un papa – la Cupola della Roccia, sul luogo del sacrificio di Abramo e dell’ascesa di Maometto al cielo.
Una magnifica sintesi di come questo papa vede il servizio che ebraismo, cristianesimo ed islam possono dare all’unità della famiglia umana.
Ecco dunque l’antologia, in cinque capitoli: 1.
IL PAPA “POLITICO”.
DAI DISCORSI NEI TERRITORI A Betlemme, la mattina di mercoledì 13 maggio: Signor Presidente, la Santa Sede appoggia il diritto del suo popolo ad una sovrana patria palestinese nella terra dei vostri antenati, sicura e in pace con i suoi vicini, entro confini internazionalmente riconosciuti.
[…] È mia ardente speranza che i gravi problemi riguardanti la sicurezza in Israele e nei Territori palestinesi vengano presto decisamente alleggeriti così da permettere una maggiore libertà di movimento, con speciale riguardo per i contatti tra familiari e per l’accesso ai luoghi santi.
I palestinesi, così come ogni altra persona, hanno un naturale diritto a sposarsi, a formarsi una famiglia e avere accesso al lavoro, all’educazione e all’assistenza sanitaria.
Prego anche perché, con l’assistenza della comunità internazionale, il lavoro di ricostruzione possa procedere rapidamente dovunque case, scuole od ospedali siano stati danneggiati o distrutti, specialmente durante il recente conflitto in Gaza.
Questo è essenziale affinché il popolo di questa terra possa vivere in condizioni che favoriscano pace durevole e benessere.
[…] Rivolgo questo appello ai tanti giovani presenti oggi nei Territori palestinesi: non permettete che le perdite di vite e le distruzioni, delle quali siete stati testimoni suscitino amarezze o risentimento nei vostri cuori.
Abbiate il coraggio di resistere ad ogni tentazione che possiate provare di ricorrere ad atti di violenza o di terrorismo.
Al campo profughi di Aida, nel pomeriggio di mercoledì 13 maggio: Cari amici, la mia visita al campo profughi di Aida questo pomeriggio mi offre la gradita opportunità di esprimere la mia solidarietà a tutti i palestinesi senza casa, che bramano di poter tornare ai luoghi natii, o di vivere permanentemente in una patria propria.
[…] So che molte vostre famiglie sono divise – a causa di imprigionamento di membri della famiglia o di restrizioni alla libertà di movimento – e che molti tra voi hanno sperimentato perdite nel corso delle ostilità.
Il mio cuore si unisce a quello di coloro che, per tale ragione, soffrono.
Siate certi che tutti i profughi palestinesi nel mondo, specie quelli che hanno perso casa e persone care durante il recente conflitto di Gaza, sono costantemente ricordati nelle mie preghiere.
[…] Quanto le persone di questo campo, di questi Territori e dell’intera regione anelano alla pace! In questi giorni tale desiderio assume una particolare intensità mentre ricordate gli eventi del maggio del 1948 e gli anni di un conflitto tuttora irrisolto, che seguirono a quegli eventi.
Voi ora vivete in condizioni precarie e difficili, con limitate opportunità di occupazione.
È comprensibile che vi sentiate spesso frustrati.
Le vostre legittime aspirazioni ad una patria permanente, ad uno Stato palestinese indipendente, restano incompiute.
E voi, al contrario, vi sentite intrappolati, come molti in questa regione e nel mondo, in una spirale di violenza, di attacchi e contrattacchi, di vendette e di distruzioni continue.
Tutto il mondo desidera fortemente che sia spezzata questa spirale, anela a che la pace metta fine alle perenni ostilità.
Incombente su di noi, mentre siamo qui riuniti questo pomeriggio, è la dura consapevolezza del punto morto a cui sembrano essere giunti i contatti tra israeliani e palestinesi: il muro.
In un mondo in cui le frontiere vengono sempre più aperte – al commercio, ai viaggi, alla mobilità della gente, agli scambi culturali – è tragico vedere che vengono tuttora eretti dei muri.
Quanto aspiriamo a vedere i frutti del ben più difficile compito di edificare la pace! Quanto ardentemente preghiamo perché finiscano le ostilità che hanno causato l’erezione di questo muro! Da entrambe le parti del muro è necessario grande coraggio per superare la paura e la sfiducia, se si vuole contrastare il bisogno di vendetta per perdite o ferimenti.
Occorre magnanimità per ricercare la riconciliazione dopo anni di scontri armati.
E tuttavia la storia ci insegna che la pace viene soltanto quando le parti in conflitto sono disposte ad andare oltre le recriminazioni e a lavorare insieme a fini comuni, prendendo sul serio gli interessi e le preoccupazioni degli altri e cercando decisamente di costruire un’atmosfera di fiducia.
Deve esserci una determinazione ad intraprendere iniziative forti e creative per la riconciliazione: se ciascuno insiste su concessioni preliminari da parte dell’altro, il risultato sarà soltanto lo stallo delle trattative.
L’aiuto umanitario, come quello che viene offerto in questo campo, ha un ruolo essenziale da svolgere, ma la soluzione a lungo termine ad un conflitto come questo non può essere che politica.
Nessuno s’attende che i popoli palestinese e israeliano vi arrivino da soli.
È vitale il sostegno della comunità internazionale.
Rinnovo perciò il mio appello a tutte le parti coinvolte perché esercitino la propria influenza in favore di una soluzione giusta e duratura, nel rispetto delle legittime esigenze di tutte le parti e riconoscendo il loro diritto di vivere in pace e con dignità, secondo il diritto internazionale.
Allo stesso tempo, tuttavia, gli sforzi diplomatici potranno avere successo soltanto se gli stessi palestinesi e israeliani saranno disposti a rompere con il ciclo delle aggressioni.
A Betlemme, la sera di mercoledì 13 maggio: Signor Presidente, cari amici, […] con angoscia ho visto la situazione dei rifugiati che, come la Santa Famiglia, hanno dovuto abbandonare le loro case.
Ed ho visto il muro che si introduce nei vostri territori, separando i vicini e dividendo le famiglie, circondare il vicino campo e nascondere molta parte di Betlemme.
Anche se i muri possono essere facilmente costruiti, noi tutti sappiamo che non durano per sempre.
Essi possono essere abbattuti.
Innanzitutto però è necessario rimuovere i muri che noi costruiamo attorno ai nostri cuori, le barriere che innalziamo contro il nostro prossimo.
__________ 2.
CRISTIANI NELLA TERRA SANTA.
PERCHÉ RESTARE Dall’omelia della messa nella Valle di Giosafat, martedì 12 maggio: Cari fratelli e sorelle, […] vorrei qui accennare direttamente alla tragica realtà – che non può mai cessare di essere fonte di preoccupazione per tutti coloro che amano questa città e questa terra – della partenza di così numerosi membri della comunità cristiana negli anni recenti.
Benché ragioni comprensibili portino molti, specialmente giovani, ad emigrare, questa decisione reca con sé come conseguenza un grande impoverimento culturale e spirituale della città.
Desidero oggi ripetere quanto ho detto in altre occasioni: nella Terra Santa c’è posto per tutti! Mentre esorto le autorità a rispettare e sostenere la presenza cristiana qui, desidero al tempo stesso assicurarvi della solidarietà, dell’amore e del sostegno di tutta la Chiesa e della Santa Sede.
Cari amici, nel Vangelo che abbiamo appena ascoltato, san Pietro e san Giovanni corrono alla tomba vuota, e Giovanni, ci è stato detto, “vide e credette” (Giovanni 20, 8), Qui in Terra Santa, con gli occhi della fede, voi insieme con i pellegrini di ogni parte del mondo che affollano le chiese e i santuari, siete felici di vedere i luoghi santificati dalla presenza di Cristo, dal suo ministero terreno, dalla sua passione, morte e risurrezione e dal dono del suo Santo Spirito.
Qui, come all’apostolo san Tommaso, vi è concessa l’opportunità di “toccare” le realtà storiche che stanno alla base della nostra confessione di fede nel Figlio di Dio.
La mia preghiera per voi oggi è che continuiate, giorno dopo giorno, a “vedere e credere” nei segni della provvidenza di Dio e della sua inesauribile misericordia, ad “ascoltare” con rinnovata fede e speranza le consolanti parole della predicazione apostolica e a “toccare” le sorgenti della grazia nei sacramenti ed incarnare per gli altri il loro pegno di nuovi inizi, la libertà nata dal perdono, la luce interiore e la pace che possono portare salvezza e speranza anche nelle più oscure realtà umane.
Nella Chiesa del Santo Sepolcro, i pellegrini di ogni secolo hanno venerato la pietra che la tradizione ci dice che stava all’ingresso della tomba la mattina della risurrezione di Cristo.
Torniamo spesso a questa tomba vuota.
Riaffermiamo lì la nostra fede sulla vittoria della vita, e preghiamo affinché ogni “pietra pesante” posta alla porta dei nostri cuori, a bloccare la nostra completa resa alla fede, alla speranza e all’amore per il Signore, possa essere tolta via dalla forza della luce e della vita che da quel primo mattino di Pasqua risplendono da Gerusalemme su tutto il mondo.
Dall’omelia della messa nella Piazza della Mangiatoia, mercoledì 13 maggio: Cari fratelli e sorelle, […] “non abbiate paura!”.
Questo è il messaggio che il successore di San Pietro desidera consegnarvi oggi, facendo eco al messaggio degli angeli e alla consegna che l’amato papa Giovanni Paolo II vi ha lasciato nell’anno del Grande Giubileo della nascita di Cristo.
Contate sulle preghiere e sulla solidarietà dei vostri fratelli e sorelle della Chiesa universale, e adoperatevi con iniziative concrete per consolidare la vostra presenza e per offrire nuove possibilità a quanti sono tentati di partire.
Siate un ponte di dialogo e di collaborazione costruttiva nell’edificare una cultura di pace che superi l’attuale stallo della paura, dell’aggressione e della frustrazione.
Edificate le vostre Chiese locali facendo di esse laboratori di dialogo, di tolleranza e di speranza, come pure di solidarietà e di carità pratica.
Al di sopra di tutto, siate testimoni della potenza della vita, della nuova vita donataci dal Cristo risorto, di quella vita che può illuminare e trasformare anche le più oscure e disperate situazioni umane.
La vostra terra non ha bisogno soltanto di nuove strutture economiche e politiche, ma in modo più importante – potremmo dire – di una nuova infrastruttura “spirituale”, capace di galvanizzare le energie di tutti gli uomini e donne di buona volontà nel servizio dell’educazione, dello sviluppo e della promozione del bene comune.
Avete le risorse umane per edificare la cultura della pace e del rispetto reciproco che potranno garantire un futuro migliore per i vostri figli.
Questa nobile impresa vi attende.
Non abbiate paura! __________ 3.
IL MISTERO DI GERUSALEMME Dall’omelia della messa nella Valle di Giosafat, martedì 12 maggio: Cari fratelli e sorelle, […] l’esortazione di Paolo di “cercare le cose di lassù” (Colossesi 3, 1) deve continuamente risuonare nei nostri cuori.
Le sue parole ci indicano il compimento della visione di fede in quella celeste Gerusalemme dove, in conformità con le antiche profezie, Dio asciugherà le lacrime da ogni occhio e preparerà un banchetto di salvezza per tutti i popoli (cfr.
Isaia 25, 6-8; Apocalisse 21, 2-4).
Questa è la speranza, questa la visione che spinge tutti coloro che amano questa Gerusalemme terrestre a vederla come una profezia e una promessa di quella universale riconciliazione e pace che Dio desidera per tutta l’umana famiglia.
[…] Riuniti sotto le mura di questa città, sacra ai seguaci delle tre grandi religioni, come possiamo non rivolgere i nostri pensieri alla universale vocazione di Gerusalemme? Annunciata dai profeti, questa vocazione appare come un fatto indiscutibile, una realtà irrevocabile fondata nella storia complessa di questa città e del suo popolo.
Ebrei, musulmani e cristiani qualificano insieme questa città come loro patria spirituale.
Quanto bisogna ancora fare per renderla veramente una “città della pace” per tutti i popoli, dove tutti possono venire in pellegrinaggio alla ricerca di Dio, e per ascoltarne la voce, “una voce che parla di pace” (cfr.
Salmo 85, 8)! Gerusalemme in realtà è sempre stata una città nelle cui vie risuonano lingue diverse, le cui pietre sono calpestate da popoli di ogni razza e lingua, le cui mura sono un simbolo della cura provvidente di Dio per l’intera famiglia umana.
Come un microcosmo del nostro mondo globalizzato, questa città, se deve vivere la sua vocazione universale, deve essere un luogo che insegna l’universalità, il rispetto per gli altri, il dialogo e la vicendevole comprensione; un luogo dove il pregiudizio, l’ignoranza e la paura che li alimenta, siano superati dall’onestà, dall’integrità e dalla ricerca della pace.
Non dovrebbe esservi posto tra queste mura per la chiusura, la discriminazione, la violenza e l’ingiustizia.
I credenti in un Dio di misericordia – si qualifichino essi ebrei, cristiani o musulmani –, devono essere i primi a promuovere questa cultura della riconciliazione e della pace, per quanto lento possa essere il processo e gravoso il peso dei ricordi passati.
__________ 4.
IL MISTERO DI BETLEMME Dall’omelia della messa nella Piazza della Mangiatoia, mercoledì 13 maggio: Cari fratelli e sorelle, […] il Signore degli eserciti, “le cui origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti” (Michea 5, 2), volle inaugurare il suo regno nascendo in questa piccola città, entrando nel nostro mondo nel silenzio e nell’umiltà in una grotta, e giacendo, come bimbo bisognoso di tutto, in una mangiatoia.
Qui a Betlemme, nel mezzo di ogni genere di contraddizione, le pietre continuano a gridare questa “buona novella”, il messaggio di redenzione che questa città, al di sopra di tutte le altre, è chiamata a proclamare a tutto il mondo.
Qui infatti, in un modo che sorpassa tutte le speranze e aspettative umane, Dio si è mostrato fedele alle sue promesse.
Nella nascita del suo Figlio, Egli ha rivelato la venuta di un regno d’amore: un amore divino che si china per portare guarigione e per innalzarci; un amore che si rivela nell’umiliazione e nella debolezza della croce, eppure trionfa nella gloriosa risurrezione a nuova vita.
Cristo ha portato un regno che non è di questo mondo, eppure è un regno capace di cambiare questo mondo, poiché ha il potere di cambiare i cuori, di illuminare le menti e di rafforzare le volontà.
Nell’assumere la nostra carne, con tutte le sue debolezze, e nel trasfigurarla con la potenza del suo Spirito, Gesù ci ha chiamati ad essere testimoni della sua vittoria sul peccato e sulla morte.
E questo è ciò che il messaggio di Betlemme ci chiama ad essere: testimoni del trionfo dell’amore di Dio sull’odio, sull’egoismo, sulla paura e sul rancore che paralizzano i rapporti umani e creano divisione fra fratelli che dovrebbero vivere insieme in unità, distruzioni dove gli uomini dovrebbero edificare, disperazione dove la speranza dovrebbe fiorire! __________ 5.
EBREI, CRISTIANI E MUSULMANI PER L’UNITÀ DELLA FAMIGLIA UMANA Dal discorso dopo la visita della Cupola della Roccia, a Gerusalemme, martedì 12 maggio: La Cupola della Roccia conduce i nostri cuori e le nostre menti a riflettere sul mistero della creazione e sulla fede di Abramo.
Qui le vie delle tre grandi religioni monoteiste mondiali si incontrano, ricordandoci quello che esse hanno in comune.
Ciascuna crede in un solo Dio, creatore e regolatore di tutto.
Ciascuna riconosce Abramo come proprio antenato, un uomo di fede al quale Dio ha concesso una speciale benedizione.
Ciascuna ha raccolto schiere di seguaci nel corso dei secoli ed ha ispirato un ricco patrimonio spirituale, intellettuale e culturale.
[…] Poiché gli insegnamenti delle tradizioni religiose riguardano ultimamente la realtà di Dio, il significato della vita ed il destino comune dell’umanità – vale a dire, tutto ciò che è per noi molto sacro e caro – può esserci la tentazione di impegnarsi in tale dialogo con riluttanza o ambiguità circa le sue possibilità di successo.
Possiamo tuttavia cominciare col credere che l’Unico Dio è l’infinita sorgente della giustizia e della misericordia, perché in Lui entrambe esistono in perfetta unità.
Coloro che confessano il suo nome hanno il compito di impegnarsi decisamente per la rettitudine pur imitando la sua clemenza, poiché ambedue gli atteggiamenti sono intrinsecamente orientati alla pacifica ed armoniosa coesistenza della famiglia umana.
Per questa ragione, è scontato che coloro che adorano l’Unico Dio manifestino essi stessi di essere fondati su ed incamminati verso l’unità dell’intera famiglia umana.
In altre parole, la fedeltà all’Unico Dio, il Creatore, l’Altissimo, conduce a riconoscere che gli esseri umani sono fondamentalmente collegati l’uno all’altro, perché tutti traggono la loro propria esistenza da una sola fonte e sono indirizzati verso una meta comune.
Marcati con l’indelebile immagine del divino, essi sono chiamati a giocare un ruolo attivo nell’appianare le divisioni e nel promuovere la solidarietà umana.
Questo pone una grave responsabilità su di noi.
Coloro che onorano l’Unico Dio credono che Egli riterrà gli esseri umani responsabili delle loro azioni.
I cristiani affermano che i doni divini della ragione e della libertà stanno alla base di questa responsabilità.
La ragione apre la mente per comprendere la natura condivisa e il destino comune della famiglia umana, mentre la libertà spinge il cuore ad accettare l’altro e a servirlo nella carità.
L’indiviso amore per l’Unico Dio e la carità verso il nostro prossimo diventano così il fulcro attorno al quale ruota tutto il resto.
Questa è la ragione perché operiamo instancabilmente per salvaguardare i cuori umani dall’odio, dalla rabbia o dalla vendetta.
Cari amici, sono venuto a Gerusalemme in un pellegrinaggio di fede.
Ringrazio Dio per questa occasione che mi è data di incontrarmi con voi come vescovo di Roma e successore dell’apostolo Pietro, ma anche come figlio di Abramo, nel quale “tutte le famiglie della terra si diranno benedette” (Genesi 12, 3; cfr.
Romani 4, 16-17).
Vi assicuro che è ardente desiderio della Chiesa di cooperare per il benessere dell’umana famiglia.
Essa fermamente crede che la promessa fatta ad Abramo ha una portata universale, che abbraccia tutti gli uomini e le donne indipendentemente dalla loro provenienza o da loro stato sociale.
Mentre musulmani e cristiani continuano il dialogo rispettoso che già hanno iniziato, prego affinché essi possano esplorare come l’Unicità di Dio sia inestricabilmente legata all’unità della famiglia umana.
Sottomettendosi al suo amabile piano della creazione, studiando la legge inscritta nel cosmo ed inserita nel cuore dell’uomo, riflettendo sul misterioso dono dell’autorivelazione di Dio, possano tutti coloro che vi aderiscono continuare a tenere lo sguardo fisso sulla sua bontà assoluta, mai perdendo di vista come essa sia riflessa sul volto degli altri.
__________ Il programma, i discorsi, le omelie del viaggio di Benedetto XVI: > Pellegrinaggio in Terra Santa, 8-15 maggio 2009
Maggio
1.
Cerca nei Salmi indicati la conferma che la vita, nella concezione ebraica, non è tanto un concetto quanto una relazione con Dio.
2.
Che cosa caratterizza la vita nello Sheol? 3.
Che cosa esprime di nuovo la riflessione del vangelo di Giovanni sulla vita, rispetto ai sinottici? 4.
Cosa vuol dire che Gesù è il “nuovo Adamo”? Praticamente tutte le religioni si sono occupate e si occupano della vita e della morte.
Anzi, questi sono i loro temi centrali, basti pensare all’importanza e alla diffusione che ha il culto dei morti nella quasi totalità delle esperienze religiose, oppure il ruolo che assumono la morte e la resurrezione di Cristo nella comprensione del cristianesimo.
La morte viene percepita dalle religioni come un passaggio, una trasformazione della vita nell’aldilà: così come entriamo nel mondo attraverso la nascita, è attraverso la morte che entriamo nella vita successiva, qualunque sia la sua forma.
La vita e la morte, da un lato, possono apparire dei fenomeni naturali per cui l’uomo nasce, invecchia, muore e scompare: Jean Paul Sartre, nella sua celebre opera L’essere e il nulla, afferma che non solo non si può trovare alcun senso alla morte, ma che questa, per la sua stessa assurdità, impedisce di dare un senso alla vita.
Parallelamente a questa visione vi è però quella che guarda alla morte come a una realtà estranea, una “anomalia” che irrompe nella vita come qualcosa di singolare.
Così si esprime un canto africano: «Il giorno in cui Dio creò tutte le cose, creò il sole.
E il sole sorge, va a dormire e ritorna.
Egli creò la luna.
E la luna sorge, va a dormire e ritorna.
Egli creò le stelle.
E le stelle sorgono, vanno a dormire e ritornano.
Egli creò l’uomo.
E l’uomo appare, va nella terra e non ritorna».
È l’altra faccia della morte: pur essendo cantata come parte della creazione, è sentita come un’irregolarità drammatica di fronte alle apparizioni e sparizioni ritmate della natura.
Il teologo cattolico Karl Rahner esprimeva così questo doppio volto della nostra coscienza della morte: «La morte è ciò che vi è di più comune, e va da sé che ciascuno proclami che è naturale morire.
Eppure, in ciascuno di noi si alza una segreta protesta».
In questa prima parte cercheremo di individuare alcuni punti nodali per la comprensione della vita e della morte nelle religioni ebraica e cristiana, mentre, il mese prossimo, ci occuperemo dell’islam, dell’induismo e del buddismo.
Al centro del modo di intendere la morte da parte dei cristiani vi è la morte di Gesù narrata nei vangeli e definita nel Credo.
L’atteggiamento di Gesù sulla morte dipende fortemente dalla sua radice ebraica: “Non è un Dio dei morti, ma dei viventi!” (Mc 12,27).
In questa linea si spiega l’azione di Cristo che, come avevano fatto i profeti prima di lui, ha richiamato dei morti alla vita.
Dai vangeli si desume che Gesù prevede la propria morte (vd.
la parabola dei vignaioli in Mc 12,1-12; Lc 20,9-16), e ne anticipa l’interpretazione (Mc 14,22-25; Lc 22, 14-20; Mt 26,26-29).
Ecco le parole con cui Gesù, durante l’Ultima Cena, annuncia la propria morte come evento sacrificale.
Quando la comunità celebra l’Eucarestia in sua memoria viene annunciata la morte e risurrezione di Cristo e si attualizza nella comunità l’offerta del suo sacrificio.
15 “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, 16 perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio”.
17 E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: “Prendetelo e fatelo passare tra voi, 18 perché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio”.
19 Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me”.
20 E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi”.
(Lc 22,15-20) Nella visione di San Paolo il fenomeno della morte viene fatto risalire al peccato originale (Rm 5,12; 6,23): il peccato del primo uomo, viene cancellato dal “secondo Adamo” (Gesù) che sconfigge definitivamente la morte (Rm 6,8).
Paolo arriva a dire che «né morte né vita… potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù» (Rm 8,38) e che per lui «il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21).
Inoltre estende la sua concezione della risurrezione dall’individuo all’umanità intera: «Come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo» (1Cor 15,22).
La riflessione paolina genererà nei cristiani la certezza di non avere più nulla da temere dalla morte, dal momento che la morte “autentica” è quella causata dal peccato.
Ecco come, nella visione di Paolo, viene descritta la condizione di rinascita a vita a nuova di colui che crede in Cristo.
8 Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, 9 sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui.
10 Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio.
11 Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù.
(Rm 6,8-11) La risposta cristiana alla morte sta dunque nella speranza della resurrezione; in essa anche il corpo è destinato alla salvezza presente e futura.
È l’uomo nuovo che risorge con Cristo, anche se si ignora la modalità con cui tutto ciò debba avvenire.
Il martirio liberamente scelto come suprema testimonianza della fede fu circondato da ogni onore fin dagli albori della vita della Chiesa: Tertulliano, Padre della Chiesa del II secolo, sostiene che anche il martire, attraverso il suo sacrificio cruento, possiede “l’unica chiave del paradiso” (De resurrectione carnis, 43).
Non così il suicida, condannato sulla scia della miserevole fine toccata a Giuda (Mt 27,5).
Secondo Tertulliano tutti i defunti attendono il giudizio ultimo in uno stato di sonno privo di sensazione e coscienza.
Esso terminerà solo per i santi che entreranno nella dimora celeste.
Le conseguenze cultuali di tale concezione saranno di grande portata: essere interrati ad sanctos, cioè vicino ai santi, determinerà, per tanti cristiani, la speranza di ottenere la loro protezione nell’ultimo giorno , sfuggendo così alla morte eterna.
La geografia cristiana dell’aldilà, invece, si disegnò lentamente.
Dapprima essa era ridotta a due sole nozioni: quella di “Geènna” (luogo di sofferenza per i malvagi) e quella di “Regno”, situato nei cieli, luogo di felicità per gli eletti, in unione con Dio e con gli angeli.
Agli inizi del VII secolo Gregorio Magno imposterà la geografia dell’aldilà secondo la cosmologia tolemaica, distinguendo, cioè, tre luoghi.
Al di là delle stelle fisse, che circondano l’universo, si trova il mondo del divino, il Paradiso degli eletti; al centro dell’universo vi è la terra, ferma, che nasconde nelle sue viscere l’inferno inferiore dove bruciano i dannati; tra le stelle fisse e la terra ruotano i pianeti, e al di là della luna vi è l’inferno superiore dove stanno le anime dei giusti, morti prima della venuta di Cristo.
Questi esseri non potevano né salire in cielo perché la salvezza non era stata operata, né scendere all’inferno inferiore, essendo anime giuste.
Solo con la salvezza operata da Cristo tali anime sono state liberate: dopo tale Redenzione, questo mondo si è svuotato.
I teologi chiameranno poi questo luogo “Purgatorio”, luogo di sofferenze temporanee e purificatrici.
Ecco come il Catechismo della Chiesa Cattolica presenta il Purgatorio nel Paragrafo dedicato alla “Purificazione finale”, corrispondente ai numeri 1030, 1031, 1032.
1030 Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio, ma sono imperfettamente purificati, sebbene siano certi della loro salvezza eterna, vengono però sottoposti, dopo la loro morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia del cielo.
1031 La Chiesa chiama Purgatorio questa purificazione finale degli eletti, che è tutt’altra cosa dal castigo dei dannati.
La Chiesa ha formulato la dottrina della fede relativa al Purgatorio soprattutto nei Concili di Firenze.
La Tradizione della Chiesa, rifacendosi a certi passi della Scrittura, (1Cor 3,15; 1Pt 1,7) parla di un fuoco purificatore.
Per quanto riguarda alcune colpe leggere, si deve credere che c’è, prima del Giudizio, un fuoco purificatore; infatti colui che è la Verità afferma che, se qualcuno pronuncia una bestemmia contro lo Spirito Santo, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro (Mt 12,31).
Da questa affermazione si deduce che certe colpe possono essere rimesse in questo secolo, ma certe altre nel secolo futuro [San Gregorio Magno, Dialoghi].
1032 Questo insegnamento poggia anche sulla pratica della preghiera per i defunti di cui la Sacra Scrittura già parla: “Perciò [Giuda Maccabeo] fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato” (2Mac 12,45).
Fin dai primi tempi, la Chiesa ha onorato la memoria dei defunti e ha offerto per loro suffragi, in particolare il sacrificio eucaristico, affinché, purificati, possano giungere alla visione beatifica di Dio.
La Chiesa raccomanda anche le elemosine, le indulgenze e le opere di penitenza a favore dei defunti: Rechiamo loro soccorso e commemoriamoli.
Se i figli di Giobbe sono stati purificati dal sacrificio del loro padre, (Gb 1,5) perché dovremmo dubitare che le nostre offerte per i morti portino loro qualche consolazione? Non esitiamo a soccorrere coloro che sono morti e ad offrire per loro le nostre preghiere (San Giovanni Crisostomo, Homiliae in primam ad Corinthios).
Per la Bibbia, “vivere” non significa solo “esistere”, non equivale solo a essere fisicamente al mondo come le piante e gli animali che ci circondano.
Anzi, animali e piante non sono di per sé soggetto del verbo “vivere”, perché questo verbo è riservato all’uomo e, naturalmente, a Dio.
La vita biologica umana è nel potere assoluto di Dio, così come si ricava non solo dal Libro della Genesi (Gn 9,4-5), ma anche dal quinto e sesto comandamento (Es 20,13; Dt 5,17).
L’ebraismo biblico esprime un grande amore per la vita concreta e piena, ed è in questa che si realizza la relazione tra Dio e l’uomo.
In questo senso la vita non appare quasi mai come un concetto a sé, ma esprime ciò che si osserva concretamente nei viventi: è il respiro (Gb 11,20), il movimento (l’acqua viva in Ger 17,13; 2,13), il sangue che scorre (Gn 9,4-5).
Ma è nell’uomo e nel suo rapporto con Dio che la parola vita assume il suo significato pieno.
La caratteristica fondamentale della vita umana è infatti il rapporto di scambio con Dio (Sal 72,25) e la capacità di lodarlo è l’espressione più evidente della vitalità umana (Sal 41,6.12; 102).
Con la morte l’uomo viene escluso da questo, dalle azioni provvidenti di Dio e dalla lode a Lui (Sal 87,11-13; Is 38,18); quindi, “morte” è mancanza di rapporto con Dio.
Fin dai primi versetti del Libro della Genesi la Parola di Dio è “viva” e genera “vita”, e Dio appare come il principio della vita.
L’uomo invece è mortale per natura (Gn 3,19) ma aspira all’immortalità, come lascia intendere l’albero della vita del v.
22.
Il Libro del Deuteronomio proclama che Dio dà la vita e la toglie (Dt 32,39); il dono della vita è quindi prezioso anche se instabile (Gb 2,4; Sal 39,6; Qo 6,12; Is 40,6).
Coerentemente con questa idea che lega Dio e la vita, il Libro del Deuteronomio sostiene che “Dio è il vivente” (Dt 5,26; Is 37,4), un’affermazione caratteristica della fede ebraica: essa implica il rigetto di tutti i falsi idoli che sono senza vita, così come le loro immagini (Ger 10, 8-10).
All’idea di vita l’uomo ebreo collega il senso di pace, di prosperità e di felicità (Sal 36,11; 133,3); allo stesso modo, la sapienza, la prudenza e il timore di Dio rappresentano per lui “sorgenti di vita” (Pr 13,14; 16,22).
La vita dopo la morte non era chiaramente raffigurabile per l’uomo ebreo e la rivelazione biblica non scioglieva i suoi dubbi: a ridosso dell’era cristiana il partito dei farisei credeva nella risurrezione dei morti; non così quello dei sadducei.
Si riteneva che gli uomini, sia quelli giusti che gli ingiusti, scendessero nel regno dei morti, dove mantenevano una vita dimezzata, privi della salvezza di Dio (Sal 88), senza poter fare ritorno alla vita (Gb 16,22).
Solo successivamente, sotto l’influsso della filosofia greca, si pensò che Dio avesse potere anche negli inferi e che ci fosse un premio dopo la morte (Sap 3,1; 4,14: Dn 12,2).
Nel Libro di Isaia, al cap.
38, troviamo un cantico che testimonia la convinzione che Jahwèh è il Dio della vita e che con la morte avviene la distruzione dell’uomo; è solo l’uomo vivente che può lodare Dio.
16 Il Signore è su di loro: essi vivranno.
Tutto ciò che è in loro è vita del suo spirito.
Guariscimi e rendimi la vita. 17 Ecco, la mia amarezza si è trasformata in pace! Tu hai preservato la mia vita dalla fossa della distruzione, perché ti sei gettato dietro le spalle tutti i miei peccati. 18 Poiché non sono gli inferi a renderti grazie, né la morte a lodarti; quelli che scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà. 19 Il vivente, il vivente ti rende grazie come io faccio quest’oggi.
Il padre farà conoscere ai figli la tua fedeltà. 20 Signore, vieni a salvarmi, e noi canteremo con le nostre cetre tutti i giorni della nostra vita, nel tempio del Signore.
(Is 38,16-20) L’integrità inviolabile e il valore della persona umana che non possono essere messi in discussione per nessuna ragione, sono alla base dell’atteggiamento cristiano nei confronti della vita.
La coscienza del valore insuperabile di ogni individuo fa sì che la questione della vita (e quindi della morte) pervada tutta l’esistenza e sia collegata all’attesa neotestamentaria della salvezza e alla speranza della resurrezione.
La coscienza di ciò rimanda a Dio, la sorgente prima di tutta la vita, a immagine del quale l’uomo è stato creato e al quale dovrà fare ritorno.
I vangeli sinottici testimoniano le convinzioni sulla vita che erano proprie dell’Antico Testamento, sebbene esprimano chiaramente la fede in una vita dopo la morte.
La vita è messa in relazione con il “Regno di Dio”: “entrare nel Regno di Dio” significa entrare nella vita (Mc 9,43).
I Vangeli di Matteo, Marco e Luca proclamano il raggiungimento della “vita eterna” da parte di coloro che perdono la propria vita per seguire Gesù (Mt 10,39; Mc 10,30; Lc 9,23-34).
Nel Vangelo di Giovanni si elabora il passaggio dal Padre al Figlio: Dio, che è il padrone della vita, trasmette il suo potere al Figlio (Gv 5,21; 10,17-18).
Gesù stesso è, quindi, la vita (Gv 11,25; 14,6) e la dona a coloro che credono in Lui (Gv 1,4.12; 4,14; 5,24).
I credenti possiedono già la vita eterna (Gv 3,36; 5,24), ma questa raggiungerà il suo compimento nella resurrezione (Gv 6,40.54).
Ecco come risponde Gesù a Marta che, annunciando la morte di Lazzaro, aveva dichiarato che, se il Maestro fosse stato lì, suo fratello non sarebbe morto.
23 Gesù le disse: “Tuo fratello risorgerà.
24 Gli rispose Marta: “So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno”.
25 Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; 26 chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno”.
(Gv 11,23-26).
Negli Atti degli Apostoli Gesù è chiamato “autore della vita” (At 3,15) e la destinazione degli uomini alla vita futura implica la fede in Cristo (At 2,39; 13,48).
Negli Atti troviamo alcune parole di Gesù riportate da Paolo e Barnaba durante la loro missione ad Antiochia di Pisidia: 47 Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”.
48 Nell’udir ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero.
49 La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione.
(At 13,47-49).
Nella letteratura paolina si sottolinea, da un lato, che Cristo è la nostra vita (Col 3,4); dall’altro si afferma che la vera vita comincerà solo con la parusìa, cioè con il ritorno di Cristo (Col 3,4).
Come e quando questo avverrà non è dato sapere (Mt 24,27.43); così pure che cosa sia la vita dopo la morte resta un tema di cui gli autori neotestamentari non si occupano.
San Paolo tenta piuttosto di rispondere a chi si meraviglia perché la parusìa non è ancora venuta (1Ts 5,2-10; 2Ts 2,1), dicendo che il giorno del Signore verrà all’improvviso.
Ecco come si esprime San Paolo nella Prima Lettera ai Tessalonicesi riguardo al ritorno del Cristo.
Riprendendo le affermazioni del Signore sull’incertezza della data della sua ultima venuta ricorda che bisogna attendere vegliando.
Le sue parole risentono dei tono della letteratura apocalittica.
1 Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; 2 infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte.
3 E quando la gente dirà: “C’è pace e sicurezza!”, allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire.
4 Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro.
5 Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre.
6 Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.
7 Quelli che dormono, infatti, dormono di notte; e quelli che si ubriacano, di notte si ubriacano.
8 Noi invece, che apparteniamo al giorno, siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità, e avendo come elmo la speranza della salvezza.
9 Dio infatti non ci ha destinati alla sua ira, ma ad ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo.
10 Egli è morto per noi perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui.
11 Perciò confortatevi a vicenda e siate di aiuto gli uni gli altri, come già fate.
(1 Ts 5,1-11) In questi ultimi decenni, la progressiva minaccia della vita umana sotto varie forme conseguenti a scelte sia di tipo economico e politico (la povertà e la fame nel sud del mondo, le esecuzioni capitali diffuse in molti paesi), sia inerenti la bioetica (aborto, eutanasia, sperimentazione sugli embrioni) ha portato la Chiesa a prendere risolutamente posizione in molte occasioni, a partire dalla celebre Enciclica di Paolo VI Humanae Vitae, del 1968, fino alle Encicliche di Giovanni Paolo II Veritatis Splendor (1993) ed Evangelium Vitae (1995).
È soprattutto in quest’ultima enciclica che si tratta del valore e dell’inviolabilità della vita umana.
Vi si afferma che la vita dell’uomo non è una vita qualsiasi, ma ha una vocazione molto preziosa e particolare perché è vita che Dio ha donato alla sua creatura prediletta dove risplende un riflesso della stessa realtà di Dio (n.
34).
L’origine divina della vita dell’uomo, creato a immagine di Dio, sta alla base della sua dignità inalienabile, indipendentemente dallo stato in cui egli si trova.
La vita umana è quindi sacra fin dalla sua origine.
Ecco come si è espresso Papa Giovanni Paolo II, nell’enciclica Evangelium vitae (1995), a proposito dell’aborto.
Chi viene soppresso è un essere umano che si affaccia alla vita, ossia quanto di più innocente in assoluto si possa immaginare: mai potrebbe essere considerato un aggressore, meno che mai un ingiusto aggressore! È debole, inerme, al punto di essere privo anche di quella minima forma di difesa che è costituita dalla forza implorante dei gemiti e del pianto del neonato.
È totalmente affidato alla protezione e alle cure di colei che lo porta in grembo.
Eppure, talvolta, è proprio lei, la mamma, a deciderne e a chiederne la soppressione e persino a procurarla.
(Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n.
58) Nell’enciclica Evangelium vitae (1995) Giovanni Paolo II prende una netta posizione anche contro l’eutanasia: la vita va difesa dal suo sbocciare nel grembo materno fino all’ultimo istante.
Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell’esistenza di chi soffre, l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante “perversione” di essa: la vera “compassione”, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza.
E tanto più perverso appare il gesto dell’eutanasia se viene compiuto da coloro che – come i parenti – dovrebbero assistere con pazienza e con amore il loro congiunto o da quanti – come i medici –, per la loro specifica professione, dovrebbero curare il malato anche nelle condizioni terminali più penose.
La scelta dell’eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su una persona che non l’ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato ad essa alcun consenso.
Si raggiunge poi il colmo dell’arbitrio e dell’ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire.
[…] Così la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone.
(Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n.
66) La morte è vista, nel Libro della Genesi (Gn 83,19) come la conseguenza del peccato: così, mentre la fedeltà alla Legge di Dio, alla Toràh, porta alla vita (Dt 30, 15-16), l’infedeltà alla Legge conduce alla morte.
Il Libro della Genesi afferma una doppia origine dell’uomo, creato dalla polvere del suolo e dal soffio vitale di Dio (Gn 2,7).
Gli antichi ebrei ritenevano che la morte separasse di nuovo questi due elementi: l’anima del defunto si allontana dal corpo come un soffio.
La creazione si trova così rovesciata, come dice il Libro del Qohelet (Qo 12,7): «La polvere ritorna alla terra e il soffio ritorna a Dio che l’aveva dato».
L’anima (o spirito) non designa qui l’uomo tutto intero, né ciò che vi è in lui di più sostanziale.
Lo spirito senza il corpo è solo un’ombra senza vita e l’antico giudaismo mette l’accento sulla realtà di quaggiù: i profeti esortano continuamente a concentrarsi su una vita retta in “questo” mondo.
Dopo la morte lo spirito scende nel regno dei morti, chiamato sheol, situato sotto terra o nelle sue profondità, dentro o sotto il mare, sul quale galleggia il mondo intero (Sal 63,10; Gb 26,5; 38,16).
Lo Sheol è un luogo di tenebra (Sal 143,3), di silenzio, di grigiore, di ombre che non conoscono nessuna gioia (Sir 14,17).
Nello Sheol l’anima non ha alcuna conoscenza di ciò che capita sulla terra (Gb 14,21; 21,21; Qo 9,5-6).
In questo luogo tutte le differenze tra gli esseri umani vengono meno: giusti e ingiusti, re e schiavi, giovani e vecchi, ricchi e poveri… tutti si ritrovano nello stesso luogo (Gb 3, 13-19).
Si tratta di un ebraismo primitivo che non ha né la rappresentazione di un giudizio universale, né quella di un castigo o di una ricompensa nell’aldilà, idee che prenderanno lentamente piede, modificando le precedenti concezioni relative allo Sheol: il Regno dei morti si troverà allora diviso in due parti, una confortevole per i giusti e una inospitale per i malvagi.
S’imporrà sempre più l’idea di un giudizio nell’aldilà e l’importanza di ciò che nell’uomo sopravvive dopo la morte.
Il salmo 87 presenta un uomo afflitto all’estremo, ma fiducioso in Dio nonostante i toni angosciosi della sua preghiera.
Le sue sofferenze sono dovute a una malattia e al disinteresse di quelli che dovrebbero stargli vicino.
Nel salmo è chiara la percezione dello Sheol e, soprattutto negli ultimi versi, si percepisce la condizione di colui che “scende nella fossa” e la lontananza di Dio da questo luogo.
(…) 4 Io sono sazio di sventure, la mia vita è sull’orlo degli inferi. 5 Sono annoverato fra quelli che scendono nella fossa, sono come un uomo ormai senza forze. 6 Sono libero, ma tra i morti, come gli uccisi stesi nel sepolcro, dei quali non conservi più il ricordo, recisi dalla tua mano. 7 Mi hai gettato nella fossa più profonda, negli abissi tenebrosi. 8 Pesa su di me il tuo furore e mi opprimi con tutti i tuoi flutti. 9 Hai allontanato da me i miei compagni, mi hai reso per loro un orrore.
(…) 11 Compi forse prodigi per i morti? O si alzano le ombre a darti lode? 12 Si narra forse la tua bontà nel sepolcro, la tua fedeltà nel regno della morte? 13 Si conoscono forse nelle tenebre i tuoi prodigi, la tua giustizia nella terra dell’oblio? (Sal 87,4-9; 11-13)
I luoghi santi di Gerusalemme.
«Se l’adesione alla moralità e alla giustizia impedisce il cammino verso il compromesso, come possiamo aspettarci di raggiungere un compromesso in questioni di credo? A complicare ulteriormente le cose, c’è la consapevolezza che nella Città santa, cara a tutte e tre le religioni monoteiste, nessuno può realmente separare la religione e la politica».
Ecco il punto di partenza della relazione, pronunciata il 6 marzo presso l’Istituto «Enrico Mattei» di Alti studi sul Vicino e Me dio Oriente di Roma dall’ambasciatore d’Israele presso la Santa Se de, Mordechay Lewy.
Attraverso un’ana lisi del conflitto sui Luoghi santi di Gerusalemme, da una prospettiva israeliana, l’ambasciatore presenta le sue riserve sui disegni di pace proposti finora nella Città santa, appunto perché la pace è stata sempre associata «a un’idea di moralità e giustizia», senza cercare il compromesso.
In questo contesto s’inserisce il viaggio di Benedetto XVI in Terra santa, dall’8 al 15 maggio prossimi, con l’intento – come ha detto il papa a una delegazione del Gran rabbinato d’Israele ricevuta in Vaticano il 12 marzo scorso – di contribuire alla pacifica convivenza tra cristiani, ebrei e mu sulmani in Terra santa.
Per la consultazione Riferimento: Regno-doc.
n.9, 2009, p.305
Benedetto XVI in moschea
“Un papa che ha il coraggio morale di fare e parlare secondo la propria coscienza” di Ghazi Bin Muhammad Bin Talal “Pax Vobis”.
In occasione di questa storica visita alla moschea Re Hussein Bin Talal, qui ad Amman, le porgo, Santità, papa Benedetto XVI, il benvenuto in quattro modi.
Innanzitutto come musulmano.
Le porgo il benvenuto oggi, Santità, perché so che questa visita è gesto deliberato di buona volontà e di rispetto reciproco da parte del supremo capo spirituale e pontefice della più ampia denominazione della più grande religione del mondo verso la seconda più grande religione del mondo.
Infatti, cristiani e musulmani sono il 55 per cento della popolazione mondiale e, dunque, è particolarmente significativo il fatto che questa sia solo la terza volta nella storia che un papa visita una moschea.
La prima visita è stata compiuta nel 2001 dal suo amatissimo predecessore papa Giovanni Paolo II, presso un monumento della storia, la storica moschea Umayyade di Damasco, che contiene le reliquie di san Giovanni Battista.
La seconda visita l’ha svolta lei, Santità, presso la magnifica Moschea Blu di Istanbul nel 2006.
La bella moschea Re Hussein di Amman è la moschea di Stato della Giordania ed è stata costruita e personalmente supervisionata dal grande re Hussein di Giordania.
Che Dio abbia misericordia della sua anima! Quindi, è la prima volta nella storia che un papa visita questa nuova moschea.
In questa visita vediamo un chiaro messaggio della necessità di armonia interreligiosa e mutuo rispetto nel mondo contemporaneo, e anche la prova visibile della sua volontà, Santità, di assumere personalmente un ruolo guida a questo proposito.
Questo gesto è ancor più degno di nota perché questa sua visita in Giordania è in primo luogo un pellegrinaggio spirituale alla Terra Santa cristiana, e in particolare al sito del battesimo di Gesù Cristo per mano di Giovanni Battista a Betania, sull’altra sponda del fiume Giordano (Giovanni 1, 28 e 3, 26).
Tuttavia, lei, Santità, ha dedicato del tempo, nel suo programma intenso e faticoso, stancante per un uomo di qualunque età, per compiere questa visita alla moschea Re Hussein e onorare così i musulmani.
Devo anche ringraziarla, Santità, per il rincrescimento che ha espresso dopo il discorso di Ratisbona del 13 settembre 2006, per il danno causato ai musulmani.
Di certo, i musulmani sanno che nulla di ciò che si può dire o fare in questo mondo può danneggiare il Profeta, che è, come hanno attestato le sue ultime parole, in Paradiso con il più alto compagno, Dio stesso.
Ciononostante i musulmani si sono offesi per l’amore che provano per il profeta, che è, come Dio dice nel Sacro Corano, più vicino ai credenti di essi stessi.
Quindi, i musulmani hanno anche particolarmente apprezzato il chiarimento del Vaticano secondo il quale quanto detto a Ratisbona non rifletteva la sua opinione, Santità, ma era semplicemente una citazione in una lezione accademica.
È quasi superfluo dire che, fra l’altro, il profeta Maometto – che i musulmani amano, emulano e conoscono come realtà viva e presenza spirituale – è completamente e interamente differente da come lo si descrive storicamente in Occidente, a partire da san Giovanni Damasceno.
Questi ritratti distorti, fatti da chi non conosce né la lingua araba, né il Sacro Corano oppure non comprende i contesti storici e culturali della vita del Profeta e quindi fraintende e interpreta male i motivi e le intenzioni spirituali che sottendono molte sue azioni e parole, sono purtroppo responsabili di tanta tensione storica e culturale fra cristiani e musulmani.
È dunque urgente che i musulmani illustrino l’esempio del profeta, soprattutto, con opere virtuose, carità, pietà e buona volontà, ricordando che il Profeta stesso aveva una natura elevata.
Infatti, nel Corano Dio afferma: “Veramente avete nel messaggero di Dio un esempio di comportamento, per chiunque spera in Dio e nell’ultimo giorno”.
Infine, devo ringraziarla, Santità, per i numerosi suoi altri gesti di amicizia e di cordialità verso i musulmani, fin dalla sua elezione nel 2005, incluse le udienze concesse nel 2005 a Sua Maestà il re Abdullah II Bin Al-Hussein di Giordania e nel 2008 a Sua Maestà il re Abdullah Bin Ad-Al-Haziz dell’Arabia Saudita, il custode dei due luoghi sacri.
La ringrazio anche per l’affettuosa ricezione della storica “parola comune fra noi e voi”, la lettera aperta del 13 ottobre 2007 da parte di 138 esimi studiosi musulmani di tutto il mondo, il cui numero continua ad aumentare.
È stato proprio come risultato di quell’iniziativa, che basandosi sul Sacro Corano e sulla Sacra Bibbia ha riconosciuto il primato dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo sia nel cristianesimo sia nell’islam, che il Vaticano sotto la sua guida personale, Santità, ha svolto il primo seminario del forum internazionale cattolico-musulmano, dal 4 al 6 novembre 2008.
Fra poco verificheremo con il competente cardinale Tauran l’opera avviata da quell’incontro, ma per ora desidero citare e ripetere le sue parole, Santità, tratte dal suo discorso in occasione della chiusura di quel primo seminario: “Il tema che avete scelto per l’incontro – amore di Dio e amore del prossimo: la dignità della persona umana e il rispetto reciproco – è particolarmente significativo.
È stato tratto dalla lettera aperta, che presenta l’amore di Dio e l’amore del prossimo come centro sia dell’Islam sia del Cristianesimo.
Questo tema evidenzia in maniera ancora più chiara le fondamenta teologiche e spirituali di un insegnamento centrale delle nostre rispettive religioni.
[…] Sono ben consapevole che musulmani e cristiani hanno approcci diversi nelle questioni riguardanti Dio.
Tuttavia, possiamo e dobbiamo essere adoratori dell’unico Dio che ci ha creato e che si preoccupa di ogni persona in ogni parte del mondo.
[…] Vi è un grande e vasto campo in cui possiamo agire insieme per difendere e promuovere i valori morali che fanno parte del nostro retaggio comune”.
Ora, non posso non ricordare le parole di Dio nel Sacro Corano: “Non sono tutti uguali”.
Alcune persone delle Scritture formano una comunità giusta, recitano i versetti la notte, prostrandosi.
Credono in Dio e nell’ultimo giorno, amano la decenza e proibiscono l’indecenza, competono gli uni con gli altri per compiere opere buone.
Questi sono i giusti, e qualunque azione buona compiano, non verrà loro negata perché Dio conosce chi ha timore di Lui.
E ricordo anche le seguenti parole di Dio: “E voi troverete, e voi in verità troverete, che i più vicini a quelli che credono sono quelli che dicono: veramente noi siamo cristiani.
Questo poiché alcuni di loro sono preti e monaci”.
Poi le porgo il benvenuto, Santità, come hashemita e discendente del profeta Maometto.
Inoltre, le porgo il benvenuto in questa moschea in Giordania, ricordando che il profeta accolse i suoi vicini cristiani di Nejran a Medina e li invitò a pregare nella propria moschea, cosa che fecero in armonia, senza compromettere gli uni il credo religioso degli altri.
Anche questa è una lezione di inestimabile valore che il mondo deve ricordare assolutamente.
Le porgo inoltre il benvenuto come arabo e diretto discendente di Ishmael Ali-Salaam, dal quale, secondo la Bibbia, Dio avrebbe fatto scaturire una grande nazione, rimanendogli accanto (Genesi 21, 18-20).
Una delle virtù cardinali degli arabi, che tradizionalmente sono sopravvissuti in alcuni dei climi più caldi e inospitali del mondo, è l’ospitalità.
L’ospitalità scaturisce dalla generosità, riconosce le necessità degli altri, considera quanti sono lontani o vengono da lontano come amici e di fatto questa virtù è confermata da Dio nel Sacro Corano con le parole: “E adorate Dio e associate l’uomo a lui, siate buoni con il padre, la madre, con i parenti, gli orfani, i poveri, i vostri vicini imparentati e quelli estranei, gli amici di ogni giorno e i viaggiatori”.
Ospitalità araba non significa soltanto amare, dare e aiutare, ma anche essere generosi di spirito e quindi saper apprezzare.
Nel 2000, durante la visita del compianto papa Giovanni Paolo II in Giordania, lavoravo con le tribù giordane e alcuni membri dissero di apprezzare veramente il papa.
Interrogati sul perché piacesse loro visto che lui era un cristiano mentre loro erano musulmani, risposero sorridendo: “Perché ci ha fatto visita”.
Di certo Giovanni Paolo II come lei stesso, Santo Padre, avreste potuto immediatamente andare in Palestina e in Israele, ma invece avete scelto di cominciare il pellegrinaggio con una visita a noi, in Giordania, cosa che noi apprezziamo.
Infine, le porgo il benvenuto come giordano.
In Giordania, tutti sono uguali davanti alla legge, indipendentemente dalla religione, dalla razza, dall’origine o dal genere, e chi lavora nel governo deve fare tutto il possibile per tutelare tutti nel paese, con compassione e giustizia.
È stato questo l’esempio personale e il messaggio del compianto re Hussein, che nel corso del suo regno durato 47 anni provò per tutti nel paese ciò che provava per i propri figli.
È anche il messaggio di suo figlio, Sua Maestà il re Abdullah II, che ha scelto come singolare obiettivo del suo regno e della sua vita quello di rendere la vita di ogni abitante della Giordania, e di fatto di ogni persona del mondo che può raggiungere, decorosa, degna e felice, per quanto può con le scarse risorse della Giordania.
Oggi, i cristiani in Giordania hanno diritto all’8 per cento dei seggi in parlamento e a quote simili a ogni livello di governo e società, sebbene in realtà il loro numero sia inferiore a quello previsto.
I cristiani, oltre ad avere leggi relative al proprio status e corti ecclesiali, godono della tutela dello Stato sui loro luoghi sacri, sulle loro scuole.
Lei, Santità, ha già potuto constatare questo di persona, presso la nuova università cattolica di Madaba.
A Dio piacendo presto vedrà sorgere la nuova cattedrale cattolica e la nuova chiesa melchita sul sito del battesimo.
Quindi, oggi, in Giordania, i cristiani prosperano, come del resto hanno fatto negli ultimi duecento anni, in pace e armonia, con buona volontà e relazioni autenticamente fraterne fra loro e con i musulmani.
Questo avviene, in parte, perché i cristiani in precedenza erano in percentuale più numerosi rispetto a oggi.
Con il calo demografico fra i cristiani e i più elevati livelli di istruzione e di prosperità che li hanno portati a essere molto richiesti in Occidente, il loro numero è diminuito.
Ciò avviene anche perchè i musulmani apprezzano il fatto che i cristiani erano già qui 600 anni prima di loro.
Infatti, i cristiani giordani formano forse la più antica comunità cristiana del mondo, e per la maggior parte sono sempre stati ortodossi, aderenti al patriarcato ortodosso di Gerusalemme in Terra Santa, che, come lei, Santità, sa meglio di me, è la Chiesa di san Giacomo, fondata durante la vita di Gesù.
Molti di loro discendono da antiche tribù arabe e, nel corso della storia, hanno condiviso la sorte e le lotte dei musulmani.
Infatti, nel 630, durante la vita del Profeta, entrarono a far parte del suo esercito, condotto dal figlio adottivo e da suo cugino, e combatterono contro l’esercito bizantino degli ortodossi nella battaglia di Mechtar.
È da questa battaglia che presero il loro nome tribale che significa “i rinforzi” e lo stesso patriarca latino Fouad Twal discende da queste tribù.
Poi, nel 1099, durante la caduta di Gerusalemme, furono massacrati dai crociati cattolici accanto ai loro commilitoni.
In seguito, dal 1916 al 1918, durante la grande rivolta araba, combatterono contro i musulmani turchi, accanto ai loro amici musulmani, sotto mandato coloniale protestante, e nelle guerre arabo-israeliane del 1948, del 1967 e del 1972 combatterono con i musulmani arabi contro gli ebrei.
I giordani cristiani non solo hanno sempre difeso la Giordania, ma hanno anche contribuito instancabilmente e patriotticamente alla sua edificazione, svolgendo ruoli importanti nei campi dell’educazione, della sanità, del commercio, del turismo, dell’agricoltura, della scienza, della cultura e in molti altri settori.
Tutto questo per dire che mentre Lei, Santità, li considera suoi compagni cristiani, noi li consideriamo nostri compagni giordani e fanno parte di questa terra come la terra stessa.
Spero che questo spirito unitario giordano di armonia interreligiosa, benevolenza e rispetto reciproco, sarà da esempio a tutto il mondo e che Lei, Santità, lo porti in luoghi come Mindanao e alcune parti dell’Africa sub-sahariana, in cui le minoranze musulmane subiscono forti pressioni da parte di maggioranze cristiane, e anche in altri luoghi dove accade l’opposto.
Oggi, proprio come la ho accolta in quattro modi, la ricevo in quattro modi, Santità.
La ricevo come leader spirituale, supremo pontefice e successore di Pietro per l’1,1 miliardi di cattolici che vivono accanto ai musulmani ovunque, e che saluto, ricevendola.
La ricevo come papa Benedetto XVI, il cui pontificato è caratterizzato dal coraggio morale di fare e parlare secondo la propria coscienza, indipendentemente dalle mode del momento, e che è anche un maestro teologo cristiano, autore di encicliche storiche sulle belle virtù cardinali dell’amore e della speranza, che ha reintrodotto la tradizionale messa in latino per chi la sceglie, e ha contemporaneamente fatto del dialogo interreligioso e intrareligioso la priorità del suo pontificato, per diffondere buona volontà e comprensione fra tutte le popolazioni della terra.
La ricevo come capo di Stato, che è anche un leader mondiale e globale su questioni vitali di morale, etica, ambiente, pace, dignità umana, alleviamento della povertà e della sofferenza e persino crisi finanziaria globale.
La ricevo, infine, come un semplice pellegrino di pace che giunge con umiltà e gentilezza a pregare laddove Gesù Cristo, il Messia – la pace sia con lui! – è stato battezzato e ha cominciato la sua missione 2000 anni fa.
Quindi, benvenuto in Giordania, Santo Padre, papa Benedetto XVI! Dio dice nel Sacro Corano al profeta Maometto: “Sia gloria al tuo Signore, il Signore della potenza…
E la pace sia con i messaggeri, e si renda lode a Dio, il Signore dei mondi”.
Il programma, i discorsi, le omelie del viaggio di Benedetto XVI: > Pellegrinaggio in Terra Santa, 8-15 maggio 2009 Benedetto XVI ha dedicato alla Giordania i primi tre giorni del suo viaggio in Terra Santa.
Nei precedenti viaggi papali la sosta in questo regno musulmano era stata più fuggevole, e così i riferimenti all’islam.
Con papa Joseph Ratzinger, invece, si è registrata questa novità.
Il rapporto con l’islam è stato visibilmente al centro della prima parte del suo viaggio.
E avrà ulteriore visibilità a Gerusalemme con la visita alla Cupola della Roccia, riconosciuta dai musulmani come il luogo da cui Maometto salì al cielo.
Naturalmente, l’impronta complessiva che Benedetto XVI ha dato fin dall’inizio al suo viaggio è stata quella del pellegrinaggio cristiano, attentissimo alle radici ebraiche.
In Giordania, ha cominciato salendo sul Monte Nebo e da lì, come Mosé, guardando alla Terra Promessa.
Lì ha ricordato “l’inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebreo”.
E ha terminato recandosi a Betania “oltre il Giordano” nel luogo dove l’ultimo dei profeti, Giovanni il Battista, battezzò Gesù.
In ogni tappa ha incontrato e rincuorato i cristiani che vivono in quella terra, piccole comunità molto minoritarie, dalla vita non facile.
Con essi ha celebrato ad Amman la prima messa pubblica del viaggio, domenica 10 maggio.
Nell’omelia, ha subito ribadito loro ciò che era stato proclamato poco prima: che cioè veramente, all’infuori di Gesù, “non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (Atti 4, 12).
Li ha esortati a testimoniare il riconoscimento della piena dignità della donna e a “sacrificare” la propria vita nel servizio agli altri, all’opposto di “modi di pensare che giustificano lo ‘stroncare’ vite innocenti”.
Ma è in rapporto all’islam che Benedetto XVI ha detto in Giordania le cose più argomentate, soprattutto in due momenti: quando ha benedetto la prima pietra di una nuova università cattolica a Madaba per studenti che saranno in gran parte musulmani, e quando ha visitato la moschea Al-Hussein Bin Talal di Amman.
A Madaba, sabato 9 maggio, il papa ha detto tra l’altro: “La fede in Dio non sopprime la ricerca della verità; al contrario l’incoraggia.
San Paolo esortava i primi cristiani ad aprire le proprie menti a tutto ‘quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode’ (Filippesi 4, 8).
Ovviamente la religione, come la scienza e la tecnologia, come la filosofia ed ogni espressione della nostra ricerca della verità, possono corrompersi.
La religione viene sfigurata quando viene costretta a servire l’ignoranza e il pregiudizio, il disprezzo, la violenza e l’abuso.
Qui non vediamo soltanto la perversione della religione, ma anche la corruzione della libertà umana, il restringersi e l’obnubilarsi della mente.
Evidentemente, un simile risultato non è inevitabile.
Senza dubbio, quando promuoviamo l’educazione proclamiamo la nostra fiducia nel dono della libertà.
Il cuore umano può essere indurito da un ambiente ristretto, da interessi e da passioni.
Ma ogni persona è anche chiamata alla saggezza e all’integrità, alla scelta basilare e più importante di tutte del bene sul male, della verità sulla disonestà, e può essere sostenuta in tale compito.
“La chiamata all’integrità morale viene percepita dalla persona genuinamente religiosa dato che il Dio della verità, dell’amore e della bellezza non può essere servito in alcun altro modo.
La fede matura in Dio serve grandemente per guidare l’acquisizione e la giusta applicazione della conoscenza.
La scienza e la tecnologia offrono benefici straordinari alla società ed hanno migliorato grandemente la qualità della vita di molti esseri umani.
Senza dubbio questa è una delle speranze di quanti promuovono questa università, il cui motto è ‘Sapientia et Scientia’.
Allo stesso tempo, la scienza ha i suoi limiti.
Non può dar risposta a tutte le questioni riguardanti l’uomo e la sua esistenza.
In realtà, la persona umana, il suo posto e il suo scopo nell’universo non può essere contenuto all’interno dei confini della scienza.
‘La natura intellettuale della persona umana si completa e deve completarsi per mezzo della sapienza, che attira dolcemente la mente dell’uomo a cercare ed amare le cose vere e buone’ (cfr.
Gaudium et spes, 15).
L’uso della conoscenza scientifica abbisogna della luce orientatrice della sapienza etica.
Tale sapienza ha ispirato il giuramento di Ippocrate, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, la convenzione di Ginevra ed altri lodevoli codici internazionali di comportamento.
Pertanto, la sapienza religiosa ed etica, rispondendo alle questioni sul senso e sul valore, giocano un ruolo centrale nella formazione professionale.
Conseguentemente, quelle università dove la ricerca della verità va di pari passo con la ricerca di quanto è buono e nobile offrono un servizio indispensabile alla società”.
Ma è stato ad Amman, visitando la moschea Al-Hussein Bin Talal, che Benedetto XVI è entrato più direttamente nel cuore della questione.
Il luogo e gli interlocutori erano ricchi di implicazioni.
A far gli onori di casa al papa è stato il principe Ghazi Bin Muhammad Bin Talal, 42 anni, cugino dell’attuale re di Giordania Abdullah II, a sua volta figlio del defunto re Hussein al quale è intitolata la moschea.
Il principe Ghazi è il più autorevole ispiratore della lettera aperta “Una parola comune tra noi e voi”, indirizzata al papa e ai capi delle altre confessioni cristiane nell’ottobre del 2007 da 138 esponenti musulmani di numerosi paesi.
Quella lettera è stato il seguito più importante, in campo musulmano, dell’apertura di dialogo compiuta da Benedetto XVI con la sua memorabile lezione all’università di Ratisbona dell’11 settembre 2006.
Dalla lettera dei 138 ha preso origine un forum permanente di dialogo cattolico-musulmano la cui prima sessione si è svolta a Roma dal 4 al 6 novembre 2008, conclusa da un incontro col papa.
Ad Amman, sabato 9 maggio, il principe Ghazi ha prima accompagnato Benedetto XVI nella visita alla moschea – dove entrambi hanno avuto un “momento di raccoglimento” – e poi, all’esterno dell’edificio, ha rivolto a lui un ampio discorso, al quale è seguito l’intervento del papa.
Qui di seguito sono riportati i testi integrali dei due discorsi.
Quello del principe Ghazi, pronunciato in inglese e fin qui inedito, è stato trascritto a cura de “L’Osservatore Romano”, che però ne ha pubblicato solo un breve riassunto.
Il discorso del papa riprende temi e argomenti da lui già sviluppati in precedenti interventi, mentre più inusuale appare quello del principe Ghazi, specie in un mondo musulmano che nella sua quasi totalità è stato fin qui all’oscuro dei passi di dialogo in corso con la Chiesa cattolica.
Anche sotto questo profilo, infatti, la tappa di Benedetto XVI in Giordania ha segnato una novità.
Grazie all’impatto pubblico mondiale del viaggio e allo scambio di discorsi tra il papa e il principe Ghazi, una “comune parola” di dialogo tra la Chiesa cattolica e l’islam ha raggiunto per la prima volta anche una parte dell’opinione pubblica musulmana, in una misura che non ha precedenti.
__________ ”Insieme, cristiani e musulmani sono sospinti a cercare tutto ciò che è giusto e retto” di Benedetto XVI Altezza Reale, eccellenze, illustri signore e signori, è motivo per me di grande gioia incontrarvi questa mattina in questo splendido ambiente.
Desidero ringraziare il principe Ghazi Bin Muhammed Bin Talal per le sue gentili parole di benvenuto.
Le numerose iniziative di Vostra Altezza Reale per promuovere il dialogo e lo scambio interreligioso ed interculturale sono apprezzate dai cittadini del regno hashemita ed ampiamente rispettate dalla comunità internazionale.
Sono al corrente che tali sforzi ricevono il sostegno attivo di altri membri della famiglia reale come pure del governo della nazione e trovano vasta risonanza nelle molte iniziative di collaborazione fra i giordani.
Per tutto questo desidero manifestare la mia sincera ammirazione.
Luoghi di culto, come questa stupenda moschea di Al-Hussein Bin Talal intitolata al venerato re defunto, si innalzano come gioielli sulla superficie della terra.
Dall’antico al moderno, dallo splendido all’umile, tutti rimandano al divino, all’Unico trascendente, all’Onnipotente.
Ed attraverso i secoli questi santuari hanno attirato uomini e donne all’interno del loro spazio sacro per fare una pausa, per pregare e prender atto della presenza dell’Onnipotente, come pure per riconoscere che noi tutti siamo sue creature.
Per questa ragione non possiamo non essere preoccupati per il fatto che oggi, con insistenza crescente, alcuni ritengono che la religione fallisca nella sua pretesa di essere, per sua natura, costruttrice di unità e di armonia, un’espressione di comunione fra persone e con Dio.
Di fatto, alcuni asseriscono che la religione è necessariamente una causa di divisione nel nostro mondo; e per tale ragione affermano che quanto minor attenzione vien data alla religione nella sfera pubblica, tanto meglio è.
Certamente, il contrasto di tensioni e divisioni fra seguaci di differenti tradizioni religiose, purtroppo, non può essere negato.
Tuttavia, non si dà anche il caso che spesso sia la manipolazione ideologica della religione, talvolta a scopi politici, il catalizzatore reale delle tensioni e delle divisioni e non di rado anche delle violenze nella società? A fronte di tale situazione, in cui gli oppositori della religione cercano non semplicemente di tacitarne la voce ma di sostituirla con la loro, il bisogno che i credenti siano fedeli ai loro principi e alle loro credenze è sentito in modo quanto mai acuto.
Musulmani e cristiani, proprio a causa del peso della nostra storia comune così spesso segnata da incomprensioni, devono oggi impegnarsi per essere individuati e riconosciuti come adoratori di Dio fedeli alla preghiera, desiderosi di comportarsi e vivere secondo le disposizioni dell’Onnipotente, misericordiosi e compassionevoli, coerenti nel dare testimonianza di tutto ciò che è giusto e buono, sempre memori della comune origine e dignità di ogni persona umana, che resta al vertice del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia.
La decisione degli educatori giordani come pure dei leader religiosi e civili di far sì che il volto pubblico della religione rifletta la sua vera natura è degna di plauso.
L’esempio di individui e comunità, insieme con la provvista di corsi e programmi, manifestano il contributo costruttivo della religione ai settori educativo, culturale, sociale e ad altri settori caritativi della vostra società civile.
Ho avuto anch’io la possibilità di constatare personalmente qualcosa di questo spirito.
Ieri ho potuto prender contatto con la rinomata opera educativa e di riabilitazione presso il centro Nostra Signora della Pace, dove cristiani e musulmani stanno trasformando le vite di intere famiglie, assistendole al fine di far sì che i loro figli disabili possano avere il posto che loro spetta nella società.
All’inizio dell’odierna mattinata ho benedetto la prima pietra dell’università di Madaba, dove giovani musulmani e cristiani, gli uni accanto agli altri, riceveranno i benefici di un’educazione superiore, che li abiliterà a contribuire validamente allo sviluppo sociale ed economico della loro nazione.
Di gran merito sono pure le numerose iniziative di dialogo interreligioso sostenute dalla famiglia reale e dalla comunità diplomatica, talvolta intraprese in collegamento col pontificio consiglio per il dialogo interreligioso.
Queste comprendono il continuo lavoro degli Istituti Reali per gli Studi Interreligiosi e per il Pensiero Islamico, l’Amman Message del 2004, l’Amman Interfaith Message del 2005, e la più recente lettera “Common Word”, che faceva eco ad un tema simile a quello da me trattato nella mia prima enciclica: il vincolo indistruttibile fra l’amore di Dio e l’amore del prossimo, come pure la contraddizione fondamentale del ricorrere, nel nome di Dio, alla violenza o all’esclusione (cfr.
Deus caritas est, 16).
Chiaramente queste iniziative conducono ad una maggiore conoscenza reciproca e promuovono un crescente rispetto sia per quanto abbiamo in comune sia per ciò che comprendiamo in maniera differente.
Pertanto, esse dovrebbero indurre cristiani e musulmani a sondare ancor più profondamente l’essenziale rapporto fra Dio ed il suo mondo, così che insieme possiamo darci da fare perché la società si accordi armoniosamente con l’ordine divino.
A tale riguardo, la collaborazione realizzata qui in Giordania costituisce un esempio incoraggiante e persuasivo per la regione, in realtà anzi per il mondo, del contributo positivo e creativo che la religione può e deve dare alla società civile.
Distinti amici, oggi desidero far menzione di un compito che ho indicato in diverse occasioni e che credo fermamente cristiani e musulmani possano assumersi, in particolare attraverso il loro contributo all’insegnamento e alla ricerca scientifica, come pure al servizio alla società.
Tale compito costituisce la sfida a coltivare per il bene, nel contesto della fede e della verità, il vasto potenziale della ragione umana.
I cristiani in effetti descrivono Dio, fra gli altri modi, come Ragione creatrice, che ordina e guida il mondo.
E Dio ci dota della capacità a partecipare a questa Ragione e così ad agire in accordo con ciò che è bene.
I musulmani adorano Dio, Creatore del cielo e della terra, che ha parlato all’umanità.
E quali credenti nell’unico Dio, sappiamo che la ragione umana è in se stessa dono di Dio, e si eleva al piano più alto quando viene illuminata dalla luce della verità di Dio.
In realtà, quando la ragione umana umilmente consente ad essere purificata dalla fede non è per nulla indebolita; anzi, è rafforzata nel resistere alla presunzione di andare oltre ai propri limiti.
In tal modo, la ragione umana viene rinvigorita nell’impegno di perseguire il suo nobile scopo di servire l’umanità, dando espressione alle nostre comuni aspirazioni più intime, ampliando, piuttosto che manipolarlo o restringerlo, il pubblico dibattito.
Pertanto l’adesione genuina alla religione – lungi dal restringere le nostre menti – amplia gli orizzonti della comprensione umana.
Ciò protegge la società civile dagli eccessi di un ego ingovernabile, che tende ad assolutizzare il finito e ad eclissare l’infinito; fa sì che la libertà sia esercitata in sinergia con la verità, ed arricchisce la cultura con la conoscenza di ciò che riguarda tutto ciò che è vero, buono e bello.
Una simile comprensione della ragione, che spinge continuamente la mente umana oltre se stessa nella ricerca dell’Assoluto, pone una sfida: contiene un senso sia di speranza sia di prudenza.
Insieme, cristiani e musulmani sono sospinti a cercare tutto ciò che è giusto e retto.
Siamo impegnati ad oltrepassare i nostri interessi particolari e ad incoraggiare gli altri, particolarmente gli amministratori e i leader sociali, a fare lo stesso al fine di assaporare la soddisfazione profonda di servire il bene comune, anche a spese personali.
Ci viene ricordato che proprio perché è la nostra dignità umana che dà origine ai diritti umani universali, essi valgono ugualmente per ogni uomo e donna, senza distinzione di gruppi religiosi, sociali o etnici ai quali appartengano.
Sotto tale aspetto, dobbiamo notare che il diritto di libertà religiosa va oltre la questione del culto ed include il diritto – specie per le minoranze – di equo accesso al mercato dell’impiego e alle altre sfere della vita civile.
Questa mattina prima di lasciarvi, vorrei in special modo sottolineare la presenza tra noi di Sua Beatitudine Emmanuel III Delly, patriarca di Baghdad, che io saluto molto calorosamente.
La sua presenza richiama alla mente i cittadini del vicino Iraq, molti dei quali hanno trovato cordiale accoglienza qui in Giordania.
Gli sforzi della comunità internazionale nel promuovere la pace e la riconciliazione, insieme con quelli dei leader locali, devono continuare in vista di portare frutto nella vita degli iracheni.
Esprimo il mio apprezzamento per tutti coloro che sostengono gli sforzi volti ad approfondire la fiducia e a ricostruire le istituzioni e le infrastrutture essenziali al benessere di quella società.
Ancora una volta, chiedo con insistenza ai diplomatici ed alla comunità internazionale da essi rappresentata, come anche ai leader politici e religiosi locali, di compiere tutto ciò che è possibile per assicurare all’antica comunità cristiana di quella nobile terra il fondamentale diritto di pacifica coesistenza con i propri concittadini.
Distinti amici, confido che i sentimenti da me espressi oggi ci lascino con una rinnovata speranza per il futuro.
L’amore e il dovere davanti all’Onnipotente non si manifestano soltanto nel culto ma anche nell’amore e nella preoccupazione per i bambini e i giovani – le vostre famiglie – e per tutti i cittadini della Giordania.
È per loro che faticate e sono loro che vi motivano a porre al cuore delle istituzioni, delle leggi e delle funzioni della società il bene di ogni persona umana.
Possa la ragione, nobilitata e resa umile dalla grandezza della verità di Dio, continuare a plasmare le vita e le istituzioni di questa Nazione, così che le famiglie possano fiorire e tutti possano vivere in pace, contribuendo e al tempo stesso attingendo alla cultura che unifica questo grande regno! __________
Islam in Europa / Islam in Italia tra diritto e società
A.
FERRARI (a cura di), Islam in Europa / Islam in Italia tra diritto e società, Il Mulino, Bologna, 2008, ISBN: 978-88-15-12489-0, pp.
376, € 28,00 L’islam ha cambiato la geografia religiosa dell’Europa occidentale.
Tuttavia, benché irreversibile, l’integrazione delle comunità musulmane nel “Vecchio continente” conosce tutte le difficoltà e le contraddizioni tipiche dei grandi processi sociali, che coinvolgono nel profondo sia le pubbliche istituzioni sia i vissuti quotidiani dei singoli.
Di qui la tensione tra “antichi” e “nuovi” costumi; fra la “tradizione delle radici” e le sfide del presente cui essa è confrontata.
Ma qual è, oggi, il volto dell’islam europeo ed italiano? Quale la situazione dell’islam nella scuola; delle moschee; degli imam? A che punto si trova la prospettiva di un’intesa con lo Stato? Quali sono le esperienze europee che potrebbero rivelarsi più utili nell’affrontare queste ed altre questioni, a cominciare da quelle poste dalle famiglie musulmane? Con un approccio interdisciplinare, i saggi raccolti in questo volume intendono fare il punto della situazione e offrire alcune indicazioni operative per il futuro.
Indice: Nota introduttiva, di A.
Ferrari – p.
7 PARTE PRIMA: LA SITUAZIONE.
L'”islam europeo” e i suoi volti, di F.
Dassetto.
– p.
13 Islam italiano e società nazionale, di S.
Allievi.
– p.
43 Le questioni normative, di S.
Ferrari.
– p.
77 PARTE SECONDA: FAMIGLIA E MATRIMONIO.
Famiglie musulmane in Italia.
Dinamiche sociali e questioni giuridiche, di L.
Mancini.
– p.
91 Il matrimonio: conflitti di leggi o di culture?, di G.
Conetti.
– p.
111 A proposito del matrimonio islamico in Italia, di A.
Albisetti.
– p.
121 Diritto matrimoniale inglese e legge musulmana, di W.
Menski.
– p.
129 PARTE TERZA: LA SCUOLA.
Studenti musulmani e prospettive dell’educazione interculturale, di M.
Santerini.
– p.
149 La scuola italiana di fronte al paradigma musulmano, di A.
Ferrari.
– p.
171 L’islam nel sistema scolastico inglese, di B.
Gates.
– p.
199 PARTE QUARTA: IMAM E MOSCHEE.
Quali imam per quale islam?, di P.
Branca.
– p.
219 Moschee e formazione degli imam in Francia, di B.
Basdevant Gaudemet.
– p.
233 Moschee e formazione degli imam in Austria, di W.
Wieshaider.
– p.
249 PARTE QUINTA: VERSO UN’INTESA TRA STATO ITALIANO E ISLAM? L’ente di culto e gli statuti nell’islam, di N.
Colaianni.
– p.
259 La rappresentanza e l’intesa, di G.
Casuscelli.
– p.
285 PARTE SESTA: REALTÀ E PROSPETTIVE.
Tariq Ramadan, p.
325 Maurice Borrmans, p.
335 Francesco Margiotta Broglio, p.
343 (pdf) Alessandro Ferrari insegna Diritto canonico e Diritto ecclesiastico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università dell’Insubria.
Tra le sue pubblicazioni, “Libertà scolastiche e laicità dello Stato in Italia e Francia” (Giappichelli, 2002) e, con R.
Aluffi Beck-Peccoz e A.M.
Rabello, “Il matrimonio.
Diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti” (Giappichelli, 2006).
Per il Mulino ha curato, con E.
Dieni e V.
Pacillo, “Symbolon/Diabolon.
Simboli, religioni, diritti nell’Europa multiculturale” (2005).
elenco libri di questo autore
Firenze e il suo vescovo:
Ai primi di ottobre, poco prima di entrare in diocesi, disputò pubblicamente con la filosofa Roberta de Monticelli.
Questa aveva annunciato di abbandonare la Chiesa cattolica proprio per colpa di Betori: per aver egli condannato, “a nome della Chiesa italiana”, l’autodeterminazione nell’interrompere anticipatamente la vita.
Lo accusò di “diabolicamente” negare “la possibilità stessa di ogni morale: la coscienza e la sua libertà”.
Betori le rispose con un pacato editoriale sul quotidiano della CEI, “Avvenire”, dal titolo: “Chiedo anch’io la libertà di coscienza.
Altra cosa dall’autodeterminazione”.
Poco dopo l’ingresso in diocesi il 26 ottobre, corse a visitare i piccoli malati dell’ospedale pediatrico “Enrico Meyer” di Firenze, proprio mentre nello stesso ospedale si teneva un congresso sul tema: “Il neonato è persona?”, con relatore il neonatologo olandese Eduard Verhagen, promotore di “cure di fine vita” per gli infanti.
L’arcivescovo criticò l’orientamento del congresso, lo definì “inquietante”.
In novembre, la sera del 20, partecipò a una veglia di preghiera per Eluana Englaro, la giovane donna in stato vegetativo che la magistratura italiana aveva autorizzato a far morire, interrompendo l’alimentazione e l’idratazione come richiesto dal padre: un caso molto simile a quello di Terri Schiavo negli Stati Uniti.
Betori pronunciò nell’occasione una riflessione in forte difesa del mantenimento in vita di Eluana.
E questo fu il suo primo atto pubblico solenne su una questione anche politica, da nuovo arcivescovo della città.
L’8 dicembre, festa dell’Immacolata, predicando in piazza del Duomo disse: “Siamo turbati nel vedere come da più parti e in varie forme sia posta in questione l’intangibile dignità della persona umana, soprattutto dove essa vive nella fragilità, al sorgere e al naturale compiersi della vita”.
Il 23 gennaio, al consiglio pastorale diocesano, indicò tra gli obiettivi della Chiesa fiorentina quello di riconquistare “la visibilità della vita credente quotidiana” e quello di sanare la frattura consumatasi nei decenni passati tra la fede e la cultura.
Intanto, ad Eluana Englaro era stata tolta la vita.
La donna non era di Firenze.
Ma pochi giorni dopo, il 9 marzo, il consiglio comunale di questa città, su proposta di un consigliere socialista, deliberò di dare a Giuseppe Englaro, il padre di Eluana che ne aveva voluto la morte, la cittadinanza onoraria: “quale simbolo di eccellente insegnamento di grande integrità morale, di coraggio umano e civile, in difesa della legalità della laicità dello stato, dell’umanità, della civiltà”.
La delibera passò di stretta misura, con numerosi voti contrari.
Meno di un’ora dopo arrivò la replica dell’arcidiocesi, con una nota ufficiale risolutamente critica: “Il gesto compiuto è offensivo nei confronti di quella non trascurabile parte della città che nel corso della vicenda di Eluana ha manifestato orientamenti ben diversi da quelli di cui erano portatori il signor Giuseppe Englaro e il gruppo che lo ha sostenuto.
Ma l’offesa più grande è stata fatta verso i genitori, fratelli, amici e volontari che si stringono attorno ai loro oltre 2500 cari che in Italia vivono in situazioni similari a quelle da cui è stata strappata a forza Eluana, persone che chiedono invece di essere sostenute nella loro dedizione, nella loro fatica e nella loro speranza”.
Ne nacque una discussione pubblica molto animata.
Il presidente del consiglio comunale, Eros Cruccolini, scrisse una lettera alla diocesi in difesa della giustezza della delibera.
Betori rispose confermando “che proprio l’amore per questa città esige che un vescovo, in coscienza, debba esprimere, se necessario come nel caso presente, un dissenso” .
Un ulteriore botta e risposta scritto si ebbe prima della cerimonia di conferimento a Giuseppe Englaro della cittadinanza onoraria.
L’arcivescovo, invitato ad assistere alla cerimonia, rifiutò.
La disputa è tuttora viva e si intreccia, su scala nazionale, alla discussione che accompagna l’elaborazione nel parlamento italiano di una legge sul fine vita, accelerata proprio dalla sentenza della magistratura su Eluana Englaro.
Ma a Firenze il fatto nuovo è proprio il ruolo svolto dal vescovo, che non ha precedenti negli ultimi decenni.
La novità è doppia.
Anzitutto per l’impegno diretto, anche nel campo politico, del vescovo nella città.
E poi per l’oggetto di questo suo impegno pubblico, che riguarda la difesa della vita umana in quanto tale: un tema sul quale una parte dei vescovi, del clero e del laicato cattolico è molto restio a porsi in conflitto con lo “spirito del tempo”.
Questa duplice novità esige di essere analizzata e interpretata, anche per la sua forza esemplare.
È quanto fa qui di seguito il professor Pietro De Marco, fiorentino ed esperto riconosciuto del cattolicesimo della sua città: Sul vescovo come difensore della città, nelle moderne invasioni dei barbari di Pietro De Marco 1.
La attuale congiuntura della Chiesa fiorentina, retta dall’arcivescovo Giuseppe Betori, credo abbia una sua esemplarità che può avere ripercussioni internazionali.
Ciò che avviene a Firenze è il recupero di un ruolo antico: quello del vescovo come “defensor civitatis”, difensore della città, e “consul Dei”, console di Dio, appellativo, quest’ultimo, che fu dato a papa Gregorio Magno.
Naturalmente qualcosa di questo ruolo episcopale emerge a tratti nelle guerre o nelle rivoluzioni.
Anche il cardinale Clemens August von Galen venne definito, per la sua testimonianza nella Germania hitleriana, “defensor civitatis” e “consul Dei”, come gli antichi Padri della Chiesa “tra le orde dei barbari”.
Oppure emerge in situazioni di grave conflitto sociale, come accadde col vescovo Oscar Romero in America Latina.
Ma il caso di Firenze è interessante anche perché avviene fuori dall’eccezionalità di un’azione eroica, o da uno stile “engagé”, tanto celebrato nelle culture liberazioniste quanto raramente originale, e spesso con effetti dottrinali e pastorali negativi.
Al centro del caso di Firenze vi sono questioni antropologiche, bioetiche e biopolitiche che hanno poco da spartire con i consueti terreni di disputa politica ed economica.
Sulle questioni della vita, la Chiesa è nella sua piena originalità e solitudine; è soggetto insostituibile.
In questo senso il caso fiorentino ha portata esemplare.
Che potrebbe sollecitare o confermare dei fermenti nella stessa direzione, in altri episcopati.
2.
I media laici hanno adottato la metafora calcistica dell’intervento “a gamba tesa” per indicare la forma e la sostanza del comunicato dell’arcidiocesi di Firenze del 9 marzo scorso, critico sulla concessione, da parte della municipalità, della cittadinanza onoraria a Giuseppe Englaro, padre di Eluana, la giovane donna in stato vegetativo fatta morire di fame e di sete poche settimane prima, per sentenza della magistratura.
Questo atto critico pubblico è coerente con uno stile di governo della Chiesa fiorentina che si sta delineando di settimana in settimana.
Nel comunicato arcivescovile si affermava: “La pretesa di un gruppo di consiglieri di fare una scelta a nome di tutta una città è un atto di disprezzo verso la minoranza dei rappresentanti del popolo e verso una presunta minoranza di cittadini, inferendo una profonda lacerazione nella convivenza”.
E ancora: si è inteso “mostrare con un ultimo atto di arroganza [da parte di un consiglio comunale a fine mandato – ndr] la disponibilità di un potere esercitato come arbitrio, a spregio di chi ha altre opinioni e ritiene la vita un bene indisponibile perché sacro”.
Alcuni hanno equiparato il comunicato della curia arcivescovile addirittura a un proclama intimidatorio, a un “diktat” al quale il consiglio comunale della città avrebbe dovuto inchinarsi.
Espressioni come “proclama” e “diktat” non sono nuove.
Sono state rivolte da commentatori autorevoli anche contro il presidente della conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, intervenuto anche lui sul caso di Eluana negli stessi giorni.
Il meccanismo e il vocabolario di contrapposizione alla Chiesa cattolica sono in Italia ormai standardizzati e automatici.
Viene quindi da domandarsi perché anche chi, più moderatamente, ha usato la metafora sportiva della “gamba tesa”, abbia comunque evocato un comportamento che impone all’arbitro di fischiare fallo.
La risposta investe la storia civile e religiosa italiana dell’ultimo mezzo secolo.
Vi sono diverse cause alle radici della percezione e censura di un comportamento falloso, o “uncorrect”, in ogni intervento pubblico della gerarchia cattolica.
Da decenni il popolo cattolico italiano si è assuefatto al silenzio del suo clero e dei suoi vescovi, in sede pubblica.
Anzi, si è assuefatto a qualcosa di più: a che i vescovi parlino in pubblico, eventualmente, solo per sottoscrivere valori e retoriche civili prevalenti, quasi a certificare il proprio consenso, la propria conformità ad essi.
Infatti, non sono mancate voci di denuncia da parte di vescovi dei “mali” del paese, ma principalmente rivolte a temi civili sui quali la Chiesa si allineava, spesso con qualche ritardo, alle forze politiche e morali “critiche”.
Sui temi però di diretta deduzione dall’antropologia cristiana, prevale il silenzio.
I vescovi hanno a lungo delegato il “discernimento critico” su questi temi, e la sua proposizione pubblica, al magistero ordinario degli ultimi pontefici e alle pronunce della CEI.
Così, senza rendersene conto, i vescovi lasciano alla società civile – e specialmente alle culture politiche di opposizione e denuncia – il compito di conferire la legittimazione “politica” all’autorità episcopale.
Anche se non sono mancate eccezioni, questa “correttezza politica” è stata a lungo osservata, col visibile gradimento di amministratori e forze politiche.
Da una pratica del genere sono derivate delle tacite regole del gioco.
L’opinione pubblica le ha variamente assimilate, e questo o quell’arbitro ritiene di poter dare fiato al fischietto non appena un vescovo sembri “scorretto”.
Ma vi è di più.
Un’opinione pubblica qualificata, anche cattolica, ha confuso questa “correctness” ecclesiastica nella sfera pubblica con un ideale equilibrio tra autorità politiche e spirituali.
Realizzando così nei fatti e nel costume una impropria “privatizzazione” della peculiare e irrinunciabile natura pubblica della Chiesa.
La moderna dottrina della “laïcité” condiziona la neutralità dello Stato al carattere privatistico della Chiesa e alla sua non ingerenza, alla sua innocuità politica, delle quali lo Stato sarebbe giudice.
Ma la Chiesa cattolica non è così per essenza, né è riducibile a questo.
Non lo è stata quando ha innervato di sé l’Europa e l’Occidente, non lo è diventata dopo Lutero o dopo Locke, né con la Rivoluzione francese o sotto la minaccia delle religioni politiche e delle rivoluzioni totali del Novecento.
Questa presenza magisteriale e civilizzante della Chiesa cattolica, la necessità che essa compaia come tale nella sfera pubblica, non sono mai spariti del tutto, anzi, sono da diversi anni di nuovo presenti e visibili sulla scena mondiale.
I sociologi individuano questo fenomeno come uno dei più sintomatici dell’età “postsecolare”.
Il pontificato di Giovanni Paolo II e, in Italia, l’innovativo governo della conferenza episcopale esercitato dal cardinale Camillo Ruini hanno messo questa rinnovata presenza pubblica della Chiesa sotto i nostri occhi.
Ma sia l’assuefazione di parti della società civile, sia la neutralizzazione della visibilità e autorità della Chiesa tentata dalle culture secolariste convergono tuttora nel sentire la presenza magisteriale e civilizzante della gerarchia cattolica come eccezione, come trasgressione, persino come imposizione.
3.
Passiamo a Firenze e al suo vescovo.
Fin dai primi secoli del cristianesimo il vescovo è sia centro della vita liturgica, che è già in sé pubblica, sia – in coerenza col suo ministero che è “sovraintendere” – una peculiare autorità civile.
Ha scritto uno storico della tarda antichità, Bernard Flusin: “È impressionante la lista degli ambiti in cui il vescovo è chiamato a intervenire”.
Anche se non è un signore territoriale, il vescovo è un “defensor civitatis” con un ruolo di bilanciamento rispetto ai funzionari imperiali.
Attraverso i vescovi la chiesa porta a evidenza istituzionale nuova, rispetto agli ordinamenti precristiani, le funzioni di assistenza e di governo: i vescovi organizzano il culto, ammaestrano, sovvengono ai poveri, influenzano lo spazio urbano.
Il vescovo, nel quadro della sua città, è detentore di poteri definiti giuridicamente, che lo pongono a capo della comunità cittadina di fronte al potere civile.
Confermano altri storici, tra cui Luce Pietri: “I suoi titoli lo dichiarano garante della giustizia e protettore dei deboli, spesso in contrasto con la giurisdizione” civile.
È ministro dell’assistenza.
Questi tratti di lungo periodo sono stati poi aggiornati e armonizzati agli ordinamenti dello stato moderno e delle democrazie pluralistiche, ma non estinti.
Restano costitutivi.
E ciò è così vero e così evidente alla coscienza pubblica e al calcolo dei governanti, che quando i compiti del vescovo verso la “polis” si esprimono in attività sociali di “supplenza” sono graditi, ricercati, elogiati.
Quando invece la sollecitudine del vescovo – che in se stessa non è per il welfare ma risponde all’assoluto comando evangelico ed è in ultimo ordinata alla salvezza delle anime anche quando sovviene ai corpi – si rivolge ad altre e decisive tutele del benessere spirituale e morale dei cittadini, e lo fa secondo autorità, a voce alta, essa è fischiata come “fallosa”.
Eppure non sono che momenti distinti dello stesso mandato e dello stesso ufficio.
Il comunicato dell’arcidiocesi è, nella sostanza, la prima lettera del vescovo Giuseppe Betori alla città e sulla città.
È un atto di sollecitudine del pastore, che si fa “garante della giustizia e protettore dei deboli” sul terreno antropologico, anche in contrasto con i poteri pubblici.
Egli analizza la realtà e mette in guardia dai pericoli.
Il richiamo al “rispetto dei ruoli e delle reciproche autonomie”, che compare nella lettera inviata all’arcivescovo dal presidente del consiglio comunale di Firenze, mostra scarsa conoscenza di questo compito episcopale.
4.
Il dibattito pubblico che ne è venuto, inedito per Firenze come inedita, da mezzo secolo, è in questa città l’assunzione di responsabilità pubblica da parte di un vescovo in contrasto con i poteri civili, rappresenta un paradigma per un nuovo stile ecclesiale, almeno in Europa.
La svolta non ha mancato di sollevare alcune obiezioni.
Si è osservato che lo stile “ortodosso” di Betori non è in sintonia con Firenze, poiché “Firenze è atipica, non è città dell’ortodossia”.
Questa convinzione appartiene a una sorta di mito romantico e risorgimentale di una Firenze “eretica”, che ha avuto qualche fortuna anche nel Novecento.
Ma proprio la vicenda recente del cattolicesimo fiorentino, che molti conoscono anche al di fuori dell’Italia, non ha nulla a che fare con quel mito.
Giorgio La Pira, il sindaco di cui è in corso la causa di beatificazione, era un “piagnone” (parola con cui erano designati nel Quattrocento i seguaci del monaco rigorista Girolamo Savonarola) di forte ortodossia, obbedientissimo alla Chiesa e al papa.
Dopo la stagione lapiriana quel robusto filone cattolico si è dissolto nel silenzio pubblico, tra marginalità, nascondimento nicodemita e conformismo progressista.
Ma di nuovo, con Betori vescovo, non è più stagione di silenzi o sussurri, per la Chiesa.
Il presidente del consiglio comunale della città ha sostenuto che le decisioni a maggioranza di un organo elettivo, “espressione concreta della volontà della città”, non possono mai essere considerate “negative”.
Ma così ha confuso legalità con legittimità politica.
La lotta tra gruppi e correnti della maggioranza progressista che amministra Firenze ha prodotto una delibera di portata ideologica, militante, fatta per suggestionare con riti civili (il conferimento della cittadinanza onoraria al padre di Eluana Englaro) l’opinione pubblica e conquistarla a una irriflessa opzione verso l’eutanasia, quindi su frontiere etiche di estrema gravità.
Inoltre una ridotta maggioranza di consiglieri ha fatto uso di poteri e strumenti legali per schierarsi contro il governo nazionale e contro la Chiesa, proprio mentre a Roma il parlamento stava elaborando una legge sul “testamento biologico”.
Un atto politico che è difficile non giudicare – come ha fatto il vescovo – “pretestuoso, offensivo, distruttivo” per il governo della città, non meno che per l’etica pubblica.
Domani, quali altre decisioni potranno essere prese facendo leva simbolicamente sul “cittadino Englaro”, e con l’apporto di quanto resta del dissenso cattolico? Il vescovo di Firenze, sollecito perché si realizzi “iustitia” nel senso profondo della politica cristiana, ha reso consapevoli i cittadini di questa anomalia etico-politica.
Ha agito nonostante la pressione contraria di un’opinione pubblica anche ecclesiale: quella che si oppone alla Chiesa “delle condanne” in nome della “medicina della misericordia”.
Quest’ultima pressione è obiettivamente alleata con le polemiche laiche contro la “Chiesa del no”, ridicolmente additata come Chiesa della paura e della conservazione.
Anche la cosiddetta “opinione pubblica ecclesiale” mostra una assoluta sordità (spesso tradotta in pratica pastorale) alla battaglia bioetica della Chiesa e degli ultimi pontefici.
Sempre propensa a parlare di apertura alla speranza, questa opposizione intra-ecclesiale ignora che la speranza dell’uomo è affidata a coerenza antropologica, a responsabilità universalistica, non a un minimalismo di paradigmi rivolto a sovvenire pietosamente ai casi particolari.
Ignora che altra è, ecclesiologicamente, la responsabilità di un parroco, condizionata dall’immediato dei “mondi vitali” dei suoi fedeli, altra quella del papa e dei vescovi.
L’immediato dei mondi vitali non può divenire canone di fede.
5.
C’è poi anche un’altra obiezione: perché il recente risveglio delle gerarchie cattoliche si esercita solo o prevalentemente nel campo della bioetica e della biopolitica? Rispondo che non è importante argomentare qui, come pur sarebbe possibile, che non è così.
Credo in effetti che questa prevalenza debba esistere.
L’ambito bioetico e biopolitico è di tale crucialità che sarebbe piuttosto l’assenza di questi temi nella predicazione cristiana ordinaria ad apparire colpevole.
Vi sono ambienti, anche cattolici, dove i temi bioetici sembrano scottare le labbra e si preferisce deprecare che altrove se ne parli: deprecare cioè che ne parli la gerarchia, seguita da cerchie “fondamentalistiche”.
È invece colpevole il silenzio su questi temi, perché nessun cattolico è esonerato dall’intendere che la sfida delle biotecnologie non discende da soli bisogni terapeutici e non approda alla sola riduzione di una patologia o di una sofferenza.
Essa è sfida antropologica nel significato pieno della parola, ossia all’esistenza e al senso dell’uomo come creatura.
Quella che chiamiamo da qualche tempo antropologia teologica è stata per secoli una sezione del trattato “de Deo creante et elevante”.
Né può essere diversamente.
Senza fondamento nel Dio creatore, scienze e filosofie dell’uomo e del “bios” divengono saperi e pratiche di un videogame giocato sull’uomo reale.
Le implicazioni della sfida, il frequente cinismo nichilistico alla Peter Singer, il fantasticare sul post-umano sono oggi così ricorrenti ed espliciti che solo una “differenza cristiana” incantata dall’innocenza del mondo può non prenderne atto.
Questa frontiera è, invece, di assoluta priorità per la responsabilità cristiana.
Se l’uomo non è pensato come creatura non vi può essere sensato ragionamento sui suoi atti.
La teoria che calcola il “migliore interesse” dell’essere umano, prima o dopo la nascita, portatore di handicap o malato grave, è esemplare, più ancora che per la sua inumanità, per la sua vacuità teoretica.
Quale sarebbe il miglior interesse per un essere non integro, non sano? Non essere più.
Che meravigliosa integrità e felicità restituiremmo al feto, all’infante, al malato, all’anziano, sopprimendolo! La irragionata convinzione secondo cui il migliore interesse di un essere ne chiederebbe e giustificherebbe la soppressione è, da sola, la straordinaria spia di una deriva suicidaria.
Benedetto XVI l’ha messo in luce.
6.
A tutto questo il vescovo cattolico, per primo, ha il compito di dire autorevolmente “no”, “mi oppongo” (come nel “Racconto dell’Anticristo” di Solov’ev), non sorpreso dal trovarsi magari solo nella sollecitudine ultima per l’uomo: perché sola e universale nella comunità degli uomini è la Chiesa, com’è suo mandato e sua certezza, dall’origine.
Un “no” detto senza pathos apocalittico.
Con argomenti e con analisi, discernendo le tecniche e le metodiche.
Con la sapienza di chi ha costruito e garantito la ragione dell’Occidente.
Perciò, nella risposta cattolica all’emergenza bioetica non vi è alcuna “sacralizzazione del biologico”, come qualche critico sostiene.
Ogni vita di cui l’intelletto e l’amore cattolico si occupano è sempre l’intero umano, che è molto più del vivente che appare al biologo o al clinico in quanto tali.
Né vi è alcunché da sacralizzare, perché quell’intero è già “sacro”.
Sono evidenze difficilmente controvertibili.
Eppure resta, preoccupante, la diffusa incapacità, per non dire la resistenza cattolica a capire e a motivare il primato radicale, oggi, dell’annuncio antropologico.
Sembra reciso il filo con la grande tradizione apologetica.
La confusa cedevolezza di tanta cultura cattolica alle campagne mediatiche contro la “Chiesa del no” non attesta alcun proficuo “dialogo col mondo”, piuttosto una situazione di dipendenza intellettuale e politica.
Ma dei vescovi combattenti potranno portarci fuori dall’Egitto.
__________ Firenze è una città faro per il mondo intero.
Lo è come capitale dell’arte.
Ma lo è anche come laboratorio di forti esperienze cristiane, personali e di gruppo.
Lo è stato sicuramente per una gran parte del Novecento.
Il nuovo esempio che oggi Firenze offre al mondo cattolico, non solo italiano, ha a che fare con il ruolo del suo arcivescovo.
Il suo nome è Giuseppe Betori.
Ha 62 anni, è originario dell’Umbria e ha fatto studi da biblista.
È arcivescovo di Firenze dall’8 settembre del 2008.
In precedenza era stato segretario generale della conferenza episcopale italiana, braccio destro del cardinale presidente Camillo Ruini e poi del suo successore, il cardinale Angelo Bagnasco.
L’estate scorsa, quando la sua nomina era nell’aria ma non ancora ufficialmente decisa, un buon numero di sacerdoti e di laici fiorentini firmarono una lettera aperta per chiedere che il nuovo vescovo fosse uomo di “pazienza” e di “perdono”, lasciasse cadere “i toni amari e di condanna”, instaurasse tra la Chiesa e la società civile “un clima di libertà e di rispetto reciproco”.
Era facile indovinare che questo profilo di vescovo non corrispondeva a quello polemicamente attribuito a Betori dai firmatari della lettera.
In ogni caso Benedetto XVI mandò lui a Firenze.
Nella sua prima intervista al giornale della diocesi, Betori annunciò che avrebbe operato per “una fede capace di fare cultura”.
E aggiunse: “Nulla di ciò che è umano è alieno alla Chiesa e quindi ci sarà una parola della Chiesa su tutta la realtà cittadina.
L’umano può e deve essere illuminato dal Vangelo”.
I due precedenti servizi di www.chiesa sulla particolarità del cattolicesimo fiorentino, entrambi con commenti del professor Pietro De Marco: > Firenze contro Roma: un cattolicesimo in stato di disagio (25.6.2007) > A Firenze i cattolici riscrivono la loro storia (26.6.2008) Il prossimo 16 maggio, i cattolici che in Italia si dicono “in sofferenza” per una Chiesa che antepone la condanna alla misericordia si sono dati nuovamente appuntamento a Firenze.
Questo è il loro invito all’incontro, con le firme dei proponenti tra cui Alberto Melloni, Giuseppe Ruggieri, Luigi Pedrazzi, Angelina Alberigo, Enrico Peyretti, Pier Giorgio Camaiani, Giovanni Nicolini, Massimo Toschi: > Il Vangelo che abbiamo ricevuto E questo è un commento critico del professor De Marco: > In attesa dell’incontro fiorentino sulla “sofferenza” dell’Evangelo nella Chiesa __________
Razzismo e povertà combinazione distruttiva
Pubblichiamo la traduzione dell’intervento pronunciato il 22 aprile dall’arcivescovo Silvano M.
Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Ufficio delle Nazioni Unite e Istituzioni Specializzate a Ginevra, in occasione della Conferenza di esame della Dichiarazione di Durban del 2001 contro il razzismo, la xenofobia e la relativa intolleranza, organizzata dall’Onu dal 20 al 24 aprile a Ginevra.
Signor Presidente, mi congratulo per la sua elezione e auguro a Lei, all’Alto Commissario per i Diritti Umani e a tutto l’Ufficio di condurre con successo questa Conferenza a una conclusione positiva.
Signor Presidente, La Delegazione della Santa Sede condivide l’aspirazione della comunità internazionale a superare tutte le forme di razzismo, di discriminazione razziale e xenofobia nella consapevolezza che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” (Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, art.
1) e sono uniti in un’unica famiglia umana.
Infatti, una comunità internazionale giusta si sviluppa in modo appropriato quando il desiderio naturale delle persone umane di relazionarsi non viene distorto dal pregiudizio, dalla paura degli altri o da interessi egoistici che minano il bene comune.
In tutte le sue manifestazioni, il razzismo afferma falsamente che alcuni esseri umani hanno minori dignità e valore di altri.
Ciò infrange la loro fondamentale eguaglianza di figli di Dio e conduce a una violazione dei diritti umani di individui e di interi gruppi di persone.
Partecipando alla Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, agli sforzi comuni delle Nazioni Unite e di altre importanti organizzazioni internazionali, la Santa Sede si sforza di assumersi pienamente la propria responsabilità secondo la missione che le è propria.
Si impegna a combattere, con spirito di cooperazione, tutte le forme di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e relativa intolleranza.
La Santa Sede ha partecipato attivamente alla Conferenza di Durban del 2001 e, senza esitare, ha dato il suo sostegno morale alla Dichiarazione e al Programma di Azione (ddpa), ben sapendo che la lotta al razzismo è un prerequisito necessario e indispensabile per la costruzione di un modo di governare, di sviluppo sostenibile, di giustizia sociale, di democrazia e pace nel mondo.
Oggi, la globalizzazione unisce le persone, ma la prossimità spaziale e temporale non crea di per sé le condizioni per una interazione costruttiva e una comunione pacifica.
Infatti, il razzismo persiste: gli stranieri e quanti sono differenti vengono troppo spesso rifiutati e si arriva perfino a commettere contro di loro atti barbarici, inclusi il genocidio e la pulizia etnica.
Vecchie forme di sfruttamento hanno lasciato spazio a nuove: traffico di donne e bambini in una forma contemporanea di schiavitù, abuso di migranti irregolari.
Persone percepite come differenti o che in effetti lo sono, divengono, in numero sproporzionato, vittime di esclusione sociale e politica, di condizioni da ghetto e di stereotipi.
Giovani donne sono costrette a contrarre matrimoni indesiderati.
I cristiani vengono arrestati o uccisi per il loro credo.
La mancanza di solidarietà, un’aumentata frammentazione dei rapporti sociali nelle nostre società multiculturali, razzismo e xenofobia spontanei, discriminazione razziale e sociale, in particolare verso gruppi minoritari ed emarginati, e sfruttamento politico delle differenze, sono evidenti nell’esperienza quotidiana.
L’impatto globale dell’attuale crisi economica colpisce, soprattutto, tutti i gruppi vulnerabili della società.
Ciò dimostra quanto spesso razzismo e povertà siano interrelati in una combinazione micidiale.
La Santa Sede è anche allarmata dalla tentazione ancora latente dell’eugenetica che può essere alimentata da tecniche di procreazione artificiale e dall’uso di “embrioni superflui”.
La possibilità di scegliere il colore degli occhi o altre caratteristiche fisiche di un bambino potrebbe portare alla creazione di una “sottocategoria di esseri umani” o all’eliminazione di quegli esseri umani che non rispondono alle caratteristiche predeterminate da una certa società.
Inoltre, l’aumentata preoccupazione per la sicurezza e la conseguente introduzione di misure e pratiche eccessive hanno fatto scaturire una maggiore mancanza di fiducia fra persone di culture differenti e hanno esacerbato la paura irrazionale degli stranieri.
La lotta legittima contro il terrorismo non dovrebbe mai minare la protezione e la promozione dei diritti umani.
Basandosi sui progressi già compiuti, la nostra Conferenza di esame di Durban può essere l’occasione per accantonare le reciproche differenze e mancanza di fiducia, rifiutare ancora una volta qualsiasi teoria di superiorità razziale o etnica e rinnovare l’impegno della comunità internazionale per l’eliminazione di tutte le espressioni di razzismo quale requisito etico del bene comune, il cui ottenimento è “l’unico motivo di esistenza delle autorità civili” (cfr Papa Giovanni XXIII, Enciclica Pacem in terris) a livello nazionale, regionale e internazionale.
Condividere risorse e iniziative migliori nello sforzo concertato di mettere in pratica le raccomandazioni della ddpa per sradicare il razzismo significa riconoscere la centralità della persona umana e la pari dignità di tutte le persone.
Questo compito è dovere e responsabilità di tutti e dimostra con chiarezza che fare ciò che è giusto procura un vantaggio politico perché così si gettano le fondamenta di una convivenza pacifica, produttiva e reciprocamente proficua.
Le alleanze e le dichiarazioni internazionali così come le legislazioni nazionali sono indispensabili per creare una cultura pubblica e per fornire norme vincolanti, in grado di combattere il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e la relativa intolleranza.
Senza un mutamento del cuore, tuttavia, le leggi non sono efficaci.
È il cuore a dover essere continuamente purificato affinché non vi governino più la paura e lo spirito di dominio, ma l’apertura agli altri, la fraternità e la solidarietà.
Un ruolo insostituibile lo svolge l’educazione che forgia le mentalità e aiuta a formare le coscienze ad accogliere una visione più ampia della realtà e a rigettare qualsiasi forma di razzismo e di discriminazione.
Alcuni sistemi educativi andrebbero rivisti per eliminare tutti gli elementi di discriminazione presenti nell’insegnamento, nei libri di testo, nei corsi di studio e nelle risorse visive.
Il fine di questo processo di educazione non è solo il riconoscimento del fatto che tutti hanno uguale valore umano e l’eliminazione del pensiero e degli atteggiamenti razzisti, ma anche la convinzione che gli Stati e gli individui devono prendere l’iniziativa e divenire prossimo a tutti.
Anche l’educazione informale e generale svolge un ruolo cruciale.
I mezzi di comunicazione, quindi, dovrebbero essere accessibili e liberi da un controllo razzista o ideologico che porta alla discriminazione e perfino alla violenza contro persone che hanno una formazione culturale o etnica differente.
In tal modo, i sistemi educativi e i mezzi di comunicazione si uniscono al resto della società nel sostenere la dignità umana che può essere tutelata e promossa soltanto da un’azione collettiva di tutti i settori.
In tale contesto di mutua accettazione il diritto di accesso all’educazione da parte di minoranze razziali, etniche e religiose sarà rispettato come diritto umano in grado di garantire la coesione della società con il contributo del talento e delle capacità di ognuno.
Nella lotta contro il razzismo, le comunità di fede svolgono un ruolo importante.
La Chiesa cattolica, per esempio, non ha lesinato sforzi per consolidare le sue numerose istituzioni scolastiche, crearne di nuove, essere presente in situazioni pericolose nelle quali la dignità umana viene calpestata e la comunità locale distrutta.
In questa vasta rete educativa, la Chiesa insegna come vivere insieme e come riconoscere che tutte le forme di pregiudizio e di discriminazione razziale feriscono la dignità comune di ogni persona creata a immagine di Dio e lo sviluppo di una società giusta e accogliente.
Per questo motivo, sottolinea che la persona “si realizza attraverso l’apertura accogliente all’altro e il generoso dono di sé…
In questa chiave, il dialogo fra le culture emerge come un’esigenza intrinseca alla natura stessa dell’uomo e della cultura…
Il dialogo porta a riconoscere la ricchezza della diversità e dispone gli animi alla reciproca accettazione, nella prospettiva di un’autentica collaborazione, rispondente all’originaria vocazione all’unità dell’intera famiglia umana.
Come tale, il dialogo è strumento eminente per realizzare la civiltà dell’amore e della pace” (Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale della Pace, 2001, n.
10).
Il contributo delle comunità di fede alla lotta al razzismo e all’edificazione di una società non discriminante diviene più efficace in presenza di un rispetto autentico del diritto di libertà di religione com’è chiaramente esposto negli strumenti dei diritti dell’uomo.
Purtroppo, la discriminazione non risparmia le comunità religiose, un fatto che preoccupa sempre più la comunità internazionale.
La risposta a questa preoccupazione legittima è la piena realizzazione della libertà religiosa per gli individui e il loro esercizio a livello collettivo di questo diritto umano fondamentale.
Sebbene il diritto alla libertà di espressione non sia una licenza a insultare i seguaci di qualsiasi religione o a stereotipare la loro fede, i meccanismi esistenti che offrono garanzia legale all’incitamento all’odio razziale e religioso dovrebbero essere utilizzati nella cornice della legge sui diritti umani per proteggere tutti i credenti e i non credenti.
I sistemi giudiziari nazionali dovrebbero favorire la pratica di una “gestione razionale” delle pratiche religiose e non dovrebbero essere utilizzati per giustificare il fallimento nella tutela e nella promozione del diritto a professare e praticare liberamente la propria religione.
Le sfide che dobbiamo affrontare richiedono strategie più efficaci per combattere il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e la relativa intolleranza.
Questi sono mali che corrodono il tessuto sociale della società e causano innumerevoli vittime.
Il primo passo verso una soluzione pratica consiste nell’educazione integrale che include valori etici e spirituali a favore dell’acquisizione di poteri da parte di gruppi vulnerabili come i rifugiati, i migranti e itineranti, le minoranze razziali e culturali, persone imprigionate dalla estrema povertà o malate e disabili, donne e ragazze ancora considerate inferiori in alcune società, dove una irrazionale paura delle differenze impedisce la piena partecipazione alla vita sociale.
In secondo luogo, per ottenere coesione fra strutture e meccanismi vari creati per contrastare atteggiamenti e comportamenti razzisti, è necessario intraprendere un nuovo studio per rendere le varie modalità più incisive ed efficaci.
In terzo luogo, la ratifica universale di importanti strumenti contro il razzismo e la discriminazione, come la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale e la Convenzione internazionale sulla tutela dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, segnalerà la volontà politica della comunità internazionale di combattere tutte le espressioni di razzismo.
Infine, nulla può sostituire una giusta legislazione nazionale che condanni esplicitamente tutte le forme di razzismo e di discriminazione e permetta a tutti i cittadini di partecipare pubblicamente alla vita del loro Paese sulla base dell’uguaglianza di diritti e di doveri.
Quindi, il lavoro di questa Conferenza ha mosso un passo in avanti verso la lotta al razzismo, il motivo per cui la maggior parte dei Paesi si sforzano congiuntamente per un risultato che risponda alla necessità di eliminare manifestazioni vecchie e nuove di razzismo.
La Conferenza, come forum internazionale di esercizio del diritto alla libertà di espressione, è stata purtroppo utilizzata per esprimere posizioni politiche estremiste e offensive che la Santa Sede deplora e rigetta: non contribuiscono al dialogo, provocano conflitti inaccettabili e in alcun modo possono essere approvate o condivise.
Signor Presidente, Otto anni fa i Paesi del mondo hanno assunto un impegno globale per combattere il razzismo con l’adozione della Dichiarazione e del Piano di Azione di Durban.
Questa visione di cambiamento rimane incompleta nella sua realizzazione e per questo motivo il cammino deve continuare.
I progressi si otterranno attraverso una rinnovata determinazione a tradurre in azione le convinzioni riaffermate in questa Conferenza secondo le quali “tutti i popoli e tutti gli individui sono un’unica famiglia umana, ricca di diversità” e tutti gli esseri umani sono uguali in dignità e diritti.
Solo allora, le vittime del razzismo saranno libere e sarà garantito un futuro comune di pace.
(©L’Osservatore Romano – 24 aprile 2009)
La vocazione nel suo «stato nascente»
1.
La vocazione La vocazione è un fatto di natura teandrica, cioè divino-umano.
Agisce Dio e agisce l’uomo singolo e anche la comunità.
L’agire di Dio coincide con l’iniziativa fondamentale, mentre l’agire dell’uomo coincide con la risposta del singolo e la verifica della comunità.
Quindi, è un fatto anche umano e umanizzante, una dinamica attuata dall’uomo ma capace di condurlo verso orizzonti di umanità decisamente irraggiungibili nella sua coscienza all’inizio del cammino.
La vocazione si verifica nel momento in cui conduce l’uomo o la donna alla loro più grande intimità, quando si prendono le decisioni della vita, ma allo stesso tempo porta alla più grande estroversione della loro storia, quando le decisioni si manifestano e si compiono.
Con la vocazione l’interiorità si apre all’Altro e a tutti gli altri in modo nuovo.
È una novità che potrebbe paragonarsi all’aurora nella vita umana.
Un chiarore, un bagliore, che poi diventa luce illuminante che consente di realizzare assolutamente tutti gli altri compiti della vita.
La vocazione, dunque, non è un fatto solo esterno all’uomo o solo divino.
Paolo VI aveva identificato bene la realtà della vocazione.
Nella Populorum Progressio egli scrisse: «Ogni vita è vocazione» (n.
2).
«La vocazione si identifica con la stessa realtà della persona: la persona semplicemente è una vocazione».
La vita di ogni uomo è una vocazione, è frutto di una chiamata.
E cogliere la vita come vocazione sarà il compito più grande dell’essere umano.
La vocazione quindi, manifesta il duplice carattere di trascendenza e di immanenza.
Dal punto di vista della trascendenza, la chiamata di Dio, la vocazione, viene dall’Alto e/o dall’esterno attraverso le persone e gli avvenimenti della propria vita, ma scaturisce contemporaneamente dal più profondo di noi stessi, e si manifesta come chiamata e sviluppo, come appello e risveglio.
Sentirsi «chiamati» significa provare un’attrattiva profonda verso particolari valori perché corrispondono ad aspirazioni profonde del proprio essere.
In fondo, la vocazione è stata seminata dentro di noi ed è promossa fuori di noi dal Signore che chiama.
La risposta è personale e irripetibile, sfumata in mille tonalità spirituali diverse, nonostante le numerose somiglianze.
Dal punto di vista dell’immanenza, la vocazione prende forma dentro la propria storia, nella scoperta delle ricchezze, dei limiti e delle potenzialità, nella lettura dei propri sentimenti, desideri, paure, sogni e delusioni, nelle aspettative e nostalgie che tutti ci portiamo dentro, nei distacchi che ci sono richiesti e negli incontri che ci viene donato di vivere.
Spesso, la vocazione, come una speciale forma d’innamoramento, sembra un fenomeno spontaneo, rapido, dovuto ad affinità esteriori, superficiali, secondarie… Mentre per arrivare alla verità completa dell’amore contenuta nell’interiorità, si parte dalle affinità esteriori.
L’amore vero poi poggia su affinità interiori profonde preannunciate e preparate da quelle più esterne.
2.
Lo «stato nascente» Il momento originante della vocazione è quasi magico.
Esso lascia nel cuore una traccia indelebile, un ricordo vivo, una luminosità travolgente, tutto cambia di senso, tutto si riorienta e tutto si ripropone alla luce di una voce soave e mite, ma forte e ferma che non tace, anzi, urla nell’intimo dell’essere umano.
La voce di colui che chiama è una voce d’amore, è un «chi-che-ama»; la vocazione allo stato nascente è la percezione di un amore grande che non lascia ombra di dubbio: Egli mi ha scelto, Egli mi chiama, Egli mi invia, Egli sarà con me! Quando ci sentiamo chiamati, sentiamo di entrare serenamente e saldamente in un oceano d’amore, o come dicono gli inglesi di «fall in love» (cadere nell’amore) o anche di essere rapiti, sedotti, di essere letteralmente «innamorati» in un atto d’amore infinito e puro.
Sentire quell’amore e sentirsi molto piccoli è la stessa cosa… Tutte le vocazioni, sia quella laicale matrimoniale, sia quella sacerdotale ministeriale, sia quella consacrata, hanno alla base una forte carica emotiva e spirituale.
La fenomenologia di questo momento iniziale cambia secondo le varie età psicologiche e cronologiche.
Comunque, quando la vocazione visita un cuore giovanile capace di dire di sì con tutto se stesso, lo stato nascente diventa travolgente e simile al sorgere dell’amore.
Infatti, ognuno di noi è sessuato (da «sexus», che in latino significa tagliato in due, sdoppiato) cioè bisognoso di completamento.
Ognuno di noi scopre gradualmente il senso della propria incompletezza e asimmetria.
Ciò che si manifesta a livello sessuale, si estende anche a livello dell’interiorità dell’amore.
La vocazione all’amore umano o all’amore di Dio costituisce l’irruzione del ricongiungimento dell’unità nella nostra radicale incompiutezza.
La vocazione fa sorgere l’amore, sia per unirsi a un altro essere umano, sia per unirsi all’amore infinito di Dio, e con ciò riporta nel proprio cuore la simmetria interna mancante nella natura umana.
La vocazione nel suo stato nascente, l’innamoramento vocazionale, quindi, è rottura di un equilibrio e di un modo di essere e suppone un esodo da sé verso l’A-altro (con maiuscole e minuscole), verso la comunione.
È un momento di uscita da sé e di entrata nell’A-altro, di apparente perdita di noi stessi e di acquisizione della ricchezza e bellezza dell’A-altro.
L’innamoramento fa uscire l’io dal guscio, lo decentra, aprendolo alla relazione interpersonale, lo libera dalla propria autosufficienza, lo costituisce come «essere in rapporto» con il «T-tu» (con maiuscole e minuscole) che lo trascende e lo attira nel suo mistero.
La vocazione, il momento dell’innamoramento, ci impone di migrare, di «lasciare la propria casa», le proprie sicurezze e le ceneri della solitudine e dell’egoismo.
Nella solitudine l’uomo avverte la sua insufficienza per essere felice «da solo», e percepisce che non saranno tanto le cose o gli avvenimenti a dare un volto nuovo alla sua vita, bensì l’incontro con una persona, con l’«A-altro» che è la fonte della propria gioia.
La vocazione è una chiamata che fa sorgere la vita in una forma mai provata prima.
Con la vocazione la tua vita è in mano a qualcun A-altro a cui senti di appartenere in modo preferenziale ed emozionante.
Cadono le barriere dell’estraneità di Dio o della persona amata.
Essi diventano familiari, vicini «di casa»; è un’esperienza di improvvisa intimità col M-mistero (con maiuscole e minuscole), S-suo e mio.
L’inizio della vocazione si concentra in un momento particolare, in un’ora («le quattro del pomeriggio», Gv 1,39), in un luogo, in una circostanza, in un ambiente, con elementi che agiscono sul conscio, ma anche sull’inconscio, ma poi si identifica con tutta la vita.
Lo stato nascente della vocazione è un momento in cui la ragione lascia partire il cuore… un momento in cui il cuore ha delle ragioni che la ragione non comprende (Pascal), e l’A-amore diventa ideale, diventa polo e calamita che attira, che trasforma e illumina tutta la realtà.
Alcuni dicono che il primo innamoramento non lascia vedere la verità – l’amore è cieco! –.
È vero che il primo innamoramento non è ancora la verità completa.
Essa è compito dello Spirito Santo.
Infatti l’innamoramento, soprattutto quello provocato dalla vocazione, ha qualcosa di religioso, di sacro.
Non per niente l’innamoramento era rappresentato da cupidi che lanciavano delle frecce al cuore degli uomini o delle donne.
L’amore è stato spesso collegato all’intervento divino nelle diverse culture (Cupido: latini; Eros: greci; Xochipilli: aztechi; Maris: etruschi).
La conclusione della fede cristiana, che ha sperimentato l’amore di Cristo, è che «l’amore viene da Dio» perché «Diò è amore» (1Gv 4,7-8).
Nell’innamoramento vero, come nella vocazione, vi è un processo di destrutturazione-ristrutturazione (lo «stato nascente») per il quale la condizione precedente perde senso e si ricostruisce nella prospettiva dell’A-amato.
Si tratta di un processo simile alla conversione religiosa, di un cambiamento grande, forte, dinamico, che spinge a modificarsi, a formarsi, a farsi degni dell’amore provato e a dare maggiore verità all’amore dichiarato.
La scoperta della vocazione provoca una forte discontinuità con la vita passata e diventa il motore della conversione, del proprio migliorare per Lui e per la missione.
La vocazione – come l’innamoramento – ci rende migliori, più buoni, più bravi, più belli.
Si tratta di un passaggio, di un cambiamento di stato.
Con la vocazione ci rendiamo conto che la nostra vita precedente era sbagliata e incompleta, che il mondo è differente da come lo vedevamo e che è necessario cambiarlo con lo sguardo e la Volontà di Dio.
Questo si percepisce nelle storie vocazionali dei profeti, dei discepoli biblici, dei santi… Nel momento della loro vocazione essi si sono resi conto che dovevano cambiare perché ciò che facevano e ricercavano nella vita era privo di senso, che il mondo doveva essere mutato e che il Signore lo voleva.
Lo stato nascente della vocazione conduce la persona ad abbandonare ciò che è noto e sicuro e a gettarsi in ciò che è ignoto, ma che la riempie di tantissimo entusiasmo e novità al punto da darle la certezza degli innamorati: «è roba da pazzi, ma io lo voglio!» La vocazione non è un ragionamento, lo include; è un fatto emotivo e intuitivo, ma non per questo folle o assurdo.
La vocazione ha un po’ il sapore della Pasqua, è un’esperienza di morte e di rinascita che genera un nuovo tipo di azione sociale, una nuova solidarietà, perciò normalmente la vocazione spinge la persona verso il prossimo, verso il bisognoso, verso colui che non ha avuto la tua fortuna, verso colui che non conosce Colui che tu conosci… I chiamati nello stato nascente cambiano, si modificano, migliorano; peccato che non sempre l’innamoramento e/o il primo colpo vocazionale perdurino con questa forma trasformante e rimanga la tendenza a non crescere, a rinunciare alla perfezione di sé, a sedersi nel cammino.
Se non si cresce nell’amore, il sorgere di altri amori o il divorzio sono una conseguenza triste, ma più che logica.
Sarà la coscienza rinnovata giorno dopo giorno, quella che renderà dinamico e crescente l’amore.
La cultura «moderna», edonistica e soggettivistica, che pretende di ridurre l’uomo a un fascio di bisogni da soddisfare, sembra aver abolito, di fatto, l’amore e la vocazione come cammino di crescita e di responsabilità.
Si pensa che la vocazione dell’uomo sia quella di star bene, ma la vocazione non ha come fine principale quello di «stare bene», poiché questo snatura la gradualità di un necessario processo formativo verso l’amore responsabile.
La vocazione ha come fine il bene dell’altro che diventa anche il mio bene, in forma superabbondante… è il 100 x 1 per cui poi «si trova più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35).
Per la consultazione dell’intero contributo La vocazione nel suo «stato nascente»Mario Oscar Llanos Da Orientamenti pedagogici n.ro 1 del 2009.
La vocazione è l’esperienza più intima e sconvolgente del vissuto di qualsiasi uomo o donna di questo mondo.
Le età e le circostanze in cui la si sente variano da persona a persona, ma viene sperimentata come un «dono», come una «luce», come una «voce interiore», come un «brivido» che trasforma lo spirito, l’anima e il corpo.
La vocazione viene generalmente accompagnata dalla sensazione dello scarto tra ciò che ci viene proposto e ciò che noi siamo.
Si tratta di un dono asimmetrico nei confronti della nostra capacità di risposta, ma simmetrico nella sua capacità di elevare il nostro cuore fino a renderlo capace di amare l’A-altro (con maiuscole e minuscole) in un modo assolutamente nuovo.
Alla scoperta devono seguire poi varie azioni affinché il dono percepito non cada nel nulla.
La Risurrezione
La domenica di Pasqua, nel messaggio al mondo dalla loggia centrale della basilica vaticana, e poi il mercoledì successivo, nell’udienza generale in piazza San Pietro, Benedetto XVI ha messo al centro della sua predicazione l’evento della risurrezione di Gesù.
L’ha fatto in coerenza con il calendario liturgico.
Ma anche con quello che è il suo obiettivo dichiarato, da papa: ravvivare la fede là dove è in pericolo di spegnersi, aprire agli uomini l’accesso a Dio: “non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine, in Gesù Cristo crocifisso e risorto”.
I due discorsi papali di Pasqua e del mercoledì “in albis” formano un dittico profondamente unitario, che esprime più che mai il senso di questo pontificato.
Si sa che papa Joseph Ratzinger sta scrivendo il secondo volume del suo libro “Gesù di Nazaret”, dedicato principalmente ai racconti evangelici della passione e della risurrezione di Gesù.
Pare che sia piuttosto avanti nella stesura.
In ogni caso, chi ne volesse un’anticipazione, la trova proprio nei due discorsi citati, riportati integralmente più sotto.
Benedetto XVI ha insistito sul fatto che la risurrezione di Gesù “non è una teoria, ma una realtà storica, non è un mito né un sogno, non è una visione né un’utopia, non è una favola, ma un evento unico ed irripetibile”.
E ancora: “Lo affermiamo con forza perché, anche in questi nostri tempi, non manca chi cerca di negarne la storicità riducendo il racconto evangelico a un mito, a una visione degli Apostoli, riprendendo e presentando vecchie e già consumate teorie come nuove e scientifiche”.
Già nel primo volume di “Gesù di Nazaret” papa Ratzinger aveva mostrato che questo era l’intento del suo libro: dire la verità intera su Gesù vero Dio e vero uomo.
Senza questa verità intera di Gesù crocifisso e risorto – ha insistito il papa nel messaggio di Pasqua – non c’è luce che illumini “le zone buie del mondo in cui viviamo” e “non c’è scampo per l’uomo”.
Nella catechesi del mercoledì “in albis” Benedetto XVI ha fatto un passo ulteriore.
Ha illustrato il senso della risurrezione di Gesù sulla traccia delle parole del “Credo”, la sintesi della fede cristiana che i fedeli di tutto il mondo recitano in ogni messa.
L’ha fatto risalendo a ritroso, a quel passaggio della prima lettera di Paolo ai Corinzi che è all’origine degli articoli centrali del “Credo”.
In particolare, il papa ha voluto spiegare il senso della formula che sia in san Paolo sia nel “Credo” accompagna l’annuncio della risurrezione di Gesù: “secondo le Scritture”.
Tale formula, ha detto, mostra che l’evento della morte e risurrezione del Figlio di Dio “porta in sé un logos, una logica”, l’unica capace di spiegare il significato dell’intera storia dell’uomo e del mondo.
Ma non una parola di più, qui.
Non c’è che da leggere per intero questi due straordinari testi di papa Benedetto: 2. “È risorto il terzo giorno secondo le Scritture” di Benedetto XVI Cari fratelli e sorelle, la consueta udienza generale del mercoledì è oggi pervasa di gaudio spirituale, quel gaudio che nessuna sofferenza e pena possono cancellare, perché è gioia che scaturisce dalla certezza che Cristo, con la sua morte e risurrezione, ha definitivamente trionfato sul male e sulla morte.
“Cristo è risorto! Alleluia!”, canta la Chiesa in festa.
E questo clima festoso, questi sentimenti tipici della Pasqua, si prolungano non soltanto durante questa settimana – l’ottava di Pasqua – ma si estendono nei cinquanta giorni che vanno fino alla Pentecoste.
Anzi, possiamo dire: il mistero della Pasqua abbraccia l’intero arco della nostra esistenza.
In questo tempo liturgico sono davvero tanti i riferimenti biblici e gli stimoli alla meditazione che ci vengono offerti per approfondire il significato e il valore della Pasqua.
La “via crucis”, che nel triduo santo abbiamo ripercorso con Gesù sino al Calvario rivivendone la dolorosa passione, nella solenne veglia pasquale è diventata la consolante “via lucis”.
Visto dalla risurrezione, possiamo dire che tutta questa via della sofferenza è cammino di luce e di rinascita spirituale, di pace interiore e di salda speranza.
Dopo il pianto, dopo lo smarrimento del Venerdì Santo, seguito dal silenzio carico di attesa del Sabato Santo, all’alba del “primo giorno dopo il sabato” è risuonato con vigore l’annuncio della vita che ha sconfitto la morte: “Dux vitae mortuus regnat vivus”, il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa.
La novità sconvolgente della risurrezione è così importante che la Chiesa non cessa di proclamarla, prolungandone il ricordo specialmente ogni domenica: ogni domenica, infatti, è “giorno del Signore” e Pasqua settimanale del popolo di Dio.
I nostri fratelli orientali, quasi a evidenziare questo mistero di salvezza che investe la nostra vita quotidiana, chiamano in lingua russa la domenica “voskrescénje”, giorno della risurrezione.
È pertanto fondamentale per la nostra fede e per la nostra testimonianza cristiana proclamare la risurrezione di Gesù di Nazaret come evento reale, storico, attestato da molti e autorevoli testimoni.
Lo affermiamo con forza perché, anche in questi nostri tempi, non manca chi cerca di negarne la storicità riducendo il racconto evangelico a un mito, ad una “visione” degli Apostoli, riprendendo e presentando vecchie e già consumate teorie come nuove e scientifiche.
Certamente la risurrezione non è stata per Gesù un semplice ritorno alla vita precedente.
In questo caso, infatti, sarebbe stata una cosa del passato: duemila anni fa uno è risorto, è ritornato alla sua vita precedente, come per esempio Lazzaro.
La risurrezione si pone in un’altra dimensione: é il passaggio ad una dimensione di vita profondamente nuova, che interessa anche noi, che coinvolge tutta la famiglia umana, la storia e l’universo.
Questo evento che ha introdotto una nuova dimensione di vita, un’apertura di questo nostro mondo verso la vita eterna, ha cambiato l’esistenza dei testimoni oculari come dimostrano i racconti evangelici e gli altri scritti neotestamentari; è un annuncio che intere generazioni di uomini e donne lungo i secoli hanno accolto con fede e hanno testimoniato non raramente a prezzo del loro sangue, sapendo che proprio così entravano in questa nuova dimensione della vita.
Anche quest’anno, a Pasqua risuona immutata e sempre nuova, in ogni angolo della terra, questa buona notizia: Gesù morto in croce è risuscitato, vive glorioso perché ha sconfitto il potere della morte, ha portato l’essere umano in una nuova comunione di vita con Dio e in Dio.
Questa è la vittoria della Pasqua, la nostra salvezza! E quindi possiamo con sant’Agostino cantare: “La risurrezione di Cristo è la nostra speranza”, perché ci introduce in un nuovo futuro.
È vero: la risurrezione di Gesù fonda la nostra salda speranza e illumina l’intero nostro pellegrinaggio terreno, compreso l’enigma umano del dolore e della morte.
La fede in Cristo crocifisso e risorto è il cuore dell’intero messaggio evangelico, il nucleo centrale del nostro “Credo”.
Di tale “Credo” essenziale possiamo trovare una espressione autorevole in un noto passo paolino, contenuto nella prima lettera ai Corinzi (15, 3-8) dove, l’Apostolo, per rispondere ad alcuni della comunità di Corinto che paradossalmente proclamavano la risurrezione di Gesù ma negavano quella dei morti – la nostra speranza –, trasmette fedelmente quello che egli, Paolo, aveva ricevuto dalla prima comunità apostolica circa la morte e risurrezione del Signore.
Egli inizia con una affermazione quasi perentoria: “Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato.
A meno che non abbiate creduto invano!” (15, 1-2).
Aggiunge subito di aver loro trasmesso quello che lui stesso aveva ricevuto.
Segue poi la pericope che abbiamo ascoltato all’inizio di questo nostro incontro.
San Paolo presenta innanzitutto la morte di Gesù e pone, in un testo così scarno, due aggiunte alla notizia che “Cristo morì”.
La prima aggiunta è: morì “per i nostri peccati”; la seconda è: “secondo le Scritture” (15, 3).
Questa espressione “secondo le Scritture” pone l’evento della morte del Signore in relazione con la storia dell’alleanza veterotestamentaria di Dio con il suo popolo, e ci fa comprendere che la morte del Figlio di Dio appartiene al tessuto della storia della salvezza, ed anzi ci fa capire che tale storia riceve da essa la sua logica ed il suo vero significato.
Fino a quel momento la morte di Cristo era rimasta quasi un enigma, il cui esito era ancora insicuro.
Nel mistero pasquale si compiono le parole della Scrittura, cioè, questa morte realizzata “secondo le Scritture” è un avvenimento che porta in sé un “logos”, una logica: la morte di Cristo testimonia che la Parola di Dio si è fatta sino in fondo “carne”, “storia” umana.
Come e perché ciò sia avvenuto lo si comprende dall’altra aggiunta che san Paolo fa: Cristo morì “per i nostri peccati”.
Con queste parole il testo paolino pare riprendere la profezia di Isaia contenuta nel quarto canto del Servo di Dio (Isaia 53, 12).
Il Servo di Dio – così dice il canto – “ha spogliato se stesso fino alla morte”, ha portato “il peccato di molti”, ed intercedendo per i “colpevoli” ha potuto recare il dono della riconciliazione degli uomini tra loro e degli uomini con Dio: la sua è dunque una morte che mette fine alla morte; la via della Croce porta alla Risurrezione.
Nei versetti che seguono, l’Apostolo si sofferma poi sulla risurrezione del Signore.
Egli dice che Cristo “è risorto il terzo giorno secondo le Scritture”.
Di nuovo: “secondo le Scritture”! Non pochi esegeti intravedono nell’espressione: “è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” un significativo richiamo di quanto leggiamo nel salmo 16, dove il salmista proclama: “Non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la corruzione” (v.10).
È questo uno dei testi dell’Antico Testamento, citati spesso nel cristianesimo primitivo, per provare il carattere messianico di Gesù.
Poiché secondo l’interpretazione giudaica la corruzione cominciava dopo il terzo giorno, la parola della Scrittura si adempie in Gesù che risorge il terzo giorno, prima cioè che cominci la corruzione.
San Paolo, tramandando fedelmente l’insegnamento degli Apostoli, sottolinea che la vittoria di Cristo sulla morte avviene attraverso la potenza creatrice della Parola di Dio.
Questa potenza divina reca speranza e gioia: è questo in definitiva il contenuto liberatore della rivelazione pasquale.
Nella Pasqua, Dio rivela se stesso e la potenza dell’amore trinitario che annienta le forze distruttrici del male e della morte.
Cari fratelli e sorelle, lasciamoci illuminare dallo splendore del Signore risorto.
Accogliamolo con fede e aderiamo generosamente al suo Vangelo, come fecero i testimoni privilegiati della sua risurrezione; come fece, diversi anni dopo, san Paolo che incontrò il divino Maestro in modo straordinario sulla via di Damasco.
Non possiamo tenere solo per noi l’annuncio di questa verità che cambia la vita di tutti.
E con umile fiducia preghiamo: “Gesù, che risorgendo dai morti hai anticipato la nostra risurrezione, noi crediamo in Te!”.
Mi piace concludere con una esclamazione che amava ripetere Silvano del Monte Athos: “Gioisci, anima mia.
È sempre Pasqua, perché Cristo risorto è la nostra risurrezione!”.
Ci aiuti la Vergine Maria a coltivare in noi, e attorno a noi, questo clima di gioia pasquale, per essere testimoni dell’Amore divino in ogni situazione della nostra esistenza.
Ancora una volta, buona Pasqua a voi tutti! __________ Tutte le omelie pronunciate da Benedetto XVI nella settimana santa di quest’anno, nel sito del Vaticano: > Omelie 2009 1. “La risurrezione di Cristo è la nostra speranza” di Benedetto XVI Cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero! Formulo di cuore a voi tutti l’augurio pasquale con le parole di sant’Agostino: “Resurrectio Domini, spes nostra”, la risurrezione del Signore è la nostra speranza (Agostino, Sermo 261, 1).
Con questa affermazione, il grande vescovo spiegava ai suoi fedeli che Gesù è risorto perché noi, pur destinati alla morte, non disperassimo, pensando che con la morte la vita sia totalmente finita; Cristo è risorto per darci la speranza.
In effetti, una delle domande che più angustiano l’esistenza dell’uomo è proprio questa: che cosa c’è dopo la morte? A quest’enigma la solennità odierna ci permette di rispondere che la morte non ha l’ultima parola, perché a trionfare alla fine è la Vita.
E questa nostra certezza non si fonda su semplici ragionamenti umani, bensì su uno storico dato di fede: Gesù Cristo, crocifisso e sepolto, è risorto con il suo corpo glorioso.
Gesù è risorto perché anche noi, credendo in Lui, possiamo avere la vita eterna.
Questo annuncio sta nel cuore del messaggio evangelico.
Lo dichiara con vigore san Paolo: “Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede”.
E aggiunge: “Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini” (1 Corinzi 15,14.19).
Dall’alba di Pasqua una nuova primavera di speranza investe il mondo; da quel giorno la nostra risurrezione è già cominciata, perché la Pasqua non segna semplicemente un momento della storia, ma l’avvio di una nuova condizione: Gesù è risorto non perché la sua memoria resti viva nel cuore dei suoi discepoli, bensì perché Egli stesso viva in noi e in Lui possiamo già gustare la gioia della vita eterna.
La risurrezione pertanto non è una teoria, ma una realtà storica rivelata dall’Uomo Gesù Cristo mediante la sua “pasqua”, il suo “passaggio”, che ha aperto una “nuova via” tra la terra e il Cielo (cfr Ebrei 10,20).
Non è un mito né un sogno, non è una visione né un’utopia, non è una favola, ma un evento unico ed irripetibile: Gesù di Nazaret, figlio di Maria, che al tramonto del venerdì è stato deposto dalla croce e sepolto, ha lasciato vittorioso la tomba.
Infatti all’alba del primo giorno dopo il sabato, Pietro e Giovanni hanno trovato la tomba vuota.
Maddalena e le altre donne hanno incontrato Gesù risorto; lo hanno riconosciuto anche i due discepoli di Emmaus allo spezzare il pane; il Risorto è apparso agli Apostoli la sera nel cenacolo e quindi a molti altri discepoli in Galilea.
L’annuncio della risurrezione del Signore illumina le zone buie del mondo in cui viviamo.
Mi riferisco particolarmente al materialismo e al nichilismo, a quella visione del mondo che non sa trascendere ciò che è sperimentalmente constatabile, e ripiega sconsolata in un sentimento del nulla che sarebbe il definitivo approdo dell’esistenza umana.
È un fatto che se Cristo non fosse risorto, il “vuoto” sarebbe destinato ad avere il sopravvento.
Se togliamo Cristo e la sua risurrezione, non c’è scampo per l’uomo e ogni sua speranza rimane un’illusione.
Ma proprio oggi prorompe con vigore l’annuncio della risurrezione del Signore, ed è risposta alla ricorrente domanda degli scettici, riportata anche dal libro di Qoelet: “C’è forse qualcosa di cui si possa dire: Ecco, questa è una novità?” (1,10).
Sì, rispondiamo: nel mattino di Pasqua tutto si è rinnovato.
“Mors et vita duello conflixere mirando: dux vitae mortuus regnat vivus”, morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello; il Signore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa.
Questa è la novità! Una novità che cambia l’esistenza di chi l’accoglie, come avvenne nei santi.
Così, ad esempio, è accaduto per san Paolo.
Più volte, nel contesto dell’Anno Paolino, abbiamo avuto modo di meditare sull’esperienza del grande Apostolo.
Saulo di Tarso, l’accanito persecutore dei cristiani, sulla via di Damasco incontrò Cristo risorto e fu da Lui “conquistato”.
Il resto ci è noto.
Avvenne in Paolo quel che più tardi egli scriverà ai cristiani di Corinto: “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove” (2 Corinzi 5, 17).
Guardiamo a questo grande evangelizzatore, che con l’entusiasmo audace della sua azione apostolica, ha recato il Vangelo a tante popolazioni del mondo di allora.
Il suo insegnamento e il suo esempio ci stimolino a ricercare il Signore Gesù.
Ci incoraggino a fidarci di Lui, perché ormai il senso del nulla, che tende ad intossicare l’umanità, è stato sopraffatto dalla luce e dalla speranza che promanano dalla risurrezione.
Ormai sono vere e reali le parole del Salmo: “Nemmeno le tenebre per te sono tenebre e la notte è luminosa come il giorno” (139[138],12).
Non è più il nulla che avvolge ogni cosa, ma la presenza amorosa di Dio.
Addirittura il regno stesso della morte è stato liberato, perché anche negli “inferi” è arrivato il Verbo della vita, sospinto dal soffio dello Spirito (v.
8).
Se è vero che la morte non ha più potere sull’uomo e sul mondo, tuttavia rimangono ancora tanti, troppi segni del suo vecchio dominio.
Se mediante la Pasqua, Cristo ha estirpato la radice del male, ha però bisogno di uomini e donne che in ogni tempo e luogo lo aiutino ad affermare la sua vittoria con le sue stesse armi: le armi della giustizia e della verità, della misericordia, del perdono e dell’amore.
È questo il messaggio che, in occasione del recente viaggio apostolico in Camerun e in Angola, ho inteso portare a tutto il Continente africano, che mi ha accolto con grande entusiasmo e disponibilità all’ascolto.
L’Africa, infatti, soffre in modo smisurato per i crudeli e interminabili conflitti – spesso dimenticati – che lacerano e insanguinano diverse sue nazioni e per il numero crescente di suoi figli e figlie che finiscono preda della fame, della povertà, della malattia.
Il medesimo messaggio ripeterò con forza in Terrasanta, ove avrò la gioia di recarmi fra qualche settimana.
La difficile ma indispensabile riconciliazione, che è premessa per un futuro di sicurezza comune e di pacifica convivenza, non potrà diventare realtà che grazie agli sforzi rinnovati, perseveranti e sinceri, per la composizione del conflitto israelo-palestinese.
Dalla Terra Santa, poi, lo sguardo si allargherà sui paesi limitrofi, sul Medio Oriente, sul mondo intero.
In un tempo di globale scarsità di cibo, di scompiglio finanziario, di povertà antiche e nuove, di cambiamenti climatici preoccupanti, di violenze e miseria che costringono molti a lasciare la propria terra in cerca di una meno incerta sopravvivenza, di terrorismo sempre minaccioso, di paure crescenti di fronte all’incertezza del domani, è urgente riscoprire prospettive capaci di ridare speranza.
Nessuno si tiri indietro in questa pacifica battaglia iniziata dalla Pasqua di Cristo, il quale – lo ripeto – cerca uomini e donne che lo aiutino ad affermare la sua vittoria con le sue stesse armi, quelle della giustizia e della verità, della misericordia, del perdono e dell’amore.
“Resurrectio Domini, spes nostra!”, la risurrezione di Cristo è la nostra speranza! Questo la Chiesa proclama oggi con gioia: annuncia la speranza, che Dio ha reso salda e invincibile risuscitando Gesù Cristo dai morti; comunica la speranza, che essa porta nel cuore e vuole condividere con tutti, in ogni luogo, specialmente là dove i cristiani soffrono persecuzione a causa della loro fede e del loro impegno per la giustizia e la pace; invoca la speranza capace di suscitare il coraggio del bene anche e soprattutto quando costa.
Oggi la Chiesa canta “il giorno che ha fatto il Signore” ed invita alla gioia.
Oggi la Chiesa prega, invoca Maria, Stella della Speranza, perché guidi l’umanità verso il porto sicuro della salvezza che è il cuore di Cristo, la Vittima pasquale, l’Agnello che “ha redento il mondo”, l’Innocente che “ha riconciliato noi peccatori col Padre”.
A Lui, Re vittorioso, a Lui crocifisso e risorto, noi gridiamo con gioia il nostro Alleluia!