La storia censurata della Russia del Novecento

Il libro Lo zar e il patriarca.
I rapporti tra trono e altare in Russia dalle origini ai giorni nostri, di Giovanni Codevilla (Milano, La Casa di Matriona, 2008, pagine 520, euro 25) è stato presentato al Centro Russia ecumenica di Roma.
Riportiamo ampi stralci dell’intervento di uno dei relatori.
Lo studio della storia religiosa ha conosciuto una marginalizzazione nel quadro degli studi sulla Russia novecentesca.
Durante il periodo sovietico, il dogma di un Paese che aveva fatto sua l’opzione dell’ateismo, insita nella cifra ideologica dello Stato bolscevico, si è come riflesso nella storiografia.
La religione, pere itok proslogo (“sopravvivenza residuale del passato”) come si ripeteva frequentemente nel discorso sovietico, non appariva come uno snodo significativo per la comprensione di quelle vicende storiche che sembravano centrate su dimensioni di altra natura.
In una qualche misura la vita religiosa ha continuato anche dopo la fine dell’Unione Sovietica a restare ai margini della riflessione storiografica sulla Russia del Novecento.
Le vicende religiose nella storia sovietica potevano essere al massimo oggetto di indagini per studiosi specializzati.
A uno sguardo più avvertito alle vicende della Russia novecentesca non dovrebbe però sfuggire come sia eccessivamente sbrigativo il giudizio bolscevico, tanto più in una prospettiva storiografica.
Infatti, la società, la cultura, la stessa politica russe nel lungo periodo appaiono profondamente permeate di contenuti e di senso religiosi, come il nostro libro mette ben in luce.
Basta solo rileggere le pagine dedicate al mondo delle campagne e alla sua distruzione con la collettivizzazione.
Gli esiti del censimento del 1937, con la sua storia misteriosa e tragica, quando più della metà della popolazione sovietica si dichiarò credente, in modo lampante mostrarono come la fede religiosa non fosse stata estirpata dalla società.
Le dinamiche sociali della realtà sovietica possono essere comprese solo in modo parziale se si espunge dal campo di ricerca la dimensione religiosa.
Analogamente occorre considerare che per il potere comunista, nonostante le dichiarazioni sul carattere residuale della fede religiosa, tale questione non era affatto secondaria.
La realtà di un rapporto intimo fra Russia e ortodossia non ha cessato di esistere anche nel periodo sovietico, sebbene abbia operato negli strati profondi del fluire della storia.
L’identità russa ha nella tradizione ortodossa un elemento fondante.
“Non è possibile separare la storia della Chiesa russa dalla storia della Russia (…) Come l’ortodossia è uno dei fattori più importanti nella storia della Russia, così anche i destini della Russia determinano il destino dell’ortodossia russa” ha scritto un fine teologo e profondo conoscitore della cultura russa, Aleksandr Smeman.
Cristianesimo ortodosso e Russia costituiscono un binomio indivisibile.
Vasilij Rozanov, pensatore tormentato e contraddittorio, ma di acuta capacità di giudizio, ha scritto: “Colui che ama il popolo russo non può non amare la Chiesa.
E questo perché il popolo e la sua Chiesa sono uno solo.
E solo presso i russi questi due elementi ne formano uno solo”.
Eppure la vicenda novecentesca sembra contraddire questa affermazione.
È stata infatti la vicenda di una esplosione violenta di odio e di persecuzione proprio nei confronti della Chiesa e dei credenti.
Codevilla ne ripercorre le pagine, ne riporta i dati, secondo quelle che sono le acquisizioni più recenti e documentate della storiografia.
La vicenda della Chiesa russa nel Novecento si è caratterizzata per una particolare drammaticità.
Una grande Chiesa, quale era quella radicata nella Russia zarista, è stata investita da un’ondata persecutoria di intensità e di durata per molti versi inedita.
Le repressioni hanno provocato tra gli ortodossi russi, secondo stime attendibili, almeno un milione di vittime solo per motivi di fede.
Le persecuzioni furono sanguinose e distruttive, soprattutto negli anni Venti e Trenta.
La storia della Chiesa russa nel periodo sovietico è stata vicenda di persecuzione e martirio, di repressione e forme di resistenza, di oppressione e tecniche di sopravvivenza.
Lo scontro con il regime totalitario fu lacerante.
Il pericolo di una disgregazione della Chiesa a causa delle molteplici scissioni al suo interno non fu fittizio.
Si trattò di una minaccia reale con cui i vertici ecclesiastici furono costretti a misurarsi dagli anni della guerra civile.
La divisione, d’altronde, risvegliava nella coscienza della Chiesa il dolore per una ferita mai sanata della storia dell’ortodossia russa, quella del raskol, cioè dello scisma consumatosi alla metà del XVIi secolo con la nascita dei “vecchi credenti”.
L’unità della Chiesa era stata intaccata e con essa s’era incrinata l’unità della stessa Russia.
Quali le priorità per la Chiesa russa in una condizione di estrema precarietà come quella consentitale dal regime bolscevico? Le scelte compiute da coloro che avevano in mano il governo della Chiesa sono state controverse.
Hanno suscitato conflitti e aspri dibattiti tra i protagonisti, con riflessi inevitabili sulla storiografia.
Resistenza e compromesso, martirio e trattativa, intransigenza e flessibilità, denuncia e silenzio sono apparsi come alternative irriducibili.
Da un punto di vista storiografico si va delineando un quadro nel quale tutti questi diversi e a volte contrastanti atteggiamenti si collocano non solo e non sempre come alternative così stringenti, ma anche e sovente come aspetti diversi della vita complicata e drammatica di una Chiesa nelle strette di un regime totalitario.
Si trattava di opzioni che attraversavano la vita, la coscienza, le scelte di ogni singolo ecclesiastico e credente.
All’interno della Chiesa ortodossa russa molteplici erano i punti di osservazione, da cui si avevano visuali diverse della realtà ecclesiale.
Ne risultavano prospettive differenti, sulla base delle quali si stabilivano priorità e orientamenti.
Multiformi erano le sensibilità culturali e spirituali.
Diversificate erano le esigenze che attraversavano la vita ecclesiale.
Un conto era stabilire cosa volesse dire resistere al regime bolscevico per una comunità ecclesiale su scala locale, altro era determinarlo per chi aveva il compito di sovrintendere al governo di tutto il corpo ecclesiale.
I vertici della Chiesa dovettero necessariamente elaborare una visione di sintesi in condizioni di stringente difficoltà.
Si dovevano individuare, senza esitazioni paralizzanti, le priorità sulle basi delle quali compiere scelte di portata generale per tutta la Chiesa.
Ha scritto a questo proposito Nikolaj Berdjaev, a commento della dichiarazione del metropolita Sergij del 1927: “Il patriarca Tichon e il metropolita Sergij non sono singoli individui isolati, che possono pensare solo a loro stessi.
È sempre davanti a loro non il proprio destino personale, ma il destino della Chiesa e del popolo ecclesiale nella sua interezza.
Essi possono e debbono dimenticarsi di loro stessi, della propria purezza e bellezza, e dire solo ciò che è di salvezza per la Chiesa.
Ciò è un enorme sacrificio personale”.
Sono itinerari sofferti, contraddittori.
L’unità della Chiesa attorno a una direzione ecclesiastica canonicamente legittima è stata una preoccupazione preminente e una finalità costante nell’azione dei vertici ecclesiastici durante tutto il periodo sovietico.
Il conseguimento di un tale obiettivo è stato considerato come il pegno della salvezza della presenza visibile della Chiesa in Russia.
Da qui le varie scelte di compromesso con il potere sovietico.
Opzioni discutibili, per chi considerava prioritarie altre esigenze; opzioni contestabili, per i modi in cui erano attuate.
Tuttavia allo studioso di storia spetta collocare tali scelte nelle condizioni storiche in cui sono state prese, per comprenderne il profilo e la valenza.
È il travaglio di una grande Chiesa nella condizione, a volte insostenibile, sempre difficile, della società sovietica a emergere dallo studio della storia dell’ortodossia russa nel Novecento.
La Chiesa russa si è confrontata con un progetto che voleva soppiantarla e ha dovuto elaborare strategie di sopravvivenza e resistenza di non facile individuazione e attuazione.
In questa storia contraddittoria opera una forza profonda, che percorre le pagine, e le note, del nostro lavoro.
La rinascita liturgica costituisce un elemento fondamentale della vicenda della Chiesa russa nel Novecento, tanto da rappresentare una chiave di lettura di tutta la sua storia in questo secolo tormentato.
La liturgia è diventata il centro della vita della Chiesa in epoca sovietica, non solo per necessità, perché era l’unica attività permessa dallo Stato.
La vita liturgica è il cuore della Chiesa ortodossa, particolarmente di quella russa.
E la concentrazione sulla liturgia non è stata un rifugio, ma una strategia di resistenza alla persecuzione sovietica.
Un discepolo di padre Ioann di Kronstadt, che con la sua “teologia eucaristica” è all’origine di questo movimento di rinascita liturgica, il metropolita di Leningrado Serafim (Cicagov), alla fine degli anni Venti, rivolgendosi ai suoi preti aveva affermato: “I vescovi invitano i fedeli in modo del tutto particolare a venire alla liturgia, a comunicare ai santi doni, è quella l’arma più sicura ed efficace per far fronte al male spirituale e alla corsa all’ateismo della nostra patria.
Finché si celebrerà la divina liturgia, finché i credenti si accosteranno alla santa comunione, possiamo essere certi che la Chiesa ortodossa saprà resistere e trionfare, che il popolo russo non verrà inghiottito nel male del peccato, dell’incredulità, della malvagità, del materialismo, dell’orgoglio e dell’impurità, che essa rinascerà e la nostra patria sarà salva.
Clero e laici sono quindi chiamati d’urgenza a custodire la liturgia, a celebrarla incessantemente, ogni giorno, su tutti gli altari.
Dove c’è la liturgia, là c’è la Chiesa, c’è la Russia”.
(©L’Osservatore Romano – 3 giugno 2009)

La distinzione tra politica e religione garanzia di libertà

Pubblichiamo una nostra traduzione italiana del discorso rivolto dal Papa alle autorità politiche, civili e diplomatiche della Repubblica Ceca, incontrate nel pomeriggio di sabato 26 settembre, nel castello di Praga.
Eccellenze, Signore e Signori, vi sono grato per l’opportunità che mi viene data di incontrare, in questo straordinario contesto, le autorità politiche e civili della Repubblica Ceca ed i membri della comunità diplomatica.
Ringrazio vivamente il Signor Presidente Klaus per le gentili parole di saluto che ha pronunciato in vostro nome.
Esprimo inoltre il mio apprezzamento all’Orchestra Filarmonica Ceca per l’esecuzione musicale che ha aperto il nostro incontro, e che ha espresso in maniera eloquente sia le radici della cultura ceca che il rilevante contributo offerto da questa Nazione alla cultura europea.
La mia visita pastorale alla Repubblica Ceca coincide col ventesimo anniversario della caduta dei regimi totalitari in Europa Centrale ed Orientale, e della “Rivoluzione di Velluto” che ripristinò la democrazia in questa nazione.
L’euforia che ne seguì fu espressa in termini di libertà.
A due decenni di distanza dai profondi cambiamenti politici che trasformarono questo continente, il processo di risanamento e ricostruzione continua, ora all’interno del più ampio contesto dell’unificazione europea e di un mondo sempre più globalizzato.
Le aspirazioni dei cittadini e le aspettative riposte nei Governi reclamavano nuovi modelli nella vita pubblica e di solidarietà tra nazioni e popoli, senza i quali il futuro di giustizia, di pace e di prosperità, a lungo atteso, sarebbe rimasto senza risposta.
Tali desideri continuano ad evolversi.
Oggi, specialmente fra i giovani, emerge di nuovo la domanda sulla natura della libertà conquistata.
Per quale scopo si vive in libertà? Quali sono i suoi autentici tratti distintivi? Ogni generazione ha il compito di impegnarsi da capo nell’ardua ricerca di come ordinare rettamente le realtà umane, sforzandosi di comprendere il corretto uso della libertà (cfr.
Spe salvi, 25).
Il dovere di rafforzare le “strutture di libertà” è fondamentale, ma non è mai sufficiente: le aspirazioni umane si elevano al di là di se stessi, al di là di ciò che qualsiasi autorità politica od economica possa offrire, verso quella speranza luminosa (cfr.
ibid., 35), che trova origine al di là di noi stessi e tuttavia si manifesta al nostro interno come verità, bellezza e bontà.
La libertà cerca uno scopo e per questo richiede una convinzione.
La vera libertà presuppone la ricerca della verità – del vero bene – e pertanto trova il proprio compimento precisamente nel conoscere e fare ciò che è retto e giusto.
La verità, in altre parole, è la norma-guida per la libertà e la bontà ne è la perfezione.
Aristotele definì il bene come “ciò a cui tutte le cose tendono”, e giunse a suggerire che “benché sia degno il conseguire il fine anche soltanto per un uomo, tuttavia è più bello e più divino conseguirlo per una nazione o per una polis” (Etica Nicomachea, 1; cfr.
Caritas in veritate, 2).
In verità, l’alta responsabilità di tener desta la sensibilità per il vero ed il bene ricade su chiunque eserciti il ruolo di guida: in campo religioso, politico o culturale, ciascuno secondo il modo a lui proprio.
Insieme dobbiamo impegnarci nella lotta per la libertà e nella ricerca della verità: o le due cose vanno insieme, mano nella mano, oppure insieme periscono miseramente (cfr.
Fides et ratio, 90).
Per i Cristiani la verità ha un nome: Dio.
E il bene ha un volto: Gesù Cristo.
La fede cristiana, dal tempo dei Santi Cirillo e Metodio e dei primi missionari, ha avuto in realtà un ruolo decisivo nel plasmare l’eredità spirituale e culturale di questo Paese.
Deve essere lo stesso nel presente e per il futuro.
Il ricco patrimonio di valori spirituali e culturali, che si esprimono gli uni attraverso gli altri, non solo ha dato forma all’identità di questa nazione, ma l’ha anche dotata della prospettiva necessaria ad esercitare un ruolo di coesione al cuore dell’Europa.
Per secoli questa terra è stata un punto d’incontro tra popoli, tradizioni e culture diverse.
Come ben sappiamo, essa ha conosciuto capitoli dolorosi e porta le cicatrici dei tragici avvenimenti causati dall’incomprensione, dalla guerra e dalla persecuzione.
E tuttavia è anche vero che le sue radici cristiane hanno favorito la crescita di un considerevole spirito di perdono, di riconciliazione e di collaborazione, che ha reso la gente di queste terre capace di ritrovare la libertà e di inaugurare una nuova era, una nuova sintesi, una rinnovata speranza.
Non è proprio di questo spirito che ha bisogno l’Europa di oggi? L’Europa è più che un continente.
Essa è una casa! E la libertà trova il suo significato più profondo proprio nell’essere una patria spirituale.
Nel pieno rispetto della distinzione tra la sfera politica e quella religiosa – distinzione che garantisce la libertà dei cittadini di esprimere il proprio credo religioso e di vivere in sintonia con esso – desidero rimarcare l’insostituibile ruolo del cristianesimo per la formazione della coscienza di ogni generazione e per la promozione di un consenso etico di fondo, al servizio di ogni persona che chiama questo continente “casa”! In questo spirito, rendo atto alla voce di quanti oggi, in questo Paese e in Europa, cercano di applicare la propria fede, in modo rispettoso ma determinato, nell’arena pubblica, nell’aspettativa che le norme sociali e le linee politiche siano ispirate al desiderio di vivere secondo la verità che rende libero ogni uomo e donna (cfr.
Caritas in veritate, 9).
La fedeltà ai popoli che voi servite e rappresentate richiede la fedeltà alla verità che, sola, è la garanzia della libertà e dello sviluppo umano integrale (cfr.
ibid., 9).
In effetti, il coraggio di presentare chiaramente la verità è un servizio a tutti i membri della società: esso infatti getta luce sul cammino del progresso umano, ne indica i fondamenti etici e morali e garantisce che le direttive politiche si ispirino al tesoro della saggezza umana.
L’attenzione alla verità universale non dovrebbe mai venire eclissata da interessi particolaristici, per quanto importanti essi possano essere, perché ciò condurrebbe unicamente a nuovi casi di frammentazione sociale o di discriminazione, che proprio quei gruppi di interesse o di pressione dichiarano di voler superare.
In effetti, la ricerca della verità, lungi dal minacciare la tolleranza delle differenze o il pluralismo culturale, rende il consenso possibile e permette al dibattito pubblico di mantenersi logico, onesto e responsabile, assicurando quell’unità che le vaghe nozioni di integrazione semplicemente non sono in grado di realizzare.
Sono fiducioso che, alla luce della tradizione ecclesiale circa la dimensione materiale, intellettuale e spirituale delle opere di carità, i membri della comunità cattolica, assieme a quelli di altre Chiese, comunità ecclesiali e religioni, continueranno a perseguire, in questa nazione e altrove, obiettivi di sviluppo che possiedano un valore più umano ed umanizzante (cfr.
ibid., 9).
Cari amici, la nostra presenza in questa magnifica capitale, spesso denominata “il cuore d’Europa”, ci stimola a chiederci in cosa consista questo “cuore”.
È vero che non c’è una risposta facile a tale domanda, tuttavia un indizio è costituito sicuramente dai gioielli architettonici che adornano questa città.
La stupefacente bellezza delle sue chiese, del castello, delle piazze e dei ponti non possono che orientare a Dio le nostre menti.
La loro bellezza esprime fede; sono epifanie di Dio che giustamente ci permettono di considerare le grandi meraviglie alle quali noi creature possiamo aspirare quando diamo espressione alla dimensione estetica e conoscitiva del nostro essere più profondo.
Come sarebbe tragico se si ammirassero tali esempi di bellezza, ignorando però il mistero trascendente che essi indicano.
L’incontro creativo della tradizione classica e del Vangelo ha dato vita ad una visione dell’uomo e della società sensibile alla presenza di Dio fra noi.
Tale visione, nel plasmare il patrimonio culturale di questo continente, ha chiaramente posto in luce che la ragione non finisce con ciò che l’occhio vede, anzi essa è attratta da ciò che sta al di là, ciò a cui noi profondamente aneliamo: lo Spirito, potremmo dire, della Creazione.
Nel contesto dell’attuale crocevia di civiltà, così spesso marcato da un’allarmante scissione dell’unità di bontà, verità e bellezza, e dalla conseguente difficoltà di trovare un consenso sui valori comuni, ogni sforzo per l’umano progresso deve trarre ispirazione da quella vivente eredità.
L’Europa, fedele alle sue radici cristiane, ha una particolare vocazione a sostenere questa visione trascendente nelle sue iniziative al servizio del bene comune di individui, comunità e nazioni.
Di particolare importanza è il compito urgente di incoraggiare i giovani europei mediante una formazione che rispetti ed alimenti la capacità, donata loro da Dio, di trascendere proprio quei limiti che talvolta si presume che debbano intrappolarli.
Negli sport, nelle arti creative e nella ricerca accademica, i giovani trovano volentieri l’opportunità di eccellere.
Non è ugualmente vero che, se confrontati con alti ideali, essi aspireranno anche alla virtù morale e ad una vita basata sull’amore e sulla bontà? Incoraggio vivamente quei genitori e responsabili delle comunità che si attendono dalle autorità la promozione di valori capaci di integrare la dimensione intellettuale, umana e spirituale in una solida formazione, degna delle aspirazioni dei nostri giovani.
“Veritas vincit”.
Questo è il motto della bandiera del Presidente della Repubblica Ceca: alla fine, davvero la verità vince, non con la forza, ma grazie alla persuasione, alla testimonianza eroica di uomini e donne di solidi principi, al dialogo sincero che sa guardare, al di là dell’interesse personale, alle necessità del bene comune.
La sete di verità, bontà, bellezza, impressa in tutti gli uomini e donne dal Creatore, è intesa a condurre insieme le persone nella ricerca della giustizia, della libertà e della pace.
La storia ha ampiamente dimostrato che la verità può essere tradita e manipolata a servizio di false ideologie, dell’oppressione e dell’ingiustizia.
Tuttavia, le sfide che deve affrontare la famiglia umana non ci chiamano forse a guardare oltre a quei pericoli? Alla fine, cosa è più disumano e distruttivo del cinismo che vorrebbe negare la grandezza della nostra ricerca per la verità, e del relativismo che corrode i valori stessi che sostengono la costruzione di un mondo unito e fraterno? Noi, al contrario, dobbiamo riacquistare fiducia nella nobiltà e grandezza dello spirito umano per la sua capacità di raggiungere la verità, e lasciare che quella fiducia ci guidi nel paziente lavoro della politica e della diplomazia.
Signore e Signori, con questi sentimenti esprimo nella preghiera l’augurio che il vostro servizio sia ispirato e sostenuto dalla luce di quella verità che è il riflesso della eterna Sapienza di Dio Creatore.
Su di Voi e sulle Vostre famiglie, invoco di cuore l’abbondanza delle benedizioni divine.
(©L’Osservatore Romano – 28-29 settembre 2009)

Ecosocialismo o barbarie.

UN PREMIO PLURALE di Luiz Flávio Cappio Quando mi è giunta la notizia del Premio “Cittadino del Mondo” della Fondazione Kant, mi sono subito chiesto il perché.
Quale legame dovrebbe avere la nostra lotta nella Vale do Rio São Francisco, nel Nordest del Brasile, con la filosofia di Immanuel Kant e i propositi della Fondazione che ne custodisce gli ideali? Sono andato a rivedere i miei studi di Filosofia dei lontani anni ’60.
Non è stato difficile cogliere l’intenzione della Fondazione nelle proposizioni etico-filosofiche di Kant, luminosamente attuali, di una cittadinanza cosmopolita, basata su diritti umani universalizzati, sull’unione di morale e politica.
Il fatto di venire associato a questa filosofia mi onora, ma non mi rende superbo.
Perché l’oggetto della premiazione non è una persona o quello che da sé, in maniera solitaria, avrebbe fatto.
Non è merito di uno solo, ma di una legione di uomini e di donne, di giovani e di anziani, di movimenti, di organizzazioni e di organismi sociali, che operano – potremmo dire – sotto l’imperativo categorico kantiano: cercare per tutti quello che desidereremmo che tutti facessero a tutti.
Atteggiamento che direi rivoluzionario, considerando l’estensione e la profondità della crisi che viviamo, crisi di civiltà, di paradigma, in fondo la più grave crisi etica.
È il fatto di non lasciarsi guidare da principi universali (in quanto fondamentali), ma da fini meramente individualisti e utilitaristi che ha disumanizzato l’essere umano e lo ha condotto a corrompere la natura.
Stiamo sotto il giogo di un inedito relativismo di valori e punti di riferimento dell’esistenza umana, una perdita collettiva del senso della vita, della società, dell’umanità.
Realmente, senza esagerazioni, non siamo lontani da uno stato di anomia e di barbarie.
  Verso un ecosocialismo Come e perché siamo arrivati a questo punto? Dobbiamo avere il coraggio di rispondere e non temere la risposta.
Il Rapporto sullo Sviluppo Umano 2007/2008, del Pnud (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) rivela: il 20% più ricco del mondo assorbe l’82,4% di tutte le ricchezze del pianeta a fronte del 20% più povero che deve accontentarsi appena dell’1,6%.
Questa macchina di produzione di disuguaglianza non si sostiene più politicamente, né si accetta eticamente.
È evidente che la sua radice affonda nel sistema dell’eco-nomia di libero mercato autoregolato e assoluto – il cosiddetto neoliberismo con la sua globalizzazione mercantile – eretto sul dogma del massimo profitto a qualunque costo, anche al costo della malattia e della morte di milioni di esseri umani (come avviene in Africa con l’Aids, come minaccia di avvenire con l’Influenza A).
Questa pretesa a-etica non si arresta di fronte alla dannazione dei simili.
Ma i limiti della natura, l’esaurimento delle risorse naturali e il riscaldamento globale causato da questo modello di civiltà si incaricano di offrire all’umanità un’occasione, forse l’ultima, per rivedere questo sistema di morte e reinstaurare relazioni libere e solidali con tutte le forme di vita.
Come dice il mio maestro e fratello Leonardo Boff, “la nuova era o sarà l’era dell’etica o non sarà”.
Questo il compito a cui tale premiazione ci convoca.
Se le alternative storiche al capitalismo si sono rivelate frustranti, riproducendo la dominazione umana e la devastazione della natura, si tratta, apprendendo dall’esperienza storica, di reinventare il nostro modo di vita sulla terra.
Credo fermamente che una società internazionale giusta, sostenibile e pacifica, che viva e consenta di vivere, sia possibile solo in una prospettiva ecosocialista.
Un modello di produzione ecologico e un accesso solidale ai beni necessari, in condizioni socialiste, sono ciò che ci condurrà al superamento dell’attuale crisi.
Credo che l’Europa, malgrado le contraddizioni del colonialismo, per la sua tradizione di democrazia e di rispetto dei diritti umani, abbia in tutto questo un ruolo importante.
Credo anche che i popoli originari, sopravvissuti alla co-lonizzazione e in resistenza, e le comunità impoverite del Sud e di tutto il mondo abbiano un enorme contributo da dare.
Perché nutrono il desiderio di cambiamento e conservano pratiche tradizionali di relazione con la natura e tra di essi, mostrando i più nitidi segnali di interazione rispettosa e solidale.
  Cittadini del mondo È per questo che intendo e accetto il Premio “Cittadino del Mondo” della Fondazione Kant: perché nella mia persona voi e io vediamo tutti coloro che incarnano questa utopia, ideale di vita e impegno storico.
Concretamente, siamo Cittadini del Mondo tutti noi che ci uniamo nella difesa del “São Francisco – terra e acqua, fiume e popolo”, ci mobilitiamo attorno ad un modello di vita comunitaria nell’impo-verito Semiarido brasiliano, ci dedichiamo a riscattare la di-gnità dei poveri esigendo con loro, attivamente e pacificamente, la giustizia e il diritto, giustizia e diritto che dovrebbero esistere universalmente.
Ho cercato questi Cittadini del Mondo nella mia traiettoria di vita degli ultimi 40 anni, da quando, rispondendo alla chiamata di Gesù ad uno stile di vita proposto e testimoniato da Francesco di Assisi, lasciai il ricco Sudest del Brasile per l’impoverito Nordest.
Li ho trovati nelle comunità e nei popoli impoveriti e in resistenza del sertão semiarido del fiume São Francisco.
Ho compreso che i Cittadini del Mondo qui premiati sono i poveri di questa regione, con cui ho imparato, più che insegnarle, la dignità del lavoro, la gioia della condivisione anche nella più grande povertà, la cura dei doni della terra, delle acque, delle foreste e degli animali, il diritto alle condizioni materiali e immateriali imprescindibili a una vita in abbondanza e in pace.
Per esempio, i ribeirinhos (popoli tradizionali ai margini dei fiumi, ndt) in lotta per il fiume e per i propri diritti che abbiamo incontrato tra il 1993 e il 1994 peregrinando per un anno per le sponde dei quasi 3 mila chilometri del terzo maggiore fiume del Brasile.
O gli abitanti del Semiarido che, malgrado gli abusi e la corruzione, imparano e insegnano a convivere con il clima, in condizioni ambientali avverse.
I Cittadini del Mondo premiati dalla Fondazione Kant sono anche le innumerevoli persone e organizzazioni, molte delle quali qui in Germania, che hanno espresso solidarietà alle iniziative di digiuno e di preghiera che abbiamo intrapreso, nel 2005 e nel 2007, contro il Progetto di Trasposizione delle acque del fiume São Francisco.
Hanno compreso il nostro gesto: tale progetto riassume la fallacia del sistema, poiché in nome dei poveri e assetati intende creare sicurezza idrica per grandi imprese private di produzione ed esportazione di prodotti ad alto consumo d’acqua e socialmente dannosi, come la canna da zucchero per l’etanolo.
È per me sempre motivo di angoscia questa domanda: perché dobbiamo lottare contro quando abbiamo molte più cose a favore delle quali lottare? Ma, se è vero che “un fiume è come uno specchio che riflette i valori di una società”, la nostra non vale quello che beve e mangia…
Si resiste all’evidenza della fallacia di questo modello.
In Brasile, con tante benedizioni della natura, potenziale straordinario per servire il popolo, l’umanità e il pianeta in questo momento difficile, la crisi economica e quella ecologica sono state affrontate persino entusiasticamente come opportunità di lucro: una posizione cieca, meschina e irresponsabile.
L’attuale governo del presidente Lula, frustrando le enormi aspettative della maggioranza che lo ha eletto, si presta a sussidiare la riproduzione del modello fallito.
Il Pac, il Programma di Accelerazione della Crescita (di circa 178 miliardi di euro) dà la priorità a opere di infrastruttura per la crescita economica a qualunque costo, fino a venir meno al rispetto della legge, dei popoli tradizionali, delle istituzioni dello Stato.
Non c’è più posto, in Brasile come in ogni altro luogo, per una crescita illimitata e ossessiva.
È urgente trasformare il nostro modo di produzione e i nostri modelli di consumo, assumendo come criterio quello della destinazione universale dei beni fondamentali.
Dobbiamo apprendere a “vivere di più con meno”.
Per far fronte all’emergenza, dobbiamo ampliare iniziative come la tassazione delle attività distruttive, del capitale speculativo e dei grandi profitti, e l’uso di tali risorse in programmi di prevenzione dei disastri ecologici e in appoggio alle vittime della fame, della sete, delle malattie e dei cambiamenti climatici.
  Ringraziamenti Comprese e condivise le ragioni per cui ci troviamo qui, mi resta solo da ringraziare.
Come riconoscimento e incoraggiamento per la nostra lotta, il premio è giunto nel momento migliore.
Molti – perché non capiscono e minimizzano quello che è in gioco – già davano per perso uno scontro che è impari.
Felice coincidenza: questa settimana abbiamo dato avvio ad una nuova Campagna Internazionale contro la Trasposizione del fiume São Francisco, a cui ha iniziato a lavorare l’Esercito Brasiliano.
Lanciata dai 33 Popoli Indigeni del Bacino del São Francisco colpiti direttamente e indirettamente dal progetto, la campagna esige che essi siano consultati insieme al Congresso Nazionale e che vengano rispettati i loro territori, come prescrive la Costituzione.
Invito tutti a impegnarsi in questa campagna di e-mail al Supremo Tribunale Federale e alle altre autorità brasiliane.
Ringrazio la Fondazione Kant per l’opportunità di far avanzare la coscienza e la lotta.
Associare questa lotta a quella del popolo palestinese, incarnata nella persona di Jeff Harper (docente di Antropologia e difensore dei diritti umani, noto per la sua protesta contro la distruzione di case palestinesi nella Striscia di Gaza, anche lui premiato dalla Fondazione; ndt) la rende più grande e più profonda.
Vi comunico che destineremo il valore economico del Premio all’avvio delle opere del Santuario dei Martiri nella mia diocesi.
Cittadini del Mondo, più che qualsiasi altro, sono stati coloro che hanno dato la propria vita per la causa della Vita.
In vita hanno avuto sofferenza e dolore, che riposino in dignità e pace! (…).
Prima di Kant e della sua entusiastica proposta di una “pace perpetua”, fondata sull’esercizio del Diritto della “comunità universale”, Francesco di Assisi, padre e maestro, quasi 800 anni prima delle attuali catastrofi socio-ambientali, proponeva la fraternità universale come cammino per la salvezza di tutti e la gloria del Creatore.
A tutti e tutte il mio saluto francescano, e che risuoni come una preghiera: pace e bene! Adista Documenti  n.
59 Non capita molto spesso di ascoltare un vescovo che parli di socialismo e di ecosocialismo.
Eppure è questo che è avvenuto a Friburgo, il 9 maggio scorso, durante il conferimento del Premio “Cittadino del mondo” della Fondazione Kant al vescovo brasiliano dom Luiz Cappio, della diocesi di Barra, per la sua lotta in difesa del fiume São Francisco e del popolo che ne abita le sponde.
“Credo fermamente che una società internazionale giusta, sostenibile e pacifica – ha affermato il vescovo francescano nel discorso pronunciato alla cerimonia di premiazione – sia possibile solo in una prospettiva ecosocialista.
Sono un modello di produzione ecologico e un accesso solidale ai beni necessari, in condizioni socialiste, che ci condurranno al superamento dell’attuale crisi”.
Ma se suonano inconsueti gli accenti del vescovo, non meno inconsuete sono state le modalità della sua lotta.
Contro il progetto di deviazione delle acque del São Francisco e in difesa di un progetto alternativo rispettoso delle leggi del fragile ecosistema del Nordest brasiliano, dom Cappio non aveva esitato, per due volte in due anni, a ricorrere allo sciopero della fame.
Nel primo caso, nel settembre del 2005, lo aveva interrotto dopo 11 giorni (v.
Adista nn.
69 e 73/05), in seguito all’impegno di Lula di sospendere il progetto, avviando su di esso un ampio, trasparente e partecipativo dibattito con la società civile.
Dibattito, tuttavia, che era stato interrotto molto presto (v.
Adista n.
85/07).
Il vescovo era tornato allora alla carica, sollecitando il rispetto dell’impegno preso con una lettera al presidente, nel febbraio del 2007 ma, per tutta risposta, il governo aveva mandato l’esercito a iniziare i lavori, incurante del fatto che, nel frattempo, fossero state presentate alternative concrete, praticabili ed economiche, come quelle previste dall’Atlante del Nordest dell’Agenzia nazionale delle Acque: 530 opere per più di mille municipi, destinate a rifornire d’acqua 34 milioni di persone (con un costo di 3,6 miliardi di reais, contro i 6,6 miliardi del progetto di deviazione del corso delle acque).
Una soluzione vantaggiosa da tutti i punti di vista, ma osteggiata dalle imprese legate al capitale internazionale, che del megaprogetto governativo hanno bisogno per promuovere l’allevamento di gamberetti e la produzione di frutta per l’esportazione (secondo gli studi di impatto ambientale, il 70% delle acque sarebbe destinato infatti alla frutticoltura, il 26% al rifornimento delle città e solo il 4% alla popolazione dei campi).
Così il vescovo, nel novembre del 2007, aveva ripreso lo sciopero della fame, stavolta interrompendolo dopo ben 24 giorni, appena prima che la sua salute ne fosse irreversibilmente compromessa, su richiesta della famiglia, degli amici, dei compagni di lotta (difficile valutare quanto abbiano pesato le pressioni del Vaticano, che a sua volta aveva ricevuto quelle del governo Lula; v.
Adista n.
1/08).
La fine del digiuno non aveva però comportato in alcun modo un allentamento della lotta contro il progetto governativo.
Non a caso, dom Cappio, nel suo discorso pronunciato durante la cerimonia di premiazione, rivolge un duro attacco al governo Lula, colpevole ai suoi occhi di aver frustrato “le enormi aspettative della maggioranza che lo ha eletto”, prestandosi “a sussidiare la riproduzione di un modello fallito”.
Adista-documenti n.59

I laici nella Chiesa dalla collaborazione alla corresponsabilità

Dopo il concilio Vaticano ii la Chiesa non può accontentarsi della semplice collaborazione dei laici ma deve promuoverne un’effettiva corresponsabilità.
Lo ha ricordato Benedetto XVI, martedì pomeriggio 26 maggio, nella basilica di San Giovanni in Laterano, in occasione dell’apertura del convegno ecclesiale della diocesi di Roma.
Signor Cardinale, venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, cari religiosi e religiose, cari fratelli e sorelle! Seguendo una ormai felice consuetudine, sono lieto di aprire anche quest’anno il Convegno diocesano pastorale.
A ciascuno di voi, che qui rappresentate l’intera comunità diocesana, rivolgo con affetto il mio saluto e un sentito ringraziamento per il lavoro pastorale che svolgete.
Per vostro tramite, estendo a tutte le parrocchie il mio saluto cordiale con le parole dell’apostolo Paolo: “A quanti sono in Roma, diletti da Dio e santi per vocazione, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo” (Rm 1, 7).
Ringrazio di cuore il Cardinale Vicario per le incoraggianti parole che mi ha rivolto, facendosi interprete dei vostri sentimenti, e per l’aiuto che, unitamente ai Vescovi Ausiliari, mi offre nel quotidiano servizio apostolico a cui il Signore mi ha chiamato come Vescovo di Roma.
È stato appena ricordato che, nel corso del passato decennio, l’attenzione della Diocesi si è concentrata per tre anni inizialmente sulla famiglia; poi, per un successivo triennio, sull’educazione alla fede delle nuove generazioni, cercando di rispondere a quella “emergenza educativa”, che è per tutti una sfida non facile; e da ultimo, sempre con riferimento all’educazione, sollecitati dalla Lettera enciclica Spe salvi, avete preso in considerazione il tema dell’educare alla speranza.
Mentre ringrazio con voi il Signore del tanto bene che ci ha dato di compiere – penso in particolare ai parroci e ai sacerdoti che non si risparmiano nel guidare le comunità loro affidate – desidero esprimere il mio apprezzamento per la scelta pastorale di dedicare tempo ad una verifica del cammino percorso, con lo scopo di mettere a fuoco, alla luce dell’esperienza vissuta, alcuni ambiti fondamentali della pastorale ordinaria, al fine di meglio precisarli, e renderli più condivisi.
A fondamento di questo impegno, al quale attendete già da alcuni mesi in tutte le parrocchie e nelle altre realtà ecclesiali, ci deve essere una rinnovata presa di coscienza del nostro essere Chiesa e della corresponsabilità pastorale che, in nome di Cristo, tutti siamo chiamati ad esercitare.
E proprio su questo aspetto vorrei ora soffermarmi.
Il Concilio Vaticano ii, volendo trasmettere pura e integra la dottrina sulla Chiesa maturata nel corso di duemila anni, ha dato di essa “una più meditata definizione”, illustrandone anzitutto la natura misterica, cioè di “realtà imbevuta di divina presenza, e perciò sempre capace di nuove e più profonde esplorazioni” (Paolo vi, Discorso di apertura della seconda sessione, 29 settembre 1963).
Orbene, la Chiesa, che ha origine nel Dio trinitario, è un mistero di comunione.
In quanto comunione, la Chiesa non è una realtà soltanto spirituale, ma vive nella storia, per così dire, in carne e ossa.
Il Concilio Vaticano ii la descrive “come un sacramento, o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen gentium, 1).
E l’essenza del sacramento è proprio che si tocca nel visibile l’invisibile, che il visibile toccabile apre la porta a Dio stesso.
La Chiesa, abbiamo detto, è una comunione, una comunione di persone che, per l’azione dello Spirito Santo, formano il Popolo di Dio, che è al tempo stesso il Corpo di Cristo.
Riflettiamo un po’ su queste due parole-chiave.
Il concetto “Popolo di Dio” è nato e si è sviluppato nell’Antico Testamento: per entrare nella realtà della storia umana, Dio ha eletto un popolo determinato, il popolo di Israele, perché sia il suo popolo.
L’intenzione di questa scelta particolare è di arrivare, per il tramite di pochi, ai molti, e dai molti a tutti.
L’intenzione, con altre parole, dell’elezione particolare è l’universalità.
Per il tramite di questo Popolo, Dio entra realmente in modo concreto nella storia.
E questa apertura all’universalità si è realizzata nella croce e nella risurrezione di Cristo.
Nella croce Cristo, così dice San Paolo, ha abbattuto il muro di separazione.
Dandoci il suo Corpo, Egli ci riunisce in questo suo Corpo per fare di noi una cosa sola.
Nella comunione del “Corpo di Cristo” tutti diventiamo un solo popolo, il Popolo di Dio, dove – per citare di nuovo san Paolo – tutti sono una cosa sola e non c’è più distinzione, differenza, tra greco e giudeo, circonciso e incirconciso, barbaro, scita, schiavo, ebreo, ma Cristo è tutto in tutti.
Ha abbattuto il muro della distinzione di popoli, di razze, di culture: tutti siamo uniti in Cristo.
Così vediamo che i due concetti – “Popolo di Dio” e “Corpo di Cristo” – si completano e formano insieme il concetto neotestamentario di Chiesa.
E mentre “Popolo di Dio” esprime la continuità della storia della Chiesa, “Corpo di Cristo” esprime l’universalità inaugurata nella croce e nella risurrezione del Signore.
Per noi cristiani, quindi, “Corpo di Cristo” non è solo un’immagine, ma un vero concetto, perché Cristo ci fa il dono del suo Corpo reale, non solo di un’immagine.
Risorto, Cristo ci unisce tutti nel Sacramento per farci un unico corpo.
Quindi il concetto “Popolo di Dio” e “Corpo di Cristo” si completano: in Cristo diventiamo realmente il Popolo di Dio.
E “Popolo di Dio” significa quindi “tutti”: dal Papa fino all’ultimo bambino battezzato.
La prima Preghiera eucaristica, il cosiddetto Canone romano scritto nel iv secolo, distingue tra servi – “noi servi tuoi” – e “plebs tua sancta”; quindi, se si vuol distinguere, si parla di servi e plebs sancta, mentre il termine “Popolo di Dio” esprime tutti insieme nel loro comune essere la Chiesa.
All’indomani del Concilio questa dottrina ecclesiologica ha trovato vasta accoglienza, e grazie a Dio tanti buoni frutti sono maturati nella comunità cristiana.
Dobbiamo però anche ricordare che la recezione di questa dottrina nella prassi e la conseguente assimilazione nel tessuto della coscienza ecclesiale, non sono avvenute sempre e dovunque senza difficoltà e secondo una giusta interpretazione.
Come ho avuto modo di chiarire nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre del 2005, una corrente interpretativa, appellandosi ad un presunto “spirito del Concilio”, ha inteso stabilire una discontinuità e addirittura una contrapposizione tra la Chiesa prima e la Chiesa dopo il Concilio, travalicando a volte gli stessi confini oggettivamente esistenti tra il ministero gerarchico e le responsabilità dei laici nella Chiesa.
La nozione di “Popolo di Dio”, in particolare, venne da alcuni interpretata secondo una visione puramente sociologica, con un taglio quasi esclusivamente orizzontale, che escludeva il riferimento verticale a Dio.
Posizione, questa, in aperto contrasto con la parola e con lo spirito del Concilio, il quale non ha voluto una rottura, un’altra Chiesa, ma un vero e profondo rinnovamento, nella continuità dell’unico soggetto Chiesa, che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre identico, unico soggetto del Popolo di Dio in pellegrinaggio.
In secondo luogo, va riconosciuto che il risveglio di energie spirituali e pastorali nel corso di questi anni non ha prodotto sempre l’incremento e lo sviluppo desiderati.
Si deve in effetti registrare in talune comunità ecclesiali che, ad un periodo di fervore e di iniziativa, è succeduto un tempo di affievolimento dell’impegno, una situazione di stanchezza, talvolta quasi di stallo, anche di resistenza e di contraddizione tra la dottrina conciliare e diversi concetti formulati in nome del Concilio, ma in realtà opposti al suo spirito e alla sua lettera.
Anche per questa ragione, al tema della vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, è stata dedicata l’assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi nel 1987.
Questo fatto ci dice che le luminose pagine dedicate dal Concilio al laicato non erano ancora state sufficientemente tradotte e realizzate nella coscienza dei cattolici e nella prassi pastorale.
Da una parte esiste ancora la tendenza a identificare unilateralmente la Chiesa con la gerarchia, dimenticando la comune responsabilità, la comune missione del Popolo di Dio, che siamo in Cristo noi tutti.
Dall’altra, persiste anche la tendenza a concepire il Popolo di Dio come ho già detto, secondo un’idea puramente sociologica o politica, dimenticando la novità e la specificità di quel popolo che diventa popolo solo nella comunione con Cristo.
Cari fratelli e sorelle, viene ora da domandarsi: la nostra Diocesi di Roma a che punto sta? In che misura viene riconosciuta e favorita la corresponsabilità pastorale di tutti, particolarmente dei laici? Nei secoli passati, grazie alla generosa testimonianza di tanti battezzati che hanno speso la vita per educare alla fede le nuove generazioni, per curare gli ammalati e soccorrere i poveri, la comunità cristiana ha annunciato il Vangelo agli abitanti di Roma.
Questa stessa missione è affidata a noi oggi, in situazioni diverse, in una città dove non pochi battezzati hanno smarrito la via della Chiesa e quelli che non sono cristiani non conoscono la bellezza della nostra fede.
Il Sinodo Diocesano, voluto dal mio amato predecessore Giovanni Paolo ii, è stato un’effettiva receptio della dottrina conciliare, e il Libro del Sinodo ha impegnato la Diocesi a diventare sempre più Chiesa viva e operosa nel cuore della città, attraverso l’azione coordinata e responsabile di tutte le sue componenti.
La Missione cittadina, che ne seguì in preparazione al Grande Giubileo del 2000, ha consentito alla nostra comunità ecclesiale di prendere coscienza del fatto che il mandato di evangelizzare non riguarda solo alcuni ma tutti i battezzati.
È stata una salutare esperienza che ha contribuito a far maturare nelle parrocchie, nelle comunità religiose, nelle associazioni e nei movimenti la consapevolezza di appartenere all’unico Popolo di Dio, che – secondo le parole dell’apostolo Pietro – “Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui” (1 Pt 2, 9).
E di ciò questa sera vogliamo rendere grazie.
Molta strada tuttavia resta ancora da percorrere.
Troppi battezzati non si sentono parte della comunità ecclesiale e vivono ai margini di essa, rivolgendosi alle parrocchie solo in alcune circostanze per ricevere servizi religiosi.
Pochi sono ancora i laici, in proporzione al numero degli abitanti di ciascuna parrocchia che, pur professandosi cattolici, sono pronti a rendersi disponibili per lavorare nei diversi campi apostolici.
Certo, non mancano le difficoltà di ordine culturale e sociale, ma, fedeli al mandato del Signore, non possiamo rassegnarci alla conservazione dell’esistente.
Fiduciosi nella grazia dello Spirito, che Cristo risorto ci ha garantito, dobbiamo riprendere con rinnovata lena il cammino.
Quali vie possiamo percorrere? Occorre in primo luogo rinnovare lo sforzo per una formazione più attenta e puntuale alla visione di Chiesa della quale ho parlato, e questo da parte tanto dei sacerdoti quanto dei religiosi e dei laici.
Capire sempre meglio che cosa è questa Chiesa, questo Popolo di Dio nel Corpo di Cristo.
È necessario, al tempo stesso, migliorare l’impostazione pastorale, così che, nel rispetto delle vocazioni e dei ruoli dei consacrati e dei laici, si promuova gradualmente la corresponsabilità dell’insieme di tutti i membri del Popolo di Dio.
Ciò esige un cambiamento di mentalità riguardante particolarmente i laici, passando dal considerarli “collaboratori” del clero a riconoscerli realmente “corresponsabili” dell’essere e dell’agire della Chiesa, favorendo il consolidarsi di un laicato maturo ed impegnato.
Questa coscienza comune di tutti i battezzati di essere Chiesa non diminuisce la responsabilità dei parroci.
Tocca proprio a voi, cari parroci, promuovere la crescita spirituale e apostolica di quanti sono già assidui e impegnati nelle parrocchie: essi sono il nucleo della comunità che farà da fermento per gli altri.
Affinché tali comunità, anche se qualche volta numericamente piccole, non smarriscano la loro identità e il loro vigore, è necessario che siano educate all’ascolto orante della Parola di Dio, attraverso la pratica della lectio divina, ardentemente auspicata dal recente Sinodo dei Vescovi.
Nutriamoci realmente dell’ascolto, della meditazione della Parola di Dio.
A queste nostre comunità non deve venir meno la consapevolezza che sono “Chiesa” perché Cristo, Parola eterna del Padre, le convoca e le fa suo Popolo.
La fede, infatti, è da una parte una relazione profondamente personale con Dio, ma possiede una essenziale componente comunitaria e le due dimensioni sono inseparabili.
Potranno così sperimentare la bellezza e la gioia di essere e di sentirsi Chiesa anche i giovani, che sono maggiormente esposti al crescente individualismo della cultura contemporanea, la quale comporta come inevitabili conseguenze l’indebolimento dei legami interpersonali e l’affievolimento delle appartenenze.
Nella fede in Dio siamo uniti nel Corpo di Cristo e diventiamo tutti uniti nello stesso Corpo e così, proprio credendo profondamente, possiamo esperire anche la comunione tra di noi e superare la solitudine dell’individualismo.
Se è la Parola a convocare la Comunità, è l’Eucaristia a farla essere un corpo: “Poiché c’è un solo pane – scrive san Paolo -, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1 Cor 10, 17).
La Chiesa dunque non è il risultato di una somma di individui, ma un’unità fra coloro che sono nutriti dall’unica Parola di Dio e dall’unico Pane di vita.
La comunione e l’unità della Chiesa, che nascono dall’Eucaristia, sono una realtà di cui dobbiamo avere sempre maggiore consapevolezza, anche nel nostro ricevere la santa comunione, sempre più essere consapevoli che entriamo in unità con Cristo e così diventiamo noi, tra di noi, una cosa sola.
Dobbiamo sempre nuovamente imparare a custodire e difendere questa unità da rivalità, da contese e gelosie che possono nascere nelle e tra le comunità ecclesiali.
In particolare, vorrei chiedere ai movimenti e alle comunità sorti dopo il Vaticano ii, che anche all’interno della nostra Diocesi sono un dono prezioso di cui dobbiamo sempre ringraziare il Signore, vorrei chiedere a questi movimenti, che ripeto sono un dono, di curare sempre che i loro itinerari formativi conducano i membri a maturare un vero senso di appartenenza alla comunità parrocchiale.
Centro della vita della parrocchia, come ho detto, è l’Eucaristia, e particolarmente la Celebrazione domenicale.
Se l’unità della Chiesa nasce dall’incontro con il Signore, non è secondario allora che l’adorazione e la celebrazione dell’Eucaristia siano molto curate, dando modo a chi vi partecipa di sperimentare la bellezza del mistero di Cristo.
Dato che la bellezza della liturgia “non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce” (Sacramentum caritatis n.
35), è importante che la Celebrazione eucaristica manifesti, comunichi, attraverso i segni sacramentali, la vita divina e riveli agli uomini e alle donne di questa città il vero volto della Chiesa.
La crescita spirituale ed apostolica della comunità porta poi a promuoverne l’allargamento attraverso una convinta azione missionaria.
Prodigatevi pertanto a ridar vita in ogni parrocchia, come ai tempi della Missione cittadina, ai piccoli gruppi o centri di ascolto di fedeli che annunciano Cristo e la sua Parola, luoghi dove sia possibile sperimentare la fede, esercitare la carità, organizzare la speranza.
Questo articolarsi delle grandi parrocchie urbane attraverso il moltiplicarsi di piccole comunità permette un respiro missionario più largo, che tiene conto della densità della popolazione, della sua fisionomia sociale e culturale, spesso notevolmente diversificata.
Sarebbe importante se questo metodo pastorale trovasse efficace applicazione anche nei luoghi di lavoro, oggi da evangelizzare con una pastorale di ambiente ben pensata, poiché per l’elevata mobilità sociale la popolazione vi trascorre gran parte della giornata.
Infine, non va dimenticata la testimonianza della carità, che unisce i cuori e apre all’appartenenza ecclesiale.
Alla domanda come si spieghi il successo del Cristianesimo dei primi secoli, l’ascesa da una presunta setta ebrea alla religione dell’Impero, gli storici rispondono che fu particolarmente l’esperienza della carità dei cristiani che ha convinto il mondo.
Vivere la carità è la forma primaria della missionarietà.
La Parola annunciata e vissuta diventa credibile se si incarna in comportamenti di solidarietà, di condivisione, in gesti che mostrano il volto di Cristo come di vero Amico dell’uomo.
La silenziosa e quotidiana testimonianza della carità, promossa dalle parrocchie grazie all’impegno di tanti fedeli laici, continui ad estendersi sempre di più, perché chi vive nella sofferenza senta vicina la Chiesa e sperimenti l’amore del Padre, ricco di misericordia.
Siate, dunque, “buoni samaritani” pronti a curare le ferite materiali e spirituali dei vostri fratelli.
I diaconi, conformati con l’ordinazione a Cristo servo, potranno svolgere un utile servizio nel promuovere una rinnovata attenzione verso le vecchie e le nuove forme di povertà.
Penso inoltre ai giovani: carissimi, vi invito a porre a servizio di Cristo e del Vangelo il vostro entusiasmo e la vostra creatività, facendovi apostoli dei vostri coetanei, disposti a rispondere generosamente al Signore, se vi chiama a seguirlo più da vicino, nel sacerdozio o nella vita consacrata.
Cari fratelli e sorelle, il futuro del cristianesimo e della Chiesa a Roma dipende anche dall’impegno e dalla testimonianza di ciascuno di noi.
Invoco per questo la materna intercessione della Vergine Maria, venerata da secoli nella Basilica di Santa Maria Maggiore come Salus populi romani.
Come fece con gli Apostoli nel Cenacolo in attesa della Pentecoste, accompagni anche noi e ci incoraggi a guardare con fiducia al domani.
Con questi sentimenti, mentre vi ringrazio per il vostro diuturno lavoro, imparto di cuore a tutti una speciale Benedizione Apostolica.
(©L’Osservatore Romano – 28 maggio 2009)

Il caso Galileo

Il 26 maggio si apre a Firenze, presso la basilica di Santa Croce, il convegno internazionale “Galileo 2009” organizzato dall’Istituto Stensen.
I lavori proseguiranno dal 27 al 29 maggio nel Palazzo dei Congressi e si concluderanno il giorno 30 nella villa Il Gioiello di Arcetri, l’ultima dimora di Galileo.
Uno dei relatori ha sintetizzato per “L’Osservatore Romano” i temi e il significato del convegno.
Il convegno di Firenze si presenta come uno degli eventi salienti dell’International Year of Astronomy, indetto dall’Onu nel dicembre 2007 a seguito di una proposta dell’Unione astronomica internazionale, fatta propria dall’Unesco.
Il 2009 è stato scelto perché segna il quarto centenario dell’introduzione del telescopio nelle osservazioni astronomiche, avvenuta a Padova da parte di Galileo Galilei.
Così, mentre molte iniziative in corso in una pluralità di Paesi, inclusa l’Italia, stanno riguardando lo stato attuale e le prospettive della ricerca astronomica, alcune, doverosamente, sono dedicate all’esame specifico di quel fatto e alle sue ripercussioni nella storia scientifica e, nel senso più ampio, intellettuale.
Com’è ben noto, l’astronomia di Galileo e il contesto fisico-cosmologico innovativo nel quale egli tese a collocarla, facendone uno strumento di grande portata insieme scientifica e filosofica, fu l’oggetto di un intervento degli organi censori della Chiesa, le Congregazioni del sant’Ufficio dell’Inquisizione e dell’Indice.
In un primo momento (1615-1616) l’intervento ebbe un esito esclusivamente dottrinale, la proibizione della teoria eliocentrica copernicana come quadro della realtà fisica – non come schema di calcolo – e di alcune opere che la esponevano e sostenevano: né Galileo né altri sostenitori dell’eliocentrismo furono oggetto di sentenza.
In seguito (1632-1633) venne invece un processo contro di lui, con l’accusa di aver ottenuto l’imprimatur per il suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo dissimulandone il contenuto decisamente copernicano e aggirando quindi la proibizione, resagli nota già nel 1616.
In linea di pura cronologia e strettamente scientifica la ricorrenza centenaria riguarda un fatto estraneo alla successiva vicenda censoria, essendo eminentemente tecnico e in sé religiosamente neutro, in quanto connesso molto parzialmente e indirettamente alle valenze cosmologiche dirompenti dell’eliocentrismo.
La visione di maggior dettaglio di corpi o fenomeni già visibili e la visibilità di altri che prima non lo erano – i satelliti di Giove, le fasi di Venere, le “protuberanze” laterali di Saturno interpretate solo in seguito come un anello, e altro – misero in crisi diversi aspetti della cosmologia aristotelica e mostrarono la falsità del geocentrismo tradizionale ma non, su un piano puramente logico, quella del sistema intermedio – geo-eliocentrico – di Tycho Brahe, che era compatibile con la cosmogonia e l’astronomia della Bibbia: perciò non comportarono intrinsecamente un contrasto con queste.
Di fatto, la Chiesa non pensò mai a interdire l’uso del telescopio in astronomia, che crebbe velocemente nei Paesi cattolici non meno che nei protestanti e trovò anzi nel clero molti dei suoi praticanti più assidui e qualificati.
Tuttavia Galileo, che non ritenne plausibile il sistema di Brahe, considerò i nuovi oggetti e fenomeni come inquadrabili esclusivamente nel sistema eliocentrico e come evidenze a suo favore, e dopo aver pubblicato nel 1610, nel Sidereus nuncius, le sue prime osservazioni, potenziò il telescopio e ne focalizzò l’uso soprattutto in funzione della sua battaglia di idee.
Così, se su un piano strettamente scientifico tra gli eventi del 1609 e quelli del 1615-1616 e 1632-1633 v’è una relativa estraneità, su quello di una storia intellettuale generale v’è una quasi continuità ed un nesso ineludibile.
Questo fatto spiega l’impianto del convegno fiorentino, che non intende proporre una riflessione sulla figura complessiva dello scienziato toscano né su aspetti tecnici molto specifici.
Se per il grande pubblico o per molti studiosi non specialisti Galileo è solo o soprattutto l’astronomo del processo e dello “eppur si muove”, nella storia della scienza ha un titolo di gloria forse più grande: la fondazione della cinematica, con la formulazione della legge del moto uniformemente accelerato e l’individuazione di un principio fondante per l’intera meccanica (detto talora “relatività galileiana”).
Non solo gli organizzatori hanno limitato il convegno al tema astronomico, in conformità al ruolo conferito internazionalmente all’anno 2009, ma da esso hanno escluso l’aspetto tecnico, com’è esplicitato nel titolo: “Il caso Galilei.
Una rilettura storica, filosofica, teologica”.
L’oggetto è dunque la vexata quaestio, dibattuta quasi ininterrottamente dal 1633 alla storiografia attuale, attinente a genesi, fondamento, motivazioni, sviluppi e ripercussioni della vicenda dipanatasi tra 1615 e 1633.
È su tale “caso” che verterà la quasi totalità delle ventisette relazioni previste nei giorni 27, 28 e 29 (il 26 sono previste due lectiones magistrales introduttive; il 30 si avrà una tavola rotonda conclusiva nella villa Il Gioiello, sui colli fiorentini, dove Galileo visse in stato di residenza coatta da poco dopo la condanna fino alla morte nel 1642).
Le valenze molteplici del caso – scientifiche, storiche, giuridiche, teologiche, ideologico-politiche – hanno portato a migliaia di trattazioni, il cui numero negli ultimi anni è piuttosto cresciuto che diminuito, con un correlativo incremento di documentazione, accuratezza, specificazione di aspetti.
Il convegno fiorentino, tuttavia, si ripromette di portare gli studi a un nuovo punto di avanzamento.
Neppure esso potrà portare a risultati definitivi, perché certe lacune nella documentazione, la delicatezza delle implicazioni e le forti connotazioni ideali che hanno sempre segnato la riflessione sul tema probabilmente impediranno per sempre una ricostruzione non ipotetica in alcuna sua parte, condivisa e di valore permanente (nei limiti in cui questi attributi sono riferibili al lavoro storiografico).
Tuttavia la vastità d’impianto, l’ambito internazionale di provenienza dei relatori e, ancor prima, il numero e livello degli enti promotori lo rendono senz’altro un evento che ha pochi analoghi nella pur ricca storia organizzativa degli studi galileiani degli ultimi decenni.
All’organizzazione hanno concorso, con ruoli che vanno da un intervento diretto al patrocinio, diciotto istituzioni italiane di alta cultura, dall’Accademia dei Lincei e da quella Pontificia delle Scienze alle università di Firenze, Padova e Pisa, le tre città e sedi accademiche legate alla vita e alle ricerche di Galileo.
Proponente iniziale e perno logistico è però il fiorentino Istituto Stensen, riuscito non solo nel compito difficile di raccordare istituzioni disparate, sollecitare adesioni internazionali, creare una vasta aspettativa, ma in quello più arduo di costruire una cornice unica di dialogo – pur con la certezza di differenze di giudizio anche vivaci – tra gli specialisti circa uno dei temi che, da più tempo e più intrinsecamente, demarcano posizioni religiose, filosofiche e ideologiche profondamente alternative.
La premessa forse più decisiva per questa nuova atmosfera, il discorso del 31 ottobre 1992 ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze nel quale Giovanni Paolo II qualificò la vicenda censoria come “tragica reciproca incomprensione”, sarà anch’essa oggetto di analisi, perché il programma seguirà le fasi storiche della querelle fino al presente.
Le relazioni del 27 maggio riguarderanno gli eventi del 1615-1616 e 1632-1633.
Il 28 si passerà allo sviluppo dei giudizi e dell’immagine storica del “caso” fino al 1820-1822, quando una decisione di Pio vii – che pose termine al cosiddetto “caso Settele” – autorizzò definitivamente l’insegnamento dell’eliocentrismo come verità fisica, anche nello Stato pontificio.
Il 29 saranno sondati sviluppi e valenze del tema dall’età del risorgimento e del positivismo, quando esso assunse valenze anche fortemente anticattoliche e antireligiose e fu usato come evidenza a supporto di elaborazioni filosofiche e ideologiche radicali, fino a un presente in cui esso appare come l’antecedente di questioni, di portata almeno pari, che oggi si pongono nel rapporto tra scienza e fede.
*Università di Padova Pontificio Comitato di Scienze Storiche (©L’Osservatore Romano – 25-26 maggio 2009)

Scuola primaria – Giugno

Ormai si avvicina la fine della scuola ed è bene ripercorrere velocemente le varie tappe del percorso “Per i diritti di tutti” che è stato il filo conduttore per la programmazione di quest’anno scolastico.
Gli insegnanti potranno riguardare la sintesi della programmazione mensile e i riferimenti al tema che si trovano al fondo di ogni unità di apprendimento.
Sarebbe opportuno riprendere anche i momenti principali del percorso svolto con i bambini per renderli maggiormente consapevoli degli argomenti trattati.
Si può realizzare quest’attività oralmente  o costruendo un semplice cartellone.  In una delle ultime lezioni ricordarsi di consegnare a ogni bambino il diploma “I diritti dei bambini” che contiene i diritti dell’infanzia  riassunti con  alcune frasi e scritti in un linguaggio semplice.
In fondo al foglio del diploma, ogni insegnante porrà la propria firma per “certificare” il percorso fatto.
Sarebbe significativo organizzare una festa per la consegna dei diplomi, in ogni singola classe, o una cerimonia collettiva di tutte le classi coinvolte nella scuola.

Il cardinale John Henry Newman

Parlando di Newman, Leone XIII lo chiamava “il mio cardinale”, e aggiungeva “non è stato facile, non è stato facile.
Dicevano che fosse troppo liberale, ma io avevo deciso di onorare la Chiesa onorando Newman.
Ho sempre avuto un culto per lui.
Ho dato prova che ero capace di onorare un tale uomo”.
Il Papa lo diceva a Lord Selborne che, in una udienza del 26 gennaio 1888, gli consegnava un messaggio da parte di Newman.
Infatti già da nunzio in Belgio (dagli inizi del 1843 agli inizi del 1846), Pecci era ben informato sul movimento di Oxford.
Ed è interessante che l’affermazione:  “Ho sempre avuto un culto per lui” venga dal Papa dell’Aeterni Patris e della rinascita del tomismo.
Quella nomina, auspicata particolarmente dal laicato cattolico inglese e di cui già si vociferava, era stata piuttosto laboriosa per il fraintendimento della sua difficoltà a lasciare l’oratorio di Birmingham:  intenderlo e presentarlo al Papa come un rifiuto non era dispiaciuto troppo al cardinale Manning, nel quale la porpora di Newman non suscitava un eccessivo entusiasmo.
Newman poi precisò che non si trattava di un rifiuto, e il Papa stesso era disposto a una deroga.  Il duca di Norfolk, che sosteneva fortemente quella nomina, già nel dicembre del 1878 l’aveva prospettata a Leone XIII, trovando che il Papa non aveva nessun pregiudizio contro Newman e nessuna avversione nei confronti dei suoi scritti.
La questione venne risolta con la lettera del Segretario di Stato, il cardinale Lorenzo Nina, che  il  15 marzo 1879 comunicava ufficialmente a Newman la decisione di Leone XIII di conferirgli la porpora.
Newman giunse a Roma il 24 aprile e vi rimase fino al 4 giugno, presso l’Hotel Bristol, in via Sistina 48, in uno stato di salute estremamente precario.
Scrivendo al suo vescovo Ullathorne, il 3 luglio, mentre ricordava la “simpatia” e “gli onori” smisurati di cui era stato fatto oggetto, e in particolare la “tenerezza”, l'”affettuosa tenerezza” del Papa, lo informava di non aver potuto celebrare l’Eucaristia più di tre volte, e del resto alcune sue lettere le aveva dettate dal letto.
Durante quelle settimane venne ricevuto due volte da Leone XIII, che si informava continuamente della salute del “suo” cardinale.
La prima udienza avvenne il 27 aprile.
Ricordandola in una lettera del 2 maggio all’oratoriano Henry Bittleston, Newman scrive:  “Il Santo Padre mi ha ricevuto molto affettuosamente, stringendo la mia mano nella sua.
Mi ha chiesto:  “Intende continuare a guidare la Casa di Birmingham?”.
Risposi:  “Dipende dal Santo Padre”.
Egli riprese:  “Bene.
Desidero che continuiate a dirigerla”, e parlò a lungo di questo”.
Il Papa gli rivolge ancora “diverse domande” sulla casa di Birmingham, se fosse bella, sulla chiesa, sul numero dei religiosi, sulla loro età, su dove avesse studiato teologia.
Prima di congedarsi, Newman fece omaggio a Leone XIII di una copia dell’edizione romana delle sue quattro Dissertazioni Latine, e aggiunge, nella stessa lettera a Bittleston, d’aver rilevato la larga bocca del Papa, il suo ampio e gradevole sorriso, la sua “carnagione molto chiara” e il suo “parlare lento e nitido all’italiana”.
La seconda udienza, di congedo, avvenne il 2 giugno, nell’imminenza del ritorno in Inghilterra.
Newman sottopose al Papa varie richieste, e il 4 lasciò Roma per Livorno, dove rimase, malato, fino al 20 giugno, per arrivare a Birmingham il primo luglio.
Aveva ricevuto il Biglietto, recatogli da monsignor Romagnoli, la mattina del lunedì 12 maggio, presso il Palazzo della Pigna.
Il giorno dopo il Papa gli avrebbe imposto la berretta cardinalizia, e nel concistoro pubblico del 15 seguente il galero.
Insieme, tra gli altri, con Giuseppe Pecci, fratello del Papa, Tommaso Maria Zigliara, domenicano – tutt’e due eminenti studiosi di filosofia e teologia tomista – e il celebre storico Joseph Hergenröther.
Come cardinale diacono gli era stato assegnato il titolo di San Giorgio al Velabro.
Il motto dello stemma, attinto a san Francesco di Sales, era suggestivo ed eloquente, Cor ad cor loquitur, e rendeva perfettamente lo spirito di Newman, per il quale la parola non si comunica per pura ed esclusiva via astratta ma per i rapporti concretamente creati da una interiore affinità; d’altra parte, si conosce non solo con la mente, ma con tutta la persona, e quindi con l’affectus, secondo l’affermazione di Gregorio Magno:  Amor ipse notitia, l’amore è in se stesso fonte e principio di conoscenza, ossia amare è conoscere.
I testimoni di quel concistoro pubblico hanno riportato l’impressione e il commento che la figura diafana di Newman, dai capelli bianchi e dal marcato profilo, avvolta nella porpora, suscitava nelle dame di Roma:  “Che bel vecchio! Che figura! Pallido sì, ma bellissimo!” (cfr.
Sheridan Gilley, Newman and his age, p.
402).
Un oratoriano della comunità, parlando di Newman, tornato a Birmingham e presente alle celebrazioni nella chiesa di Edgbaston, osservava:  “Il suo aspetto era magnifico, mentre stava seduto di fronte ai fedeli che riempivano il tempio.
Il suo volto sembrava quello di un angelo, con i suoi lineamenti, ormai familiari per noi, addolciti e spiritualizzati adesso dalla salute fragile, e con la sua delicata costituzione e i capelli argentei, che contrastavano con le sfumature rosse dei suoi splendidi e insoliti vestiti” (citato da José Morales Marín, John Henry Newman.
La vita).
Il cardinalato e l’accoglienza di Leone XIII, oltre che una riparazione per la diffidenza che per anni aveva circondato la vita e l’opera di Newman, erano soprattutto il riconoscimento del valore del suo ampio e lungo magistero.
Ed è molto significativo che “L’Osservatore Romano” del 14 maggio, la vigilia del concistoro pubblico, pubblicasse in prima pagina il discorso pronunziato da Newman dopo la consegna del Biglietto di nomina, il 12 maggio, dove faceva un rapido bilancio della sua vita e dove trattava di un tema che appare ancora di impressionante attualità:  quello del liberalismo religioso.
Newman, dopo aver iniziato a parlare “nell’armoniosa lingua” italiana, continuando in inglese, manifestava la sua “meraviglia e gratitudine profonda” per la sua nomina, dichiarando di sentirsi sopraffatto dall'”indulgenza e dall’amore del Santo Padre” nell’eleggerlo a un “onore tanto smisurato”:  “È stata una grande sorpresa.
Siffatta esaltazione non mi era mai venuta in mente e pareva non avere attinenza alcuna con il mio passato.
Avevo incontrato molte traversie, ma erano finite, e ormai era quasi giunto per me il termine di ogni cosa.
Stavo in pace”.
“Il Santo Padre ebbe simpatia per me, e mi disse perché mi sollevava a sì alto posto.
Egli giudicava questo atto un riconoscimento del mio zelo e del mio servizio per tanti anni nella Chiesa cattolica; riteneva inoltre che qualche attestato del suo favore avrebbe fatto piacere ai cattolici inglesi e anche all’Inghilterra protestante”.
Aggiungeva il neoeletto cardinale:  “In un lungo corso di anni ho fatto molti sbagli.
Sono lontano da quell’alta perfezione che è propria degli scritti dei santi (…) ma ciò che confido di potermi attribuire in quanto ho scritto è questo:  la retta intenzione, l’immunità da interessi privati, la disposizione all’obbedienza, la prontezza a essere corretto, il grande timore di sbagliare, la brama di servire la Santa Chiesa, e, per divina misericordia, sufficiente buon successo”.
E proseguiva:  “Godo nel dire che a un gran male mi sono opposto fin dal principio.
Per trenta, quaranta, cinquant’anni anni ho resistito, con tutte le mie forze, allo spirito del liberalismo religioso, e mai la Chiesa ebbe come oggi più urgentemente bisogno di oppositori contro di esso, mentre, ahimé, questo errore si stende come una rete su tutta la terra”.
“Il liberalismo religioso è la dottrina secondo la quale non esiste nessuna verità positiva in campo religioso, ma che qualsiasi credo è buono come qualunque altro; e questa è la dottrina che, di giorno in giorno, acquista consistenza e vigore.
Questa posizione è incompatibile con ogni riconoscimento di una religione come vera.
Esso insegna che tutte sono da tollerare, in quanto sono tutte materia di opinione.
La religione rivelata non è verità, ma sentimento e gusto, non fatto obiettivo (…) Ogni individuo ha diritto a interpretarla a modo suo (…) Si può andare nelle chiese protestanti e in quelle cattoliche; si può ristorare lo spirito in ambedue e non appartenere a nessuna.
Si può fraternizzare insieme in pensieri e affari spirituali, senza avere dottrina comune o vederne la necessità.
Poiché la religione è un fatto personale e un bene esclusivamente privato, la dobbiamo ignorare nei rapporti reciproci”.
Newman aggiungeva:  “La bella struttura della società che è l’opera del cristianesimo, sta ripudiando il cristianesimo”; “Filosofi e politici vorrebbero surrogare anzitutto un’educazione universale, affatto secolare (…
che) provvede le ampie verità etiche fondamentali di giustizia, benevolenza, veracità e simili”; sennonché – osserva Newman – un tale progetto è diretto “a rimuovere e ad escludere la religione”.
È difficile non riconoscere la rovinosa attualità di questo liberalismo religioso, che preoccupava Newman nel 1879:  oggi si sta esattamente e largamente avverando e diffondendo la persuasione che le religioni siano equivalenti, che sia indifferente e non pertinente la questione della loro verità, che una confessione o una Chiesa si equivalgono.
E che, in ogni caso, la religione appartiene esclusivamente all’ambito privato e personale, senza riflessi sociali.
A non mancare di equivocità è talora lo stesso dialogo interreligioso:  quando cioè dovesse attutire la coscienza che, alla fine, a importare è la religione vera.
La confusione che al riguardo si sta creando, all’interno stesso di esperienze cristiane elitarie, e “profetiche”, come le chiamano, è mirabile e singolare, ma è assolutamente contraria al Vangelo e alla tradizione ecclesiale.
Parlano del Popolo di Dio e ne annebbiano le certezze.
Anche l’altro, e connesso, rilievo di Newman appare di sorprendente attualità:  quello relativo allo smantellamento della “cultura” cristiana e delle sue risorse educative, con il pretesto della “laicità” e dei valori “laici”, come diciamo oggi:  il neocardinale parlava di “giustizia, benevolenza”, noi solitamente di “solidarietà”.
Ma una pura educazione “laica” condotta nell’indifferenza religiosa è incapace di fondare un’etica ed è fatalmente destinata a educare al nulla.
Oggi chi afferma una cosa stramba o antiecclesiale si autofregia del titolo di profeta; lo fu invece davvero Newman, le cui opere con la loro finezza storica e psicologica, con la loro bellezza poetica, e con lo splendore della loro verità, hanno impreziosito per sempre la Chiesa.
(©L’Osservatore Romano – 20 maggio 2009)

Livelli di responsabilità e autonomia delle scuole in Europa

Il  bollettino, oltre ad includere un quadro politico e storico delle riforme a livello europeo sull’autonomia scolastica, si sofferma ad analizzare i livelli di responsabilità delle scuole nella gestione dei finanziamenti e delle risorse umane.
<!– /* Style Definitions */ p.MsoNormal, li.MsoNormal, div.MsoNormal {mso-style-parent:""; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:12.0pt; font-family:"Times New Roman"; mso-fareast-font-family:"Times New Roman";} @page Section1 {size:612.0pt 792.0pt; margin:70.85pt 2.0cm 2.0cm 2.0cm; mso-header-margin:36.0pt; mso-footer-margin:36.0pt; mso-paper-source:0;} div.Section1 {page:Section1;} — L’attenzione si sposta poi sull’autonomia didattica degli insegnanti per quanto concerne i contenuti curricolari, i metodi di insegnamento e la valutazione degli alunni.
La parte finale presenta, inoltre, i principali modelli di valutazione delle scuole e degli insegnanti nei sistemi scolastici europei.
SCARICA PDF:  bollettino_autonomia_scolastica (1.22 MB) Nello studio dell’Unità Italiana di Eurydice Livelli di responsabilità e autonomia delle scuole in Europa (questo il link diretto allo studio e questo alla nostra presentazione dello studio) emergono dunque confronti con Paesi europei che possono farci capire meglio la scuola che viviamo e quella che potremmo vivere.
Per quello che riguarda l’utilizzo dei fondi pubblici, lo studio ci inserisce nel gruppo di paesi per cui il grado di autonomia cambia a seconda della categoria di spesa.
Le scuole italiane, ancorché vincolate dai livelli di trasferimento dei fondi da parte del Ministero e dai provvedimenti in tema di centralizzazione degli acquisti, sarebbero autonome per le spese di funzionamento, e per l’acquisto di attrezzature informatiche, mentre non sono autonome per le spese e/o acquisizioni di beni immobili (pag.
7).
Nell’utilizzo dei fondi privati (da donazioni, sponsorizzazioni, affitto di locali scolastici, prestiti), le scuole italiane sarebbero completamente autonome per ogni uso (pag.
8).
A nostro avviso, è giusto usare il condizionale per queste fattispecie, dato che l’apporto di risorse private è ancora poco diffuso nel sistema scolastico italiano.
Un capitolo interessante è dato dalla comparazione con gli altri Paesi circa l’autonomia delle scuole nella gestione delle risorse umane.
In Italia le scuole non svolgono selezioni per i posti vacanti o per le sostituzioni di insegnanti assenti, non licenziano docenti, non definiscono compiti e responsabilità, e possono comminare tuttalpiù sanzioni disciplinari.
Lo studio accomuna, con profili leggermente differenti, la nostra situazione a quella di Irlanda, Grecia, Francia, Cipro, Malta, Belgio,Germania, Lussemburgo e Portogallo, e ci distingue dunque dal resto dei paesi europei (pagg.
9-11).
Più avanti nello studio (pag.
15), il Bollettino commenta che “in circa la metà dei paesi europei, la selezione degli insegnanti non rientra nella responsabilità degli istituti scolastici.
Tuttavia, quando la selezione spetta a questi ultimi, il capo di istituto partecipa sempre alla decisione”.
Per quello che riguarda la definizione del curriculo minimo obbligatorio, la scuola italiana, al pari di quelle della maggioranza dei Paesi, non ha nessuna autonomia, mentre è completamente autonoma (qui la situazione europea è più variegata) per quanto riguarda la definizione delle materie opzionali e la scelta dei libri di testo (pagg.
16-21).
Anche per quello che riguarda la valutazione degli alunni, l’autonomia scolastica in Italia è totale.
Infine per quello che riguarda la cosiddetta accountability (definita non solo come “l’assunzione di responsabilità, ma più specificamente un sistema di regole e criteri trasparente, secondo il quale un soggetto accetta anticipatamente di «render conto» ad altri di proprie azioni o risultati specificati”), l’Italia si distingue da praticamente tutto il resto di Europa per l’assenza di valutazione.
Assenza di valutazione esterna dei i singoli istituti scolastici (pag.
28), e assenza di valutazione individuale o collettiva degli insegnanti, effettuata in qualsiasi maniera (pag.
29).
Insomma, c’è di che riflettere.
——————————————————————————– tuttoscuola.com martedì 19 maggio 2009

Lettera ai cercatori di Dio

La “Lettera ai cercatori di Dio” è stata preparata per iniziativa della Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi della Conferenza Episcopale Italiana, come sussidio offerto a chiunque voglia farne oggetto di lettura personale, oltre che come punto di partenza per dialoghi destinati al primo annuncio della fede in Gesù Cristo, all’interno di un itinerario che possa introdurre all’esperienza della vita cristiana nella Chiesa.
Il Consiglio Episcopale Permanente ne ha approvato la pubblicazione nella sessione del 22-25 settembre 2008.
“Frutto di un lavoro collegiale che ha coinvolto vescovi, teologi, pastoralisti, catecheti ed esperti nella comunicazione, la Lettera si rivolge ai “cercatori di Dio”, a tutti coloro, cioè, che sono alla ricerca del volto del Dio vivente.
Lo sono i credenti, che crescono nella conoscenza della fede proprio a partire da domande sempre nuove, e quanti – pur non credendo – avvertono la profondità degli interrogativi su Dio e sulle cose ultime” scrive nella presentazione S.E.
Mons.
Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto e Presidente della Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi.
La Lettera vorrebbe suscitare attenzione e interesse anche in chi non si sente in ricerca, nel pieno rispetto della coscienza di ciascuno, con amicizia e simpatia verso tutti.
Il testo parte da alcune domande che ci sembrano diffuse nel vissuto di molti, per poi proporre l’annuncio cristiano e rispondere alla richiesta: dove e come incontrare il Dio di Gesù Cristo? Ovviamente, la Lettera non intende dire tutto: essa vuole piuttosto suggerire, evocare, attrarre a un successivo approfondimento, per il quale si rimanda a strumenti più adatti e completi, fra cui spiccano il Catechismo della Chiesa Cattolica e i Catechismi della Conferenza Episcopale Italiana.
“La Commissione Episcopale si augura che la Lettera possa raggiungere tanti e suscitare reazioni, risposte, nuove domande, che aiutino ciascuno a interrogarsi sul Dio di Gesù Cristo e a lasciarsi interrogare da Lui – aggiunge Monsignor Forte -.
Affida perciò al Signore queste pagine e chi le leggerà, perché sia Lui a farne strumento della Sua grazia”.
Documenti allegati:Lettera.doc

La settimana in Terra Santa di Benedetto XVI

Qui di seguito è riprodotto il discorso con cui Benedetto XVI ha concluso il suo viaggio, venerdì 15 maggio.
Ma più sotto è riportato anche il discorso pronunciato la stessa mattina dal papa a Gerusalemme, nella basilica del Santo Sepolcro, ultima tappa del suo pellegrinaggio nei Luoghi Santi.
Benedetto XVI l’ha pronunciato subito dopo aver pregato in ginocchio sulla tomba vuota di Gesù, quella della risurrezione.
E fin dall’inizio ha tenuto a proclamare che all’infuori di Gesù risorto “non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati”.
Queste parole non sono una citazione della “Dominus Iesus”, la dichiarazione “sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa” emessa nel 2000 dall’allora cardinale Joseph Ratzinger e criticata anche da molti ebrei.
Ma sono la predicazione di Pietro, nel capitolo quarto degli Atti degli Apostoli.
E oggi del suo successore.
A tutti coloro che soffrono nella terra che fu di Gesù, siano essi ebrei o arabi, cristiani o musulmani, Benedetto XVI ha voluto dare questa consegna, davanti alla tomba vuota del Risorto: “La tomba vuota ci parla di speranza, quella stessa che non ci delude, poiché è dono dello Spirito della vita.
Questo è il messaggio che oggi desidero lasciarvi, a conclusione del mio pellegrinaggio nella Terra Santa”.
__________ Discorso di congedo all’aeroporto di Tel Aviv, 15 maggio 2009 di Benedetto XVI Signor presidente, signor primo ministro, eccellenze, signore e signori, mentre mi dispongo a ritornare a Roma, vorrei condividere con voi alcune delle forti impressioni che il mio pellegrinaggio in Terra Santa ha lasciato dentro di me.
[…] Signor presidente, lei ed io abbiamo piantato un albero di ulivo nella sua residenza, nel giorno del mio arrivo in Israele.
L’albero di ulivo, come ella sa, è un’immagine usata da san Paolo per descrivere le relazioni molto strette tra cristiani ed ebrei.
Nella sua lettera ai Romani, Paolo descrive come la Chiesa dei gentili sia come un germoglio di ulivo selvatico, innestato nell’albero di ulivo buono che è il popolo dell’alleanza (cfr.
11, 17-24).
Traiamo il nostro nutrimento dalle medesime radici spirituali.
Ci incontriamo come fratelli, fratelli che in certi momenti della storia comune hanno avuto un rapporto teso, ma sono adesso fermamente impegnati nella costruzione di ponti di duratura amicizia.
La cerimonia al palazzo presidenziale è stata seguita da uno dei momenti più solenni della mia permanenza in Israele – la mia visita al Memoriale dell’Olocausto a Yad Vashem, dove ho reso omaggio alle vittime della Shoah.
Lì ho anche incontrato alcuni dei sopravvissuti.
Quegli incontri profondamente commoventi hanno rinnovato ricordi della mia visita di tre anni fa al campo della morte di Auschwitz, dove così tanti ebrei – madri, padri, mariti, mogli, figli, figlie, fratelli, sorelle, amici – furono brutalmente sterminati sotto un regime senza Dio che propagava un’ideologia di antisemitismo e odio.
Quello spaventoso capitolo della storia non deve essere mai dimenticato o negato.
Al contrario, quelle buie memorie devono rafforzare la nostra determinazione ad avvicinarci ancor più gli uni agli altri come rami dello stesso ulivo, nutriti dalle stesse radici e uniti da amore fraterno.
Signor presidente, la ringrazio per il calore della sua ospitalità, molto apprezzata, e desidero che consti il fatto che sono venuto a visitare questo paese da amico degli israeliani, così come sono amico del popolo palestinese.
Gli amici amano trascorrere del tempo in reciproca compagnia e si affliggono profondamente nel vedere l’altro soffrire.
Nessun amico degli israeliani e dei palestinesi può evitare di rattristarsi per la continua tensione fra i vostri due popoli.
Nessun amico può fare a meno di piangere per le sofferenze e le perdite di vite umane che entrambi i popoli hanno subito negli ultimi sei decenni.
Mi consenta di rivolgere questo appello a tutto il popolo di queste terre: Non più spargimento di sangue! Non più scontri! Non più terrorismo! Non più guerra! Rompiamo invece il circolo vizioso della violenza.
Possa instaurarsi una pace duratura basata sulla giustizia, vi sia vera riconciliazione e risanamento.
Sia universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti.
Sia ugualmente riconosciuto che il popolo palestinese ha il diritto a una patria indipendente sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente.
Che la “two-State solution”, la soluzione di due Stati, divenga realtà e non rimanga un sogno.
E che la pace possa diffondersi da queste terre; possano essere “luce per le nazioni” (Isaia 42, 6), recando speranza alle molte altre regioni che sono colpite da conflitti.
Una delle visioni più tristi per me durante la mia visita a queste terre è stato il muro.
Mentre lo costeggiavo, ho pregato per un futuro in cui i popoli della Terra Santa possano vivere insieme in pace e armonia senza la necessità di simili strumenti di sicurezza e di separazione, ma rispettandosi e fidandosi l’uno dell’altro, nella rinuncia ad ogni forma di violenza e di aggressione.
Signor presidente, so quanto sarà difficile raggiungere quell’obiettivo.
So quanto sia difficile il suo compito e quello dell’autorità palestinese.
Ma le assicuro che le mie preghiere e le preghiere dei cattolici di tutto il mondo la accompagnano mentre ella prosegue nello sforzo di costruire una pace giusta e duratura in questa regione.
[…] A tutti dico: grazie e che il Signore sia con voi.
Shalom! Quanto al muro che divide Israele dai Territori, la critica che molti ebrei fanno alla Santa Sede è di trascurarne la finalità di barriera di sicurezza, contro le incursioni terroristiche, e di parteggiare più per i palestinesi che per gli israeliani.
Nel suo discorso finale, il papa si è così espresso in proposito: “Una delle visioni più tristi per me durante la mia visita a queste terre è stato il muro.
Mentre lo costeggiavo, ho pregato per un futuro in cui i popoli della Terra Santa possano vivere insieme in pace e armonia senza la necessità di simili strumenti di sicurezza e di separazione, ma rispettandosi e fidandosi l’uno dell’altro, nella rinuncia ad ogni forma di violenza e di aggressione”.
Dicendo così, Benedetto XVI ha riconosciuto da un lato le afflizioni che la barriera infligge al popolo palestinese ma dall’altro – esplicitamente – anche la sua natura di “strumento di sicurezza” per Israele.
E ha invitato tutti, affinché questo muro possa cadere, a coniugare sicurezza e fiducia reciproca, come già aveva fatto lunedì 11 maggio a Gerusalemme, durante la visita “dell’ulivo” al palazzo presidenziale, riflettendo sul doppio significato della parola biblica “betah”.
Inoltre, sempre nel discorso finale all’aeroporto di Tel Aviv, nell’invocare la fine della guerra e del terrorismo e nell’auspicare una “two-State solution”, il papa ha ribadito la necessità che “sia universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti”.
Con ciò papa Ratzinger è andato incontro alla richiesta che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu gli aveva fatto il giorno precedente a Nazaret, in un colloquio a porte chiuse: quella di condannare le posizioni negazioniste dell’Iran circa l’esistenza dello Stato d’Israele Aveva iniziato il suo viaggio dal Monte Nebo ricordando “l’inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebreo” ed esprimendo “il desiderio di superare ogni ostacolo che si frappone alla riconciliazione fra cristiani ed ebrei”.
L’ha concluso, venerdì 15 maggio all’aeroporto di Tel Aviv, di nuovo all’insegna di questa prossimità tra i due popoli.
Nel salutare il presidente di Israele prima di ripartire per Roma, Benedetto XVI ha tenuto a dire che l’ulivo piantato da loro assieme nel giardino del palazzo presidenziale è “l’immagine usata da san Paolo per descrivere le relazioni molto strette tra cristiani ed ebrei”.
La Chiesa delle genti è l’ulivo selvatico innestato sull’ulivo buono che è il popolo dell’alleanza.
Si nutrono dalla stessa radice.
Curiosamente, nel suo discorso finale, questa dell’ulivo ebraico-cristiano è stata la prima immagine richiamata da Benedetto XVI nel rivelare i momenti del viaggio che hanno lasciato dentro di lui “le più forti impressioni”.
A questa immagine egli ha fatto seguire due altre istantanee salienti: il memoriale di Yad Vashem e il muro divisorio tra Israele e i Territori.
Entrambi questi momenti avevano procurato al papa delle critiche.
A Yad Vashem lo si era rimproverato d’essere stato elusivo e freddo nel descrivere e condannare la Shoah, quando in realtà Benedetto XVI – come sempre impolitico – si era distaccato dalle formule usuali per svolgere piuttosto una riflessione originale e profonda sul “nome” di tutte le vittime di allora e di sempre, fin dal tempo di Abele.
Nome indelebile non tanto perché impresso nella memoria degli uomini, ma perchè custodito in vita irrevocabilmente in Dio.
Nome che nella Bibbia coincide con la persona e la missione di ogni creatura.
Su questo punto, nel discorso finale, papa Joseph Ratzinger ha implicitamente risposto ai critici ricordando la sua visita del 2006 ad Auschwitz, “dove così tanti ebrei – madri, padri, mariti, mogli, figli, figlie, fratelli, sorelle, amici – furono brutalmente sterminati sotto un regime senza Dio che propagava un’ideologia di antisemitismo e odio.
Quello spaventoso capitolo della storia non deve essere mai dimenticato o negato”.
Ma soprattutto il papa ha voluto incoraggiare a ricavare dalla riflessione sulla Shoah un motivo in più di rappacificazione tra cristiani ed ebrei, di nuovo ricorrendo al simbolo dell’ulivo: “Quelle buie memorie devono rafforzare la nostra determinazione ad avvicinarci ancor più gli uni agli altri come rami dello stesso ulivo, nutriti dalle stesse radici e uniti da amore fraterno”.
Benedetto XVI l’ha pronunciato subito dopo aver pregato in ginocchio sulla tomba vuota di Gesù, quella della risurrezione.
E fin dall’inizio ha tenuto a proclamare che all’infuori di Gesù risorto “non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati”.
Queste parole non sono una citazione della “Dominus Iesus”, la dichiarazione “sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa” emessa nel 2000 dall’allora cardinale Joseph Ratzinger e criticata anche da molti ebrei.
Ma sono la predicazione di Pietro, nel capitolo quarto degli Atti degli Apostoli.
E oggi del suo successore.
A tutti coloro che soffrono nella terra che fu di Gesù, siano essi ebrei o arabi, cristiani o musulmani, Benedetto XVI ha voluto dare questa consegna, davanti alla tomba vuota del Risorto: “La tomba vuota ci parla di speranza, quella stessa che non ci delude, poiché è dono dello Spirito della vita.
Questo è il messaggio che oggi desidero lasciarvi, a conclusione del mio pellegrinaggio nella Terra Santa”.
Discorso nella basilica del Santo Sepolcro, Gerusalemme, 15 maggio 2009 di Benedetto XVI Cari amici in Cristo, l’inno di lode che abbiamo appena cantato ci unisce alle schiere angeliche ed alla Chiesa di ogni tempo e luogo – “il glorioso coro degli apostoli, la nobile compagnia dei profeti e la candida schiera dei martiri” – mentre diamo gloria a Dio per l’opera della nostra redenzione, compiuta nella passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo.
Davanti a questo Santo Sepolcro, dove il Signore “ha vinto l’aculeo della morte e aperto il regno dei cieli ad ogni credente”, vi saluto tutti nella gioia del tempo pasquale.
[…]  Il Vangelo di san Giovanni ci ha trasmesso un suggestivo racconto della visita di Pietro e  del discepolo amato alla tomba vuota nel mattino di Pasqua.
Oggi, a distanza di circa venti secoli, il successore di Pietro, il vescovo di Roma, si trova davanti a quella stessa tomba vuota e contempla il mistero della risurrezione.
Sulle orme dell’Apostolo, desidero ancora una volta proclamare, davanti agli uomini e alle donne del nostro tempo, la salda fede della Chiesa che Gesù Cristo “fu crocifisso, morì e fu sepolto”, e che “il terzo giorno risuscitò dai morti”.
Innalzato alla destra del Padre, egli ci ha mandato il suo Spirito per il perdono dei peccati.
All’infuori di Lui, che Dio ha costituito Signore e Cristo, “non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (Atti 4, 12).
Trovandoci in questo santo luogo e considerando quel meraviglioso evento, come potremmo  non sentirci “trafiggere il cuore” (cfr.
Atti 2, 37), alla maniera di coloro che per primi udirono la predicazione di Pietro nel giorno di Pentecoste? Qui Cristo morì e risuscitò, per non morire mai più.
Qui la storia dell’umanità fu definitivamente cambiata.
Il lungo dominio del peccato e della morte venne distrutto dal trionfo dell’obbedienza e della vita; il legno della croce svela la verità circa il bene e il male; il giudizio di Dio fu pronunciato su questo mondo e la grazia dello Spirito Santo venne riversata sull’umanità intera.
Qui Cristo, il nuovo Adamo, ci ha insegnato che mai il male ha l’ultima parola, che l’amore è più forte della morte, che il nostro futuro e quello dell’umanità sta nelle mani di un Dio provvido e fedele.
La tomba vuota ci parla di speranza, quella stessa che non ci delude, poiché è dono dello Spirito della vita (cfr.
Romani 5, 5).
Questo è il messaggio che oggi desidero lasciarvi, a conclusione del mio pellegrinaggio nella Terra Santa.
Possa la speranza levarsi sempre di nuovo, per la grazia di Dio, nel cuore di ogni persona che vive in queste terre! Possa radicarsi nei vostri cuori, rimanere nelle vostre famiglie e comunità ed ispirare in ciascuno di voi una testimonianza sempre più fedele al Principe della Pace.
La Chiesa in Terra Santa, che ben spesso ha sperimentato l’oscuro mistero del Golgota, non deve mai cessare di essere un intrepido araldo del luminoso messaggio di speranza che questa tomba vuota proclama.
Il Vangelo ci dice che Dio può far nuove tutte le cose, che la storia non necessariamente si ripete, che le memorie possono essere purificate, che gli amari frutti della recriminazione e dell’ostilità possono essere superati, e che un futuro di giustizia, di pace, di prosperità e di collaborazione può sorgere per ogni uomo e donna, per l’intera famiglia umana, ed in maniera speciale per il popolo che vive in questa terra, così cara al cuore del Salvatore.
Quest’antica chiesa dell’Anastasis reca una sua muta testimonianza sia al peso del nostro  passato, con tutte le sue mancanze, incomprensioni e conflitti, sia alla promessa gloriosa che continua ad irradiare dalla tomba vuota di Cristo.
Questo luogo santo, dove la potenza di Dio si rivelò nella debolezza, e le sofferenze umane furono trasfigurate dalla gloria divina, ci invita a guardare ancora una volta con gli occhi della fede al volto del Signore crocifisso e risorto.
Nel contemplare la sua carne glorificata, completamente trasfigurata dallo Spirito, giungiamo a comprendere più pienamente che anche adesso, mediante il Battesimo, portiamo “sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale” (2 Corinzi 4, 10-11).
Anche ora la grazia della risurrezione è all’opera in noi! Possa la contemplazione di questo mistero spronare i nostri sforzi, sia come individui che come membri della comunità ecclesiale, a crescere nella vita dello Spirito mediante la conversione, la penitenza e la preghiera.
Possa inoltre aiutarci a superare, con la potenza di quello stesso Spirito, ogni conflitto e tensione nati dalla carne e rimuovere ogni ostacolo, sia dentro che fuori, che si frappone alla nostra comune testimonianza a Cristo ed al potere del suo amore che riconcilia.
Con tali parole di incoraggiamento, cari amici, concludo il mio pellegrinaggio ai luoghi  santi della nostra redenzione e rinascita in Cristo.
Prego che la Chiesa in Terra Santa tragga sempre maggiore forza dalla contemplazione della tomba vuota del Redentore.
In quella tomba essa è chiamata a seppellire tutte le sue ansie e paure, per risorgere nuovamente ogni giorno e continuare il suo viaggio per le vie di Gerusalemme, della Galilea ed oltre, proclamando il trionfo del perdono di Cristo e la promessa di una vita nuova.
Come cristiani, sappiamo che la pace alla quale anela questa terra lacerata da conflitti ha un nome: Gesù Cristo.
“Egli è la nostra pace”, che ci ha riconciliati con Dio in un solo corpo mediante la Croce, ponendo fine all’inimicizia (cfr.
Efesini 2, 14).
Nelle sue mani, pertanto, affidiamo tutta la nostra speranza per il futuro, proprio come nell’ora delle tenebre egli affidò il suo spirito nelle mani del Padre.
Permettetemi di concludere con una speciale parola di incoraggiamento ai miei fratelli vescovi e sacerdoti, come pure ai religiosi e alle religiose che servono l’amata Chiesa in Terra Santa.
Qui, davanti alla tomba vuota, al cuore stesso della Chiesa, vi invito a rinnovare l’entusiasmo della vostra consacrazione a Cristo ed il vostro impegno nell’amorevole servizio al suo mistico Corpo.
Immenso è il vostro privilegio di dare testimonianza a Cristo in questa terra che Egli ha santificato mediante la sua presenza terrena e il suo ministero.
Con pastorale carità rendete capaci i vostri fratelli e sorelle e tutti gli abitanti di questa terra di percepire la presenza che guarisce e l’amore che riconcilia del Risorto.
Gesù chiede a ciascuno di noi di essere testimone di unità e di pace per tutti coloro che vivono in questa Città della Pace.
Come nuovo Adamo, Cristo è la sorgente dell’unità alla quale l’intera famiglia umana è chiamata, quella stessa unità della quale la Chiesa è segno e sacramento.
Come Agnello di Dio, egli è la fonte della riconciliazione, che è al contempo dono di Dio e sacro dovere affidato a noi.
Quale Principe della Pace, Egli è la sorgente di quella pace che supera ogni comprensione, la pace della nuova Gerusalemme.
Possa Egli sostenervi nelle vostre prove, confortarvi nelle vostre afflizioni, e confermarvi nei vostri sforzi di annunciare e di estendere il suo Regno.
A voi tutti e a quanti vanno le vostre premure pastorali imparto cordialmente la mia benedizione apostolica, quale pegno della gioia e della pace di Pasqua.
__________ Il programma, i discorsi, le omelie del viaggio di Benedetto XVI: > Pellegrinaggio in Terra Santa, 8-15 maggio 2009 __________ Qui di seguito è riprodotto il discorso con cui Benedetto XVI ha concluso il suo viaggio, venerdì 15 maggio.
Ma più sotto è riportato anche il discorso pronunciato la stessa mattina dal papa a Gerusalemme, nella basilica del Santo Sepolcro, ultima tappa del suo pellegrinaggio nei Luoghi Santi.
__________ Discorso di congedo all’aeroporto di Tel Aviv, 15 maggio 2009 di Benedetto XVI Signor presidente, signor primo ministro, eccellenze, signore e signori, mentre mi dispongo a ritornare a Roma, vorrei condividere con voi alcune delle forti impressioni che il mio pellegrinaggio in Terra Santa ha lasciato dentro di me.
[…] Signor presidente, lei ed io abbiamo piantato un albero di ulivo nella sua residenza, nel giorno del mio arrivo in Israele.
L’albero di ulivo, come ella sa, è un’immagine usata da san Paolo per descrivere le relazioni molto strette tra cristiani ed ebrei.
Nella sua lettera ai Romani, Paolo descrive come la Chiesa dei gentili sia come un germoglio di ulivo selvatico, innestato nell’albero di ulivo buono che è il popolo dell’alleanza (cfr.
11, 17-24).
Traiamo il nostro nutrimento dalle medesime radici spirituali.
Ci incontriamo come fratelli, fratelli che in certi momenti della storia comune hanno avuto un rapporto teso, ma sono adesso fermamente impegnati nella costruzione di ponti di duratura amicizia.
La cerimonia al palazzo presidenziale è stata seguita da uno dei momenti più solenni della mia permanenza in Israele – la mia visita al Memoriale dell’Olocausto a Yad Vashem, dove ho reso omaggio alle vittime della Shoah.
Lì ho anche incontrato alcuni dei sopravvissuti.
Quegli incontri profondamente commoventi hanno rinnovato ricordi della mia visita di tre anni fa al campo della morte di Auschwitz, dove così tanti ebrei – madri, padri, mariti, mogli, figli, figlie, fratelli, sorelle, amici – furono brutalmente sterminati sotto un regime senza Dio che propagava un’ideologia di antisemitismo e odio.
Quello spaventoso capitolo della storia non deve essere mai dimenticato o negato.
Al contrario, quelle buie memorie devono rafforzare la nostra determinazione ad avvicinarci ancor più gli uni agli altri come rami dello stesso ulivo, nutriti dalle stesse radici e uniti da amore fraterno.
Signor presidente, la ringrazio per il calore della sua ospitalità, molto apprezzata, e desidero che consti il fatto che sono venuto a visitare questo paese da amico degli israeliani, così come sono amico del popolo palestinese.
Gli amici amano trascorrere del tempo in reciproca compagnia e si affliggono profondamente nel vedere l’altro soffrire.
Nessun amico degli israeliani e dei palestinesi può evitare di rattristarsi per la continua tensione fra i vostri due popoli.
Nessun amico può fare a meno di piangere per le sofferenze e le perdite di vite umane che entrambi i popoli hanno subito negli ultimi sei decenni.
Mi consenta di rivolgere questo appello a tutto il popolo di queste terre: Non più spargimento di sangue! Non più scontri! Non più terrorismo! Non più guerra! Rompiamo invece il circolo vizioso della violenza.
Possa instaurarsi una pace duratura basata sulla giustizia, vi sia vera riconciliazione e risanamento.
Sia universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti.
Sia ugualmente riconosciuto che il popolo palestinese ha il diritto a una patria indipendente sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente.
Che la “two-State solution”, la soluzione di due Stati, divenga realtà e non rimanga un sogno.
E che la pace possa diffondersi da queste terre; possano essere “luce per le nazioni” (Isaia 42, 6), recando speranza alle molte altre regioni che sono colpite da conflitti.
Una delle visioni più tristi per me durante la mia visita a queste terre è stato il muro.
Mentre lo costeggiavo, ho pregato per un futuro in cui i popoli della Terra Santa possano vivere insieme in pace e armonia senza la necessità di simili strumenti di sicurezza e di separazione, ma rispettandosi e fidandosi l’uno dell’altro, nella rinuncia ad ogni forma di violenza e di aggressione.
Signor presidente, so quanto sarà difficile raggiungere quell’obiettivo.
So quanto sia difficile il suo compito e quello dell’autorità palestinese.
Ma le assicuro che le mie preghiere e le preghiere dei cattolici di tutto il mondo la accompagnano mentre ella prosegue nello sforzo di costruire una pace giusta e duratura in questa regione.
[…] A tutti dico: grazie e che il Signore sia con voi.
Shalom!