Un documento della Compagnia delle Opere sulla scuola

Con un approccio nuovo e veramente significativo il documento che la Compagnia delle Opere dedica alla scuola, e che qui presentiamo, evidenzia la stretta connessione che intercorre tra il tema educazione e il tema istruzione.
Le proposte che qui vengono avanzate per un cambiamento del sistema scolastico sono per lo più riconosciute e condivise dai migliori centri di studio e di approfondimento sul tema istruzione, quali l’Associazione TreeLLLe, la Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, la Fondazione Agnelli ecc.
I punti sono noti: autonomia (nuova governance) e parità, contro lo statalismo ipercentralista; reale valutazione del sistema scolastico; nuova professionalità e carriera per i docenti; personalizzazione dei percorsi; abolizione del valore legale del titolo di studio.
Sono tutti punti essenziali, la cui importanza è anche in un certo senso sistemica: una cosa senza l’altra (ad esempio, autonomia senza valutazione) sarebbe una cosa fatta a metà, e quindi fatta male.
A tutti questi temi il nostro giornale ha già dedicato moltissimi interventi di approfondimento e continuerà a farlo.
Il punto caratterizzante del documento è un altro: non solo la centralità del tema educazione, ma la diretta consequenzialità e correlazione tra la tensione educativa e la ricerca di risposte concrete a livello di sistema di istruzione.
Non c’è educazione che non entri nel merito anche delle scelte concrete, sia nella didattica che nella politica scolastica; e d’altro canto parlare di istruzione senza porsi il problema educativo sarebbe ridurre tutto a un vacuo tecnicismo utopistico.
Non si creerà mai un sistema talmente perfetto da rendere superfluo il rapporto educativo tra docente e studente, elemento centrale della scuola; ma non si darà mai vera incidenza alla tensione educativa se la si lascerà a lato delle problematiche della scuola (riducendola di fatto a ciò che è lo svago del sabato sera rispetto alla settimana lavorativa).
Nel documento “Una scuola che parla al futuro” è segnata una stretta interdipendenza tra i due aspetti.
Basta confrontare i punti essenziali alla voce “Educazione” e le proposte programmatiche, e si vedrà che dai primi discendono le seconde: quando si dice che «la prima condizione che realizza l’educazione è la presenza di figure adulte autorevoli» significa, di conseguenza, che è necessario che ci siano «docenti e dirigenti come veri professionisti» (d’altronde, finché lo studente continuerà a guardare al professore come a un fallito nella scala sociale tutto resterà molto difficile); quando si dice che «l’autorevolezza deriva dalla partecipazione ad un cammino unitario di costruzione del proprio io» e che «gli alunni non sono da intendere come il terminale astratto di iniziative che li vedono passivi», ne deriva la necessità di avere «percorsi di studio flessibili e personalizzati».
E così via.
Le esigenze educative si concretano in scelte di politica scolastica, che non saranno mai la soluzione perfetta, ma permetteranno o di facilitare il processo educativo, o quanto meno (e già sarebbe molto!) di non ostacolarlo.
Questa è dunque la grande sfida che questo documento lancia nel dibattito sulla scuola.
In un momento in cui, per altro, l’emergenza educativa è sempre più evidente e centrale.
In questo senso, le molte indagini e ricerche (alcune recentissime) che testimoniano la totale indifferenza degli studenti verso la loro esperienza scolastica sono un dato drammatico e ineludibile: i docenti non sono un punto di riferimento, né umano né culturale; le cose che contano veramente le si imparano altrove; la scuola non è né buona né cattiva, ma semplicemente indifferente, perché da essa non ci si aspetta nulla.
Ecco come educazione e istruzione vengono allora a coincidere: nel momento in cui ci si rende pienamente conto che, come fu detto autorevolmente, non c’è cosa più assurda della risposta a una domanda che non si pone.
Far emergere la domanda di sapere e conoscenza è compito educativo, che si realizza dentro un’autorevole e riconosciuta professionalità didattica che abbia come fine l’istruzione.
Un ultimo appunto, che rende particolarmente importante e attuale il documento Cdo: proprio in questi giorni l’Assemblea della Conferenza episcopale italiana ha rilanciato il tema educazione come tema del prossimo decennio.
Significa che c’è una grande responsabilità, non solo per i cattolici, e un impegno per tutti, in termini di riflessione, approfondimento, lavoro concreto: l’educazione e la scuola dovranno essere i pilastri del dibattito politico-culturale nei prossimi anni.
Per consultare il documento: Scuola e futuroIl sussidiario Oggi il ministro Gelmini, attesa al meeting di Rimini per un suo intervento, è chiamata anche implicitamente a fornire risposte ad un documento predisposto dalla Compagnia delle Opere dedicato alla scuola e contenente una stretta interconnessione tra educazione e istruzione.
Ne parla sul proprio sito la testata on-line “Il sussidiario” che riporta il testo integrale del documento.
Le proposte avanzate dalla Compagnia delle Opera – osserva l’editoriale de “Il sussidiario” – per un cambiamento del sistema scolastico “sono per lo più riconosciute e condivise dai migliori centri di studio e di approfondimento sul tema istruzione, quali l’Associazione TreeLLLe, la Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, la Fondazione Agnelli ecc.”.
I punti trattati dal documento e che chiamano in causa la Gelmini sono: – autonomia (nuova governance) e parità, contro lo statalismo ipercentralista; – reale valutazione del sistema scolastico; – nuova professionalità e carriera per i docenti; – personalizzazione dei percorsi; – abolizione del valore legale del titolo di studio.
“Sono tutti punti essenziali – fa notare Il sussidiario – la cui importanza è anche in un certo senso sistemica: una cosa senza l’altra (ad esempio, autonomia senza valutazione) sarebbe una cosa fatta a metà, e quindi fatta male”.
“Il punto caratterizzante del documento è la diretta correlazione tra la tensione educativa e la ricerca di risposte concrete a livello di sistema di istruzione.
Non c’è educazione che non entri nel merito anche delle scelte concrete, sia nella didattica che nella politica scolastica; e d’altro canto parlare di istruzione senza porsi il problema educativo sarebbe ridurre tutto a un vacuo tecnicismo utopistico.”

XXII Domenica del tempo ordinario anno B

Questo popolo mi onora con le labbra Fratelli, siamo umili, deponendo ogni vanagloria, vanità, stoltezza, ira e adempiamo ciò che sta scritto; lo Spirito santo dice, infatti: «Il saggio non si vanti della sua saggezza, né il forte della sua forza, né il ricco della sua ricchezza, ma chi si vanta si vanti nel Signo-re, di cercarlo e di praticare il diritto e la giustizia» (cfr.
Ger 9,22-23; 1Re 2,10; 1Cor 1,31; 2Cor 10,17).
Ricordiamoci soprattutto delle parole del Signore Gesù, quando ci insegnava la benevolenza e la grandezza d’animo.
Così diceva: «Siate misericordiosi per ottenere mi-sericordia; perdonate per essere perdonati, come farete, così sarà fatto a voi; come date, co-sì sarà dato a voi; come giudicate, così sarete giudicati; la bontà che usate, sarà usata con voi; la misura con la quale misurate, verrà usata con voi» (cfr.
Mt 6,14-15; 7,1-2; Lc 6,31.36-38).
Attacchiamoci saldamente a questo comandamento e a questi precetti per procedere umili e obbedienti nelle sue sante parole; dice infatti la sua santa Parola: «A chi rivolgerò lo sguardo, se non al mite, al pacifico e che teme le mie parole?» (Is 66,2).
Uniamoci, dunque, a quelli che vivono la pace nella fede, non a quelli che fingono di volerla con ipocrisia.
Dice infatti: «Questo popolo mi onora con le labbra e il suo cuore è lontano da me» (Is 29,13; Mc 7,6).
E ancora: «Con la loro bocca benedicono, con il loro cuo-re maledicono» (Sal 61 [62] ,5).
E ancora: «Lo amavano con la bocca e con la lingua gli mentivano, il loro cuore non era retto con lui, né rimanevano fedeli alla sua alleanza» (Sal 77 [78] , 36-37).
[…] Cristo appartiene agli umili e non a quelli che si elevano sopra il suo gregge.
Lo scettro della maestà di Dio, il Signore Gesù Cristo, non è venuto nella vanaglo-ria e nell’orgoglio, anche se avrebbe potuto, ma nell’umiltà, come lo Spirito santo aveva detto di lui.
Sta scritto infatti: «Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? E il brac-cio del Signore a chi fu rivelato? Noi l’abbiamo annunciato in sua presenza: è come un bambino, come una radice in terra arida; non ha apparenza, né gloria» (Is 53,1-2).
Vedete, carissimi, quale modello ci è dato! (CLEMENTE DI ROMA, Lettera ai Corinti 13.15-16, SC 167, pp.
120-126).
L’umiltà «Che abbiamo di buono che non lo abbiamo ricevuto? e se l’abbiamo ricevuto, perché vogliamo riportarne orgoglio? Al contrario, la viva considerazione delle grazie ricevute ci rende umili, poiché la conoscenza genera riconoscenza» (Introduction à la vie dévote [Filotea], V, 5).
«Il punto forte di tale umiltà sta non solo nel riconoscere volontariamente la nostra a-biezione, ma nell’amarla e compiacervisi, e non per mancanza di coraggio e di generosità, ma piuttosto per esaltare tanto più la Maestà divina e stimare molto di più il prossimo a paragone di noi stessi» (Introduction à la vie dévote [Filotea], III, 6).
Verità e umiltà Ci sono degli istanti in cui Dio ci conduce all’estremo limite della nostra impotenza ed è allora e solo allora che comprendiamo fino in fondo il nostro nulla.
Per tanti anni, per troppi anni, mi sono battuto contro la mia impotenza, contro la mia debolezza.
Il più sovente l’ho nascosta, preferendo apparire in pubblico con una bella ma-schera di sicurezza.
E’ l’orgoglio che non vuole accettare l’impotenza, è la superbia che non fa accettare di essere piccolo; e Dio, poco alla volta, me l’ha fatto capire.
Ora non mi batto più, cerco di accettarmi, di considerare la mia realtà senza veli, senza sogni, senza romanzi.
E’ un passo innanzi, credo; e se l’avessi fatto subito, quando imparavo a memoria il ca-techismo, avrei guadagnato quarant’anni.
Ora l’impotenza mia la metto tutta in faccia al-l’onnipotenza di Dio: il cumulo dei miei peccati sotto il sole della sua misericordia, l’abisso della mia piccolezza in verticale sotto l’abisso della sua grandezza.
E mi pare essere giunto il momento d’un incontro con Lui mai conosciuto fino ad ora, uno stare insieme come mai avevo provato, uno spandersi del suo amore come mai avevo sentito.
Sì, è proprio la mia miseria che attira la sua potenza, le mie piaghe che lo chiamano urlando, il mio nulla che fa precipitare a cateratte su di me il suo Tutto.
E in questo incontro fra il Tutto di Dio e il nulla dell’uomo sta la meraviglia più grande del creato.
E’ lo sposalizio più bello perché fatto da un Amore gratuito che si dona e da un Amore gratuito che accetta.
E’, in fondo, tutta la verità di Dio e dell’uomo.
E l’accettazione di questa verità è dovuta all’umiltà ed è per questo che senza umiltà non c’ è verità, e senza verità non c’ è umiltà.
(Carlo Carretto) Preghiera Signore Gesù, liberaci dall’ipocrisia.
Desideriamo con l’aiuto del tuo Santo Spirito per-seguire quello stile di vita che ci qualifica come tuoi veri discepoli.
Permettici di riconosce-re le nostre incoerenze, che offuscano lo splendore del tuo vangelo, e di vegliare sull’au-tenticità della nostra relazione con te e fra di noi.
Ti ringraziamo perché nella tua Pasqua tu ci hai generati a nuova vita, manifestando l’amore del Padre verso di noi.
Per questo c’impegniamo davanti a te a non permettere che nei nostri rapporti comunitari prevalga la ricerca dell’apparire e del dominare.
Ci impe-gniamo a custodire la consapevolezza della nostra immeritata figliolanza divina e della fraternità che deve regnare tra noi, nostro compito ma soprattutto tuo inestimabile dono.
Signore Gesù, desideriamo restare radicalmente tuoi discepoli, senza pretendere di di-ventare maestri di altri, perché dalla bocca tua, o solo Maestro, potremo comprendere, con sempre rinnovata gioia, l’amore di Dio Padre per noi suoi figli.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Deuteronomio 4,1-2.6-8 Mosè parlò al popolo dicendo: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signo-re, Dio dei vostri padri, sta per darvi.
Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osservere-te i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo.
Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sa-rà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”.
Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invo-chiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi do?».
La prima lettura ci presenta Mosè che parla al popolo e lo esorta a mettere in pratica la legge del Signore: esortazione, che costituisce il tema fondamentale del Deuteronomio (Dt 4,l; cf.
5,1; 6,1; 8,1; 11.
8-9).
I versetti iniziali del capitolo quattro sono costruiti con termini e forme linguistiche tipi-che dello stile deuteronomistico: «Ora, Israele (Shemá Israel); «Signore, Dio dei vostri padri»; «i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo».
Questi versetti sono come un preludio musicale, nel quale vengono anticipati i motivi dell’intera composizione (cf.
N.
Lohfink, Ascolta Israele, Esegesi di testi del Deuteronomio, Paideia Brescia 1965, p.
106).
Mosè invita con insistenza il popolo a mettere in pratica gli ordinamenti che egli ha ri-cevuto da Dio ed insegna al popolo.
La conseguenza della pratica dei comandamenti è la vita: Israele, attraverso l’obbedienza ai comandamenti è introdotto nella sfera della vita del Signore.
La libertà piena sarà raggiunta nella terra «che il Signore ha giurato di dare ai vo-stri padri e alla loro discendenza» (Dt 11,9; cf.
Dt 8,1).
Anche la vita libera e serena nella terra è legata all’obbedienza ai precetti.
La disobbedienza può comportare la perdita della terra, come è il caso di Israele in esilio, quando il Deuteronomio viene scritto.
Allora sorge una domanda angosciante; Israele che non ha più la terra, non ha più il tempio, può anco-ra distinguersi come popolo di fronte alle altre nazioni? I versetti 6-8 del capitolo 4, insie-me con tutto il libro del Deuteronomio, rispondono: «Israele senza terra e senza tempio è ancora una nazione distinta dalle altre, perché la sua identità di popolo di Dio gli è data dalla Tôrà del Signore, che contiene ordinamenti più saggi e più giusti di tutti quelli degli altri popoli.
Questa risposta del Deuteronomio sarà molto preziosa anche dopo la distru-zione del secondo tempio e di Gerusalemme nel 70 d.C.
da parte dei romani.
Intorno alla Tôrà si ricostituirà l’identità del popolo e la testimonianza al Dio unico, peculiare missione di Israele fra le genti, si esprimerà nella pratica dei precetti, l’osservanza dei precetti della Tôrà costituisce la saggezza e l’intelligenza di Israele «agli occhi dei popoli, i quali, udendo par-lare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente» (Dt 4,6).
Israele, oltre che per gli ordinamenti, si distingue per la particolare vicinanza a Dio.
In ebraico c’è un gioco di parole fra «vicino» (qarob) e «invocare» (qarà).
Israele, in esilio, apparentemente abbandonato dal suo Dio, lo ha ancora così vicino, che lo ascolta ogni volta che lo invoca, la vicinanza di Dio non è per Israele legata a un luogo, ma all’ascolto della sua Parola, che deve essere messa in pratica sempre e dovunque.
Dopo la colpa, c’è la possibilità del ritorno (teshuvà) «perché il Signore tuo Dio è un Dio mise-ricordioso, non ti abbandonerà e non ti distruggerà, non dimenticherà l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri» (Dt 4,31).
In questa luce si capisce l’entusiasmo del Deuteronomio e di altre pagine bibliche, in particolare i Salmi, per i decreti e gli ordinamenti della Tôrà, che costituisce il patrimonio prezioso di Israele, che lo distingue dagli altri popoli e lo rende vicino a Dio in un modo del tutto peculiare.
Seconda lettura: Giacomo 1,17-18.21-22.27 Fratelli miei carissimi, ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento.
Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di veri-tà, per essere una primizia delle sue creature.
Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza.
Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi.
Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfa-ni e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo.
I quattro versetti del primo capitolo della lettera di Giacomo (17-18.21.27) che la liturgia ci fa leggere oggi fanno parte della pericope 1,17-27, che è un’esortazione ad ascoltare e mettere in pratica la parola di Dio, perfettamente in linea con la prima lettura.
Giacomo si rivolge a discepoli di Gesù ebrei con un linguaggio a loro familiare.
Dio è Padre della luce e Padre di coloro che «per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità» (Gc 1,18).
I figli da lui scelti devono rispondergli con l’obbedienza, segno dell’ac-cettazione dei suoi doni, che sono permanenti e perfetti, non caduchi come quelli degli uomini (Gc 1,17).
Perfetta è la legge, che è il dono di Dio per eccellenza; essa è «la legge della libertà» (Gc 1,25).
La lettera di Giacomo, entrata nel canone allo stesso titolo delle lettere paoline, può aiu-tarci a mantenere un atteggiamento equilibrato nei confronti della Tôrà di Mosè, che gli e-brei religiosi del tempo di Gesù e dei secoli posteriori fino ad oggi hanno sempre cercato di mettere in pratica e di insegnare ai figli di generazione in generazione.
La presenza della lettera di Giacomo nel canone, ci ricorda che non possiamo farci una rivelazione su misura.
La Bibbia presenta spesso pagine che sembrano a una prima lettura in contraddizione, non dobbiamo di fronte alle difficoltà scegliere una pagina, ignorando l’altra.
Non possiamo parlare di grazia senza la legge; la legge (Tôrà) è il dono gratuito di Dio per eccellenza, come dice il Deuteronomio, il segno del patto di alleanza, che costitui-sce Israele nella realtà di popolo di Dio e lo fa vivere come tale.
I cristiani, se provenienti dal giudaismo, come dovevano essere quelli a cui Giacomo scriveva, devono continuare a seguire la legge di Dio «perfetta e legge della libertà», come ha dato l’esempio Gesù stesso.
Paolo stesso, nella lettera ai Romani dice: «Non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati» (Rom 2,13).
Anche i cristiani venuti dal paganesimo, non sono esonerati dal mettere in pratica la Paro-la di Dio, l’esempio di Gesù vale anche per loro.
Resta la problematica dell’interpretazione e del modo di applicazione, che si fa acuto per i cristiani provenienti dal paganesimo, co-me ne costatiamo il riflesso nella pagina evangelica.
Vangelo: Marco 7,1-8.14-15.21-23 In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme.
Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me.
Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».
Chiamata di nuovo la folla, diceva lo-ro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro.
Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro».
E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza.
Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».
Esegesi La pericope evangelica Mc 7,1-23, di cui leggiamo oggi i versetti 1-8, 14-15.21-23 è co-struita intorno alla problematica fondamentale di come distinguere il «comandamento di Dio», dal «precetti degli uomini».
Non è messa in discussione la Tôrà (insegnamento, leg-ge) data da Dio a Mosè sul Sinai, ma la sua interpretazione e le modalità della sua messa in pratica.
Gesù si scaglia in maniera molto polemica contro «le tradizioni degli uomini», che possono far dimenticare le esigenze fondamentali dei precetti divini, non contro que-st’ultimi, che invece devono essere eseguiti, come lui stesso da l’esempio.
I personaggi messi in scena dal brano sono nel primo quadro: i farisei e alcuni scribi ve-nuti da Gerusalemme, Gesù e i suoi discepoli (vv.
1-13); nel secondo: Gesù e la folla, chia-mata da lui (14-15.[16]); nel terzo: Gesù e i discepoli rientrati in casa (17-23).
La cornice è poco attendibile storicamente, è un pretesto per fissare l’attenzione sulle problematiche discusse.
Farisei e scribi, infatti, arrivati addirittura da Gerusalemme, pon-gono a Gesù una domanda: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione de-gli antichi, ma prendono cibo con mani impure?» (Mc 7,5) e poi scompaiono di scena, senza ri-spondere all’invettiva polemica di Gesù, nei loro confronti.
Dobbiamo rilevare che non è Gesù a commettere un’infrazione rituale (cf.
Mc 2,23), ma solo i discepoli non seguono la regola, presentata come facente parte della «tradizione de-gli antichi» (Mc 7,3).
Il desiderio di purificazione, che si manifestava nei bagni rituali, nelle immersioni, a-spersioni e abluzioni varie era diffuso nelle popolazioni antiche, non solo in Israele.
Il Vangelo di Marco presenta la regola di lavarsi le mani prima di prendere cibo come co-mune sia ai farisei sia a tutti i giudei (Mc 7,1-3).
Una affermazione, dice Piero Stefani nel suo commento al brano, che «appare difficilmente valida se situata all’epoca di Gesù.
Il la-vaggio delle mani (e dei piedi) si presenta, infatti, come esplicito precetto biblico solo nel caso del sacerdote che deve seguirlo prima di entrare nel luogo sacro per compiervi un’of-ferta (Es 30,17-21; cf.
Dt 21,6-7), (ma nulla era richiesto, neppure al sacerdote, in relazione alla consumazione del cibo comune).
All’epoca di Gesù, però, particolari gruppi di ebrei (detti chaverini), che si proponevano di realizzare la santificazione di ogni aspetto della vi-ta, e che perciò tendevano a comportarsi nelle loro case come i sacerdoti nel tempio, adot-tarono la prassi di lavarsi ritualmente le mani prima di mangiare.
È proprio quest’esten-sione della sacralità, tanto accentuata da farla in un certo senso coincidere con la profanità, indicò una delle vie che consentiranno all’ebraismo di proseguire la propria vicenda anche dopo la distruzione del secondo tempio.
Tuttavia questi gruppi (di cui non è neppure uni-versalmente condivisa l’identificazione con i farisei) rappresentavano solo una piccola mi-noranza della popolazione, non certo «tutti i giudei» (Mc 7,3).
Solo dopo la distruzione del tempio (in una data incerta, ma anteriore alla metà del II secolo), tale norma fu estesa a tut-ti e integrata nella codificazione della Mishná; in tal modo essa, secondo lo spirito proprio della tradizione ebraica, divenne, nonostante fosse stata promulgata dai maestri, tanto va-lida come se provenisse direttamente dal Signore, cosicché tuttora, quando si compie que-sta abluzione (detta notilat judalm), si recita la seguente benedizione: «Benedetto sei tu, o Signore Dio nostro re del mondo, che ci hai santificato con i tuoi precetti e ci hai comanda-to il lavaggio delle mani».
È però assai difficile ritenere che all’epoca di Gesù qualcuno po-tesse recitare una simile benedizione.
Sullo sfondo di queste precisazioni, risulta quanto meno strano che in Marco (ma non in Matteo 15,1-20) il discorso sulla purità prosegue fino a sfociare in una presa di posizione relativa alla stessa esistenza di cibi ritualmente puri (kasher).
«Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non entra nel cuore, ma nel ventre e va fino alla fogna?.
Dichiarava così mondi tutti gli alimenti» (Mc 7,18-19).
Non vi è dubbio infatti che le norme sulle purità del cibo non possono in alcun modo ritenersi «tradizioni degli uomini» (o degli antichi) (cf.
Mt 15,2.2.6; Mc 7,8.9.13); al contrario, esse devono venir considerate solidamente fondate sulla Tôrà scritta (Pentateuco) (cf.
Lv 11; Dt 14,3-20).
Né vi è alcuna indicazione che Gesù e i suoi discepoli (almeno prima della pa-squa) non si attenessero a questi precetti (stando a quanto pronunciato da Pietro nel libro degli Atti se ne dedurrebbe anzi il contrario, cf.
At 10,14; 11,8).
La disputa sui cibi divenne argomento di dibattito e tensione entro le comunità cristiane di origine pagana (cf.
Gai 2,11-14; Rm 14,1-6), perciò si è ragionevolmente proposto di veder proiettati sulle pagine evangeliche i motivi propri di tali dispute.
Subito dopo la discussione sull’impurità, Marco afferma che Gesù «partito di là, andò nel territorio di Tiro e Sidone» (Mc 7,24; cf.
Mt 15,21); espressione quest’ultima che nel suo indicare una terra pagana assume un significato non tanto geografico quanto teologico (cf.
1Re 17,8-16; Le 4,25-26).
Nella grande sezione del libro degli Atti (10, 1- 11,18), le tre volte avvenuta e le due volte raccontata visione di Pietro indicano chiaramente che il non consi-derare più impuro nessun cibo, in quanto tutto è purificato, deve ritenersi come grande metafora del rapporto (profondamente mutato dalla vicenda pasquale) tra figli d’Israele e figli delle genti; tant’è vero che Pietro stesso riassume il senso della sua visione con queste parole: «Ma a me Dio ha insegnato a non chiamare nessun uomo profano (koinos) e im-mondo (kathartos) (At 10,28).
Ai nostri giorni perciò, quando le polemiche interne a quelle primitive comunità sono ormai lontane, è legittimo (o addirittura richiesto) sostenere che la possibile partecipazione universale, attraverso la fede in Cristo, alla discendenza di A-bramo da parte dei figli delle genti (cf.
Gal 4,29) non solo non esclude, ma anzi addirittura comporta che i figli di Israele, popolo sacerdotale (Es 19,6), la cui elezione non è stata tolta (Rom 11,29), continuino ad essere assoggettati a norme più rigide a motivo della propria e altrui santificazione.
Si è detto che il giudaismo, così come vissuto dai farisei (e/o dai chaverim), affrontava il problema della santificazione d’Israele (e santificare qui significa separare), e questo com-pito si distingue marcatamente dalla dinamica tipica della predicazione del regno e del buon annuncio di salvezza tipico di Gesù e degli apostoli.
Per più aspetti tale affermazione appare convincente, ma ciò non dovrebbe impedire di comprendere adeguatamente le re-gole insite in tale santificazione, che non coincidono affatto, come una superficiale lettura di qualche passo evangelico indurrebbe a credere (cf.
Mt 15,1-20; 23,1-36; Mc 7,1-23; Lc 15,38-52), con un ipocrita tentativo di sostituire un’osservanza puramente esteriore all’ese-cuzione di più gravi e precisi precetti etici.
Per comprenderlo basterebbe tenere presente l’ovvia quanto dimenticata distinzione che «ritualmente impuro» non equivale affatto a «moralmente riprovevole».
Non a caso la maggior parte delle regole bibliche sulla purità indicano la maniera di purificare un’impu-rità contratta in modo inevitabile (e quindi moralmente neutro), come ad esempio quelle derivate dalle mestruazioni o dal parto (cf.
ad es.
Lv 12,1-8; 15,1-27; Num 19,11-22; Lc 2,22).
Una tipica espressione rabbinica per indicare la canonicità di un testo sacro è quella di sostenere che esso «rende impure le mani» (cf.
m.
Jadaim 3,5); tale espressione sarebbe da sola sufficiente ad indicare l’ambito in cui il giudaismo colloca la sfera dell’impurità o della purità, sfera che ha a che fare non con l’eticità (e ancor meno con l’igiene), bensì con una santificazione della vita compiuta secondo una procedura che non dovrebbe venir schernita, non foss’altro a motivo della millenaria fedeltà con cui è stata osservata da Israe-le» (P.
STEFANI, Sia santificato il tuo nome.
Commenti ai Vangeli della domenica.
Anno B, Marietti Genova 1987, p.
163-166).
Se è dall’interno di noi che hanno inizio gli impulsi malvagi o quelli buoni, nel nostro stato di creature corporee abbiamo bisogno anche di segni esterni; proprio il gesto del la-vaggio rituale delle dita, con la recita di un versetto di un salmo («Lavami Signore da ogni colpa, purificami da ogni peccato».
Sal 51,4) è il gesto che il sacerdote compie nel rito della messa subito dopo la preparazione delle offerte, prima di iniziare la grande preghiera eu-caristica.
Meditazione Spesso, nei racconti evangelici, ci imbattiamo in lunghe ed aspre polemiche che vedono a confronto Gesù, il suo comportamento e la sua parola, con l’élite più rappresentativa e impegnata della cultura religiosa ebraica, i farisei e gli scribi.
Questi, alcune volte conte-stano a Gesù o ai suoi discepoli un comportamento non conforme alle pratiche religiose comunemente e tradizionalmente accolte nel mondo giudaico; altre volte, invece lo inter-rogano su questo o quell’aspetto della Scrittura per sapere ciò che realmente pensa.
In ogni caso questi incontri producono sempre tensione, scontro e si rimane stupiti dalla durezza con cui spesso Gesù reagisce di fronte a quel mondo spirituale e giuridico di cui i farisei erano rappresentanti.
Soprattutto ciò che sembra irritare maggiormente Gesù non è tanto l’interpretazione della Scrittura che caratterizzava la visione religiosa di questi uomini, quanto piuttosto la loro sfacciata incoerenza che nascondeva, sotto una apparenza di per-fezione, una autosufficienza idolatrica, quella radicale doppiezza di vita che si concentra nel titolo con cui spesso i farisei sono chiamati: ipocriti.
È il caso della situazione presentata nel capitolo 7 di Marco il brano proposto in questa domenica (anche se la liturgia presenta solo una scelta di versetti per dare maggiore unita-rietà al contenuto).
«Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?» (v.
5).
L’interrogativo stupito e irritato che gli scribi e i farisei pongono a Gesù è dunque motivato da un comportamento ‘spavaldo’ dei discepoli, i quali sembrano non tener in nessun conto le prescrizioni della legge.
Il rap-porto tra Scrittura e Tradizione/tradizioni (vv.
6-13) e la relazione tra puro e impuro (vv.
14-23) che caratterizzano il dibattito che segue a questa domanda, mettono a fuoco un aspetto fondamentale.
Ciò che è in questione in questa polemica, non sono tanto delle pratiche re-ligiose, la loro validità o meno.
Al centro c’è la relazione con Dio, la scoperta del luogo profondo e vero in cui questa relazione prende forma e da qualità a tutta la vita.
Ma, proprio a partire da questo testo di Marco, ci si può domandare: erano realmente così i farisei? Citando il testo di Isaia 29,13, Gesù si rivolge ai farisei in questi termini: «Be-ne ha profetato Isaia di voi, ipocriti…
Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuo-re è lontano da me» (v.
6).
L’ipocrisia è una prerogativa dei farisei oppure è qualcosa che si nasconde nel cuore dell’uomo? E perché, in ogni caso, l’ipocrisia poteva essere un rischio di questa categoria dei persone? Farisei e scribi di fatto rappresentavano la parte religio-samente più impegnata di Israele, seriamente preoccupata di tradurre nella vita concreta quel rapporto con Dio, quella saggezza che sgorgava dalla parola e che caratterizzava l’u-nicità del popolo dell’Alleanza.
La responsabilità personale, l’interiorità della decisione morale, il profondo senso della santità e dell’alterità di Dio, la consapevolezza del dono ricevuto nella Legge orientavano questi uomini nella ricerca di una sincera e radicale fedeltà alla volontà di Dio.
Ma corre-vano un rischio: credevano di essere fedeli alla legge ‘ripetendola’ e pensavano di essere attuali frantumandola in una casistica sempre più complicata.
È il rischio che porta a una illusione: la pretesa di programmare il rapporto con Dio, la ricerca della sua volontà attra-verso una serie di comportamenti che danno sicurezza e in qualche modo fanno sentire a posto nella relazione con Dio o con gli altri.
La gratuità di una relazione, lo stupore di un Dio che sempre è al di là delle immagini che l’uomo ha di lui, la novità del dono, il cuore e l’essenziale della parola, tutto questo viene soffocato e annullato dalla pretesa dell’uomo di conoscere Dio e la sua volontà.
Gesù smaschera questo pericolo mettendo a confronto ciò che l’uomo cerca (in questo caso ciò che i farisei difendono) e ciò che Dio desidera dal-l’uomo.
E c’è un primo confronto che colpisce.
Il testo del Deuteronomio mette in bocca a Mosè queste parole: «…quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (Dt 4,7).
Colui che è il Santo, la cui tra-scendenza sembra rendere la creatura molto lontana da un incontro, è il Dio vicino, sem-pre disponibile quando lo si invoca, è il Dio che ha deciso di fare storia con l’uomo, di camminare con lui.
Pur restando irriducibile alla creatura, si lascia trovare ogni giorno e la sua vicinanza si trasforma in fedeltà all’uomo e alla sua storia.
Dio non è lontano; è l’uomo che spesso cammina per altre vie e colloca il suo cuore in luoghi diversi da quelli in cui può scoprire il volto di Dio.
E Gesù ricorda la parola di Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Mc 7,6).
Ecco il pericolo: la pretesa di accostarsi a Dio, rimanendo tuttavia estranei a Lui, lontani.
E questo avviene quando il cuore della vita non aderisce veramente a Dio e alla sua parola, anche se si pretende di rendere un culto che è, alla fine, pura appa-renza.
Ma c’è un luogo in cui questa vicinanza si fa presenza efficace, parlante: è la Parola stes-sa di Dio contenuta nella Scrittura.
Ancora Mosè ricorda al popolo di Israele: «Israele, a-scolta le leggi e le norme che io vi insegno affinché le mettiate in pratica , perché viviate…
quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza» (Dt 4,1.6).
A Israele, il Signore chiede di ricambiare la fedeltà di cui Egli ha dato prova lungo il cammino di liberazione attra-verso il deserto, con l’obbedienza e l’ascolto di una Parola di vita e di saggezza.
Ed ecco al-lora un altro contrasto: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini…
Annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (Mc 7,8.13).
L’uomo ha bisogno di attualizzare una obbedienza alla parola di Dio: è la legge della In-carnazione.
Ma deve sempre tenere presente questo: che la parola di Dio resta continua-mente aperta, anzi è la porta per un incontro vivo e personale con il Signore.
Non basta os-servare un precetto, se poi non si incontra veramente il volto del Signore.
E questo avviene quando si va al cuore della Parola, al luogo dove si rivela ciò che Dio vuole da noi.
E su questo punto Gesù è molto chiaro: il rischio che si incontra nell’assolutizzare un modo concreto di tradurre la Parola, è quello di non riuscire più ad andare al cuore di essa.
Come il cuore della Parola ci rivela la volontà di Dio, ce lo fa incontrare, così è il cuore dell’uomo il luogo che deve essere custodito nella verità e nella purezza.
Ecco il terzo con-trasto che Gesù ci presenta.
L’impurità che ci impedisce di accostarci a Dio o la purezza che ci permette di entrare nel luogo dove abita, non sono da ricercare fuori dell’uomo.
E se c’è un comportamento esterno che ostacola il nostro rapporto con Dio o con i fratelli, in ogni caso il punto di partenza è sempre nel cuore dell’uomo: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini escono i propositi di male…»(v.
21).
Il cuore dell’uomo non purificato è il covo di vizi che causano la rovina (cfr.
Lc 6,45).
E Gesù ci offre anche un elenco di ‘propositi di male’ (dialogismoi kakoi): dodici vizi, sei al plurale e sei al singolare che manifestano lo stato negativo del cuore attraverso un errato rapporto con sé stessi, con il proprio corpo, con gli altri.
L’ultimo vizio, la stoltezza, e la sintesi di un cuore intaccato dalla impurità e la fonte di ogni altro vizio: lo stolto è l’uomo che «non conosce Dio», l’uomo che dimentica e di-sprezza Dio, l’uomo lontano da Dio.
«Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo» (v.
20): non ci si purifica dalla vita quotidiana per incontrare Dio in chissà quale luogo perfetto e irreale; ci si deve purificare dal peccato che portiamo dentro di noi.
È il cuore malvagio che ci rende incapaci di avvicinarci a Dio; ciò che unisce ed avvicina a Dio è il cuore nuovo, il cuore puro che Dio stesso crea nell’uomo, in tutti, peccatori e giusti, giudei e pagani.
I farisei si accontentavano di prendere il pane con mani lavate; Gesù ci di-ce che per ‘afferrare’ il pane non servono mani pure, ma il cuore ‘secondo il Signore’.
Il pa-ne, il cibo, sono i simboli della vita, il simbolo della parola che è vita e che Gesù stesso ci dona.
Per ricevere da lui questo pane di vita si deve avere un cuore nella verità, un cuore che ama, un cuore buono, che desidera la vita.
Subito dopo questa disputa, Marco colloca l’episodio della donna siro-fenicia (Mc 7,24-30).
A questa donna, pagana e perciò impura, Gesù dirà: «Non è bene prendere il pane di figli e gettarlo ai cagnolini» (v.
27).
Così ri-sponderà la donna: «Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei fi-gli».
La consapevolezza umile di una lontananza da Dio rende il cuore di quella donna pu-ro e lo avvicina a Dio: può sedersi alla mensa ed afferrare il pane che vi è posto sopra, il pane del Figlio.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

La sentenza del TAR del Lazio e e gli insegnanti di religione

Sentenza TAR Lazio n.
7076 del 17-7-2009 Repubblica Italiana In nome del popolo italiano Il Tribunale Amministrativo Regionale del LAZIO, Sez.III-quater ANNO 2009 composto da dr.
Mario di Giuseppe (Presidente) dr.
Antonio Amicuzzi (Consigliere) dr.
Umberto Realfonzo (Consigliere-rel.) ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi qui riuniti rispettivamente: RG.
n.
4297/2007 presentato da CONSULTA ROMANA PER LA LAICITA’ DELLE ISTITUZIONI ALLEANZA EVANGELICA ITALIANA ASS.
XXXI OTTOBRE PER UNA SCUOLA LAICA E PLURALISTA ASSOCIAZIONE NAZIONALE DEL LIBERO PENSIERO GIORDANO BRUNO ASSOCIAZIONE PER LA SCUOLA DELLA REPUBBLICA ASSOCIAZIONE SCUOLA UNIVERSITA’ RICERCA ASSUR BAGNI FILIPPO CRIDES CENTRO ROMANO INIZIATIVA DIFESA DIRITTI NELLA SCUOLA FEDERAZIONE DELLE CHIESE EVANGELICHE IN ITALIA DEMOCRAZIA LAICA UNIONE ITALIANA DELLE CHIESE CRISTIANE AVVENTISTE 7^ GIORNO UNIONE CRISTIANA EVANGELICA BATTISTA D’ITALIA UAAR UNIONE DEGLI ATEI E DEGLI AGNOSTICI RAZIONALISTI TAVOLA VALDESE SEGRE RUBEN FEDERAZIONE DELLE CHIESE PENTECOSTALI CONSULTA TORINESE PER LA LAICITA’ DELLE ISTITUZIONI CHIESA EVANGELICA LUTERANA IN ITALIA CIDI CENTRO DI INIZIATIVA DEMOCRATICA DEGLI INSEGNANTI COMITATO BOLOGNESE SCUOLA E COSTITUZIONE COMITATO INSEGNANTI EVANGELICI ITALIANI (CIEI) COMITATO TORINESE PER LA LAICITA’ DELLA SCUOLA in persona dei rispettivi rappresentanti legali, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati Fausto Buccellato e Massimo Luciani, ed elettivamente domiciliata presso lo studio del primo in Roma in viale Angelico, n.
45; CONTRO – la PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, nella persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura dello Stato; – il MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE nella persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato e nei confronti – della Conferenza Episcopale Italiana, non costituitasi in giudizio; – di Ragazzi Lorenzo, non costituitosi in giudizio; con l’intervento ad adjuvandum – dell’UCEI -in persona dei rispettivi rappresentanti legali costituitisi in giudizio con gli Avvocati Buccellato Fausto e Luciani Massimo; – del M.C.E.
in persona dei rispettivi rappresentanti legali costituitisi in giudizio con gli Avvocati Buccellato Fausto e Luciani Massimo; — dell’ORGANIZZAZIONE SINDACALE – COBAS SCUOLA in persona dell’Avv.
Salerni Arturo; e con l’intervento ad opponendum del Sindacato Nazionale Autonomo degli Insegnanti di Religione (SNADIR); del professor Ruscia Orazio e della professoressa Scivoletto Marisa rappresentati difesi dagli avvocati Nastasi Giuseppe, La Rocca Tavana Laura; per l’annullamento dell’ORDINANZA MINISTERIALE n.
26/07 PROT.
n..
2578 recante “ISTRUZIONI E MODALITA’ PER LO SVOLGIMENTO DEGLI ESAMI DI STATO NELLE SCUOLE STATALI E NON STATALI – A.S.
2006/07” e — RG n.
5712/2008 proposto da: CONSULTA ROMANA PER LA LAICITA’ DELLE ISTITUZIONI ASS NAZ LIBERO PENSIERO “GIORDANO BRUNO” ASS COMITATO BOLOGNESE SCUOLA E COSTITUZIONE ASS NAZIONALE EVANGELICA ITALIANA ASS NAZIONALE PER LA SCUOLA DELLA REPUBBLICA ASS.
“XXXI OTTOBRE PER UNA SCUOLA LAICA E PLURALISTA (promossa dagli Evangelici Italiani); ASSOCIAZIONE SCUOLA UNIVERSITA’ RICERCA “AS.SUR” CRIDES-CENTRO ROMANO INIZIATIVA DIFESA DIRITTI NELLA SCUOLA FEDERAZIONE CHIESE PENTECOSTALI DEMOCRAZIA LAICA UNIONE DELLE COMUNITA’ EBRAICHE ITALIANE UNIONE CRISTINA EVANGELICA BATTISTA D’ITALIA UAAR- UNIONE DEGLI ATEI E DEGLI AGNOSTICI RAZIONALISTI TAVOLA VALDESE TASSINARI ARIANNA MCE – MOVIMENTO COOPERAZIONE EDUCATIVA FUSAROLI ALESSANDRO FNISM – FEDERAZIONE NAZIONALE INSEGNANTI UNIONE ITALIANA CHIESE CRISTIANE AVVENTISTE 7^ GIORNO FEDERAZIONE DELLE CHIESE EVANGELICHE IN ITALIA CONSULTA TORINESE LAICITA’ DELLE ISTITUZIONI CGD – COORDINAMENTO GENITORI DEMOCRATICI CHIESA EVANGELICA LUTERANA IN ITALIA CIDI – CENTRO DI INIZIATIVA DEMOCRATICA INSEGNANTI COMITATO INSEGNANTI EVANGELICI ITALIANI (CIEI) COMITATO TORINESE PER LA LAICITA’ DELLA SCUOLA In persona dei rispettivi rappresentati legali, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati Fausto Buccellato e Massimo Luciani, ed elettivamente domiciliati presso lo studio del primo in Roma in viale Angelico, n.
45; contro – il Ministero della Pubblica Istruzione, in persona del Ministro pro tempore, costituitosi in giudizio tramite l’Avvocatura dello Stato; – la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nella persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura dello Stato; e nei confronti di – la Conferenza Episcopale Italiana, rappresentata e difesa dagli avvocati Alessandro Gigli e Franco Gaetano Scoca con domicilio eletto in Roma,v.
G.
Paisiello, 55; — VITI LUDOVICA, non costituitasi in giudizio per l’annullamento dell’Ordinanza Ministeriale n.
30/08 prot.
2724 recante “Istruzioni e Modalita’ per lo svolgimento degli Esami di Stato” Visto il ricorso con i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione delle Amministrazioni intimate; Visti gli atti tutti della causa; Nominato relatore alla Pubblica Udienza dell’11 febbraio 2009, il Consigliere Umberto Realfonzo; e uditi gli avvocati di cui al verbale d’udienza.
Ritenuto e considerato, in fatto e in diritto, quanto segue: FATTO I.
Con il primo ricorso di cui in epigrafe, la Consulta Romana per la Laicita’ delle Istituzioni; altre associazioni laiche e atee; altre istituzioni cristiane; ed alcuni studenti iscritti all’ultimo anno di istruzione superiore che avevano scelto di non avvalersi né della religione cattolica, né di insegnamenti sostitutivi chiedono l’annullamento delle ordinanze relativa alla disciplina dell’attribuzione dei crediti scolastici per gli esami di maturita’ per l’anno scolastico 2006-2007 nella parte in cui si prevede: — che i docenti che svolgono insegnamento della religione cattolica partecipino a pieno titolo alle deliberazioni del consiglio di classe concernente l’attribuzione del credito scolastico agli alunni che si avvalgono di tale insegnamento; che analoga posizione completa, sia riconosciuta in sede di attribuzione del credito scolastico ai docenti delle attivita’ didattiche formative alternative all’insegnamento della religione cattolica, limitatamente agli alunni che abbiano seguito le attivita’ medesime (all’art.
8, punto 13); — che l’attribuzione al punteggio, nell’ambito della banda di oscillazione, tenga conto, oltre che degli elementi con l’articolo 14 comma 2 del d.p.r.
323 del 23 luglio 1998, del giudizio formulato dai docenti di cui al precedente comma 13 riguardante l’interesse col quale autunno ha seguito l’insegnamento della religione cattolica ed il profitto che ne ha tratto; ovvero le altre attivita’, ivi compreso lo studio individuale, che si sia tradotto in un arricchimento culturale disciplinare specifico, purché certificato valutato alla scuola secondo modalita’ deliberate dalla istituzione medesima; — che gli alunni che abbiano scelto di assentarsi dalla scuola per partecipare alle iniziative formative in ambito scolastico potessero far valere tali attivita’ esclusivamente come crediti formativi soltanto in presenza dei requisiti previsti dal D.
M.
49 del 24 febbraio 2000 (art.
8, punto 14).
Le parti ricorrenti, premessa una puntualizzazione dei rispettivi profili di legittimazione direttamente connessi ai loro interessi ovvero collegabili alle rispettive finalita’ statutarie ed associative, denunciano tre rubriche di gravame.
In particolare i ricorrenti lamentano: a.
Con il primo motivo si assume la violazione dell’articolo 11 delle disposizioni preliminari del codice civile, all’articolo 9 della legge n.
121 del 1985; all’articolo unico del d.p.r.
202 del 1990 all’articolo 309 del decreto legislativo 297/1994.
Il provvedimento impugnato si porrebbe in contrasto con la lettera c) dell’articolo 9 della legge 121 del 1985, per cui l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non puo’ “dar luogo ad alcuna forma di discriminazione”.
b.
Con il secondo motivo di gravame si lamenta sotto tre profili l’eccesso di potere per disparita’ di trattamento; violazione del principio di ragionevolezza e del principio di certezza giuridica del principio dell’affidamento e del divieto di retroattivita’ degli atti amministrativi in quanto: — adotta diversa criteri di valutazione per l’attribuzione del credito scolastico che svantaggiano nel profitto chi non la sceglie (primo profilo); — l’articolo 8, comma 14, della ordinanza impugnata prevede criteri del tutto indeterminati per l’eventuale valutazione, quali crediti formativi, delle attivita’ svolte dagli studenti che non si siano avvalsi dell’insegnamento della religione cattolica, né di attivita’ sostitutive; e che sono lasciati all’ampia discrezionalita’ di ciascun istituto scolastico con i rischi di ulteriori discriminazioni (secondo profilo in realta’ rubricato al punto 2.1.); — irragionevolmente le disposizioni censurate che avrebbero preteso, alla fine dell’anno scolastico, di fissare i criteri per la valutazione delle attivita’ che erano gia’ state compiute durante l’anno scolastico passato.
Si discriminerebbe cosi’ retroattivamente gli studenti che avevano scelto liberamente di non valersi della religione cattolica, non immaginando che la penalizzazione conseguente sotto il profilo del merito scolastico.
La retroattivita’ cosiddetta impropria (ex Cassazione Sezioni Unite 1 aprile 1993 n.
3888) — incidendo su di un rapporto in essere in ragione di un fatto passato – avrebbe alterato la disciplina conosciuta dagli interessati e sulla quale essi facevano legittimo affidamento – in violazione del principio dell’affidamento del cittadino sulla situazione giuridica e sulla certezza del diritto piu’ volte ricordato dalla Corte Costituzionale a partire dalla sentenza numero 349/1985 (terzo profilo in realta’ rubricato al punto 2.2.).
c.
In via subordinata i ricorrenti deducono l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 9 della legge n.
121 del 1985; dell’articolo unico del d.p.r.
202 del 1990;dell’articolo 309 del decreto legislativo 297/1994 laddove interpretate nel senso del provvedimento impugnato per violazione degli articoli 3,2,7,8 e 21 della Costituzione per l’inaccettabile compressione del principio di parita’ fra confessioni religiose e del diritto di libera manifestazione del pensiero.
I ricorrenti concludono per l’accoglimento del ricorso e l’annullamento dell’ordinanza ministeriale impugnata.
Si e’ costituito in giudizio il Ministro dell’Istruzione, Universita’ e della Ricerca, che con memoria, in linea preliminare, ha eccepito l’inammissibilita’ del ricorso per la carenza di interesse a ricorrere da parte dei ricorrenti.
Nel merito la Difesa Erariale ha sottolineato l’infondatezza del gravame richiamando il precedente della Corte Costituzionale n.
203/2000 e quello del Tar del Lazio (n.
7101/2000); e rilevando altresi’ che: — l’ordinanza sarebbe una mera proiezione del precetto di cui all’articolo 11 del d.p.r.
n.
323/1998; — che la religione cattolica, al pari delle altre attivita’ alternative, concorre alla determinazione del credito scolastico necessario che non e’ limitato alla considerazione del mero rendimento dell’alunno ma che invece considera la personalita’ umana nel suo complesso ed in tutte le sue manifestazioni.
Sono intervenuti ad adjuvandum con separati atti: il Movimento di cooperazione educativa, la Federazione Nazionale Insegnanti Scuola, e l’Unione degli Studenti, il Coordinamento Genitori Democratici; e l’Unione delle Comunita’ Ebraiche Italiane, rappresentativo della Confessione Ebraica nei rapporti con lo Stato italiano, lamentando che l’attribuzione del credito scolastico condizionerebbe la scelta di avvalersi o meno della religione cattolica, che per tale via non sarebbe cosi’ piu’ realmente libera.
L’ordinanza del 23 maggio 2007 n.2408/2007 con cui e’ stata accolta l’istanza di sospensione cautelare del provvedimento e’ stata riformata dal Consiglio di Stato con ordinanza n.
2920 del 12 giugno 2007 in considerazione della ritenuta inconsistenza giuridica del ricorso; della carenza di danno e del difetto di interesse delle parti.
II.
Con il secondo ricorso la medesima Consulta Romana per la Laicita’ delle Istituzioni; ed i rappresentanti delle altre istituzioni ad associazioni laiche, atee e cristiane ed alcuni studenti iscritti all’ultimo anno di istruzione superiore che avevano scelto di non avvalersi della religione cattolica, né di insegnamenti sostitutivi (tutti meglio indicati in epigrafe) chiedono l’annullamento dell’ordinanza relativa alla disciplina degli esami di maturita’ per l’anno scolastico 2007-2008 nella parte in cui si riproducono le stesse identiche disposizioni dell’ordinanza dell’anno precedente impugnata con il ricorso che precede.
Il ricorso e’ affidato alla denuncia di tre motivi di gravame assolutamente identici a quelli del ricorso che precede ed alla cui sommaria esposizione si rinvia.
In questo secondo giudizio si sono costituiti in giudizio sia il Ministero dell’Istruzione, i cui scritti difensivi riprendono, in rito e nel merito, le medesime argomentazioni sostanziali gia’ svolte sul precedente gravame.
Si’ e’ costituita in giudizio ad opponendum la Conferenza Episcopale Italiana per cui in via preliminare il ricorso sarebbe inammissibile in quanto: – non sarebbe ravvisabile alcun pregiudizio né per le associazioni ricorrenti e neppure per i singoli ricorrenti in quanto l’esame di maturita’ non avrebbe un carattere comparativo (cfr.
TAR Veneto n.1117/2000); non sarebbe stato notificato ad alcun studente che avrebbe scelto la Religione Cattolica mentre sarebbe stata evocata la Conferenza Episcopale che non avrebbe alcun titolo alla chiamata in giudizio.
Né si potrebbe ritenersi sussistente alcun effetto discriminatorio nei confronti di coloro, che non avendo usufruito di insegnamenti alternativi, hanno partecipato in misura minore al dialogo educativo.
Illegittimamente si riconoscerebbe invece l’arricchimento culturale e disciplinare chi partecipa alacremente all’insegnamento della religione.
La mancata considerazione ai fini del credito formativo violerebbe i diritti degli insegnanti di religione che fanno parte del corpo docente con gli stessi diritti e doveri degli altri insegnanti come ricordato dalla Corte Costituzionale (cfr.
sent.
n.390/1999) e che non viene sminuito dalla natura di giudizio motivato.
Nel merito per la Conferenza Episcopale l’ordinanza impugnata non prevederebbe alcun favoritismo per la religione cattolica, limitandosi a prevedere — in applicazione del vigente quadro normativo di cui alla legge 100 21/1985, d.p.r.
751/1985 e del d.p.r.
202/1990; ed e’ il d.p.r.
323/1998 — che anche la religione cattolica, al pari delle altre attivita’ alternative svolte in luogo della stessa, possa concorrere alla determinazione del credito scolastico necessario ai fini della determinazione del voto per l’esame finale.
Chiamata all’udienza pubblica dell’11 febbraio 2008 il ricorso, uditi i difensori delle rispettive parti, e’ stato trattenuto in decisione.
DIRITTO 1.
Deve preliminarmente disporsi la riunione dei ricorsi di cui in epigrafe ai sensi dell’art.52 del Regolamento di cui al R.D.
17 agosto 1907 n.642, stante gli evidenti profili di connessione soggettiva ed oggettiva.
2.
Devono preliminarmente essere esaminate congiuntamente le eccezioni preliminari delle parti resistenti che attengono per la gran parte a profili sostanzialmente coincidenti.
2.1.
Come eccepito, nelle rispetto dalla Difesa Erariale, dal Sindacato Nazionale autonomo degli Insegnanti di Religione, entrambi i gravami sarebbero inammissibile per l’originaria e persistente carenza di interesse dei ricorrenti sia nei sensi evidenziati dal Tar del Lazio con la decisione n.
7101/2000 e sia relativamente ai due alunni, che non avrebbero poi impugnato le operazioni di scrutinio con cui i consigli delle loro rispettive classi, con la partecipazione degli insegnanti di religione delle discipline alternative, hanno segnato i crediti scolastici degli ultimi due anni.
In particolare la Conferenza episcopale costituitasi sul secondo ricorso riporta le argomentazioni dell’ord.
n.
2408/2007 del Consiglio di Stato; ed assume che l’atto impugnato non avrebbe attribuito alcuna misura di favore all’insegnamento della religione cattolica rispetto alle altre attivita’ formative ed alle altre opzioni religiose.
Eccepisce, in via preliminare che: il ricorso sarebbe inammissibile in quanto: – non sarebbe ravvisabile alcun pregiudizio né per le associazioni ricorrenti e neppure per i singoli ricorrenti in quanto, come rilevato, l’esame di maturita’ non avrebbe un carattere comparativo; non sarebbe stato notificato ad alcun studente che avrebbe scelto la Religione Cattolica.
La evocata Conferenza Episcopale non avrebbe infine avuto alcun titolo alla chiamata in giudizio L’eccezione non puo’ essere complessivamente condivisa.
Non puo’ essere condivisa l’opinione per cui “la maturazione del credito scolastico e del parallelo istituto del credito formativo e’ talmente ampia da non richiedere identita’ di posizioni” (cosi’ la n.
7101/2000 cit.
dalle parti resistenti) perche’ l’interesse concreto perseguito dai ricorrenti, attiene alla tutela di valori di contenuto ideale e morale che, come tali, attengono alla personalita’ dell’essere umano.
Qui e’ invocata la tutela dei diritti sociali, religiosi e culturali di tutte le varie minoranze, comunque, non cattoliche.
I rappresentanti dei Cristiani Evangeliciti, dei Pentecostali, dei Cristiani Avventisti del 7^ Giorno, dei Cristiani Battisti, dei Valdesi, dei Pentecostali degli Evangelici, dei Luterani, delle Comunita’ Ebraiche nonché delle associazioni laiche e razionaliste perseguono cioe’ il riconoscimento di una loro pari dignita’ culturale e sociale, che assumono violata.
Pertanto non pare che possano sommariamente liquidarsi i ricorrenti con l’insinuazione di essere, sostanzialmente, degli ignavi in cerca di una pretestuosa tutela per la loro svogliatezza rispetto ai diligenti alunni che hanno optato per la religione cattolica, ma e’ manifesto che i ricorrenti sono soggetti evidentemente portatori di una differente sensibilita’, sia essa religiosa o laica.
L’interesse al ricorso, nel caso in esame, non e’ quindi tanto un interesse di tipo “proprietario”, cioe’ collegato ad un’immediata utilita’ di carattere strumentale o economico dei ricorrenti e delle altre associazioni religiose e laiche, ma si radica in relazione alla richiesta di tutela dei valori di carattere morale, spirituale e/o confessionale che – sia pure numericamente minoritari nella nostra societa’ — sono tutelati direttamente dalla Costituzione, e che quindi come tali non possono restare estranei all’alveo della tutela del giudice amministrativo.
Le associazioni sono legittimate a difendere in sede giurisdizionale gli interessi dei soggetti di cui hanno la rappresentanza istituzionale o di fatto, quando si tratti della violazione di norme poste a tutela della categoria stessa, ovvero di perseguire il conseguimento di vantaggi, di carattere puramente strumentale, giuridicamente riferibili alla sfera della categoria.
(arg.
ex Consiglio Stato, sez.
V, 07 settembre 2007, n.
4692; Consiglio Stato, sez.
VI, 01 luglio 2008, n.
3326).
In sostanza nel caso in esame si rinviene: -) sia la “legitimatio ad causam” in senso stretto, cioe’ l’astratta riferibilita’ del rapporto giuridico processuale al soggetto ricavata dal processo civile che agisce e quindi, la corrispondenza fra l’attore ed il destinatario della sentenza; -) sia la “legittimazione a ricorrere”, cioe’ l’interesse attuale e concreto all’annullamento dell’atto e quindi al ripristino dello status quo ante, connesso con la diretta lesione alla situazione giuridica sostanziale, qui conseguente al notevole rilievo complessivo dei crediti scolastici sull’importo del voto finale.
Per questo il Collegio non si sente di condividere che “non potrebbe avere tutela del soggetto, che pur avendo conseguito buoni risultati dello studio, ha mostrato scarsa partecipazione al dialogo educativo ovvero non ha avuto assiduita’ nella frequenza scolastica oppure non ha voluto impegnarsi in esperienze coerenti con il corso di studi frequentato …fino al punto da disconoscere agli altri vantaggi che l’ordinamento intende loro attribuire” per cui “nessuno ….
puo’ sentirsi pregiudicato per il solo fatto che un altro alunno abbia praticato lo sport e ricevuto credito, altro abbia svolto attivita’ artistiche, altro abbia lavorato percependo una distribuzione se stessi e vedi che ad esercitare attivita’ sportiva ovvero non si abbia attitudine artistica ovvero spirito di intraprendenza”(sempre la n.
7101 cit.
dalle parti resistenti).
L’assunto e’ infatti fondato su un presupposto logico e giuridico che non puo’ essere condiviso, cioe’ che l’insegnamento di una religione qualunque essa sia (sia cattolica che di altri culti) possa essere assimilata a qualsiasi altra attivita’ intellettuale o educativa in senso tecnico del termine.
Qualsiasi religione – per sua natura — non e’ ne’ un’attivita’ culturale, ne’ artistica, ne’ ludica, ne’ un’attivita’ sportiva ne’ un’attivita’ lavorativa ma attiene all’essere piu’ profondo della spiritualita’ dell’uomo ed a tale stregua va considerata a tutti gli effetti.
Come sara’ evidente in seguito, salvo che in una teocrazia (di cui non mancano purtroppo esempi negativi anche nell’epoca contemporanea) la fede in un Dio non puo’ essere—nemmeno indirettamente — qualificata come un’ordinaria “materia scolastica”, al pari delle altre.
Di qui l’interesse dei non credenti, ovvero dei differentemente credenti, ad impugnare gli atti che ritengono violino le loro piu’ profonde convinzioni morali o religiose.
Infine si deve rilevare come i ricorsi risultano comunque ritualmente notificati ad almeno un alunno che aveva optato per l’insegnamento della religione.
2.2.
Pur con tutto il rispetto per la differente opinione del Giudice d’appello non si rinviene alcun effetto preclusivo assoluto derivante dal fatto che alcune ricorrenti (quali ad es.
la Tavola Valdese ed il Comitato Torinese per la laicita’ della Scuola) avessero partecipato al giudizio conclusosi con la predetta decisione passata in giudicato, dato che comunque altre associazioni non erano state parti di quel giudizio.
L’articolo 205, primo comma, del decreto legislativo 16 aprile 1994 n.297 prevede il potere di disciplinare anno per anno (evidentemente secondo le indicazioni del Ministro di turno) tali profili.
Deve osservarsi in conseguenza che, per una precisa scelta del legislatore, tra le diverse ordinanze non vi e’ alcun diretto rapporto di continenza o di continuita’, ma ciascuna di esse e’ una autonoma fonte regolatrice rispetto alle precedenti analoghe disposizioni ministeriali.
Come e’ evidente dal loro stesso oggetto, l’efficacia dispositiva delle ordinanze precedenti era limitata al relativo anno scolastico ed, analogamente fanno quelle impugnate.
Percio’ nessuna preclusione processuale puo’ essere rinvenuta nel fatto che una certa definizione di un punto in un precedente provvedimento (il cui gravame sia stato disatteso) venga poi ripreso analogamente in un successivo analogo ma ontologicamente separato atto.
Non appare dunque ostativa all’esame del gravame la mancata impugnativa delle precedenti ordinanze ministeriali, dato che non vi e’ un alcun vincolo di presupposizione necessaria tra le diverse ordinanze.
2.3.
Per il medesimo ordine di ragioni di cui sopra devono essere disattese le eccezioni del Sindacato Nazionale autonomo degli Insegnanti di Religione che lamentano che l’accoglimento del ricorso risulterebbe gravemente lesivo della funzione e della dignita’ professionale degli insegnanti di religione cattolica relativamente alla asserita mancata impugnativa delle precedenti ordinanze ministeriali.
In coerenza con quello che si diceva prima e’ infatti evidente come – se il vulnus qui lamentato attiene ai diritti personalissimi — il ricorso non e’ diventato inammissibile né e’ sopravvenuta la carenza di interesse dei due alunni ricorrenti per la mancata successiva impugnativa da parte loro delle operazioni di scrutinio con i crediti attribuiti con la partecipazione degli insegnanti di religione delle discipline alternative.
Anche tale eccezione va disattesa.
3.
Nel merito, nell’ordine logico delle questioni deve essere esaminato il terzo motivo.
3.1.
Con tale mezzo si lamenta, in via subordinata, l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 9 della legge n.
121 del 1985; dell’articolo unico del d.p.r.
202 del 1990; e dell’articolo 309 del decreto legislativo 297/1994 laddove interpretate nel senso del provvedimento impugnato per violazione degli articoli 3,2,7,8 e 21 della Costituzione per l’evidente irragionevolezza e per le possibili discriminazione e disparita’ di trattamento che ne deriverebbero; per l’inaccettabile compressione del principio di parita’ fra confessioni religiose, nonché della liberta’ religiosa e del diritto di manifestazione del pensiero.
Per le ricorrenti, si impedirebbe la garanzia che la scelta per l’una o per l’altra soluzione fosse dettata solo da considerazioni personali dell’interessato in assenza di qualsiasi condizionamenti o discriminazioni, in violazione dei principi della Corte Cost.
che aveva configurato anche la situazione di “non obbligo” per coloro che non esercitano nessuna delle tre scelte proposte “non essendo alternativi e equivalenti l’insegnamento della religione cattolica ed altro impegno scolastico, per non condizionare dall’esterno della coscienza individuale l’esercizio della liberta’ costituzionale, come quella religiosa, coinvolgente l’interiorita’ della persona”.
Posto dunque che, secondo l’insegnamento del Giudice delle Leggi, il giudice remittente deve privilegiare l’interpretazione della disposizione conforme a Costituzione non puo’ proporre questioni meramente interpretative, volte a suffragare, o a far escludere, la legittimita’ di tesi ermeneutiche (cfr infra multa Corte Costituzionale, 18 marzo 2005, n.
112) e’ cosi’ evidente come un convincimento circa la rilevanza e la manifesta fondatezza dell’eccezione potrebbe eventualmente pervenirsi solo nel caso in cui si ritenesse di dover aderire al convincimento del giudice d’appello circa la legittimita’ – e quindi la conformita’ alle norme di legge richiamate — delle ordinanze impugnate con i presenti ricorsi.
Nel caso in esame, la prospettata eccezione di incostituzionalita’ non appare strettamente pregiudiziale al fine della richiesta di valutazione circa l’illegittimita’ degli atti impugnati.
Contrariamente a quanto vorrebbero, sia pure in via subordinata, le parti ricorrenti – e come sara’ meglio chiarito in seguito – e’ l’interpretazione delle norme data dall’Amministrazione che ha portato all’adozione di una disciplina annuale delle modalita’ organizzative degli scrutini di esame, che appare aver generato una violazione dei diritti di liberta’ religiosa e della libera espressione del pensiero; nonche’ di libera determinazione degli studenti relativamente all’insegnamento della religione cattolica.
Di qui la non manifesta rilevanza, allo stato, della questione.
4.
Per ragioni di economia espositiva possono essere esaminati unitariamente– attesa la loro assoluta specularita’ ed assorbenza — i seguenti profili di gravame relativi alla prima ed alla seconda censura di entrambi i ricorsi.
4.1.
Con il primo motivo si deduce che il provvedimento impugnato si porrebbe in contrasto con la lettera c) dell’articolo 9 della legge 121 del 1985, recante applicazione del concordato nel 1984 fra lo Stato italiano e la Santa Sede, per cui la scelta degli studenti o dei loro genitori di avvalersi, o meno, dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non puo’ “dar luogo ad alcuna forma di discriminazione”.
Il protocollo addizionale agli accordi del 1984 che fu formalizzato con il d.p.r.
202 del 1990, prevedeva che gli insegnanti di religione cattolica non avrebbero potuto disporre, né di voti, ne’ svolgere esami, ma semplicemente stilare, “in luogo” di voti ed esami, una “nota speciale”, nella quale dar conto dell’interesse con il quale ciascuno studente aveva seguito l’insegnamento ed il profitto ottenuto.
Per le parti ricorrenti, l’articolo 205, comma uno, del decreto legislativo 16 aprile 1994 n.297 con cui e’ stato approvato il testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, che attribuisce al ministero della pubblica istruzione il potere di disciplinare annualmente, con propria ordinanza, le modalita’ organizzative degli scrutini di esami, avrebbe dovuto essere interpretato alla luce dei principi complessivamente risultanti dal medesimo decreto legislativo ed in particolare dal disposto dell’articolo n.
309 in base al quale, tra l’altro, i docenti dell’insegnamento della religione cattolica: — fanno parte della componente docente degli organi scolastici con gli stessi diritti e doveri degli altri docenti, ma partecipano alle valutazioni periodiche finali solo per gli alunni che si sono avvalsi dell’insegnamento della religione cattolica (terzo comma); — stilano “una speciale nota, da consegnare unitariamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento di profitto che ne ritrae”.
L’insegnante di religione ha certamente pari dignita’ rispetto agli altri docenti, ma partecipa a medesimo titolo degli altri, alla determinazione complessiva della valutazione degli studenti, solo ed esclusivamente nel caso in cui il suo parere sia necessario (e quindi determinante) per la decisione circa la promozione o la bocciatura dello studente.
Per le ricorrenti se la disciplina legislativa e la costante prassi amministrativa stabiliscono che l’insegnamento della religione cattolica non deve comparire sulla scheda di valutazione bensi’ sulla speciale nota in luogo dei voti di cui non dispone degli esami che non puo’ svolgere, ed allora e’ evidente che le disposizioni qui impugnate nel prevedere che gli insegnanti di religione cattolica “partecipino a pieno titolo” alla decisione sul credito scolastico, si pongono in evidente palmare contrasto con le fonti appena richiamate.
Le ricorrenti richiamando le argomentazione poste a base di un’interrogazione scritta di alcuni senatori, lamentano ancora che l’ordinanza impugnata: — non trova giustificazione in alcuna innovazione legislativa o regolamentare, e si porrebbe in contrasto con l’orientamento costante alla Corte Costituzionale (le sentenze nn.
203/1989 e il 13/1991); — ha l’effetto di indurre gli studenti a rinunciare alle scelte dettate dalla propria coscienza garantita dalla Carta Costituzionale dell’articolo 9 del Concordato in vista di un punteggio piu’ vantaggioso nel credito scolastico.
4.2.
Con il secondo motivo di gravame si lamenta, sotto due profili di chiusura, l’eccesso di potere per disparita’ di trattamento; violazione del principio di ragionevolezza e del principio di certezza giuridica del principio dell’affidamento e del divieto di retroattivita’ degli atti amministrativi.
2.1.
In una prima prospettazione si lamenta che l’ordinanza, in palese contraddizione con le precedenti analoghe ordinanze ministeriali, nel prescrivere un diverso criterio di valutazione per l’attribuzione del credito scolastico, rispettivamente, gli studenti che si siano avvalsi dell’insegnamento alla religione cattolica o di un’attivita’ alternativa, discriminerebbe quei studenti che, nell’esercizio del diritto fondamentale riconosciuto dalla sentenza 13/1991, abbiano scelto di assentarsi all’edificio scolastico o comunque di astenersi da ogni insegnamento alternativo durante l’ora di religione cattolica.
E cio’ perche’, ai sensi dell’articolo tre, comma sei, legge 425/1997 “a conclusione dell’Esame di Stato viene assegnato a ciascun candidato un voto finale complessivo in centesimi, che e’ il risultato della somma dei punti attribuiti dalla commissione d’esame alle prove scritte dal colloquio e dei punti per il credito scolastico acquisito da ciascun candidato.
La commissione d’esame dispone di 45 punti per valutazione delle prove scritte e di 30 punti per la valutazione del colloquio.
Ciascun candidato puo’ far valere un credito scolastico massimo di 25 punti”.
In conseguenza chi non sceglie l’insegnamento della religione cattolica sarebbe esposto al rischio di presentarsi in condizione di svantaggio sul mercato del lavoro o in occasione della partecipazione a selezione per l’ammissione ai corsi universitari o borse di studio connotati come noto da un’altissima competitivita’.
Tale situazione non sarebbe comunque rimediata dalla possibilita’ degli studenti “non avvalentisi” di ottenere, in luogo del “credito scolastico”, la valutazione dell’attivita’ eventualmente svolta fuori dalla scuola quale i “crediti formativi” di cui al D.M.
49 del 24 febbraio 2000.
5.
Entrambi gli assunti sono fondati nei sensi e nei limiti che seguono.
In linea generale, il concetto di separazione tra la sfera religiosa e quella civile (cfr.
Vangelo S.
Matteo 22, 15-21) e’ stato uno dei preziosi contributi della Cristianita’ alla civilta’ occidentale.
Oggi il principio della laicita’ dello Stato, se non e’ definito in alcuna norma, e’ stato chiaramente enunciato dalla Corte costituzionale nell’ampia accezione di “garanzia dello Stato per la salvaguardia della liberta’ di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”, e rispetto al quale lo Stato si pone in condizione di “neutralita’” (cfr.
sent.
12 aprile 1989, n.
203).
I principi della Carta costituzionale postulano dunque uno Stato che, rispetto alla religione, non si pone in termini di ostilita’, “ma si pone al servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini” (cosi’ n.
203 cit.).
Nello specifico del problema proprio nella ricordata pronuncia, e’ stato poi affermato che l’insegnamento della religione cattolica concerne un diritto di liberta’ costituzionale “non degradabile, nella sua serieta’ e impegnativita’ di coscienza, ad opzione tra equivalenti discipline scolastiche”.
Sulla considerazione che la religione non e’ una “materia scolastica” come le altre deve essere ancorato il convincimento circa l’illegittimita’ della sua riconduzione all’ambito delle attivita’ rilevanti ai fini dei crediti formativi.
E cio’, non perché la religione cattolica non debba essere considerata un’attivita’ priva di valori storici e culturali ma anzi, al contrario, non puo’ essere considerata una normale disciplina scolastica proprio perché e’ un insegnamento di pregnante rilievo morale ed etico che, come tale, abbraccia quindi l’intimo profondo della persona che vi aderisce.
Al riguardo e’ stato autorevolmente sottolineato che, nelle societa’ contemporanee, senza i valori religiosi anche molti non credenti perdono punti di riferimento.
La sfera religiosa concerne aspetti che coinvolgono la dignita’ (riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’art.
2 Cost.) dell’essere umano; e spetta indifferentemente tanto ai credenti quanto ai non credenti, siano essi atei o agnostici (cfr.
Corte costituzionale, 08 ottobre 1996, n.
334).
Ma proprio per questa ragione, sul piano giuridico, un insegnamento di carattere etico e religioso strettamente attinente alla fede individuale non puo’ assolutamente essere oggetto di una valutazione sul piano del profitto scolastico per il rischio di valutazioni di valore proporzionalmente ancorate alla misura della fede in essa.
Sotto tale profilo e’ dunque evidente l’irragionevolezza dell’Ordinanza che nel consentire l’attribuzione di vantaggi curriculari, inevitabilmente collega in concreto tale utilita’ alla misura della (magari solo ostentata, verbale e strumentale) adesione ai valori dell’insegnamento cattolico impartito.
Tal circostanza, del resto, concerne anche gli stessi alunni che hanno aderito all’insegnamento della religione con un consapevole convincimento, ma il cui profitto potrebbe essere condizionato da dubbi teologici sui misteri della propria Fede.
Infatti, lo Stato, dopo avere sancito il postulato costituzionale dell’assoluta, inviolabile liberta’ di coscienza nelle questioni religiose, di professione e di pratica di qualsiasi culto “noto”, non puo’ conferire ad una determinata confessione una posizione “dominante” — e quindi un’indiscriminata tutela ed un’evidentissima netta poziorita’ – violando il pluralismo ideologico e religioso che caratterizza indefettibilmente ogni ordinamento democratico moderno (Corte europea dir.
uomo , 25 maggio 1993, n.
260).
In una societa’ democratica, al cui interno convivono differenti credenze religiose, certamente puo’ essere considerata una violazione del principio del pluralismo il collegamento dell’insegnamento della religione con consistenti vantaggi sul piano del profitto scolastico e quindi con un’implicita promessa di vantaggi didattici, professionali ed in definitiva materiali.
Nel caso non puo’ essere infatti dimenticato che ai sensi dell’art.
3, comma sei, della L.
425/1997 il credito scolastico, che puo’ arrivare fino ad massimo di punti 25, pesa per oltre il 55,55 % dei 45 punti assegnati per le prove scritte ed e’ pari all’83,33 % dei 30 punti assegnati per la valutazione del colloquio.
Una cosi’ radicale svalutazione del valore complessivo delle prove scritte ed orali sul valore del voto finale ben puo’ giustificare le preoccupazione di chi non abbraccia tale culto, circa la rilevanza e l’incidenza dei crediti in questione sull’esito dell’esame.
Al riguardo non puo’ ignorarsi il fatto che, per comune esperienza di vita, nelle nostre scuole (metropolitane e non) le c.d.
materie alternative — concernendo comunque una minoranza della popolazione scolastica — spesso o non vengono attivate affatto per mancanza di risorse ovvero nella realta’ delle cose si riducono al semplice “parcheggio” degli alunni in qualche aula (quando non nei corridoi).
E cio’ anche quando gli alunni delle piu’ eterogenee etnie del mondo e delle altre piu’ disparate confessioni rappresentano quasi il 40% degli studenti (con punte addirittura del 90 % in alcune estreme periferie dei grandi agglomerati urbani).
Né, come esattamente ricordato con il primo profilo del secondo motivo, tale discriminazione viene meno per la possibilita’ degli studenti “non avvalentisi” di ottenere la valutazione delle attivita’ eventualmente svolte fuori dalla scuola quale “crediti formativi” di cui al D.M.
49 del 24 febbraio 2000.
Infatti, mentre ai sensi dell’articolo 11 del d.p.r.
323/1998, il “credito scolastico” costituisce la valutazione del grado di preparazione complessiva raggiunta da ciascun alunno nell’anno scolastico in corso con riguardo al profitto e dell’assiduita’ della frequenza scolastica; i “crediti formativi” debitamente documentati esprimono generiche esperienze, cui possano derivare competenze coerenti con il tipo di corso cui si riferisce all’esame di Stato (cfr.
Consiglio di Stato 22 giugno 2005 n.
3290).
Il che in concreto comporta che le famiglie laiche o degli alunni stranieri appartenenti ad altre confessioni siano di fatto costretti o, ad accettare cinicamente e subdolamente l’insegnamento di una religione cui non credono; ovvero a subire un’ulteriore discriminazione di carattere religioso, che si accompagna e si aggiunge spesso a quelle di carattere razziale, economico, linguistico e culturale.
Il sistema complessivo, in essere in concreto, ha dunque l’effetto di indurre gli studenti a rinunciare alle scelte dettate dalla propria coscienza garantita dalla Carta Costituzionale dell’articolo 9 del Concordato in vista di un punteggio piu’ vantaggioso nel credito scolastico.
In coerenza con i valori fondanti della Cedu, in una societa’ al cui interno convivono differenti credenze religiose e’ necessario conciliare gli interessi dei diversi gruppi e garantire il rispetto delle convinzioni di ciascuno (arg.
ex Corte europea dir.
uomo, 31 luglio 2001), e non puo’ manifestare una preferenza per una particolare confessione o credenza religiosa, ma deve garantire il suo ruolo di arbitro imparziale (cfr.
Corte europea dir.
uomo, 10 novembre 2005).
In tale ottica non pare che le ordinanze qui impugnate rispettino il principio di imparzialita’ e di par condicio tre la confessioni che e’ alla base della neutralizzazione dei contrasti tra le diverse confessioni nelle democrazie occidentali contemporanee.
Le ordinanze impugnate si pongono dunque in radicale contrasto con la lettera c) dell’articolo 9 della legge 121 del 1985, in quanto l’attribuzione di un credito formativo ad una scelta di carattere religioso degli studenti o dei loro genitori, quale quella di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, da’ luogo ad una precisa forma di discriminazione, dato che lo Stato Italiano non assicura identicamente la possibilita’ per tutti i cittadini di conseguire un credito formativo nelle proprie confessioni (islamica, ebrea, cristiane, di altro rito) ovvero per chi dichiara di non professare alcuna religione in Etica Morale Pubblica (come del resto avviene in Germania).
6.
In tali esclusivi assorbenti profili entrambi i ricorsi sono dunque fondati e devono essere accolti.
Per l’effetto deve essere dichiarato l’annullamento delle ordinanza di cui in epigrafe.
Le spese, in ragione della natura controversa delle questioni trattate, possono tuttavia essere compensate tra tutte le parti.
PQM il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio- Sez.III^-quater : 1.
riunisce gli epigrafati ricorsi ai sensi dell’art.52 del Regolamento di cui al R.D.
17 agosto 1907 n.642;.
2.
Accoglie i ricorsi e per l’effetto annulla i provvedimenti meglio specificati in epigrafe.
3.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorita’ Amministrativa.
Cosi’ deciso dal Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio- Sez.III^-quater, in Roma, nella Camera di Consiglio dell’11 febbraio 2009/6 maggio 2009.
IL PRESIDENTE dr.
Mario Di Giuseppe IL CONSIGLIERE-EST.
dr.
Umberto Realfonzo COMUNICATO STAMPA MIUR Dichiarazione del ministro Mariastella Gelmini Gelmini: Ricorso al Consiglio di Stato.
Ingiusto discriminare insegnamento Religione Cattolica Roma, 12 agosto 2009 “La religione cattolica esprime un patrimonio di storia, di valori e di tradizioni talmente importante che la sua unicità deve essere riconosciuta e tutelata.
Una unicità che la scuola, pur nel rispetto di tutte le altre religioni, ha il dovere di riconoscere e valorizzare.
I principi cattolici dunque, che sono patrimonio di tutti, vanno difesi da certe forme di laicità intollerante che vorrebbero addirittura impedire la libera scelta degli studenti e delle loro famiglie di seguire l’insegnamento della religione.
Per questo ho deciso di ricorrere al Consiglio di Stato contro la decisione del Tar.
Sono fiduciosa che, come è accaduto altre volte in passato, il Consiglio di Stato possa dare ragione al Ministero e all’ordinamento in vigore.
In Italia vi è piena libertà di scegliere se frequentare o meno l’insegnamento della religione.
Non si comprende perché qualcuno voglia limitare questa libertà.
L’ordinanza del Tar infatti determina un ingiusto danno nei confronti di chi sceglie liberamente di seguire il corso.
Il Tar del Lazio ha sostenuto che per chi non sceglie l’insegnamento della religione cattolica può configurarsi una situazione di svantaggio.
Tale tesi non è condivisibile in quanto l’insegnamento della religione cattolica non costituisce un credito scolastico ma un credito formativo e non incide quindi in maniera diretta sul voto finale.
E’ pertanto davvero incomprensibile che solo la religione cattolica non debba contribuire alla valutazione globale dello studente tra tutte le attività che danno luogo a crediti formativi.
L’ordinanza del Tar peraltro tende a sminuire il ruolo degli insegnanti di religione cattolica, come se esistessero docenti di serie a e di serie b.
Al contrario ritengo che il ruolo degli insegnanti di religione vada accresciuto e valorizzato.
Per questo dal prossimo anno è mia intenzione coinvolgere i docenti di religione cattolica in attività di formazione, secondo gli obiettivi della riforma del primo e del secondo ciclo d’istruzione”.
AVVENIRE – 11 Agosto 2009 SCUOLA Ora di religione: il Tar del Lazio la «retrocede» Nuovo attacco all’ora di religione.
Dopo diversi tentativi andati a vuoto, il gruppo di associazioni laiciste e di altre confessioni non cattoliche che da tempo hanno messo nel mirino questo insegnamento, hanno trovato una sponda nel Tar del Lazio.
I giudici amministrativi, con la sentenza 7076 hanno infatti disposto l’annullamento delle ordinanze del ministro Fioroni, emanate per gli esami di Stato del 2007 e del 2008.
In pratica, il Tar ha stabilito che frequentare l’ora di religione non può portare crediti aggiuntivi e che gli insegnanti di religione non possono partecipare «a pieno titolo» agli scrutini.
In particolare, nella sentenza i giudici scrivono che «lo Stato, dopo aver sancito il postulato costituzionale dell’assoluta, inviolabile libertà di coscienza nelle questioni religiose, di professione e di pratica di qualsiasi culto “noto”, non può conferire ad una determinata confessione una posizione “dominante” – e quindi una indiscriminata tutela ed un’evidentissima netta priorità – violando il pluralismo ideologico e religioso che caratterizza indefettibilmente ogni ordinamento democratico moderno».
La decisione del Tar laziale ha già suscitato la legittima protesta dei docenti, per l’evidente tentativo, già per altro portato avanti anche nel recente passato, di emarginare l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche italiane.
«Questa sentenza è semplicemente assurda», tuona Nicola Incampo, docente e membro della commissione paritetica Ministero-Cei per la valutazione dell’insegnamento della religione cattolica.
«Già nel 2006 – prosegue l’insegnante – una sentenza del presidente del Consiglio di Stato, organo giudicante di grado superiore rispetto al Tar, aveva già dichiarato la legittimità delle ordinanze del ministro Fioroni.
Non si capisce, quindi, come adesso i giudici amministrativi possano tornare indietro pronunciandosi su una questione già definita a livello superiore».
Un’altra incongruità del dispositivo del Tar riguarda la presunta “discriminazione” contenuta nell’ordinanza Fioroni.
Per i giudici, infatti, frequentare l’ora di religione non può essere considerato meritevole di crediti scolastici aggiuntivi, rispetto a chi, invece, ha deciso di non avvalersi dell’insegnamento.
«Ma non è così – protesta Incampo –.
Mentre la precedente ordinanza Berlinguer prevedeva, questa sì, i crediti soltanto per chi aveva deciso di frequentare l’ora di religione, il ministro Fioroni ha dato la possibilità di accumulare crediti a tutti, anche a chi frequenta attività sostitutive.
Mi sembra evidente, in definitiva, il tentativo di estromettere, a colpi di sentenze, l’insegnamento della religione dai programmi scolastici».
Un tentativo alquanto maldestro.
La sentenza del Tar, infatti, arriva dopo la conclusione dei lavori della commissione paritetica Ministero dell’Istruzione-Cei, che ha deciso all’unanimità di passare dalla votazione con gli “aggettivi” (sufficiente, buono…) ai voti numerici.
Quando la decisione sarà avallata dal Consiglio di Stato, anche il voto di religione farà media e il problema dei crediti sarà quindi superato una volta per tutte.
Di «decisione estemporanea, bizzarra e discriminatoria, che sarà sicuramente cancellata da ulteriori gradi di giudizio» ha parlato anche il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, mentre l’ex-ministro Giuseppe Fioroni, chiamato direttamente in causa, ha ricordato di aver soltanto «applicato la legge».
«Offro un ulteriore spunto di riflessione – ha proseguito l’ex-titolare dell’Istruzione –: visto che al conseguimento dei crediti formativi concorrono una serie molto ampia e varia di discipline, non ultimi anche corsi di danza caraibica, ritengo quindi che possa contribuirvi anche l’ora di religione o della materia sostitutiva, come previsto per legge».
Contro la sentenza del Tar si è espressa la parlamentare del Pd, Paola Binetti, che si è detta contraria a creare «professori di serie A e altri di serie B».
Non ammettere i docenti di religione agli scrutini, inoltre, secondo Binetti sarebbe «massimamente scorretto» e avrebbe ripercussioni negative «anche sugli studenti, in particolare su quelli che hanno scelto di avvalersi dell’insegnamento della religione e si aspettano che, una volta scelto, non sia un optional ma entri a pieno titolo nella valutazione».
Infine, per la parlamentare dell’Udc, Luisa Santolini, la sentenza del Tar del Lazio è «ideologica» e ha come fine quello di «distruggere le tradizioni italiane ed il sentire della gente».
ALTRI COMMENTI Secondo Monsignor Diego Coletti, vescovo di Como e presidente della Commissione episcopale per l’educazione cattolica, la sentenza non tutela, bensì danneggia la laicità dello Stato.
Escluso, però, che la Cei faccia ricorso.
Ai microfoni di Radio Vaticana Coletti ha detto che «se per laicità si intende l’esclusione dall’orizzonte culturale, formativo, civile di ogni identità, vuol dire che si è proprio nel più bieco e negativo risvolto dell’Illuminismo, che prevede che la pace sociale sia garantita dalla cancellazione delle diversità delle identità.
Mentre io credo che uno Stato sanamente laico debba preoccuparsi di far emergere e di rispettare, di mettere in rete casomai e di far crescere tutte le identità, soprattutto quelle di alto profilo etico e culturale».
«Ci sarà da chiedersi – afferma Coletti – come mai su una questione così delicata, la competenza venga data ad un Tribunale amministrativo regionale».
Ma un eventuale ricorso, ha concluso, non spetta alla Cei, bensì ai cittadini italiani e allo stesso ministero dell’Istruzione.

Come ricuperare la gioia della fede e della preghiera?

di fronte alla domanda più generale: come ricuperare la gioia della fede e della preghiera? Non do consigli astratti, ma porto quattro immagini.
La prima è quella di una cascata di montagna: se l’acqua non si butta coraggiosamente, imputridisce.
La seconda è quella dell’alpinista di fronte una parete ripida.
Ha bisogno almeno di tre appigli: nel nostro caso sono un uomo di consiglio, il buon umore e qualche buon libro.
La terza immagine è quella del mormorio di un vento leggero (1 Re 19,12).
Questa è la preghiera fatta a partire da qualche Salmo, meditata nel profondo del cuore.
La quarta immagine è quella di chi sale in elicottero e vede un più vasto panorama, che gli dà orientamento e chiarezza.
Ho sperimentato in me stesso che le difficoltà contro la fede crescono a misura che si rimpicciolisce il quadro di riferimento.
Carlo Maria Martini da Lettere al Cardinal Martini Corriere della Sera 26 luglio 2009

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano scrive al Papa sulla “Caritas in Veritate”

Il Presidente Giorgio Napolitano ha inviato una lettera a S.S.
Benedetto XVI in merito all’enciclica “Caritas in Veritate”, di seguito il testo.
Ho letto con grande interesse la Sua terza enciclica Caritas in veritate che, rivolta anche “a tutti gli uomini di buona volontà”, porta il Suo messaggio all’interno di società in cui vi è in questi anni apprensione ed incertezza non solo per le prospettive e per il futuro dell’economia mondiale e dello sviluppo, ma anche per i cambiamenti che si vanno delineando nei rapporti umani, nel mondo del lavoro e dell’impresa, nelle relazioni tra gli abitanti del pianeta e l’ambiente e le risorse naturali che per molto tempo sono state considerate inesauribili.
Sono certo che i temi centrali che riguardano la vita dell’uomo in rapporto ai suoi simili e le grandi questioni che toccano le nostre società, così come delineati nell’enciclica e collegati da quel filo rosso che Ella ha saputo così chiaramente rendere visibile nel testo, costituiranno uno stimolo ad una riflessione che potrà risultare benefica per tutti.
L’affermazione di Vostra Santità che oggi la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica costituisce in effetti un invito ad un ripensamento approfondito e sereno di molti aspetti della vita e del funzionamento degli aggregati umani, con particolare riferimento “al senso dell’economia e dei suoi fini” e alla necessità di una “revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni”.
Mi è gradita l’occasione, Santità, per ribadirLe le espressioni della mia più alta considerazione e della mia attenta partecipazione nel seguire lo svolgimento della Sua quotidiana ed estremamente impegnativa missione”.
Roma, 16 luglio 2009

«Gloria a Dio e onore a voi uomini artefici della grande impresa»

Si è tanto parlato in questi giorni, e in tutto il mondo, e con tutte le voci possibili, dell’impresa lunare; Noi stessi vi abbiamo dedicato qualche esclamazione ammiratrice, così che sembrerebbe ora cosa migliore per Noi tacerne che parlarne.
Ma, oltre il fatto che proprio domani la straordinaria escursione planetaria deve concludersi con il ritorno, che auguriamo felicissimo, degli astronauti sulla terra, questo avvenimento penetra talmente nella psicologia della pubblica opinione da costituire una sorgente di pensieri, di questioni, di spiritualità, che commetteremmo un peccato di omissione, se non Ci fermassimo, anche in questo familiare incontro, a meditarlo un po’.
È purtroppo vero che la superficialità è una abitudine di moda.
Anche le più forti impressioni, che a noi vengono dall’esperienza della vita moderna, si cancellano subito; o subito sono soverchiate da altre successive, così che spesso manca il tempo, manca la voglia di approfondirle, e di coglierne il significato, la verità, la realtà.
Ma in questo caso il trauma della novità e della meraviglia è così forte, che sarebbe stoltezza non riflettere su questa, possiamo dire, sovrumana e storica avventura, alla quale tutti abbiamo, come spettatori esterrefatti, in qualche modo – anche questo meraviglioso – assistito.
Ciascuno vi pensi a suo modo, purché vi pensi! L’importanza degli studi scientifici può essere di per sé oggetto di interminabili considerazioni.
Ad esempio, quella circa lo sviluppo e il progresso, che questi studi hanno avuto nel tempo nostro, fino a modificare la mentalità umanistica tradizionale della nostra cultura e della nostra scuola; il che vuol poi dire della nostra vita.
Il bilancio di questi studi positivi e scientifici è così attivo, che una grande attrattiva vi polarizza molta parte delle nuove generazioni, e un ottimismo sognatore sulle loro future conquiste ne fa quasi un’iniziazione profetica.
E sia pure.
Il campo scientifico merita ogni interesse.  Ma intanto potremmo, di passaggio, osservare come sia fuori luogo, almeno a questo riguardo, il disfattismo oggi di moda contro la società e la sua compagine, e in genere contro la vita moderna.
Questo disfattismo seduce oggi perfino qualche parte della gioventù, e altri uomini di pensiero e d’azione; li gratifica di audace progressismo, e sembra loro conferire una personalità superiore, quando li riempie di istinti ribelli e di spregiudicato disprezzo verso la nostra età e verso il suo sforzo creativo.
La vita invece è seria; e ce lo insegna la somma immensa di studi, di spese, di fatiche, di ordinamenti, di tentativi, di rischi, di sacrifici, che una impresa colossale, come quella spaziale, ha reclamati.
Criticare, contestare è facile; non così costruire, in questa iniziativa si comprende; ma parimente in altre moltissime da cui risulta la nostra presente civiltà.
Perciò Ci sembra che un dovere di ripensamento e di apprezzamento dei valori della vita moderna ci sia intimato dall’avvenimento che stiamo celebrando.
Noi non neghiamo alla critica i suoi diritti, né rimproveriamo al genio dei giovani il suo istinto di emancipazione e di novità.
Ma riteniamo non degno di giovani il decadentismo iconoclasta e privo di amore dei contestatori di mestiere.
I giovani devono sentire l’impulso ideale e positivo che loro è offerto dalla magnifica avventura spaziale.
Ed allora ecco un’altra considerazione.
Questo nostro aperto suffragio per la progressiva conquista del mondo naturale, per via di studi scientifici, di sviluppi tecnici e industriali, non è in contrasto con la nostra fede e con la concezione della vita e dell’universo, ch’essa comporta.
Basta ricordare quanto insegna a questo riguardo il recente Concilio (Gaudium et spes, nn.
37, 58, 59, ecc.).
Qui tocchiamo uno dei punti più delicati della mentalità moderna rispetto alla nostra religione cattolica, una religione cioè positiva, con sue dottrine ben determinate, e ordinate a sistema unitario, incentrato in Gesù Cristo, nel suo Vangelo, nella sua Chiesa.
Ora è facile riscontrare nella mentalità dell’uomo odierno, specialmente di quello dedicato agli studi scientifici, una duplice serie di difficoltà:  una di ordine essenziale, l’altra di ordine storico.
Come può, dice oggi lo studioso, entrare nello schema dogmatico e rituale della vita cattolica l’immenso patrimonio delle scoperte scientifiche, con l’impiego libero e totale della ragione, e con la concezione che ne risulta sul mondo e sull’umana esistenza? E come può, insiste lo studioso osservando i mutamenti continui, rapidi e macroscopici, che avvengono col volgere del tempo nel pensiero e nel costume dell’uomo moderno, rimanere intatta la religione tradizionale, racchiusa in una mentalità statica e d’altri tempi? Occorrerebbero libri interi, sia per formulare queste obiezioni capitali, sia per rispondervi.
Non è certo qui, né in questo momento che lo faremo.
Ma ora Ci basti rassicurarvi.
La fede cattolica, non solo non teme questo poderoso confronto della sua umile dottrina con le meravigliose ricchezze del pensiero  scientifico  moderno, ma lo desidera.
Lo desidera, perché la verità, anche se si diversifica in ordini differenti e se si appoggia a titoli diversi, è concorde con se stessa, è unica; e perché è reciproco il vantaggio che da tale confronto può risultare alla fede (cfr.
Gaudium et Spes, n.
44) e alla ricerca e allo studio d’ogni campo conoscibile.
È stata questa una delle affermazioni caratteristiche e più documentate del pensiero cattolico apologetico del secolo scorso e della prima metà del nostro secolo, con risultati magnifici, dei quali le nostre Università sono documenti gloriosi.  Adesso si profilano altre tendenze, che suppongono, non smentiscono la precedente:  quella, che si rifà alla famosa parola di sant’Agostino, e che possiamo dire psicologica:  “Tu, (o Signore), ci hai fatti per Te ed è inquieto il nostro cuore, finché non si riposi in Te” (Confess.
i, 1).
Il bisogno di Dio è insito nella natura umana, e quanto più essa progredisce tanto più essa avverte, fino al tormento, fino a certa drammatica esperienza, il bisogno di Dio.
Ovvero quella che, tanto per intenderci, potremmo dire la tendenza cosmica:  chi studia, chi cerca, chi pensa non può sottrarsi ad una obiettiva onnipresenza di Dio, antica verità, che il Libro sacro sempre ci ripete:  “Dove andrò io lungi dal Tuo spirito (o Signore), e dove fuggirò io dalla Tua faccia?” (Ps 138, 7).
Impossibile sottrarsi da questa presenza, di cui la materia, la natura è, per chi lo sa comprendere, un libro di lettura spirituale:  “In Lui (cioè in Dio, dice san Paolo) noi viviamo, ci muoviamo, ed esistiamo” (Act 17, 28).
Il Dio ignoto è sempre lì; ogni studio delle cose è come un contatto con un velo dietro il quale si avverte un’infinita palpitante Presenza.
Ora qui è l’attimo sublime, l’attimo della rivelazione, l’attimo in cui Cristo apre il velo e appare nella storica e semplice scena del Vangelo.
Chi è Cristo? Ecco la questione decisiva.
Risponde san Giovanni, al primo capitolo del suo Vangelo:  è il Verbo, è Dio, è Colui per virtù del Quale tutte le cose furono fatte.
E san Paolo confermerà:  è Colui che “è avanti a tutte le cose; e tutte le cose sussistono per lui” (Col 1, 17); ed è Colui che un giorno, il giorno finale “della restaurazione di tutte le cose” (della “apocatastasi”:  Atti degli apostoli, 3, 21) nel quale Egli con la sua potenza “assoggetterà a sé tutte le cose” (Phil 3, 21).
Cioè Cristo è l’alfa e l’omega, il principio e il fine (cfr.
Apoc 1, 8; 21, 6; 22, 13), non solo per i destini dell’uomo, ma per il cosmo intero, che in Lui ha il suo punto focale, donde ogni senso, ogni luce, ogni ordine, ogni pienezza.
Non temiamo, Figli carissimi, che la nostra fede non sappia comprendere le esplorazioni e le conquiste, che l’uomo va facendo del creato, e che noi, seguaci di Cristo, siamo esclusi dalla contemplazione della terra e del cielo, e dalla gioia della loro progressiva e meravigliosa scoperta.
Se saremo con Cristo saremo nella via, saremo nella verità, saremo nella vita.
(©L’Osservatore Romano – 20-21 luglio 2009)

La dimensione teologico-pastorale della “Caritas in veritate”

Vari i timori che hanno accompagnato la gestazione dell’enciclica: su tutti, la persuasione diffusa e condivisa che i temi sociali non appartenessero alle corde profonde della teologia e della pastorale di Joseph Ratzinger.
Un papa “teologo”: appassionato a questioni di fede e all’affermazione della verità soprattutto ad intra Ecclesiae, solo occasionalmente dedito a questioni ad extra Ecclesiae e soltanto quando si tratti di difendere la possibilità della religione di chiesa nel mondo e nella cultura post-moderni.
1.Carità nella verità: reciproca inclusione di teoria e prassi Invece il primo dato, emergente fin dal titolo, è l’affermazione dell’unità profonda di verità e di carità, di fede creduta e di vita vissuta, di fides quae e di fides qua.
Chi si occupa di teologia pastorale avrà tirato un sospiro di sollievo, ritrovando nella riflessioni introduttive (i nn.
1-7) il filo che trattiene inestricabilmente teoria e prassi, teologia speculativa e teologia pratica.
Su tale filo si regge la teologicità non solo della teologia pastorale ma anche della Dottrina sociale della chiesa, nonchè la loro legittimità, tanto ad intra che ad extra.
Il tema della reciproca inclusione di teoria e di prassi nonchè della loro specificità è giustificato dall’enciclica a partire da un’unità originaria del conoscere, che possiamo qui riassumere come unità di intelligenza e di amore.
Già in Deus caritas est, 10 il papa dimostrava come questo fosse un dato che sporge non solo dall’esperienza umana elementare, ma pure dalla rivelazione cristiana.
Si comprende così perchè la teologia si interessi di tutte le questioni pratiche umane, e dunque anche di quelle sociali.
Che l’azione sia inscritta nella comprensione, è tanto dato originario dell’uomo quanto nota peculiare della Rivelazione cristiana, la cui attestazione non è mai solo informativa, ma sempre performativa: cioè conversione interiore e cambio della vita.
Anche sociale.
2.
La Dottrina sociale ha il suo “luogo” nella Tradizione della fede apostolica “Appartiene da sempre alla verità della fede […] che la Chiesa, essendo a servizio di Dio, è a servizio del mondo in termini di amore e di verità” (n.11).
Tale dato originario è richiamato dal papa attraverso il rapporto che egli stabilisce tra l’enciclica, il Concilio, il magistero sociale precedente e soprattutto la Populorum progressio di Paolo VI (nn.
8-11 e l’intero primo capitolo), omaggiata di un impegnativo riconoscimento: “esprimo la mia convinzione che la Populorum progressio merita di essere considerata come ‘la Rerum novarum’ dell’epoca contemporanea” (n.
8).
Questa unità tra pronunciamenti sociali diversi ma tutti con le medesime radici è spiegata dal papa come sviluppo della Tradizione della fede apostolica (n.
10).
Si tratta di un tema “classico” e in fondo prevedibile in un pontefice che interpreta il Concilio entro l’ermeneutica della continuità.
Ciò che appare se non nuova almeno ribadita con fermezza, è l’uso di una tale ermeneutica per il corpus della Dottrina sociale.
Il che può significare non tanto (come certamente si affanneranno a interpretare – e scrivere – altri, non noi) che al potenziale di emancipazione sociale iscritto nel cristianesimo si vuol mettere la museruola di una riduzione conservatrice, ma che nella chiesa non si è ancora sufficientemente compreso e agito intendendo la Dottrina sociale come “parte integrante della nuova evangelizzazione”.
Dunque come un ambito che non può essere trascurato dalla ordinaria predicazione e dalla pastorale ordinaria delle comunità cristiane.
La Dottrina sociale – nella sua valenza culturale e con la sua pretesa di offrire non solo precetti, ma anche una visione complessiva dell’uomo e della società, coestensiva alla visione cristiana della vita, è un capitolo strutturale del contributo che la fede cristiana può e desidera offrire al superamento della crisi della ragione moderna occidentale, ricollocando l’uomo nella sua costitutiva relazionalità sociale.
3.
Una questione sociale complessa, non solo per via della globalizzazione Tale “crisi antropologica” è in fondo alla base delle molte cose che non vanno anche in economia, politica e sistemi sociali vari (cfr.
n.
34), cosicchè si potrebbe sostenere che la questione sociale oggi viene a coincidere con la “questione antropologica” di ruiniana memoria (cfr.
n.
51).
La carità nella verità vede urgente ricomporre un intero che sia di nuovo l’uomo-non-scisso: in cui, ad esempio, fede e ragione si sostengono e si “allargano” a vicenda, i regni di Dio tornano ad essere uno (e non uno nella mano destra e un altro nella sinistra, come sosteneva Lutero), l’anima e il corpo non si ignorano tra loro, l’individuo sia parte di una società, e più in generale l’uomo non tratti Dio da nemico.
Tali scissioni – per certi versi senz’altro all’origine della modernità, nonchè di quell’esito che è la differenziazione luhmanniana – necessitano di essere risignificate anche nella sfera sociale della vita a partire da un centro.
Questo centro non può essere costitutito da un sottosistema-quale-che-sia (n.34).
La religione cattolica ritiene che dall’incarnazione del Figlio di Dio in poi, un tale centro sia offerto a tutti: in forza dell’unione ipostatica Dio e l’uomo non sono scissi o separati tra loro, così che il papa può sorprendentemente ri-affermare che “l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo” (n.
8; PP n.
16).
Questo sviluppo ‘integrale’ si dà entro un’intelaiatura chel’enciclica tesse tra la questione della vita umana, quella del diritto al vangelo e quella sociale.
Proprio ricalcando il magistero montiniano, Benedetto XVI lega Humanae vitae (HV), Evangelii nuntiandi (EN) e Populorum progressio (PP).
La questione della vita umana (HV), del progresso sociale ed economico (PP) e del diritto al vangelo (EN) si saldano tra loro fondando la dignità inviolabile e l’effettiva possibilità dello sviluppo dei popoli e dei singoli a un livello che non rimanga puramente quello del potere e dell’economia (o del potere dell’economia).
Per quanto affermato fin dall’inizio a proposito del legame tra tra teoria e prassi, risulta chiaro che una certa visione della procreazione umana porta implicito un certo legame o non-legame con il Dio rivelato dal vangelo e dunque un certo modello di rapporti sociali ed economici.
E così via.
Sarà a carico di chi rigetterà l’enciclica esplicitare il proprio apparato teorico a riguardo dell’antropologia e dell’evangelizzazione, implicito in quel rifiuto pratico; e sostenere la congruenza tra la sua posizione e quella espressa da Gesù, così come ci è stata trasmessa finora.
Possibilmente, senza creare nuove scissioni.
4.
Gv 21, 25 a Cioè: “Vi sono ancora molte altre cose…” nell’enciclica che meriterebbero di essere riprese.
Una osservazione si può ancora fare: quanto è bella la chiesa quando non parla solo di se stessa! Quando il sale o il lievito di cui essa dispone vengono immessi dentro la pasta che è la vita del mondo.
Isolare le prese di posizione della Chiesa e trattarle come distillati da laboratorio, senza farli regire con situazioni e contesti concreti, non porta che a un’estenuazione del dato di fede.
A dibattiti che, avvitandosi su se stessi, rendono incomprensibile se non inutile la fede, perchè privata del suo essenziale supposto che è non l’uomo astratto, ma quello reale (cfr.
RH n.
14).
Che pena se la recezione dell’enciclica in Italia si limitasse al dibattito “meglio per la Chiesa lasciar perdere la bioetica e concentrarsi sulle questioni sociali”- come se non esistesse tra loro la connessione di cui sopra! Sarà interessante raccogliere le reazioni e i dibattiti di quanti sono impegnati nella pastorale sociale e nella Caritas, più o meno internationalis: ci aiuteranno a coniugare la carità nella verità? O si perpetueranno – anche qui – le “moderne” scissioni: carità/giustizia, evangelizzazione/promozione umana, impegno sociale/vita spirituale, cittadino/cristiano? ————- *Don Paolo Asolan insegna Teologia Pastorale all’Istituto Pastorale “Redemptor Hominis” della Pontificia Università Lateranense.

“Caritas in veritate”.

La  terza enciclica di questo pontificato, firmata dal papa il 29 giugno 2009 e resa pubblica il 7 luglio, “sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità” Il testo integrale dell’enciclica, nel sito del Vaticano: > “Caritas in veritate” 1.
LA CARITÀ NELLA VERITÀ, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera.
[…] 3.
[…] Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo.
L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente.
È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità.
[…] Nella verità la carità riflette la dimensione personale e nello stesso tempo pubblica della fede nel Dio biblico, che è insieme Agápe e Lógos: Carità e Verità, Amore e Parola.
4.
[…] Un cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali.
In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo.
Senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni.
È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività.
[…] 28.
Uno degli aspetti più evidenti dello sviluppo odierno è l’importanza del tema del rispetto per la vita, che non può in alcun modo essere disgiunto dalle questioni relative allo sviluppo dei popoli.
Si tratta di un aspetto che negli ultimi tempi sta assumendo una rilevanza sempre maggiore, obbligandoci ad allargare i concetti di povertà e di sottosviluppo alle questioni collegate con l’accoglienza della vita, soprattutto là dove essa è in vario modo impedita.
Non solo la situazione di povertà provoca ancora in molte regioni alti tassi di mortalità infantile, ma perdurano in varie parti del mondo pratiche di controllo demografico da parte dei governi, che spesso diffondono la contraccezione e giungono a imporre anche l’aborto.
Nei paesi economicamente più sviluppati, le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato il costume e la prassi, contribuendo a diffondere una mentalità antinatalista che spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale.
Alcune organizzazioni non governative, poi, operano attivamente per la diffusione dell’aborto, promuovendo talvolta nei paesi poveri l’adozione della pratica della sterilizzazione, anche su donne inconsapevoli.
Vi è inoltre il fondato sospetto che a volte gli stessi aiuti allo sviluppo vengano collegati a determinate politiche sanitarie implicanti di fatto l’imposizione di un forte controllo delle nascite.
Preoccupanti sono altresì tanto le legislazioni che prevedono l’eutanasia quanto le pressioni di gruppi nazionali e internazionali che ne rivendicano il riconoscimento giuridico.
[…] 29.
C’è un altro aspetto della vita di oggi, collegato in modo molto stretto con lo sviluppo: la negazione del diritto alla libertà religiosa.
Non mi riferisco solo alle lotte e ai conflitti che nel mondo ancora si combattono per motivazioni religiose, anche se talvolta quella religiosa è solo la copertura di ragioni di altro genere, quali la sete di dominio e di ricchezza.
Di fatto, oggi spesso si uccide nel nome sacro di Dio, come più volte è stato pubblicamente rilevato e deplorato dal mio predecessore Giovanni Paolo II e da me stesso.
Le violenze frenano lo sviluppo autentico e impediscono l’evoluzione dei popoli verso un maggiore benessere socio-economico e spirituale.
Ciò si applica specialmente al terrorismo a sfondo fondamentalista, che genera dolore, devastazione e morte, blocca il dialogo tra le Nazioni e distoglie grandi risorse dal loro impiego pacifico e civile.
Va però aggiunto che, oltre al fanatismo religioso che in alcuni contesti impedisce l’esercizio del diritto di libertà di religione, anche la promozione programmata dell’indifferenza religiosa o dell’ateismo pratico da parte di molti paesi contrasta con le necessità dello sviluppo dei popoli, sottraendo loro risorse spirituali e umane.
Dio è il garante del vero sviluppo dell’uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad “essere di più”.
[…] 34.
La carità nella verità pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono.
[…] Talvolta l’uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società.
È questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende – per dirla in termini di fede – dal peccato delle origini.
[…] La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale.
La convinzione poi della esigenza di autonomia dell’economia, che non deve accettare “influenze” di carattere morale, ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo.
A lungo andare, queste convinzioni hanno portato a sistemi economici, sociali e politici che hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali e che, proprio per questo, non sono stati in grado di assicurare la giustizia che promettevano.
Come ho affermato nella mia enciclica “Spe salvi”, in questo modo si toglie dalla storia la speranza cristiana, che è invece una potente risorsa sociale a servizio dello sviluppo umano integrale, cercato nella libertà e nella giustizia.
La speranza incoraggia la ragione e le dà la forza di orientare la volontà.
È già presente nella fede, da cui anzi è suscitata.
La carità nella verità se ne nutre e, nello stesso tempo, la manifesta.
Essendo dono di Dio assolutamente gratuito, irrompe nella nostra vita come qualcosa di non dovuto, che trascende ogni legge di giustizia.
Il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l’eccedenza.
Esso ci precede nella nostra stessa anima quale segno della presenza di Dio in noi e della sua attesa nei nostri confronti.
La verità, che al pari della carità è dono, è più grande di noi, come insegna sant’Agostino.
[…] 35.
Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri.
Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici.
Ma la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l’importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza.
Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare.
Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica.
Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave.
Opportunamente Paolo VI nella “Populorum progressio” sottolineava il fatto che lo stesso sistema economico avrebbe tratto vantaggio da pratiche generalizzate di giustizia, in quanto i primi a trarre beneficio dallo sviluppo dei paesi poveri sarebbero stati quelli ricchi.
Non si trattava solo di correggere delle disfunzioni mediante l’assistenza.
I poveri non sono da considerarsi un “fardello”, bensì una risorsa anche dal punto di vista strettamente economico.
È tuttavia da ritenersi errata la visione di quanti pensano che l’economia di mercato abbia strutturalmente bisogno di una quota di povertà e di sottosviluppo per poter funzionare al meglio.
È interesse del mercato promuovere emancipazione, ma per farlo veramente non può contare solo su se stesso, perché non è in grado di produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità.
Esso deve attingere energie morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle.
36.
[…] La Chiesa ritiene da sempre che l’agire economico non sia da considerare antisociale.
Il mercato non è, e non deve perciò diventare, di per sé il luogo della sopraffazione del forte sul debole.
La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse “ipso facto” la morte dei rapporti autenticamente umani.
È certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso.
Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro.
Esso trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano.
Infatti, l’economia e la finanza, in quanto strumenti, possono esser mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici.
Così si può riuscire a trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi.
Ma è la ragione oscurata dell’uomo a produrre queste conseguenze, non lo strumento di per sé stesso.
Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l’uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale.
La dottrina sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all’interno dell’attività economica e non soltanto fuori di essa o “dopo” di essa.
La sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale.
Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente.
La grande sfida che abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle problematiche dello sviluppo in questo tempo di globalizzazione e resa ancor più esigente dalla crisi economico-finanziaria, è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell’etica sociale, quali la trasparenza, l’onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica.
Ciò è un’esigenza dell’uomo nel momento attuale, ma anche un’esigenza della stessa ragione economica.
Si tratta di una esigenza ad un tempo della carità e della verità.
[…] 42.
[…] La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva.
Sarà ciò che le persone ne faranno.
[…] I processi di globalizzazione, adeguatamente concepiti e gestiti, offrono la possibilità di una grande ridistribuzione della ricchezza a livello planetario come in precedenza non era mai avvenuto; se mal gestiti, possono invece far crescere povertà e disuguaglianza, nonché contagiare con una crisi l’intero mondo.
[…] 43.
[…] Si assiste oggi a una pesante contraddizione.
Mentre, per un verso, si rivendicano presunti diritti, di carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa di vederli riconosciuti e promossi dalle strutture pubbliche, per l’altro verso, vi sono diritti elementari e fondamentali disconosciuti e violati nei confronti di tanta parte dell’umanità.
Si è spesso notata una relazione tra la rivendicazione del diritto al superfluo o addirittura alla trasgressione e al vizio, nelle società opulente, e la mancanza di cibo, di acqua potabile, di istruzione di base o di cure sanitarie elementari in certe regioni del mondo del sottosviluppo e anche nelle periferie di grandi metropoli.
La relazione sta nel fatto che i diritti individuali, svincolati da un quadro di doveri che conferisca loro un senso compiuto, impazziscono e alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata e priva di criteri.
L’esasperazione dei diritti sfocia nella dimenticanza dei doveri.
[…] 44.
[…] Considerare l’aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo è scorretto, anche dal punto di vista economico: basti pensare, da una parte, all’importante diminuzione della mortalità infantile e il prolungamento della vita media che si registrano nei paesi economicamente sviluppati; dall’altra, ai segni di crisi rilevabili nelle società in cui si registra un preoccupante calo della natalità.
Resta ovviamente doveroso prestare la debita attenzione ad una procreazione responsabile, che costituisce, tra l’altro, un fattivo contributo allo sviluppo umano integrale.
La Chiesa, che ha a cuore il vero sviluppo dell’uomo, gli raccomanda il pieno rispetto dei valori umani anche nell’esercizio della sessualità: non la si può ridurre a mero fatto edonistico e ludico, così come l’educazione sessuale non si può ridurre a un’istruzione tecnica, con l’unica preoccupazione di difendere gli interessati da eventuali contagi o dal “rischio” procreativo.
[…] L’apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica.
Grandi nazioni hanno potuto uscire dalla miseria anche grazie al grande numero e alle capacità dei loro abitanti.
Al contrario, nazioni un tempo floride conoscono ora una fase di incertezza e in qualche caso di declino proprio a causa della denatalità, problema cruciale per le società di avanzato benessere.
La diminuzione delle nascite, talvolta al di sotto del cosiddetto “indice di sostituzione”, mette in crisi anche i sistemi di assistenza sociale, ne aumenta i costi, contrae l’accantonamento di risparmio e di conseguenza le risorse finanziarie necessarie agli investimenti, riduce la disponibilità di lavoratori qualificati, restringe il bacino dei “cervelli” a cui attingere per le necessità della nazione.
Inoltre, le famiglie di piccola, e talvolta piccolissima, dimensione corrono il rischio di impoverire le relazioni sociali, e di non garantire forme efficaci di solidarietà.
Sono situazioni che presentano sintomi di scarsa fiducia nel futuro come pure di stanchezza morale.
Diventa così una necessità sociale, e perfino economica, proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità della persona.
In questa prospettiva, gli Stati sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l’integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società.
[…] 45.
[…] Oggi si parla molto di etica in campo economico, finanziario, aziendale.
[…] È bene, tuttavia, elaborare anche un valido criterio di discernimento, in quanto si nota un certo abuso dell’aggettivo “etico” che, adoperato in modo generico, si presta a designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell’uomo.
Molto, infatti, dipende dal sistema morale di riferimento.
Su questo argomento la dottrina sociale della Chiesa ha un suo specifico apporto da dare, che si fonda sulla creazione dell’uomo “ad immagine di Dio” (Genesi 1, 27), un dato da cui discende l’inviolabile dignità della persona umana, come anche il trascendente valore delle norme morali naturali.
Un’etica economica che prescindesse da questi due pilastri rischierebbe inevitabilmente di perdere la propria connotazione e di prestarsi a strumentalizzazioni; più precisamente essa rischierebbe di diventare funzionale ai sistemi economico-finanziari esistenti, anziché correttiva delle loro disfunzioni.
Tra l’altro, finirebbe anche per giustificare il finanziamento di progetti che etici non sono.
[…] 56.
La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica.
La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo “statuto di cittadinanza” della religione cristiana.
[…] La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente.
A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano.
La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità.
57.
Il dialogo fecondo tra fede e ragione non può che rendere più efficace l’opera della carità nel sociale e costituisce la cornice più appropriata per incentivare la collaborazione fraterna tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace dell’umanità.
[…] Manifestazione particolare della carità e criterio guida per la collaborazione fraterna di credenti e non credenti è senz’altro il principio di sussidiarietà, espressione dell’inalienabile libertà umana.
La sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l’autonomia dei corpi intermedi.
Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità.
La sussidiarietà rispetta la dignità della persona, nella quale vede un soggetto sempre capace di dare qualcosa agli altri.
Riconoscendo nella reciprocità l’intima costituzione dell’essere umano, la sussidiarietà è l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista.
Essa può dar conto sia della molteplice articolazione dei piani e quindi della pluralità dei soggetti, sia di un loro coordinamento.
Si tratta quindi di un principio particolarmente adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo umano.
Per non dar vita a un pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo della globalizzazione deve essere di tipo sussidiario, articolato su più livelli e su piani diversi, che collaborino reciprocamente.
La globalizzazione ha certo bisogno di autorità, in quanto pone il problema di un bene comune globale da perseguire; tale autorità, però, dovrà essere organizzata in modo sussidiario e poliarchico, sia per non ledere la libertà sia per risultare concretamente efficace.
[…] 67.
Di fronte all’inarrestabile crescita dell’interdipendenza mondiale, è fortemente sentita, anche in presenza di una recessione altrettanto mondiale, l’urgenza della riforma sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale.
[…] Urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio predecessore, il beato Giovanni XXIII.
Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità.
Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti riconosciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l’osservanza della giustizia, il rispetto dei diritti.
Ovviamente, essa deve godere della facoltà di far rispettare dalle parti le proprie decisioni, come pure le misure coordinate adottate nei vari fori internazionali.
In mancanza di ciò, infatti, il diritto internazionale, nonostante i grandi progressi compiuti nei vari campi, rischierebbe di essere condizionato dagli equilibri di potere tra i più forti.
Lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione internazionale esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione.
[…] 75.
[…] Oggi occorre affermare che la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica, nel senso che essa implica il modo stesso non solo di concepire, ma anche di manipolare la vita, sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani dell’uomo.
La fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della clonazione e dell’ibridazione umana nascono e sono promosse nell’attuale cultura del disincanto totale, che crede di aver svelato ogni mistero, perché si è ormai arrivati alla radice della vita.
Qui l’assolutismo della tecnica trova la sua massima espressione.
In tale tipo di cultura la coscienza è solo chiamata a prendere atto di una mera possibilità tecnica.
Non si possono tuttavia minimizzare gli scenari inquietanti per il futuro dell’uomo e i nuovi potenti strumenti che la “cultura della morte” ha a disposizione.
Alla diffusa, tragica, piaga dell’aborto si potrebbe aggiungere in futuro, ma è già surrettiziamente “in nuce”, una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite.
Sul versante opposto, va facendosi strada una “mens eutanasica”, manifestazione non meno abusiva di dominio sulla vita, che in certe condizioni viene considerata non più degna di essere vissuta.
Dietro questi scenari stanno posizioni culturali negatrici della dignità umana.
Queste pratiche, a loro volta, sono destinate ad alimentare una concezione materiale e meccanicistica della vita umana.
Chi potrà misurare gli effetti negativi di una simile mentalità sullo sviluppo? Come ci si potrà stupire dell’indifferenza per le situazioni umane di degrado, se l’indifferenza caratterizza perfino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è? Stupisce la selettività arbitraria di quanto oggi viene proposto come degno di rispetto.
Pronti a scandalizzarsi per cose marginali, molti sembrano tollerare ingiustizie inaudite.
Mentre i poveri del mondo bussano ancora alle porte dell’opulenza, il mondo ricco rischia di non sentire più quei colpi alla sua porta, per una coscienza ormai incapace di riconoscere l’umano.
Dio svela l’uomo all’uomo; la ragione e la fede collaborano nel mostrargli il bene, solo che lo voglia vedere; la legge naturale, nella quale risplende la Ragione creatrice, indica la grandezza dell’uomo, ma anche la sua miseria quando egli disconosce il richiamo della verità morale.
[…] 78.
Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia.
[…] La chiusura ideologica a Dio e l’ateismo dell’indifferenza, che dimenticano il Creatore e rischiano di dimenticare anche i valori umani, si presentano oggi tra i maggiori ostacoli allo sviluppo.
L’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano.
[…] 79.
Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità, “caritas in veritate”, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato.
[…] L’anelito del cristiano è che tutta la famiglia umana possa invocare Dio come “Padre nostro!”.
Insieme al Figlio unigenito, possano tutti gli uomini imparare a pregare il Padre e a chiedere a Lui, con le parole che Gesù stesso ci ha insegnato, di saperlo santificare vivendo secondo la sua volontà, e poi di avere il pane quotidiano necessario, la comprensione e la generosità verso i debitori, di non essere messi troppo alla prova e di essere liberati dal male.
[…] __________

“Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con il Cristo”

Si è svolto a Reggio Calabria, presso l’Auditorium “Calipari” nel Palazzo del Consiglio Regionale della Calabria, il XLIII Convegno Nazionale dei direttori degli uffici catechistici diocesani, organizzato dall’Ufficio Catechistico Nazionale della CEI.
“Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con il Cristo” è stato il tema dei lavori, ispirato a 2 Cor 3,2 (“La nostra lettera siete voi…”).  Si è aperto lunedì 15 giugno con il saluto e l’introduzione di don Guido Benzi, Direttore dell’Ufficio Catechistico Nazionale.
Tra le relazioni quelle di S.E.
Mons.
Lucio Soravito de Franceschi, Vescovo di Adria-Rovigo e Segretario della Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi; di S.E.
Mons.
Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto e Presidente della Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi.
Mercoledì 17 giugno S.E.
Mons.
Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI, è intervenuto sul tema “Comunità cristiane e accompagnamento delle persone in ricerca: ascolto, dialogo e questione educativa.” Il programma completo dei lavori del convegno e maggiori informazioni sulle modalità di partecipazione sono disponibili in rete, nel sito dell’Ufficio Catechistico Nazionale (http://www.chiesacattolica.it/pls/cci_new/%22http://www.chiesacattolica.it/ucn%22)   Documenti allegati:InterventoMons.
Crociata.doc

XII Domenica del tempo ordinario anno B

L’inquietudine della notte della fede Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’aurora.
Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’inquietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre.
Come Paolo fece coi Galati e coi Romani, così anche noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tutto quanto può divenire idolo.
Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte.
Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che viene incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione e di pace.
Come il credente Manzoni, anche noi dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dalla fatica di credere nell’Amore quando tutto sembra contraddirlo.
Dio è un fuoco divorante, che si fa piccolo per lasciarsi afferrare e toccare da noi.
Portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a questa “contrazione” di Dio, come la chiamavano i Padri della Chiesa, a questa debolezza.
Essa si fa risposta alle nostre domande non nella misura della grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà, nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 66).
Cristo comandò al mare e si fece una grande bonaccia Anche il sonno di Cristo è un segno esteriore di una realtà nascosta.
Sono come dei naviganti quelli che fanno la traversata di questa vita su di un’imbarcazione.
Anche quella barca era figura della chiesa.
E ogni persona è tempio di Dio, naviga nel proprio cuore e non fa naufragio, se prova buoni sentimenti.
Se hai udito un’offesa, è come il vento; sei adirato? Ecco la tempesta.
Se soffia il vento e giunge la tempesta, corre pericolo la nave, corre pericolo il tuo cuore ed è agitato.
All’udire l’offesa, desideri vendicarti; ecco, ti sei vendicato e, godendo del male altrui, hai fatto naufragio.
E perché? Perché Cristo in te dorme.
Che cosa significa: «In te Cristo dorme»? Che ti sei dimenticato di Cristo.
Risveglia dunque Cristo, ricordati di Cristo, sia desto in te Cristo, considera lui.
Che cosa volevi? Volevi vendicarti.
Ti eri dimenticato che egli, essendo crocifisso, disse: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,24).
Egli che dormiva nel tuo cuore non volle vendicarsi.
Sveglialo e ricordalo.
Il ricordo di lui è la sua parola, il ricordo di lui è il suo comando.
Se in te è desto Cristo, tu dirai tra te e te: «Che razza di uomo sono io che mi voglio vendicare? Chi sono io, che mi permetto di minacciare un altro? Forse morrò prima di vendicarmi.
E quando ansante, infiammato di collera e assetato di vendetta, uscirò da questo corpo, non mi accoglierà Colui che non volle vendicarsi, non mi accoglierà colui che disse: «Date e vi sarà dato, perdonate e vi sarà perdonato» (Lc 6,37-38).
Frenerò allora la mia collera e tornerò alla pace del mio cuore».
Cristo comandò al mare e si fece una grande bonaccia.
In tutte le altre vostre tentazioni attenetevi a ciò che ho detto riguardo all’ira.
Quando sorge una tentazione, è come il vento; tu sei agitato, c’è la tempesta.
Sveglia Cristo affinché parli con te.
[…] Imita i venti e il mare: ubbidisci al Creatore! (AGOSTINO, Discorso 63,1-3, NBA XXX/1, pp.
284-286).
Come si fa ad avere fede? «Un giorno, durante un acquazzone improvviso, ci riparammo nell’ingresso di una grotta.
“Come si fa ad avere fede? gli chiesi là dentro”.
“Non si fa, viene”.
Lei ce l’ha già ma il suo orgoglio le impedisce di ammetterlo, si pone troppe domande, dov’è semplice complica.
In realtà ha soltanto una paura tremenda.
Si lasci andare e ciò che ha da venire verrà».
(Susana Tamaro, Va dove ti porta il cuore, Rizzoli, p.
148).
Il dubbio che porta al tramonto Si narra che un alpinista, fortemente motivato a conquistare un’altissima vetta, iniziò la sua impresa dopo anni di preparazione.
Deciso a non spartire la gloria con alcuno, iniziò l’impresa senza compagni.
Iniziò l’ascesa ma si fece tardi, sempre più tardi, senza che egli si decidesse ad accamparsi, insistendo nell’ascesa.
Ben presto fu buio.
La notte giunse bruscamente sulle alture della montagna, sicché non si poteva vedere assolutamente nulla.
Tutto era tenebra, il buio regnava sovrano, la luna e le stelle erano coperte dalle nubi.
Salendo per un costone roccioso, a pochi metri dalla cima, scivolò e precipitò nel vuoto, cadendo a velocità vertiginosa.
Nella caduta, l’alpinista poteva appena vedere delle macchie scure e sperimentare la sensazione di essere risucchiato dalla forza di gravità.
Continuava a cadere… e in quegli attimi angosciosi, gli passarono per la mente gli episodi più importanti della sua vita.
Rifletteva, ormai vicino alla morte.
D’improvviso avvertì il violento strappo della lunga fune che aveva assicurato alla cintura.
In quel momento di terrore, sospeso nel vuoto, non gli rimase che gridare: ”Dio mio, aiutami!” Improvvisamente una voce grave e profonda dal cielo gli domandò: ”Cosa vuoi che io faccia?” “Mio Dio, salvami!” “Credi realmente che io possa salvarti?” “Sì, mio Signore.
Lo credo” Allora, recidi la corda che ti sostiene!” Ci fu un momento di silenzio; poi l’uomo si avvinse ancora più fortemente alla corda.
Il resoconto della squadra di soccorso, afferma che l’alpinista fu trovato, ormai morto per congelamento, fortemente avvinghiato alla corda… A soli due metri dal suolo… La vita è un atto di fede Ho appreso che la ricerca di Dio è una Notte Buia.
E che anche la Fede è una Notte Buia.
Di certo, non può dirsi una sorpresa.
Per l’uomo, ogni giorno è una Notte Buia.
Nessuno sa che cosa accadrà nell’istante successivo, eppure tutti vanno avanti.
Perché ‘confidano’.
Perché hanno Fede.
[…] Ogni momento della vita è un atto di fede.
(Paulo COELO, Brida, Bompiani, Milano, 2008, 31).
Racconto In un paese c’ era un incrocio con tre strade: verso il mare, verso la città, verso nessuna parte.
Giovanna domanda, ma dove porta la strada «verso nessuna parte»..? Tutti i saggi del paese dicono che è pericoloso, che nessuno ha fatto mai questa strada, che non si torna più….Nonostante, Giovanna un giorno si decide a percorrere quella strada pericolosa…valli, montagne…alla fine trova un cane….il cane porta Giovanna ad una casa dove abita una fata misteriosa che dice: da tanto tempo aspettavo una visita…..guarda la mia casa e prendi l’oro che vuoi…..Cosi fece Giovanna….quando tornò al paese tutti aspettavano….vedendo l’oro che portava Giovanna tutti si affrettarono a percorrere la strada che ‘porta da nessuna parte’….Non trovarono nulla.
Arrabbiati tornano da Giovanna: “sei una imbrogliona….bugiarda…”.
Non, ma soltanto che per avere l’oro si deve percorrere la strada che porta verso nessuna parte.
Preghiera Aiutami a fare silenzio, Signore, voglio ascoltare la tua voce.
Prendi la mia mano, guidami nel deserto, per incontrarci soli, Tu e io.
Ho bisogno di contemplare il tuo volto, ho bisogno del calore della tua voce, di camminare insieme…
di tacere, perché possa parlare tu.
Mi metto nelle tue mani, voglio guardare la mia vita, scoprire ciò che deve cambiare, rendere più saldo ciò che va bene, sorprendermi per le novità che mi chiedi.
Aiutami a lasciar da parte la carriera, le preoccupazioni che riempiono la testa, blocca i miei dubbi e le mie insicurezze, aiutami ad archiviare le mie risposte prefabbricate.
Voglio condividere con te la mia vita e verificarla accanto a te.
Vedere dove “preme forte e sicura la scarpa” per operare il cambio.
Portami nel deserto, Signore, liberami da ciò che mi lega, scuoti le mie certezze e metti alla prova il mio amore.
Per incominciare nuovamente, umile, semplice, con la forza dello Spirito, a vivere fedele a Te.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Giobbe 38,1.8-11 Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano: «Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?».
Il libro di Giobbe può essere diviso in tre parti.
La prima parte (1-2) introduce i personaggi; la seconda parte (3-42,6) contiene il dialogo tra gli attori nel quale viene esposto il grande problema della sofferenza del giusto; la terza parte (42,7-17) riferisce la sentenza di Dio al termine dell’azione.
Il brano della lettura si trova nella seconda parte, ed è costituito dall’inizio del primo discorso di Dio, il quale proclama la sua onnipotenza e trascendenza con queste parole in mezzo al turbine: «Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?» (Gb 38,1.8-11).
Per comprendere questo testo occorre avere presente il contenuto dell’azione precedente.
Giobbe, uomo giusto, viene colpito dalla sventura; dapprima è colpito nei beni e nei figli, poi nella sua stessa carne, con una malattia dolorosa e ripugnante.
Egli rimane sottomesso a Dio.
Tre suoi amici vengono a consolarlo.
Dapprima si tratta di una conversazione a quattro; in tre cicli di discorsi Giobbe e gli amici confrontano le loro concezioni riguardo alla giustizia divina.
I tre amici difendono la tesi della retribuzione terrena; se Giobbe soffre, ciò vuol dire che egli ha peccato; e se anche egli è giusto ai propri occhi, non lo è agli occhi di Dio.
Giobbe sostiene la propria innocenza e gli altri si irrigidiscono nelle loro posizioni.
Ad essi Giobbe contrappone la propria esperienza dolorosa e la ingiustizia di cui il mondo è pieno.
Egli si scontra con il mistero di Dio il quale permette che il giusto sia afflitto.
Giobbe alterna momenti di sottomissione a Dio a momenti di protesta della sua innocenza.
In questo movimento entra in scena Dio stesso «in mezzo al turbine», cioè nello scenario delle teofanie.
Dio riprende Giobbe o meglio, Dio rifiuta di dare risposta alle domande di Giobbe perché l’uomo non ha diritto di mettere Dio sotto inchiesta in quanto Dio è l’infinitamente sapiente e l’onnipotente che non può essere misurato dalla debolezza dell’intelligenza e dalle sue categorie di giustizia.
Giobbe riconosce di avere parlato da insipiente e dà ragione a Dio.
Il brano della lettura sta nell’inizio dell’intervento di Dio.
In esso Dio espone la sua attività creatrice, nella quale si esplica l’infinita sapienza e l’onnipotenza.
Di fronte all’opera di Dio non si può che ammirarne la bellezza e grandezza.
L’onnipotenza di Dio viene esaltata attraverso la rievocazione della creazione del mare; il mare è una creatura che esprime essa stessa una immensa potenza, ma Dio ha posto dei limiti precisi alla potenza del mare e il mare non può trasgredirli.
Questa descrizione esaltante della signoria divina incute riverenza, timore, sottomissione, che sono atteggiamenti non soltanto della volontà ma anche dell’intelligenza.
L’uomo moderno ha esplorato con grande acume e capacità la creazione, lo spazio, l’universo, ha scandagliato le profondità del mare e ha cercato di spiegare i segreti del cosmo.
Il vero saggio, tuttavia, pur avendo raggiunto una tale conoscenza del mondo e capacità di dominarlo, non ne prova orgoglio, al contrario si sente piccolo e sempre superato dai feno-meni della natura e sa di essere ancora impotente di fronte a tanti suoi segreti.
Nasce spontanea la domanda: se la creazione è così inesauribile e inafferrabile nella moltitudine e profondità dei suoi segreti, che cosa sarà il Creatore? Seconda lettura: 2 Corinzi 5,14-17 Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti.
Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.
Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così.
Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
Il passo della lettura si trova nella prima parte della epistola in continuazione con il testo della precedente domenica.
San Paolo parla dell’amore di Cristo e della conoscenza di Cristo: «L’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti.
Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.
Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così.
Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,14-17).
La prima affermazione: Cristo è morto per tutti, rivela che Gesù ha compiuto il sacrificio in nome di tutti come capo che rappresenta l’intera umanità.
Ciò che ha valore davanti a Dio in questa morte è l’obbedienza di amore che manifesta il sacrificio di una vita interamente donata a Dio.
Dice san Paolo di Gesù ai Filippesi: «Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.
Per questo Dio lo ha esaltato» (Fil 2,8-9) e ancora ai Romani: «Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5,19).
I fedeli, resi partecipi di questa morte di Gesù con il sacramento del battesimo che li immerge in essa, devono ratificare questa oblazione del Cristo con la loro vita, devono attuare ciò che dice san Paolo nella presente lettura subito dopo: quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per lui che è morto ed è risuscitato per loro (2 Cor 5,15).
Poi l’apostolo viene al tema della conoscenza di Cristo: «se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così» (2 Cor 5,16).
Paolo non dice che ha conosciuto personalmente Gesù di Nazaret, afferma che tutti, anche quelli che hanno potuto conoscerlo, devono rinunciare a dare importanza alla affinità carnale con Gesù, alla conoscenza di lui secondo la carne: legame di parentela, legame di consuetudine familiare e di nazionalità.
Conclude scrivendo: «se uno è in Cristo, è una nuova creatura» (2 Cor 5,17).
Dio che aveva creato tutte le cose per il Cristo, ha restaurato la sua opera, sconvolta dal peccato, ricreandola nel Cristo.
Il centro di questa nuova creazione che interessa tutto l’universo, è l’uomo nuovo, che è stato creato nel Cristo, per una vita nuova di giustizia e di santità: «Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti con lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,4).
Perciò: «Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4,23-24).
Così l’uomo nuovo, ricreato nel Cristo, che è l’immagine di Dio ritrova la rettitudine primitiva nella quale aveva avuto origine e giunge alla pienezza della imitazione di Gesù e quindi alla pratica della esistenza morale.
Vangelo: Marco 4,35-41 In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva».
E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca.
C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena.
Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva.
Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!».
Il vento cessò e ci fu grande bonaccia.
Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».
Esegesi Il tratto della lettura nella prima parte del vangelo di Marco, ove è descritto il ministero di Gesù nella Galilea.
Racconta il prodigio della tempesta sedata con lo stile caratteristico di Marco: «In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva».
E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca.
C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena.
Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva.
Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!».
Il vento cessò e ci fu grande bonaccia.
Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?» (Mc 4,35-41).
Il racconto del vangelo sulla tempesta nel lago sedata da Gesù culmina nel tema della fede e mostra Gesù nella sua potestà sulla natura e sui suoi elementi.
L’episodio evoca, nei confronti di Gesù, ciò che nella Scrittura è detto di Dio nei riguardi della natura: «Tu fai tacere il fragore del mare, il fragore dei suoi flutti» (Sl 65,8).
«Tu domini l’orgoglio dei mari, tu plachi il tumulto dei suoi flutti» (Sl 89,10).
«Ridusse la tempesta alla calma, tacquero i flutti del mare, si rallegrarono nel vedere la bonaccia, egli li condusse al porto sospirato» (Sl 107, 29-30).
Tale è l’acclamazione finale nell’episodio evangelico; a Gesù anche il vento e il mare obbediscono; la sua potenza è come quella di Dio sulla natura.
Gesù nelle parole rivolte ai suoi discepoli sottolinea la necessità della fede: «Non avete ancora fede?» (Mc 4,40).
La fede che Gesù richiede fin dall’inizio della sua attività: «Credete» (Mc 1,15) e che richiederà incessantemente è un movimento di fiducia e di abbandono per il quale l’uomo credente rinuncia a fare affidamento sui propri pensieri e sulle proprie forze per rimettersi alle parole e alla potenza di colui nel quale crede.
Gesù richiede la fede particolarmente in occasione dei miracoli.
Al centurione che gli chiedeva di guarire il suo servo dice, dopo averne ammirato la fede: «Vai e sia fatto secondo la tua fede» (Mt 8,13).
Alla donna che pativa flusso di sangue, dice: «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha guarito» (Mt 9,22).
Ai ciechi che gli chiedono: «Figlio di Davide abbi pietà di noi» (Mt 9,27) Gesù dice: «Credete voi che io possa fare questo? Gli risposero: Sì, Signore.
Allora toccò loro gli occhi e disse: sia fatto a voi secondo la vostra fede.
E si aprirono loro gli occhi» (Mt 9,27-30).
In tale modo i miracoli sono atti che offrono il segno della missione di Gesù e il segno della presenza del regno dei cieli.
Gesù non può compiere miracoli se non trova la fede che deve dare ad essi il loro vero significato; a Nazaret, infatti, «non fece molti miracoli a causa della loro incredulità» (Mc 13,58).
Esigendo un sacrificio dell’intelligenza e della volontà e di tutto l’essere, la fede è un atto non facile di umiltà che molti rifiutano di compiere, particolarmente in Israele, o lo compiono solo in modo imperfetto, come il padre dell’epilettico indemoniato, il quale dopo avere chiesto a Gesù la guarigione del figlio e avere ascoltato da Gesù: «Tutto è possibile a chi crede» (Mc 9,23) dice: «Credo, aiutami nella mia incredulità» (Mc 9,24).
I discepoli stessi di Gesù, che pure gli aderiscono di cuore, mostrano le difficoltà della fede perché sono lenti a credere e sono spesso rimproverati da Gesù per la loro poca fede; nell’episodio raccontato nella lettura Gesù dice: «Non avete ancora fede?» (Mc 4,40).
Quando è forte la fede opera meraviglie: «Se avete fede pari a un granellino di senapa potrete dire a questo monte: spostati di qua e là, ed esso si sposterà e niente vi sarà impossibile» (Mt 17,20).
«Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e se berranno qualche veleno non recherà loro danno» (Mc 16,17).
L’episodio evangelico della tempesta sedata, attraverso il rimprovero di Gesù ai suoi sulla pochezza della loro fede è un richiamo all’esigenza della fede e della fiducia in Gesù nella vita cristiana come caratteristica che la distingue e che ne costituisce la specificità nel mondo in mezzo agli uomini.
Meditazione II racconto della ‘tempesta sedata’ nella versione di Marco 4,35-41 (la narrazione è presente anche in Mt 8,18.23-27 e Lc 8,22-25) è al centro della liturgia della Parola di questa domenica.
Ed è un racconto ricco di risonanze simboliche che rimandano chiaramente all’immaginario culturale e religioso biblico e che fanno da sottofondo a una narrazione segnata da significativi contrasti, interrogativi aperti, reazioni opposte.
Da una parte Marco evidenzia la signoria di Gesù che trasmette una sovrumana tranquillità interiore, espressione di quella capacità di valutare la portata degli eventi, senza lasciarsi travolgere da essi in quanto si conosce il senso di ciò che sta accadendo.
Dall’altra, di fronte a questa forza e serenità di Gesù che, singolarmente assume l’espressione simbolica del sonno (interpretata dai discepoli come una sorta di disinteresse: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?»: v.
38), c’è lo smarrimento dei Dodici su cui incombe l’esperienza della morte e che significativamente passa dalla paura al timore.
Anche la natura sembra entrare in questo gioco di contrasti, quasi ad esprimere esteriormente ciò che i discepoli stanno vivendo nel loro cuore: Marco ci descrive lo spettacolo di una natura che scatena tutta la sua forza bruta, diventando incontrollabile e minacciosa, e lo spettacolo di una natura che rivela armonia e pace.
Ed è un passaggio segnato da una parola e da un gesto che Gesù compie come risposta all’angosciata preghiera dei discepoli e che suscita un interrogativo finale: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mari gli obbediscono?» (v.
41).
La dinamica di questo racconto ci suggerisce allora alcune sottolineature.
Anzitutto notiamo che un elemento simbolico e reale allo stesso tempo, emerge come sottofondo biblico di tutto il racconto.
Ed è quello del mare.
Secondo il linguaggio che caratterizza molti testi del Primo Testamento, l’immagine del mare, caratterizzata dalla superficie instabile delle acque e dai fenomeni minacciosi e imprevedibili della tempesta, rappresenta una potenza misteriosa e oscura, una forza non domabile dall’uomo.
È l’esperienza dei naviganti descritta nel Salmo 106, i cui versetti 23-31 compongono il salmo responsoriale: travolti dalla tempesta su di un mare minaccioso, coloro «che commerciavano su grandi acque…
si sentivano venir meno nel pericolo, ondeggiavano e barcollavano…
tutta la loro abilità era svanita».
Di fronte al pericolo minaccioso e alla morte che incombe, l’uomo non ha potere, perde la sua abilità.
E appunto la reazione istintiva, connotata dalla paura della morte, che caratterizza anche i discepoli di fronte a quella «grande tempesta di vento» e a quelle «onde che si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena» (v.
37).
Secondo la Scrittura, solo Dio ha la forza di dominare questo spazio misterioso e pieno di incognite, perché solo Dio conosce i limiti entro cui questo simbolico luogo di morte può esercitare il suo potere.
Così il Signore dice a Giobbe: «Chi ha chiuso fra due porte il mare?…
gli ho fissato un limite…
dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui si infrangerà l’orgoglio delle tue onde”» (Gb 38,8-11).
Il gesto di Dio che pone le acque dentro un spazio ben delimitato è il gesto della creazione (cfr.
Gen 1,9-10).
Ma Dio ha anche potere di piegare il mare e la sua forza bruta mettendolo a servizio del suo disegno di salvezza: il mare può diventare un cammino di liberazione, una strada sicura per il popolo di Dio (il passaggio attraverso il mar Rosso narrato in Es 14).
La straordinaria ricchezza di queste immagini bibliche è come condensata nel gesto e nella parole di Gesù; proprio in quel Gesù, che Marco ci presenta anche molto umano, stanco, affaticato e per questo addormentato, si rivela la potenza di Dio.
Gesù assume così i tratti del Kyrios, il Signore della creazione e dell’esodo.
Vediamo che Gesù, svegliato e quasi rimproverato dai discepoli terrorizzati (v.
38), «si destò».
Questo movimento segna il passaggio dal sonno all’atteggiamento di colui che veglia ed è ben presente a se stesso e agli eventi che lo circondano; ma indica anche il passaggio da una situazione oscura e pericolosa segnata dalla morte incombente, alla vita (abbiamo qui una allusione alla dinamica pasquale).
Ma significativa è anche la parola che Gesù pronuncia sul mare sconvolto dalla tempesta: «minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”» (v.
39).
Gesù ha l’ultima parola sul creato, sulla storia, su tutte le forze che la compongono e che la minacciano, perché tutto il creato e ogni evento dipendono da quella parola, in quanto solo essa ha la forza di creare e di rivelare il logos di tutto.
Ecco perché a quella Parola «anche il vento e il mari gli obbediscono».
Se tutta la scena con il suo straordinario dinamismo ha la forza di rivelare l’identità di Gesù, essa permette anche di sottolineare l’atteggiamento del discepolo di fronte a questo volto che si rivela.
Diventa allora fondamentale l’interrogativo con cui si chiude l’episodio: «Chi è dunque costui?» (v.
41).
A un certo punto Gesù domanderà ai discepoli: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mc 8,29; la domanda che è posta da Marco al centro del cammino del discepolo).
L’interrogativo pieno di stupore e di timore con cui si conclude il racconto della ‘tempesta sedata’ è come un avvio a questa consapevolezza che il discepolo deve maturare a riguardo della identità di Gesù.
Ed è una consapevolezza che mette in gioco la fede.
Ecco allora una altro interrogativo che Gesù stesso pone e a cui il discepolo deve dare una risposta proprio a partire da ciò che ha vissuto: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v.
40).
Nei discepoli c’è fede, perché prendono con loro Gesù «così com’era, sulla barca» (v.
39).
C’è fede perché nel pericolo si accostano a Gesù e lo supplicano: «Maestro…».
Ma manca in loro ancora fede, c’è un cammino ancora da compiere, devono ancora comprendere molto di Gesù.
E soprattutto il salto di qualità da compiere, proprio a partire dalla esperienza vissuta, è quello che permette di passare dalla paura ad una abbandono totale nelle mani di Gesù, quel Gesù che li ha «scelti perché stessero con lui» (Mc 3,14), quel Gesù che, pur addormentato e apparentemente assente, conosce il cammino da seguire.
La fede dei discepoli deve compiere un salto; deve, simbolicamente, passare all’altra riva.
E proprio l’atteggiamento che suscita la domanda finale, segna l’inizio di questo passaggio.
Alla fine il discepolo non ha più paura, ma ha timore, è il timore di fronte alla grandezza e alla potenza di un Dio che può veramente calmare il mare agitato delle vicende umane, un Dio che si prende cura della fragilità e della paure dell’uomo per educarlo alla fede in Lui.
Forse il discepolo ha sempre bisogno di sentirsi rivolgere questa domanda da Gesù: Non avete ancora fede? Solo così il discepolo può camminare dietro a Gesù e comprender che la sua fede in lui deve incessantemente compiere altri passi, passare attraverso mari in tempesta, sperimentare pace e calma ed essere sempre accompagnata dall’interrogativo: Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?