Il papa e gli amici ebrei.

1.
Kippur, il Giorno dell’Espiazione di Riccardo Di Segni Nel calendario liturgico ebraico il giorno dell’Espiazione – Kippùr o Yom Kippùr o Yom ha Kippurìm – è il più importante dell’anno; in aramaico è yomà, “il giorno” per eccellenza, che dà il titolo al trattato della Mishnà che ne espone le regole.
“Il giorno” cade il 10 di Tishri, primo mese autunnale.
Di questo giorno parla in più occasioni la Bibbia e la fonte principale è il capitolo 16 del Levitico.
Qui si descrive un complesso ordine cerimoniale affidato al Gran Sacerdote, che deve scegliere estraendo a sorte tra due capretti; uno, dedicato al Signore, viene offerto in sacrificio; l’altro riceve con un gesto simbolico il carico delle colpe di tutta la collettività e viene quindi inviato a morire nel deserto.
Di qui l’espressione e il concetto di “capro espiatorio”.
Lo stesso brano biblico si conclude spiegando che in quel giorno è d’obbligo affliggere la propria persona e non lavorare, perché “in questo giorno espierà per voi purificandovi da tutte le vostre colpe, vi purificherete davanti al Signore” (versetto 30).
Dai tempi della sua istituzione biblica Kippùr è il giorno dell’anno in cui le colpe vengono cancellate e il destino futuro di ogni uomo viene stabilito, dopo il giudizio cui è stato sottoposto nei giorni precedenti del Capodanno.
La tradizione rabbinica si è dilungata a spiegare quali colpe possano essere cancellate del tutto o in parte, o sospese, in base alla loro gravità.
La forza espiatrice del Kippùr si misura con l’obbligo principale dell’uomo nei giorni che lo precedono: la tesciuvà.
Letteralmente è il “ritorno” ed è il termine con il quale si indica il pentimento, nel senso di ritorno alla retta via.
Questo ritorno comporta la consapevolezza di avere sbagliato, l’intenzione di non commettere nuovamente l’errore, la confessione pubblica e collettiva.
Tutto questo si basa necessariamente sulla fede in un Dio misericordioso e clemente che viene incontro a chi ha sbagliato.
In ogni caso la cancellazione delle colpe si riferisce a quelle commesse nei rapporti dell’uomo con il Signore; le colpe tra uomini vengono cancellate solo dagli uomini.
Per questi motivi la vigilia del Kippùr è dovere per ognuno andare a chiedere scusa alle persone che sono state da lui offese.
Per tutto il periodo di esistenza del Tempio di Gerusalemme le cerimonie del giorno di Kippùr rappresentavano il complesso liturgico più complesso e solenne.
Solo in quel giorno era consentito al Gran Sacerdote accedere al Santo dei Santi.
Il rispetto dei dettagli prescritti era essenziale, richiedeva una preparazione prolungata e minuziosa, e un’esecuzione attenta su cui vigilava con ansia l’intera collettività raccolta nel Tempio.
Di tutto questo dopo la distruzione del Tempio è rimasto solo il ricordo nostalgico, che nella liturgia del Kippùr avviene con la lettura, al mattino, del brano del Levitico e nel primo pomeriggio con una lunga evocazione poetica del cerimoniale.
La liturgia sinagogale tocca in questo giorno il vertice dell’impegno; lunghe e solenni preghiere la sera d’inizio, e una seduta praticamente ininterrotta dal mattino successivo fino al comparire delle stelle.
Sono momenti speciali quelli della lettura di brani di suppliche, la lettura al mattino di Isaia 57, che descrive come vero digiuno la pratica della giustizia, e al pomeriggio il libro di Giona, che è una grandiosa rappresentazione della misericordia divina.
La presenza del pubblico nelle sinagoghe raggiunge il massimo annuale in questo giorno, specialmente nei momenti più solenni di apertura e chiusura.
Essenziale nel Kippùr è il coinvolgimento personale, soprattutto con un digiuno totale senza bere né mangiare per circa 25 ore – dal quale sono esenti i malati – insieme ad altre forme di astensione (lavarsi, usare creme profumate, indossare scarpe di cuoio, evitare i rapporti sessuali).
Poi c’è la dimensione familiare e sociale, nei pasti che precedono e seguono il digiuno e nelle riunioni delle famiglie in Sinagoga per ricevere la benedizione sacerdotale, impartita dai Cohanim, i discendenti di Aharon.
Malgrado l’austerità, la solennità e le forme imposte di afflizione fisica il Kippùr è vissuto collettivamente con serenità e gioia nella consapevolezza che comunque non verrà meno la misericordia divina.
A conclusione di queste brevi note esplicative, considerando la sede autorevole e certamente non abituale dove vengono pubblicate [“L’Osservatore Romano”], può essere interessante proporre una riflessione sul senso che il Kippùr ha avuto, e può avere oggi, nel confronto ebraico-cristiano.
Questo perché nella formazione del calendario liturgico cristiano le origini ebraiche hanno avuto un ruolo decisivo, come modello da riprendere e trasformare con nuovi significati: il giorno di riposo settimanale passato dal sabato alla domenica, la Pasqua e la Pentecoste.
In alcuni casi la Chiesa ha persino festeggiato il ricordo dell’osservanza di precetti biblici tipicamente ebraici (la festa della Purificazione del 2 febbraio; un tempo il 1 gennaio quella della Circoncisione).
Ma l’intero ciclo autunnale, di cui Kippùr è il giorno più importante, è come se fosse stato cancellato.
Probabilmente ciò è dovuto al fatto che i simboli del Kippùr riguardano alcune differenze inconciliabili tra i due mondi.
I temi del gran sacerdozio, del Tempio, del sacrificio, del capro espiatorio, della cancellazione delle colpe che nella tradizione ebraica si unificano nel Kippùr sono stati rielaborati dalla Chiesa, ma fuori dall’unità originaria.
Semplificando le posizioni contrapposte: un cristiano, in base ai principi della sua fede, non ha più bisogno del Kippùr, così come un ebreo che ha il Kippùr non ha bisogno della salvezza dal peccato proposta dalla fede cristiana.
(Da “L’Osservatore Romano” dell’8 ottobre 2008).
Alla vigilia del Capodanno ebraico che quest’anno si è celebrato il 19 settembre, Benedetto XVI ha inviato al rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, un telegramma d’augurio e d’amicizia.
Nel quale ha confermato che visiterà presto la sinagoga di Roma, “animato dal vivo desiderio di manifestare la personale vicinanza mia e quella di tutta la Chiesa cattolica” alla comunità ebraica.
Quella di Roma è la terza sinagoga che Benedetto XVI visiterà, dopo quelle di Colonia nell’agosto 2005 e di Park East a New York nell’aprile del 2008.
Prima di lui, Giovanni Paolo II aveva visitato la sinagoga di Roma il 13 aprile 1986.
In questi stessi giorni un rinnovato gesto di amicizia si è avuto anche tra gli ebrei e la Chiesa cattolica italiana.
Il 22 settembre il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della conferenza episcopale, ha incontrato i rabbini Di Segni e Giuseppe Laras, quest’ultimo presidente dell’assemblea rabbinica d’Italia.
E insieme hanno deciso di riprendere la celebrazione comune della giornata di riflessione ebraico-cristiana del 17 gennaio, alla quale la volta scorsa gli ebrei avevano rifiutato di partecipare per le incomprensioni seguite al caso Williamson.
Il tema della prossima giornata di riflessione comune sarà il quarto comandamento nella numerazione ebraica: “Ricordati del giorno di Sabato per santificarlo”.
Il Capodanno, Rosh Ha Shanah, apre il ciclo delle feste ebraiche d’autunno.
Ad esso seguono lo Yom Kippur e la festa di Sukkot.
Lo Yom Kippur, o Giorno dell’Espiazione, è la più importante festa dell’intero anno liturgico ebraico.
Cadrà quest’anno il 28 settembre, terzo e ultimo giorno della visita che Benedetto XVI comincerà domani nella Repubblica Ceca.
A giudizio del rabbino Di Segni, la festa del Kippur non solo esprime il cuore della fede ebraica, ma anche riflette le “differenze inconciliabili” tra questa e la fede cristiana.
I simboli del Kippur, infatti – il sommo sacerdote, il tempio, il sacrificio, il capro espiatorio, la cancellazione delle colpe – hanno assunto nel cristianesimo un significato del tutto nuovo.
Di Segni ha spiegato il significato ebraico della festa e la sua inconciliabilità con la fede cristiana in un articolo pubblicato lo scorso anno sulla prima pagina de “L’Osservatore Romano”, in occasione dalla precedente festa del Kippur.
Ma successivamente “L’Osservatore Romano” ha dedicato spazio anche all’altra faccia della questione.
Cioè a come il Nuovo Testamento rivoluziona i simboli del Kippur.
Il testo neotestamentario chiave è la Lettera agli Ebrei.
In essa il nuovo e definitivo Giorno dell’Espiazione è il sacrificio di Cristo sulla croce.
L’autore dell’analisi pubblicata da “L’Osservatore Romano” è un sacerdote e biblista africano, Christopher Robert Abeynaike, monaco cistercense, che sullo stesso tema ha scritto la sua tesi di dottorato in Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico, nel 2008.
La sua analisi è molto dotta ma anche di rara chiarezza.
E mette in luce il legame essenziale che la Lettera agli Ebrei stabilisce tra il sacrificio di Cristo, l’ultima cena e la liturgia eucaristica.
Ecco qui di seguito i due testi sul Giorno dell’Espiazione ebraico e cristiano, quello del rabbino Di Segni e quello di padre Abeynaike.
Un esempio di dialogo che va al cuore delle due fedi e proprio per questo non teme di illuminarne le differenze.
2.
L’essenza della celebrazione eucaristica secondo il Nuovo Testamento.
Ultima cena e sacrificio di Christopher Robert Abeynaike Nella Lettera agli Ebrei si trova quello che potrebbe essere considerato un vero e proprio commentario alle azioni e parole di Cristo nell’ultima cena.
Quest’affermazione potrebbe a prima vista, sorprendere, dato che l’autore della Lettera agli Ebrei non sembra fare riferimento esplicito e diretto all’ultima cena.
L’autore della Lettera agli Ebrei è l’unico scrittore del Nuovo Testamento che attribuisce a Cristo i titoli di “sacerdote” – o piuttosto, “sommo sacerdote” – e di “mediatore della Nuova Alleanza”.
L’autore, come ebreo imbevuto del pensiero dell’Antico Testamento, rilegge infatti l’azione salvifica di Cristo nel contesto di due importanti avvenimenti o cerimonie del passato: l’inaugurazione della prima alleanza da parte di Mosè sul monte Sinai e la cerimonia della purificazione dei peccati del popolo compiuta ogni anno dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno dell’Espiazione, il Kippur.
Entrambe le cerimonie erano basate sui sacrifici di animali.
Nella prima, Mosè ratificava l’alleanza di Dio con il popolo d’Israele aspergendo il popolo con il sangue delle vittime sacrificali e pronunciando le parole “Ecco il sangue dell’alleanza” (Esodo 24, 8; Ebrei 9, 18-22).
Nella seconda cerimonia invece, il sommo sacerdote, dopo aver sacrificato le vittime, prendeva del loro sangue ed entrava lui solo nel santuario – il “Santo dei Santi” dove aspergeva il sangue, compiendo così l’espiazione dei peccati del popolo (Levitico 16; Ebrei 9, 6-10).
Ma secondo quanto dice il nostro autore: “è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri” (Ebrei 10, 4) e quindi, questi sacrifici restavano inefficaci, non potendo dare al popolo il desiderato accesso a Dio, impedito dalla coscienza del peccato (Ebrei 9, 6-10).
L’autore della Lettera agli Ebrei a ogni modo trovava nelle Scritture il preannuncio di: – un nuovo sacerdote – “Il Signore ha giurato e non si pente: Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek” (Salmo 110, 4); – un nuovo sacrificio – “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Salmo 40, 7-9); – una nuova alleanza – “Ecco vengono giorni, dice il Signore, quando io stipulerò con la casa d’Israele un’alleanza nuova; non come l’alleanza che feci con i loro padri.
Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati” (Geremia 31, 31-34).
Egli vedeva appunto in Cristo questo nuovo sacerdote, che avrebbe offerto un nuovo sacrificio consistente nel suo proprio corpo, inaugurando così una nuova alleanza.
Quindi, riassumendo la sostanza della sua dottrina, dice: “Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri […] non con sangue di capri e vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario [del cielo], procurandoci così una redenzione eterna.
[…] Il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente.
Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza” (Ebrei 9, 11-15).
A questo punto dobbiamo porre una domanda.
Dove, nella vita di Cristo avrebbe potuto, il nostro autore, vederlo nel ruolo di sommo sacerdote nell’atto di offrire un sacrificio per l’espiazione dei peccati e, contemporaneamente, nel ruolo di mediatore di una Nuova Alleanza nell’atto di inaugurare tale alleanza? Con tutta probabilità nell’ultima cena, dove Cristo aveva pronunciato le parole: “Questo, è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Matteo 26, 28).
Dicendo infatti le parole “Questo è il mio sangue dell’alleanza”, Cristo, si manifestava come il mediatore di un’alleanza fondata nel suo proprio sangue e quindi contrapposta a quella inaugurata da Mosè con le parole: “Ecco il sangue dell’alleanza” (Esodo 24, 8).
Aggiungendo le parole “versato per molti in remissione dei peccati”, egli faceva intendere che l’alleanza che stava inaugurando fosse appunto la Nuova Alleanza annunciata da Geremia in cui la remissione dei peccati sarebbe stata assicurata: “Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati” (31, 34).
Inoltre, le parole: “il mio sangue versato per molti in remissione dei peccati” – dove l’idea di un sacrificio per l’espiazione dei peccati del popolo è chiarissima – non avrebbero potuto non fare ricordare al nostro autore il sacrificio offerto dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno dell’Espiazione.
Con la successiva morte di Gesù e la sua ascensione nell’invisibilità del cielo – “Entrò una volta per sempre nel santuario” (Ebrei, 9, 12) – si sarebbe stagliato davanti agli occhi dell’autore il parallelo con l’azione del sommo sacerdote levitico, il quale dopo aver immolato le vittime entrava nell’invisibilità del santuario terrestre per compiere l’espiazione dei peccati aspergendovi il sangue sacrificale.
Potremmo, dunque, affermare che l’ultima cena fosse appunto il momento della vita di Cristo in cui l’autore della Lettera agli Ebrei avrebbe potuto riconoscerlo come nuovo sommo sacerdote e, contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza.
Le parole di Gesù sul solo calice sarebbero state sufficienti per questo.
Le parole, invece, sul pane – “Questo è il mio corpo” – avrebbero dovuto far tornare in mente all’autore la profezia dei salmi, di un nuovo tipo di sacrificio in contrasto con i sacrifici dell’Antica Alleanza: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.
Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Salmo 40, 7-9).
L’autore della Lettera infatti commenta al riguardo: “Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre” (Ebrei, 10, 10).
Infine, il pane e il vino dell’ultima cena, gli stessi doni offerti da Melchisedek (Genesi 14, 18), avrebbero solo confermato al nostro autore che il nuovo sacerdote, manifestandosi nell’offerta del suo corpo alla cena, fosse appunto – in adempimento del vaticinio del salmo 110, 4 – il sacerdote “al modo di Melchisedek”.
In conclusione, possiamo dire che quando l’autore della Lettera agli Ebrei – nel cuore della sua epistola, ai versetti 9, 11-15 – parla della manifestazione di Cristo come nuovo sommo sacerdote, mediante l’offerta di se stesso a Dio per la purificazione dei peccati del popolo e, contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza, egli si riferisce alle parole e alle azioni di Gesù nell’ultima cena.
I versetti immediatamente seguenti lo confermano: “Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di modo che, quando la sua morte fosse intervenuta per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa.
Dove, infatti, c’è un testamento (diathéke), è necessario che sia accertata la morte del testatore, perché un testamento (diathéke) ha valore solo dopo la morte e rimane senza effetto finché il testatore vive.
Per questo neanche la prima alleanza (diathéke) fu inaugurata senza sangue” (Ebrei, 9, 15-18).
In questi versetti l’autore effettivamente sta giocando sul duplice senso della parola greca “diathéke”, usata nella versione dei Settanta per tradurre la parola ebraica “berith”, alleanza, mentre nel greco contemporaneo significava testamento.
Egli infatti usa un esempio preso dalla vita d’ogni giorno.
Come una “diathéke”, un testamento, diventa valida solo alla morte del testatore, così pure la “diathéke”, l’alleanza proclamata da Gesù richiedeva di essere seguita dalla sua morte per la sua ratificazione, così come anche la prima alleanza era stata dedicata con lo spargimento del sangue delle vittime.
Ma oltre ad avere in comune la stessa parola greca “diathéke”, un’alleanza e un testamento hanno qualcos’altro in comune: il concetto di un’eredità.
L’eredità sotto la prima alleanza coincideva con il possesso della terra di Canaan.
L’eredità invece sotto la Nuova Alleanza diventa il possesso del regno di Dio.
Quindi, noi troviamo Cristo che nell’ultima cena si manifesta non solo nei ruoli di sacerdote e di mediatore di una Nuova Alleanza, ma anche in quello di testatore che dà ai suoi apostoli la promessa del possesso del regno di Dio: “Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno di mio Padre (Matteo 26, 29; Luca 22, 29-30).
Quindi, il nostro autore poteva dire con ragione: “Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di modo che, quando la sua morte fosse intervenuta, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa (Ebrei 9, 15).
Come esito della nostra indagine possiamo affermare che l’ultima cena fu: – un sacrificio in cui Cristo “offrì se stesso a Dio” (Ebrei 9, 14) per la remissione dei peccati; – la promulgazione della Nuova Alleanza da parte di Cristo; – la disposizione di un testamento, in cui Gesù lasciava in “eredità eterna” (Ebrei 9, 15) ai suoi discepoli, il regno del suo Padre (Matteo 26, 29; Luca 22, 29-30).
Per tutti e tre i motivi la sua morte in croce doveva seguire ineluttabilmente.
Le parole e le azioni di Cristo all’ultima cena erano, infatti, tutte indirizzate verso il loro adempimento nella sua morte, senza la quale non avrebbero avuto nessun senso o valore.
Ma la morte di Gesù non doveva essere la fine della sua opera redentrice.
Come, infatti, il punto culminante della cerimonia del Giorno d’Espiazione era l’ingresso del sommo sacerdote levitico con il sangue sacrificale nel santuario terrestre per portare a compimento l’espiazione dei peccati, così anche Cristo nella sua ascensione è entrato nel santuario celeste “per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore” (Ebrei 9, 24), “procurandoci così una redenzione eterna” (Ebrei 9, 12).
Proprio perché Cristo “offrì se stesso con uno Spirito eterno” (Ebrei 9, 14), il suo sacrificio ha una eterna efficacia, ed Egli rimane “sommo sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedek” (Ebrei 6, 20).
Abbiamo dunque, potremmo dire, un “Giorno di Espiazione” che dura per sempre, cui l’autore si riferisce quando dice: “Il sangue di Cristo purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente” (Ebrei 9, 14).
E ancora: “Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario [celeste] per mezzo del sangue di Gesù e un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci…” (Ebrei, 10 19-22).
In un altra occasione l’autore parla di cristiani come di un popolo che si è accostato “al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste, al Dio giudice di tutti e a Gesù, mediatore della nuova alleanza e al sangue dell’aspersione” (Ebrei 12, 22-24).
Il “sangue di Gesù” è per il nostro autore un simbolo plastico per indicare i frutti della redenzione, ossia quei beni a cui i cristiani hanno accesso, un accesso che dal contesto di questi passaggi si può intravedere appunto nella Celebrazione eucaristica.
Quel perdurare dell’opera redentrice di Cristo, che l’autore della Lettera agli Ebrei esprime con il simbolo della continua aspersione con il suo sangue, lo troviamo espresso in un altro modo nella preghiera liturgica in cui si afferma che ogni volta che la messa è celebrata “si effettua l’opera della nostra redenzione” (cfr.
“Presbyterorum ordinis” 13).
Nei suddetti passaggi notiamo inoltre che, durante la celebrazione eucaristica, i cristiani in un certo qual modo sembrano trascendere i confini di questo mondo e accostarsi, per mezzo di Cristo, a Dio e al mondo celeste.
Infine, l’eucaristia è anche un banchetto sacrificale, cui il nostro autore si riferisce dicendo: “Noi abbiamo un altare del quale abbiamo diritto di mangiare” (Ebrei 13, 10).
San Paolo chiarisce il senso di queste parole quando nella prima lettera ai Corinzi (10, 14-22) paragona l’eucaristia sia ai pasti sacrificali dell’Antico Testamento (Levitico 7), sia a quelli dei pagani, affermando che il mangiare della carne sacrificale implica necessariamente un entrare in comunione (koinonía) con la divinità cui il sacrificio è stato offerto.
Egli quindi, vieta ai cristiani di partecipare al corpo e sangue di Cristo alla mensa eucaristica e, allo stesso tempo, di continuare a partecipare ai pasti sacrificali dei pagani.
Giovanni, nel suo Vangelo, approfondisce il concetto paolino della comunione con il corpo e sangue di Cristo dicendo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.
Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me” (6, 56-57).
Mangiando del corpo e bevendo del sangue di Gesù, il cristiano è assunto nella comunione di vita del Padre e Figlio, già adesso, su questa terra.
Pare che questo sia lo stesso concetto che l’autore della Lettera agli Ebrei cerca di esprimere quando dice – nel contesto della celebrazione eucaristica, usando il linguaggio dell’Antico Testamento – che i cristiani si accostano per mezzo di Cristo al santuario celeste e alla presenza di Dio.
Questa indagine sull’insegnamento del Nuovo Testamento riguardo alla celebrazione eucaristica ci fa capire quanto è grande e profondo il mistero che essa comprende.
Giustamente i padri orientali l’avevano chiamata “sacrificium tremendum”.
È chiaro che la maniera in cui l’eucaristia viene celebrata – la “ars celebrandi” – deve essere sempre in consonanza con il suo vero contenuto e deve rispecchiarlo integralmente ai partecipanti.
È questa, infatti, la suprema preoccupazione di Benedetto XVI, che deve essere anche la preoccupazione di tutti i pastori della Chiesa, vescovi e presbiteri, in modo particolare durante l’anno sacerdotale in corso, dato che, come ci ricorda il concilio Vaticano II: “I presbiteri esercitano il loro sacro ministero soprattutto nel culto eucaristico” (Lumen gentium 28).
(Da “L’Osservatore Romano” del 24 luglio 2009).

Il sogno di Nabucodonosor o la fine della Chiesa medievale

ROGER LENAERS, Il sogno di Nabucodonosor o la fine della Chiesa medievale, Massari Editore, 2009, pp.
367, euro 15: Un catechismo, sì, nel senso di un’esposizione completa della dottrina cristiana.
Ma la definizione potrebbe essere fuorviante, perché Il sogno di Nabucodonosor o la fine della Chiesa medievale (Massari Editore, 2009, pp.
367, euro 15: il libro è acquistabile anche presso la nostra agenzia, telefonando allo 06/6868692, inviando una mail ad abbonamenti@adista.it o collegandosi a www.adistaonline.it/index.php?op=adistalibri) è un testo scritto con un linguaggio diverso dall’“ecclesialese” di cui sono infarciti tanti documenti del magistero cattolico e tante prediche, accessibili solo ad un pubblico di “iniziati”; un libro lontano da una visione della Chiesa e della società che l’autore stesso definisce “medievale” e “irrimediabilmente passata”; un libro, soprattutto, che non proclama verità immutabili attraverso decreti autoritari, ma scardina alla radice dogmi secolari riformulando l’intera fede cattolica attraverso parole “viventi” ed in una prospettiva radicalmente nuova (Adista aveva già pubblicato ampi stralci del testo in una nostra traduzione dallo spagnolo, v.
n.
44/09).
L’autore, l’85enne gesuita belga Roger Lenaers, si pone infatti l’obiettivo di esprimere “la fede unica ed eterna in Gesù Cristo e nel suo Dio nel linguaggio della modernità”, nella consapevolezza che il “monumento grandioso” della vecchia Chiesa istituzionale finirà come l’imponente statua dai piedi d’argilla sognata da Nabucodonosor: “Una statua, una statua enorme, di straordinario splendore”, racconta la Bibbia (Dn 2,31-35), con “la testa d’oro puro, il petto e le braccia d’argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro e in parte di creta”.
Una grande pietra si staccò dal monte dove si trovava, “ma non per mano di uomo, e andò a battere contro i piedi della statua, che erano di ferro e di argilla, e li frantumò.
Allora si frantumarono anche il ferro, l’argilla, il bronzo, l’argento e l’oro e divennero come la pula sulle aie d’estate; il vento li portò via senza lasciar traccia, mentre la pietra, che aveva colpito la statua, divenne una grande montagna che riempì tutta quella regione”.
Ecco: secondo Lenaers le “verità” tradizionali fanno la fine di quella statua quando vengono a contatto con la luce dirompente del messaggio evangelico.
Nella presentazione del suo libro, il gesuita belga – che dal 1995 (dopo il pensionamento) ha scelto di fare il parroco a Vorderhornbach, sulle montagne tirolesi – spiega che se “per l’uomo occidentale del terzo millennio il linguaggio della tradizione cristiana è diventato un idioma estraneo”, diventa improrogabile il compito di tradurre il messaggio cristiano in un linguaggio in cui l’uomo e la donna moderni possano riconoscersi.
E spiega: “Non abbiamo ricevuto la nostra fede per tenerla sepolta nel campo del passato, ma per spargerla e seminarla”.
E per farlo Lenaers opera una revisione totale del catechismo cattolico, rileggendo ad uno ad uno tutti i temi della dottrina nella chiave del passaggio dall’“eteronomia” alla “teonomia”, una operazione che intende operare una “riconciliazione tra l’autonomia dell’essere umano e la fede in Dio”.
Eteronomo, secondo l’autore, è l’universo mentale delle rappresentazioni cristiane tradizionali, secondo cui il nostro mondo sarebbe completamente dipendente dall’altro mondo e dalle sue prescrizioni.
Un universo mentale che attraversa l’Antico e il Nuovo Testamento, l’eredità dei Padri della Chiesa, la scolastica, i concili, la liturgia, i dogmi e alla loro elaborazione teologica, tutti basati sull’“assioma dei due mondi paralleli”.
La teonomia, invece, “riconosce in Dio la dimensione più profonda di ogni cosa e pertanto anche la legge (dal greco: nomos) interna del cosmo e dell’umanità”.
In questo pensiero “esiste un solo mondo: il nostro.
Ma questo mondo è sacro poiché è la costante autorivelazione di quel mistero santo che intendiamo con la parola Dio”, un Dio che “non è mai fuori ma che è stato sempre al centro”, come la più profonda essenza di tutte le cose, la legge interna del cosmo e dell’umanità.
È nella prospettiva della teonomia, quindi, che Lenaers rilegge le formulazioni eteronome della dottrina relativamente alle Sacre Scritture, alla Tradizione, alla gerarchia, alla cristologia, alla Trinità, a Maria madre di Dio, alla resurrezione, alla vita dopo la morte, ai sacramenti.
Anche perché “molte delle rappresentazioni tradizionali non sono così antiche come per lo più si afferma pertanto non appartengono alla ‘buona novella’ originaria”: “La confessione della divinità di Gesù ricorda ad esempio Lenaers – ha impiegato vari secoli per entrare a far parte del deposito della fede; tre secoli sono trascorsi prima che lo spirito di Dio venisse visto come una persona divina; ce ne sono voluti quattro per la dottrina del peccato originale ereditario; mille per riconoscere il matrimonio come sacramento; e molti di più per l’infallibilità papale e i dogmi mariani.
Era forse impossibile essere veramente cristiani nei tempi precedenti a queste formulazioni?” di Valerio Gigante in “Adista” – Notizie – n.
94 del 26 settembre 2009

Il primo e principale fattore di sviluppo

La terza enciclica di Benedetto XVI si snoda con coerente linearità rispetto alle due precedenti (Deus caritas est e Spe salvi) e porta alla luce una connessione che è presente già nello stesso titolo e cioè che “solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta” (n.
3).
Come è noto, il Papa parte da questa persuasione per rileggere in modo critico la res sociale di oggi, che va sotto il nome di globalizzazione e che pone una sfida inedita.
Infatti “il rischio del nostro tempo è che all’interdipendenza di fatto tra gli uomini non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze” (n.
9).
Per questo si richiede non solo una volontà determinata, ma ancor prima un pensiero lucido che sappia proporre “una visione chiara di tutti gli aspetti economici, sociali, culturali e spirituali” (n.
31) dello sviluppo.
Insomma si richiede “l’allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa”, secondo il pressante appello che muove – sin dal suo inizio – il magistero di Benedetto XVI (cfr.
Discorso di Ratisbona).
Il richiamo esplicito a Paolo vi e alla Populorum Progressio (1967), così come quello indiretto alla Sollicitudo rei socialis (1987) di Giovanni Paolo ii, diventa nella riflessione di Benedetto XVI lo spunto per una importante affermazione di carattere generale e cioè la riaffermazione della Dottrina sociale come un “corpus dottrinale” (n.
12), che affonda le sue radici nella fede apostolica e si colloca a pieno titolo nell’alveo della Tradizione, secondo un processo di rigorosa continuità.
Così facendo il Santo Padre intende chiarire il suo punto di vista, che non è ispirato da alcuna situazione sociologicamente intesa, ma rispecchia una precisa prospettiva teologica e cioè che “l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo” (n.
8).
La percezione della sfida e l’esigenza di un nuovo pensiero (non solo economico-sociale) in grado di dire al meglio la novità dei fatti che sono sotto gli occhi di tutti e che proprio la recente crisi finanziaria ha ancor più aggravato, spinge a riconsiderare luoghi comuni e pregiudizi inveterati per addentrarci dentro una interpretazione originale del fatto umano della globalizzazione.
Guidano la riflessione della Caritas in veritate due presupposti, da cui scaturisce una prospettiva di grande respiro per la vita della società e della Chiesa.
I due presupposti di fondo sono da un lato la convinzione che lo sviluppo non è solo una questione quantitativa, ma risponde piuttosto a una vocazione e dall’altra il fatto che la giustizia, pure necessaria, non è autosufficiente perché esige la carità, così come la ragione ha bisogno della fede.
La prospettiva che emerge è dunque “una visione articolata dello sviluppo” (n.
21), che porta a ritenere come la questione sociale sia oggi inscindibilmente legata alla questione antropologica.
Vorrei ora, sia pure brevemente, sviluppare questi tre aspetti per giungere a una osservazione di fondo conclusiva.
Affermare che “il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità: l’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale” (n.
25) significa sottrarre a un cieco determinismo la lettura della globalizzazione e ribadire che anche questo complesso fenomeno è legato alla variabile umana.
Non si dà cioè la fatalità di attenersi solo a dati ritenuti oggettivi e scientifici dimenticando quanto la componente umana giochi un ruolo decisivo nelle scelte che di volta in volta vengono prese.
Ciò fa comprendere che lo sviluppo non è un processo rettilineo, quasi automatico e di per sé illimitato, ma è determinato dalla qualità umana degli attori chiamati in causa.
Per questo Benedetto XVI invita a una interpretazione che non si accontenta della semplice analisi delle strutture umane, ma rimanda a un livello più profondo.
“In realtà – egli scrive – le istituzioni da sole non bastano, perché lo sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione e, quindi, comporta una libera e solidale assunzione di responsabilità da parte di tutti.
Un tale sviluppo richiede, inoltre, una visione trascendente della persona, ha bisogno di Dio: senza di Lui lo sviluppo o viene negato o viene affidato unicamente alle mani dell’uomo, che cade nella presunzione dell’autosalvezza e finisce per promuovere uno sviluppo disumanizzato” (n.
11).
Ciò richiede un preciso esame di coscienza, cui l’enciclica non si sottrae, facendo riferimento ai progressi effettivamente fatti o non fatti nella direzione auspicata dalla Populorum Progressio.
Certamente molti risultati sono stati raggiunti, ma la Fao – ancora lo scorso 19 giugno – ha comunicato le sue nuove stime: la fame nel mondo raggiungerà un livello storico nel 2009 con 1,02 miliardi di persone in stato di sotto nutrizione.
La pericolosa combinazione della recessione economica mondiale e dei persistenti alti prezzi dei beni alimentari in molti Paesi ha portato circa 100 milioni di persone in più rispetto all’anno scorso oltre la soglia della denutrizione e delle povertà croniche.
L’enciclica rende avvertiti che “gli attori e le cause sia del sottosviluppo sia dello sviluppo sono molteplici, le colpe e i meriti sono differenziati”.
Per poi aggiungere: “Questo dato dovrebbe spingersi a liberarsi dalle ideologie, che semplificano in modo spesso artificioso la realtà, e indurre a esaminare con obiettività lo spessore umano dei problemi” (n.
21).
Infatti “i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani” (n.
32).
Non si fatica d’altra parte a capire che “l’aumento massiccio della povertà…
non solo tende a erodere la coesione sociale, e per questa via mette in crisi la democrazia, ma ha anche un impatto negativo sul piano economico, attraverso la progressiva erosione del “capitale sociale”, ossia quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile” (ibidem).
Solo se lo sviluppo è una vocazione e non un destino si può sperare di avere ancora margini di cambiamento e soprattutto di trasformazione.
Infatti “nonostante alcune sue dimensioni strutturali che non vanno negate ma nemmeno assolutizzate, “la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva.
Sarà ciò che le persone ne faranno”.
Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti, procedendo con ragionevolezza, guidati dalla carità e dalla verità” (n.
42).
Ma come aiutare la ragione a non cedere a una lettura rassegnata della realtà e soprattutto come aiutarla a far emergere le potenzialità che sono dentro la risorsa che è l’uomo? Una risposta sta certamente nel fatto che già nella Deus caritas est (n.
28), la Dottrina sociale della Chiesa venga presentata come il luogo in cui la carità purifica la giustizia.
Questa purificazione, peraltro, non è altro che un momento di quella più ampia purificazione che la fede è chiamata a esercitare nei riguardi della ragione.
Il concetto di “purificazione” è tutt’altro che negativo, come potrebbe sembrare a prima vista ed è agli antipodi della semplice negazione o della pura condanna.
Ciò vuol dire che la giustizia è assunta ma allo stesso tempo potenziata dalla carità.
Tra queste due realtà c’è insomma una relazione che va in entrambe le direzioni: per un verso non c’è carità senza giustizia perché si tratterebbe di semplice assistenzialismo, per altro verso non si dà giustizia senza carità perché si finirebbe nelle secche di un arido legalismo.
Arrivare a intuire l’eccedenza e ancor prima la necessità della carità, vista l’insufficienza della giustizia, è però il frutto di una intuizione che va ben oltre la semplice ragione.
Si richiede il recupero di una categoria, quella della fraternità, che, non a caso, Benedetto XVI pone in testa alla relazione tra sviluppo economico e società civile al capitolo terzo della Veritas in caritate.
La grande sfida che abbiamo davanti “è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell’etica sociale, quali la trasparenza, l’onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma che anche nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità devono trovare posto entro la normale attività economica” (n.
36).
Nasce da qui una interessante serie di riflessioni che spaziano dentro il ruolo del non profit e alludono all’ibridazione dei comportamenti economici e delle imprese, aprendo ad approcci inabituali nell’interpretazione dei rapporti internazionali.
Per arrivare a un’affermazione forte: “Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia” (n.
53).
Questa chiara affermazione che dal Vaticano ii (Gaudium et spes, n.
77) è un punto fermo richiede in realtà “un nuovo slancio del pensiero” e obbliga “a un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione.
Si tratta di un impegno che non può essere svolto dalle sole scienze sociali, in quanto richiede l’apporto di saperi come la metafisica e la teologia, per cogliere in maniera illuminata la dignità trascendente dell’uomo” (n.
53).
In tal modo il Papa si fa carico, ancora una volta, di restituire dignità alla domanda su Dio e di riaprire all’interno del dibattito pubblico la questione della fede (cfr.
n.
56), che è chiamata a purificare la ragione, così come la carità orienta e finalizza la giustizia, se il mondo non vuole soccombere alle sue logiche disumanizzanti.
Si comprende allora perché il Vangelo si riveli il maggior fattore di sviluppo e, di conseguenza, perché la Chiesa dia il proprio apporto allo sviluppo anzitutto quando annuncia, celebra e testimonia Cristo, quando, cioè, adempie alla propria missione di evangelizzazione.
Il punto di approdo di quanto detto sul rapporto tra giustizia e carità e la prospettiva più originale del testo pontificio è ricondurre la questione sociale alla questione antropologica, marcando la necessaria correlazione che esiste tra queste due dimensioni che stanno o cadono insieme.
Per questo Benedetto XVI propone con forza il collegamento tra etica della vita ed etica sociale, dal momento che non può “avere solide basi una società che – mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace – si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata” (n.
15).
In concreto, questo vuol dire che lo sviluppo vero non può tenere separati i temi della giustizia sociale da quelli del rispetto della vita e della famiglia e che sbagliano quanti in questi anni, anche nel nostro Paese, si sono contrapposti tra difensori dell’etica individuale e propugnatori dell’etica sociale.
In realtà le due cose stanno insieme.
Un esempio eloquente è dato dalla crescente consapevolezza che la questione demografica, che attiene certamente alla dinamica affettiva e familiare, rappresenti pure uno snodo decisivo delle politiche economiche e perfino del Welfare.
Aver sottovalutato l’impatto della famiglia sul piano sociale ed economico riconducendola a una questione privata, quando non addirittura ad un retaggio culturale del passato, è stata una miopia di cui oggi pagano le conseguenze soprattutto le generazioni più giovani, sempre meno numerose e sempre meno importanti.
La saldatura tra etica sociale ed etica della vita è un imperativo categorico anche in altri ambiti sensibili e porta a convincersi ad esempio che l’eugenetica è molto più preoccupante della perdita della biodiversità nell’ecosistema o che l’aborto e l’eutanasia corrodono il senso della legge e impediscono all’origine l’accoglienza dei più deboli, rappresentando una ferita alla comunità umana dalle enormi conseguenze di degrado.
Come sottolinea con vigore il Papa: “Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono” (n.
28).
Ancora una volta l’enciclica aiuta a far emergere un più profondo senso dello sviluppo che sa porre in relazione i diritti individuali con un quadro di doveri più ampio, aiutando così ad intendere correttamente la libertà individuale che deve sempre fare i conti anche con la responsabilità sociale.
Taluni fenomeni di degrado politico cui assistiamo oggi e che rivelano mancanza di progettualità e resa ad interessi di corto respiro, così come recenti episodi di abbruttimento finanziario che hanno portato al collasso del sistema economico, colpendo le fasce più deboli dei risparmiatori, confermano che l’etica sociale si regge soltanto sulla base della qualità delle singole persone.
Lo dice espressamente il Papa: “Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle coscienze l’appello del bene comune” (n.
71).
Concludo, facendo riferimento a un tema che ha colpito la pubblica opinione e che può rappresentare una sorta di controprova sperimentale della validità della lettura dello “sviluppo integrale”, che Benedetto XVI propone a tutti gli uomini di buona volontà, sulla scia della grande intuizione della Populorum progressio di Paolo vi.
Mi riferisco al tema dell’ambiente, cui è espressamente dedicata una parte significativa del capitolo IV (nn.
48-52) e che rileva una ricorrente preoccupazione nel magistero dell’attuale Pontefice.
Scrive Benedetto XVI: “La Chiesa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico.
E facendolo deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti.
Deve proteggere soprattutto l’uomo contro la distruzione di se stesso.
È necessario che ci sia qualcosa come un’ecologia dell’uomo, intesa in senso giusto.
Il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l’ecologia umana è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio” (n.
51).
La crisi ecologica dunque non può essere interpretata come un fatto esclusivamente tecnico, ma rimanda ad una crisi più profonda perché ai “deserti esteriori” corrispondono “i deserti interiori” (cfr.
Benedetto XVI, Omelia per l’inizio del Ministero petrino, 24 aprile 2005), così come alla morte dei boschi “attorno a noi” fanno da pendant le nevrosi psichiche e spirituali “dentro di noi”, all’inquinamento delle acque corrisponde l’atteggiamento nichilistico nei confronti della vita.
Quando infatti l’uomo non viene considerato nell’integralità della sua vocazione e non si rispettano le esigenze di una vera “ecologia umana” si scatenano le dinamiche perverse delle povertà, compromettendo fatalmente anche l’equilibrio della Terra.
Una prova ulteriore, se ce ne fosse ancora bisogno, che “il problema decisivo dello sviluppo è la complessiva tenuta morale della società” (n.
51).
La crisi in atto mette in evidenza dunque la necessità di ripensare il modello economico cosiddetto “occidentale”, come, del resto, già auspicato nella Centesimus annus (1991).
Ma lo sguardo dell’enciclica è tutt’altro che pessimista o fatalista.
Al contrario con realismo apre al futuro con il seguente invito che intendo fare mio: “La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative.
La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità.
In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente” (n.
21).
(©L’Osservatore Romano – 20 settembre 2009) Pubblichiamo integralmente il testo della lectio magistralis che il cardinale arcivescovo di Genova, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha tenuto sabato 19 settembre nel Palazzo della Borsa Valori di Genova in occasione del convegno “Caritas in veritate.
Lettera enciclica di Papa Benedetto XVI”.
All’incontro, introdotto da Davide Viziano, presidente dell’Unione cristiana imprenditori dirigenti, e da Paolo Odone, presidente della Camera di Commercio di Genova, sono intervenuti anche Bernard Scholz, presidente della Compagnia delle opere, e l’economista Ettore Gotti Tedeschi.

Quel sogno fallito di Cavour

Il testamento biologico, la pillola Ru486, l’insegnamento religioso nelle scuole, il giudizio delle gerarchie ecclesiastiche sulle frequentazioni femminili del presidente del Consiglio e, naturalmente, il «caso Boffo» sono soltanto gli ultimi episodi di un problema, quello dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa, che domina da centocinquant’anni, con fasi alterne, la vita nazionale.
Il punto di partenza potrebbero essere i due discorsi di Cavour alla Camera e al Senato nel marzo e nell’aprile del 1861.
Forte dei grandi successi ottenuti nei mesi precedenti, Cavour non esitò a porre il problema di Roma e a interpellare direttamente Pio IX: «Santo Padre, il potere temporale per voi non è più garanzia di indipendenza.
Rinunciate ad esso e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche (…) noi siamo pronti a proclamare nell’Italia questo gran principio: libera Chiesa in libero Stato».
Come scrive Roberto Pertici in un libro edito dal Mulino — Chiesa e Stato in Italia.
Dalla Grande guerra al nuovo Concordato (1914-1984) — Cavour conosceva e apprezzava il ruolo della religione nelle società politiche, ma aveva letto Tocqueville ed era convinto che soltanto una netta separazione dello Stato dalla Chiesa, come negli Stati Uniti, avrebbe permesso al sentimento religioso di esprimersi con la massima libertà e spontaneità.
Occorreva quindi spogliare la Chiesa di tutti gli anacronistici privilegi accumulati nel corso dei secoli e al tempo stesso spogliare lo Stato di tutti i diritti d’ingerenza negli affari ecclesiastici che i re e gli imperatori avevano conquistato per se stessi soprattutto negli ultimi decenni dell’Ancien Régime e nell’era napoleonica.
Separazione, nel linguaggio politico di Cavour, era sinonimo di libertà.
Non credo che vi sia un altro programma politico, nella storia dell’Italia unita, che sia stato altrettanto citato, invocato, elogiato, ma sostanzialmente ignorato, bistrattato e spesso spudoratamente contraddetto.
Con qualche esagerazione si potrebbe affermare che il libro di Pertici è la storia di un progetto fallito o, per meglio dire, di tutto ciò che l’Italia ha fatto o tentato di fare per allontanarsi dalla generosa visione di Cavour.
Nata da una iniziativa del Senato e completata da un’appendice (circa 300 pagine) in cui sono riprodotti i dibattiti parlamentari (da quello sulla ratifica dei Patti Lateranensi a quello del 1984 sulla revisione del Concordato), questa opera è scritta nello stile e nello spirito di alcuni grandi predecessori dell’autore, da Francesco Ruffini a Stefano Jacini, da Arturo Carlo Jemolo a Francesco Margiotta Broglio; ed è l’opera di cui abbiamo bisogno per farci strada nella giungla dei nostri improvvisati dibattiti quotidiani.
Torniamo all’Italia del dopo Cavour.
La legge delle guarentigie, approvata dal Parlamento italiano dopo la presa di Roma, ebbe il merito di creare una cornice all’interno della quale Stato e Chiesa poterono convivere, più o meno bene, per quasi sessant’anni.
Ma fu piena di contraddizioni e incongruenze fra cui la principale fu quella di creare un sovrano senza territorio.
Il papa sarebbe stato trattato alla stregua di un re e avrebbe avuto, tra l’altro, il diritto d’inviare e ricevere ambasciatori, ma la terra su cui sorgevano i suoi palazzi sarebbe stata parte integrante del Regno d’Italia.
La Grande guerra, come ricorda Pertici, convinse la Chiesa che la formula era terribilmente scomoda, se non addirittura pericolosa; e la vittoria dell’Italia nel conflitto la persuase che era inutile attendere la morte naturale del regno blasfemo dei Savoia.
Cominciò da quel momento un negoziato decennale, che si concluse nel 1929 con la firma dei Patti Lateranensi.
Grazie al Trattato la Chiesa ebbe nuovamente uno Stato, anche se molto piccolo, e grazie al Concordato conquistò prerogative e privilegi che erano l’esatto opposto del grande disegno delineato da Cavour.
La Conciliazione ebbe molti padri ma il merito maggiore, come sempre accade in questi casi, andò a colui che ne gestì l’ultima fase, vale a dire all’«uomo inviato dalla Provvidenza ».
Dieci anni dopo, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, la Chiesa capì che il ruolo avuto da Mussolini nei Lateranensi avrebbe potuto screditarli agli occhi degli antifascisti dopo la fine del regime e corse ai ripari cercando di stipulare qualche controassicurazione.
Rinvio il lettore alle pagine del libro in cui Pertici descrive un incontro in Svizzera nell’agosto del 1938 fra monsignor Mariano Rampolla, nipote del segretario di Stato di Leone XIII, e due comunisti (Ambrogio Donini ed Emilio Sereni).
Rampolla chiese quale fosse la posizione del loro partito e fu lieto di apprendere che il Pci non aveva alcuna intenzione di rimettere in discussione il Trattato del 1929.
Ma apprese anche con preoccupazione «che il crollo del fascismo avrebbe segnato la caduta del regime concordatario».
La linea della Chiesa da quel momento fu netta.
Il Trattato e il Concordato erano pezzi complementari di una stessa costruzione e la sorte dell’uno avrebbe inevitabilmente segnato la sorte dell’altro: simul stabunt, simul cadunt .
Questa posizione trionfò nell’Assemblea Costituente, grazie a Togliatti, e la vittoria della Chiesa rafforzò considerevolmente, negli anni seguenti, l’egemonia cattolica sulla società italiana.
Un nuovo capitolo si apre quando la legge sul divorzio comincia il suo difficile percorso parlamentare nella seconda metà degli anni Sessanta.
La Santa Sede sostenne che il divorzio avrebbe violato lo spirito e le norme del Concordato.
Aveva ragione giuridicamente ma, come sostenne Giuseppe Saragat, allora presidente della Repubblica, moralmente e politicamente torto: moralmente perché quelle norme erano state stipulate con Mussolini e salvate grazie a un accordo con i comunisti, politicamente perché «tutte le nazioni civili hanno il divorzio».
L’approvazione della legge e la sua conferma dopo il referendum del maggio 1974 ebbero l’effetto di convincere la Chiesa che la difesa del Concordato del 1929 era diventata impossibile e che un nuovo negoziato era ormai inevitabile.
Ma anche in questo caso le trattative durarono dieci anni.
Pertici ne descrive molto bene i passaggi e dimostra che il nuovo Concordato ha avuto almeno due meriti.
Ha valorizzato i comportamenti degli individui e il loro diritto di scegliere fra l’offerta della Chiesa e quella delle istituzioni statali; e ha affermato e salvaguardato il principio del pluralismo religioso.
Anche il Concordato, come ogni trattato, può essere tuttavia interpretato in un senso o nell’altro e risponde in ultima analisi ai rapporti di forza tra coloro che lo hanno firmato.
Oggi la Chiesa si serve della debolezza della politica italiana per affermare con vigore la propria interpretazione e piegarlo alle linee della propria politica.
Questa affermazione, beninteso, è mia, non di Pertici, che è in “Corriere della Sera” del 18 settembre 2009

XXV Domenica del Tempo Ordinario (B)

In mitezza e umiltà «Essi però non comprendevano quelle parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni» (Mc 9,32).
Tale ignoranza da parte dei discepoli non nasce tanto dalla limitatezza della loro mente, quanto dall’amore che essi nutrivano per il Salvatore.
Questi uomini che vive-vano ancora secondo la carne ed erano ignari del mistero della croce, si rifiutavano di credere che colui che essi avevano riconosciuto quale Dio vero sarebbe morto ed essendo abituati a sentirlo parlare in parabole, poiché inorridivano alla sola idea della sua morte, cercavano di attribuire un senso figurato anche a quello che diceva apertamente a proposito della sua cattura e della sua passione.
«E giunsero a Cafarnao.
Entrati in casa chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo lungo la via?”.
Ed essi tacevano.
Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande» (Mc 9,33-34).
Sembra che la discussione tra i discepoli a proposito del primo posto fosse nata perché avevano visto che Pietro, Giacomo e Giovanni erano stati condotti in disparte sul monte e che qui era stato affidato loro qualcosa di segreto.
Ma già da prima erano convinti, come racconta Matteo (cfr.
Mt 16,18-19), che a Pietro erano state date le chiavi del Regno dei cieli, e che la chiesa del Signore doveva essere edificata sulla pietra della fede, dalla quale egli stesso aveva ricevuto il nome.
Ne concludevano o che quei tre apostoli dovevano essere superiori agli altri o che Pietro era superiore a tutti.
Il Signore, vedendo i pensieri dei discepoli, cerca di correggere il loro desiderio di gloria col freno dell’umiltà e fa loro intendere che non si deve cercare di essere primi; così, dapprima li esorta con il semplice comandamento dell’umiltà e, subito dopo, li ammaestra con l’esempio dell’innocenza del bambino.
Dicendo infatti: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me» (Mc 9,37) […] li esorta, a motivo della loro malizia, a essere anche loro come bambini, cioè a conservare la semplicità senza arroganza, la carità senza invidia e la devozione senza ira.
Prendendo poi in braccio il bambino, indica che sono degni del suo abbraccio e del suo amore gli umili e che, quando avranno messo in pratica il suo comandamento: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), solo allora potranno gloriarsi.
(BEDA IL VENERABILE, Commento al vangelo di Marco, CCL 120.n.
551).
Soprattutto un viaggio di ricerca “Io sono un navigatore e un viaggiatore, e ogni giorno scopro una nuova regione della mia anima” … Queste semplici ma straordinariamente parole di Kahil Gibran (Sabbia e onda) possono ben attagliarsi al tema di queste pagine, poiché pongono in rilievo un fatto fondamentale: l’uomo scopre nel mondo solo quello che ha già dentro di sé.
Il viaggio deve essere soprattutto uno strumento di approfondimento interiore, un mezzo per andare oltre le secche della quotidianità e far sì che l’anima respiri nuova aria, si alimenti con nuove energie spirituali.
Viaggiare è conoscere, ma è anche conferma della conoscenza acquisita e anche un modo per essere nella storia, senza distorsioni, linearmente, forse partendo dalle origini.
(Massimo CENTINI, Il cammino di Santiago, Xenia, Milano, 2009, 10-11).
Collaboratori della gioia di tutti Chiamato a servire, nell’impegno di ogni giorno, nella specificità dei servizi d’amore cui Dio lo chiama, il cristiano non deve mai perdersi d’animo, né cedere alla tentazione della disperazione e dello scetticismo.
Il segreto che gli permette di mantenere intatta la sua capacità di leggere giorno dopo giorno i segni della salvezza di Dio, che è all’opera, sta nell’incontro fedele e perseverante con Cristo, sorgente di vera gioia.
Questa gioia dell’incontro col Signore accompagna la vita del cristiano: anche nella prova e nella persecuzione i discepoli restano “pieni di gioia e di Spirito Santo” (Atti 13,52).
La gioia è un frutto dello Spirito, conseguenza del dimorare in Dio nella preghiera e nella celebrazione del suo amore per noi, sperimentato nella fede e nella speranza: “Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1Tessalonicesi 5,16-18).
La gioia si coniuga così alla carità, vissuta nel portare con Cristo il peso della sofferenza propria e altrui.
Servire è farsi collaboratori della gioia di tutti: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Corinzi 1,24).
(Bruno FORTE, Lettera ai cercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 71).
Rinascere dalle ceneri del tuo dolore Non biasimare altri per la tua sorte, perché tu e soltanto tu hai preso la decisione di vivere la vita che volevi.
La vita non ti appartiene, e se, per qualche ragione, ti sfida, non dimenticare che il dolore e la sofferenza sono la base della crescita spirituale.
Il vero successo, per gli uomini, inizia dagli errori e dalle esperienze del passato.
Le circostanze in cui ti trovi possono essere a tuo favore o contro, ma è il tuo atteggiamento verso ciò che ti capita quello che ti darà la forza di essere chiunque tu voglia essere, se comprendi la lezione.
Impara a trasformare una situazione difficile in un’arma a tuo favore.
Non sentirti sopraffatto dalla pena per la tua salute o per le situazioni in cui ti getta la vita: queste non sono altro che sfide, ed è il tuo atteggiamento verso queste sfide che fa la differenza.
Impara a rinascere ancora una volta dalle ceneri del tuo dolore, a essere superiore al più grande degli ostacoli in cui tu possa mai imbatterti per gli scherzi del destino.
Dentro di te c’è un essere capace di ogni cosa.
Guardati allo specchio.
Riconosci il tuo coraggio e i tuoi sogni, e non asserragliarti dietro alle tue debolezze per giustificare le tue sfortune.
Se impari a conoscerti, se alla fine hai imparato chi tu sei veramente, diventerai libero e forte, e non sarai mai più un burattino nelle mani di altri.
Tu sei il tuo destino, e nessuno può cambiarlo, se tu non lo consenti.
Lascia che il tuo spirito si risvegli, cammina, lotta, prendi delle decisioni, e raggiungerai le mete che ti sei prefissato in vita tua.
Sei parte della forza della vita stessa.
Perché quando nella tua esistenza c’è una ragione per andare avanti, le difficoltà che la vita ti pone possono essere oggetto di conquista personale, non importa quali esse siano.
Ricordati queste parole: “Lo scopo della fede è l’amore, lo scopo dell’amore è il servizio”.
(Sergio BAMBARÉN, La musica del silenzio, Sperling & Kupfer, 2006, 114-116).
Preghiera per il servizio Signore, mettici al servizio dei nostri fratelli che vivono e muoiono nella povertà e nella fame di tutto il mondo.
Affidali a noi oggi; dà loro il pane quotidiano insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia.
Signore, fa di me uno strumento della tua pace, affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio, lo spirito del perdono dove c’è l’ingiustizia, l’armonia dove c’è la discordia, la verità dove c’è l’errore, la fede dove c’è il dubbio, la speranza dove c’è la disperazione, la luce dove ci sono ombre, e la gioia dove c’è la tristezza.
Signore, fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata, di capire, e non di essere capita, e di amare e non di essere amata, perché dimenticando se stessi ci si ritrova, perdonando si viene perdonati e morendo ci si risveglia alla vita eterna.
(Madre Teresa di Calcutta) Rendici umili servi di tutti! Signore Gesù, come Giacomo e Giovanni anche noi spesso «vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiediamo».
Non siamo infatti migliori dei due discepoli.
Come loro abbiamo però ascoltato il tuo insegnamento e vorremmo ricevere da te la forza per attuarlo; quella forza che ha poi condotto i figli di Zebedeo a testimoniarti con la vita.
Gesù, aiutaci a comprendere l’amore che ti ha spinto a bere il calice della sofferenza al nostro posto, a immergerti nei flutti del dolore e della morte per strappare dalla morte eterna noi, peccatori.
Aiutaci a contemplare nel tuo estremo abbassamento l’umiltà di Dio.
Liberaci dalla stolta presunzione di asservire gli altri a noi stessi e infondici nel cuore la carità vera, che ci farà lieti di servire ogni fratello con il dono della nostra vita Mite Servo sofferente, che con il tuo sacrificio di espiazione sei divenuto il vero sommo sacerdote misericordioso, tu ben conosci le infermità del nostro spirito e le pesanti catene dei nostri peccati: tu che per noi hai versato il tuo sangue, purificaci da ogni colpa.
Tu che ora siedi alla destra del Padre, rendici umili servi di tutti! Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Sapienza 2,12.17-20 «Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta.
Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine.
Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari.
Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione.
Condanniamolo a una morte infamante, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».
Presentazione generale: a) Il contesto – I capp.
1-5 del libro della Sapienza presentano la figura del «sapiente» e dello «stolto» (chiamati anche «giusto» e «empio»): chi sono, cosa fanno, come concepiscono la vita; quali valori privilegiano, a quali cose e persone danno il primato.
Nella tradizione biblica «giusto» (o «sapiente») è l’uomo che sa riferire tutto a Dio e sa leggere la storia, gli avvenimenti, la stessa vita di ogni giorno alla luce della dimensione religiosa e nell’atteggiamento di chi sa accogliere ogni cosa come dono del suo Signore.
«Empio» o «stolto» è l’uomo che pone al centro del suo vivere se stesso, le cose, il successo.
È l’uomo incapace di cogliere la presenza di Dio nel suo mondo e nella sua vita.
L’empio, comunque, non è l’ateo, nel senso che noi oggi diamo a questo termine.
La Bibbia non conosce la figura moderna dell’ateo, ma solo l’uomo che di fronte al male, al dolore o a qualsiasi altro elemento che provoca differenza e disagio, si interroga sulla certezza della presenza di Dio «qui» e «adesso», proprio come fanno gli «empi» di questa lettura (cf.
Sal 13,1: «Lo stolto pensa: ‘Non c’è Dio’»).
b) Il tema – È il contrasto tra la concezione del vivere propria degli empi e quella dei giusti.
In questo contrasto vengono evidenziate le reazioni degli empi nei confronti di quanti vivono alla luce della Parola di Dio e dei valori che ad essa si ispirano.
Questo testo è stato applicato alla Passione di Gesù e alla sua vita apparentemente abbandonata da Dio sulla croce.
Gli evangelisti pongono sulle labbra di coloro che assistono alla sua crocifissione le ultime parole di questo brano («Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuole bene», cf.
Mt 27,43).
In Gesù, giusto per eccellenza, si rivela non l’abbandono di Dio, ma il suo amore e la sua vicinanza all’uomo.
Dalle sue sofferenze e dalla sua croce, infatti, ha origine la salvezza degli uomini.
Per la chiesa primitiva il nostro brano (come pure il Sal 21,9 che contiene le medesime espressioni) sono stati considerati profezie riguardanti Gesù, il Giusto consegnato nelle mani degli empi e morto per la nostra salvezza.
Annotazioni — v.
17: «Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo…
ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta»; queste parole vanno collocate nel contesto generale del libro della Sapienza, che contiene una forte critica nei confronti degli Israeliti che avevano rinnegato la loro formazione religiosa ed erano passati alla cultura ellenistica.
Dall’ellenismo (introdotto in Oriente da Alessandro Magno, nel 333 a.C.) avevano accettato anche le mode e le abitudini (palestre, teatri, spettacoli, terme ecc.) e anche l’invito a non farsi più circoncidere.
Quest’ultimo elemento era da sempre considerato caratteristico della formazione e della religiosità ebraiche.
— v.
19: «Mettiamolo alla prova…
per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione»: questi verbi che si riferiscono alla «tentazione» — e che la Bibbia ama attribuire a Dio — sono qui attribuiti agli empi, i quali si propongono non di rafforzare la fede e la fiducia dei giusti (secondo il significato che la Bibbia dà alla tentazione), ma di farli deviare dalla via del bene e di scoraggiarli dal compiere ogni cosa secondo Dio e nella fedeltà alla sua Parola.
Seconda lettura: Giacomo 3,16-4,3 Fratelli miei, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni.
Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera.
Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia.
Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni.
Presentazione generale: La Lettera di Giacomo comprende una serie di esortazioni senza un ordine logico, che si ispirano all’idea fondamentale di un’esistenza cristiana da vivere nella fedeltà al vangelo, nella carità e nella solidarietà (a questo si rifanno le severe espressioni che la Lettera usa contro i ricchi, incapaci di solidarietà e chiusi alle necessità del prossimo bisognoso).
Una vita così vissuta esprime anche la ricchezza interiore dell’uomo che, opponendosi ai vizi, alle passioni cattive e alle suggestioni del potere e del denaro, manifesta padronanza di sé e fedeltà al progetto di Dio sull’uomo e sulla creazione.
Il nostro brano comprende due temi: a) la qualità della vera sapienza, quella che conduce a vivere secondo il progetto di Dio (Gc 3,13-18); b) la riflessione sulle cause delle ostilità nel cuore dell’uomo e nel mondo e i loro rimedi (Gc 4,1-12).
Annotazioni — v.
16: «C’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni»: queste espressioni fanno parte del cosiddetto «catalogo dei vizi» che spesso la predicazione degli apostoli richiamava per mettere in guardia chi non accoglieva l’invito del vangelo a convertirsi dalle opere cattive e a vivere con attenzione e impegno (cf.
2Cor 12,20).
— v.
17: «La sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera»: questa descrizione della «vera» sapienza si ispira alla concezione che di essa hanno i Sinottici e Paolo (cf.
Gal 5,22-23).
In particolare è da sottolineare l’affinità di questi termini con il resto delle Beatitudini (Mt 5,1 ss), un testo che nell’evangelista Matteo diventa il programma di vita del cristiano.
Vivere secondo questo programma è anche per Giacomo un segno della vera sapienza cristiana che vede, giudica, illumina tutto alla luce del vangelo e della persona di Gesù.
Anche l’espressione «buoni frutti» richiama il Vangelo (cf.
Mt 7.16-20): «Dai loro frutti li riconoscerete») 4,1: «Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? »: alla ricerca dei rimedi da contrapporre ai mali dell’uomo (guerre, liti, contese), Giacomo propone atteggiamenti e comportamenti che, sanando l’interno dell’uomo («il cuore») hanno poi la capacità di influire positivamente anche sul mondo esteriore.
Per questo sono importanti il dominio delle passioni, la forza della preghiera e l’attenzione a vivere secondo le virtù che caratterizzano e distinguono il cristiano (vv.
2-3).
Vangelo: Marco 9,30-37 In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse.
Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà».
Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao.
Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?».
Ed essi tacevano.
Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande.
Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
Esegesi Presentazione generale: a) Il contesto – È quello che caratterizza la seconda parte del vangelo di Marco.
Secondo lo schema di questo evangelista, la prima parte contiene il racconto dei miracoli di Gesù (cc.
1-8) per orientare il lettore alla comprensione della sua identità di Messia e Figlio di Dio (come farà Pietro in 8,27-29, che è «il centro» del vangelo di Marco).
La seconda parte (cc.
9-16) è tutta impostata sulle esigenze radicali che Gesù chiede ai discepoli e ai cristiani di ogni tempo che lo vogliono seguire.
Con il nostro brano ha inizio la descrizione di queste esigenze.
Esse vengono collocate in questa seconda sezione perché solo chi ha riconosciuto la vera identità di Gesù (in tutto obbediente al Padre fino ad accettare la croce) sa anche accettare il suo destino di morte e di risurrezione.
b) Il tema – È la presentazione della missione di Gesù alla luce del progetto di salvezza di Dio (che passa attraverso la croce e la morte) e la richiesta al discepolo di ogni tempo di partecipare a questo progetto nella totale obbedienza che ha caratterizzato Gesù.
Annotazioni — v.
30: «Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse»: questa frase è da collocare nel contesto del cosiddetto «segreto messianico»: Gesù cioè vuole essere riconosciuto come Messia e Figlio di Dio non nell’esteriorità dei miracoli (che aveva finora compiuti in Galilea), ma nella obbedienza a Dio che lo consegna alla croce e alla morte.
— v.
31: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini»: «Figlio dell’uomo» è uno dei titoli messianici di Gesù, che si ispira a Dan 7,14 (testo ritenuto messianico nell’interpretazione biblica) e al profeta Ezechiele (che inizia sempre i suoi oracoli con l’espressione «Figlio dell’uomo», tuttavia senza significato messianico, ma con il significato comune di «uomo»).
Il verbo «consegnare» è molto ricco teologicamente.
Esso indica il progetto che Dio ha pensato per gli uomini: per la loro salvezza Dio «consegna» Gesù nelle loro mani.
Gesù, infatti, non è stato tradito («tradire» è un secondo significato dello stesso verbo paradìdomi, che traduciamo con «consegnare») solo da Giuda o dagli Anziani, ma è stato «consegnato» a morte da Dio stesso.
Gesù non è stato ucciso (nel senso teologico) dai contemporanei (anche se storicamente essi hanno preso parte al consumarsi di questa morte), ma dalle «mani» di ogni uomo (= dai suoi peccati) alle quali Dio ha «consegnato» Gesù.
— v.
34: «Avevano discusso tra loro chi fosse più grande»: i discepoli si aspettavano da un momento all’altro che Gesù inaugurasse il Regno messianico (che essi vedevano erroneamente anticipato dai miracoli da Lui compiuti), nel quale pensavano di essere favoriti con un posto di particolare prestigio.
— v.
35: «Sedutosi…
preso un bambino…
chi accoglie uno solo di questi bambini»: il verbo «sedersi» indicava l’attività di insegnamento del maestro o del rabbino.
Il verbo da anche l’idea della profondità e della gravità degli insegnamenti che Gesù sta per dare ai discepoli («essere l’ultimo…
essere il servo di tutti»).
«Bambini» e «piccoli» nel vangelo (oltre al loro proprio significato letterale) indicano anche i membri più deboli della comunità cristiana, le persone più dimenticate e per le quali nessuno ha uno sguardo o un’attenzione particolare.
Di esse deve farsi carico il discepolo di Gesù, come Lui si è fatto carico dell’umanità debole e fragile sotto il dominio del peccato.
Meditazione C’è un’immagine, nel racconto di Marco, che ritorna spesso e che ritma un po’ tutta la narrazione: è l’immagine della via, immagine allo stesso tempo reale e simbolica.
È la strada che conduce a Gerusalemme e che Gesù percorre con i suoi discepoli, ma è anche il simbolo dell’itinerario che ogni discepolo deve compiere nella misura in cui sceglie di seguire Gesù.
Lungo la via il discepolo impara a posare la pianta dei suoi piedi nell’orma che Gesù lascia; lungo la via il discepolo impara a conoscere il volto di Gesù, il segreto del suo cammino, la meta a cui tende tutta la sua vita; lungo la via il discepolo scopre anche la sua debolezza, la sua incapacità a seguire il Signore Gesù, la sua durezza di cuore, la sua cecità; lungo la via, infine, il discepolo comprende che solo riconoscendo la sua povertà può avere la grazia della sequela, il dono di scoprire che è sempre Gesù a camminare avanti, mentre egli può solo e sempre stare dietro.
Nella pericope del racconto di Marco proposta in questa domenica, lungo la via ascoltiamo ora una parola di Gesù che il discepolo ha già udito (cfr.
Mc 8,31), ma che al suo orecchio appare sempre dura, addirittura estranea: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà» (9,31).
Consegnare, uccidere, risorgere: tre verbi che offrono la sequenza di una storia drammatica e paradossale, inaudita, la vicenda ‘pasquale’ di Gesù.
Una vicenda già contenuta in filigrana nella storia dei profeti, di coloro che Dio invia per comunicare la sua parola di giudizio e di salvezza sulla storia degli uomini.
La storia del profeta, del giusto, è sempre una storia drammatica, contraddittoria e violenta, e in questi termini la rilegge il libro della Sapienza (cfr.
la prima lettura).
«Tendiamo insidie al giusto…
mettiamolo alla prova con violenze…
condanniamolo ad una morte infamante» (Sap 2,12.17-20): è questa la risposta degli empi a una parola di Dio, comunicata dal profeta, una parola che suona come accusa a una logica di ingiustizia e di violenza (quella logica condannata in Gc 3,16-4,3).
Il profeta diventa segno di contraddizione, odiosa pietra di scandalo («per noi è di incomodo e si oppone alle nostre azioni»: 2,12) per un sistema sociale e religioso basato sulla ipocrisia, ma nascosto dietro una apparente legalità.
Ecco perché la sua parola deve essere neutralizzata dimostrandone l’inefficacia ridicola e malefica, o più semplicemente deve essere eliminato.
Ma tra i tre verbi che caratterizzano la vicenda del ‘profeta’ Gesù, uno in particolare offre una luce per raggiungere il cuore di avvenimenti di per sé incomprensibili.
Si tratta del verbo consegnare («viene consegnato nelle mani…»: paradidotai eis cheiras), un verbo che domina tutta la via crucis del Figlio dell’uomo: Giuda, il discepolo che lo tradisce, lo consegna ai soldati; i soldati ai capi del popolo; i capi del popolo a Pilato e questi ai crocefissori.
Ma il paradosso è che il Padre stesso consegna il Figlio alla morte e in questa morte è Dio stesso a consegnarsi all’uomo, a donarsi, a offrire per l’uomo la sua stessa vita.
Consegnare, uccidere, risorgere: tre verbi oscuri per il discepolo che insegue i suoi pensieri, che cerca un volto di Gesù molto diverso da quello che lui ora gli sta presentando.
Il discepolo non comprende questa logica che gli pare assurda.
Ma pur non comprendendo, ha paura di domandare: «…non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo» (Mc 9,32).
È veramente paradossale questa reazione.
Chi non capisce, chiede.
E perché il discepolo non osa chiedere? Forse perché ha paura della risposta: o meglio, ha paura di un confronto con la parola di Gesù.
Il discepolo preferisce nascondersi dietro le proprie molte parole, le quali offrono cammini più facili, indicano desideri più gratificanti, immediati: «Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande» (9,34).
Lungo la strada allora Gesù fa fare una sosta al discepolo, ponendo anzitutto una domanda, che però resta senza risposta: «Di che cosa stavate discutendo lungo la strada?» (9,33).
Sembra quasi che di fronte a Gesù il discepolo non sappia usare la parola.
Ed è veramente così: il discepolo non sa usare la parola, resta muto, perché non ha ascoltato la Parola, quella parola che è il cammino di Gesù, quella parola dura che è la croce.
Solo Gesù può dare una risposta alle molte parole e ai silenzi del discepolo.
E la sua risposta è sconcertante e vera allo stesso tempo.
Essa ha come due momenti, due angolature attraverso cui si può rileggere la vicenda di Gesù, ma che diventano anche altrettante scelte concrete per il discepolo.
«Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (9,35).
Gesù prende sul serio il desiderio del discepolo, essere il primo, cioè realizzarsi pienamente, poter emergere nella vita.
Ma la risposta che Gesù offre è sconcertante: inverte quella strada che il discepolo credeva di poter percorrere per essere il più grande.
Per Gesù essere il più grande non è porsi sull’altro, prevalere sull’altro, cercare tutto ciò che è primo; essere grandi è stare ai piedi dell’altro, essere per l’altro dono, consegnarsi all’altro perché esso possa vivere.
In una parola, il discepolo deve capire che c’è una sola via che realizza pienamente il desiderio più vero di vita che abita in lui: è proprio quella via da cui il discepolo ha distolto lo sguardo, la via di Gesù, «il quale da ricco che era si fece povero…
che non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso…» (cfr.
2Cor 8,9; Fil 2,6.7); la via dell’umiltà, la via del servizio, la via del dono.
Ma c’è un passo ulteriore, un salto di qualità che Gesù fa compiere al discepolo.
«E preso un bambino lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie…
colui che mi ha mandato”» (9,36-37).
Questo gesto di Gesù, pieno di compassione e di tenerezza, libera il discepolo da un’ultima tentazione.
Essere all’ultimo posto, essere il servo di tutti, significa essere liberati dalla tentazione del potere.
Ma il discepolo può ancora essere attratto dalla pretesa di essere sempre lui quello che deve fare o deve dare agli altri.
Scoprire che al centro non c’è tanto il suo servizio all’altro, ma l’altro come persona, anzi il piccolo, l’ultimo come un dono da accogliere, significa essere veramente liberi e poveri.
Chi veramente dona, chi si fa ultimo, chi si fa nostro servo è il Signore Gesù: è lui il piccolo che sta in mezzo a noi come servo, è lui che ci dona tutto rivelandoci il volto misericordioso del Padre.
Di fronte al piccolo, qualunque esso sia, non possiamo fare altro che aprire le nostre mani per ricevere il dono della compassione del Padre, nel volto di Gesù.

Una laicità positiva per il futuro

Una laicità positiva per il futuro di Camillo Ruini Quello della laicità è un grande tema, del quale si discute da anni con un interesse che sembra inesauribile.
È difficile, pertanto, proporre in merito “idee innovative”, come è auspicato per questo incontro.
In rapporto all’emergere di qualcosa di nuovo vorrei segnalare anzitutto il rischio insito nella parola “laicità”, non per se stessa ma perché, nel dibattito culturale e politico italiano, essa risente facilmente della parentela con il termine francese “laicité”, portatore, storicamente, di un significato assai preciso e, a mio avviso, abbastanza angusto, rispetto alle problematiche attuali oltre che alla rilevanza dell’altro filone, che per intenderci chiameremo “nord-americano”.
Affinché una “nuova” laicità sia elaborata concettualmente, e soprattutto possa prendere piede nella realtà, la matrice americana mi sembra assai più utile di quella francese, ma soprattutto occorre misurarsi seriamente con il rilievo assunto dalla presenza delle diverse religioni sulla scena pubblica, oltre che con le questioni poste sia dalla trasformazione dei costumi e modi di vivere sia dagli sviluppi scientifici e tecnologici, in particolare nell’ambito delle biotecnologie.
Mi preme inoltre inserire una considerazione della quale di solito non si parla, ma che mi sembra indispensabile per impostare correttamente, o se vogliamo con onestà intellettuale, tutto il discorso sulla laicità e sul ruolo pubblico delle religioni.
Questa considerazione è contenuta nel sottotitolo del convegno internazionale su Dio, promosso per il prossimo dicembre [a Roma] dal comitato per il progetto culturale [della conferenza episcopale italiana]: “Con Lui o senza di Lui cambia tutto”.
Robert Spaemann, nel 2001, ha illustrato in maniera molto sintetica ma altrettanto magistrale il significato di questa affermazione, precisando che la risposta all’interrogativo: fa differenza che Dio esista o non esista? cambia profondamente a seconda che si tratti dei credenti o dei non credenti, sia atei sia agnostici.
I credenti autentici rispondono che la differenza non solo esiste ma è grande e radicale – anzi, è la prima e la più grande –, riguardo sia al modo di concepire la realtà sia all’orientamento da dare alla nostra vita: per loro infatti Dio è l’origine, il senso e il fine dell’uomo e dell’universo.
I non credenti invece possono differenziarsi nelle loro risposte, a seconda che ritengano la fede in Dio negativa, positiva o irrilevante per la vita dell’uomo e della società, ma propriamente parlando si riferiscono soltanto alla nostra fede in Dio, non alla realtà stessa di Dio, dato che secondo loro Dio non esiste, o comunque non possiamo sapere niente di lui, nemmeno se egli esista.
Il riconoscimento di questa profonda diversità di approccio tra credenti e non credenti sgombra il terreno dagli equivoci delle false uniformità, ma non implica affatto una impossibilità di convergere su obiettivi concreti e importanti: anzi, nelle attuali circostanze storiche, importantissimi.
Evidenzierò in seguito alcuni di questi.
*** Ritornando alla questione della laicità, distinguerei tra gli aspetti sui quali oggi esiste un consenso sostanziale, anche se spesso mascherato da polemiche piuttosto strumentali, e i punti sui quali invece il contrasto è profondo, anzi, tende forse ad acuirsi.
Seguendo da una parte la voce “Laicismo”, redatta da Giovanni Fornero nella terza edizione del “Dizionario di filosofia” dell’Abbagnano, e dall’altra i documenti “Gaudium et spes” e “Dignitatis humanae” del Concilio Vaticano II, possiamo individuare gli aspetti su cui c’è consenso anzitutto nel principio dell’autonomia delle attività umane, cioè nell’esigenza che esse si svolgano secondo regole proprie, non imposte loro dall’esterno.
Dietro questo consenso rimane anche qui la diversità tra credenti e non credenti: i primi ritengono infatti che questa autonomia abbia in Dio creatore la propria origine e la propria ultima condizione di legittimità (“Gaudium et spes” 36).
Un secondo elemento di consenso è costituito, contrariamente a molte apparenze, dall’affermazione della libertà religiosa, come diritto inalienabile di ogni persona e, almeno secondo la Chiesa cattolica, di ogni comunità.
Decisiva è stata, al riguardo, la svolta operata dal Vaticano II con la dichiarazione “Dignitatis humanae”, rispetto alle posizioni precedenti della Chiesa in materia.
Una differenza nei confronti di opinioni diffuse nel mondo laico riguarda il fondamento ultimo di tale libertà, che il Concilio intende in modo da escludere un approccio relativistico incompatibile con la rivendicazione di verità del cristianesimo.
Aggiungo che la “Dignitatis humanae” (n.
7) afferma nettamente che la libertà dell’uomo nella società va riconosciuta nella maniera più ampia possibile, limitandola soltanto se e in quanto ciò sia necessario.
Sulla base dei due principi condivisi dell’autonomia delle attività umane e della libertà, in particolare della libertà religiosa, un ampio consenso sussiste inoltre – di nuovo, contrariamente alle apparenze – sulle norme o i criteri di fondo che devono regolare i rapporti tra lo Stato e le comunità religiose, compresi quelli tra lo Stato e la Chiesa in Italia.
Si tratta in concreto della loro distinzione e autonomia reciproca, oltre che dell’apertura pluralistica degli ordinamenti dello Stato democratico e liberale alle posizioni più diverse – comprese quelle di matrice religiosa e anche confessionale –, che di per sé hanno tutte, davanti allo Stato, uguali diritti e uguale dignità.
Le motivazioni e le dimensioni di questa apertura sono però assai diverse, a seconda dei punti di vista degli interlocutori, come vedremo tra breve.
L’ostacolo che si frapponeva in Italia, e che ancora in qualche modo sopravvive in vari altri paesi, anche europei, cioè la “religione di Stato” o il carattere confessionale dello Stato, è stato superato istituzionalmente con l’accordo del 1984 di revisione del Concordato, che, nel protocollo addizionale, in relazione all’art.
1, recita: “Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato nei Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”.
Alla base della revisione del Concordato stanno, come è noto, da una parte la Costituzione della Repubblica e dall’altra il Concilio Vaticano II con il riconoscimento della libertà religiosa.
L’obiezione che la sussistenza stessa del Concordato rappresenti un privilegio, contrario al principio dell’apertura pluralista e paritaria dello Stato alle diverse confessioni religiose e posizioni culturali, dopo l’accordo di revisione non sembra insuperabile: le relazioni concrete tra uno Stato e le diverse confessioni religiose presenti nel corpo sociale non possono infatti non tener conto della situazione storica e dei modi nei quali, all’interno di essa, lo Stato può riconoscere un carattere pubblico, e non soltanto privato, alle varie confessioni, con gli effetti concreti che conseguono da un tale riconoscimento.
*** Venendo ora agli aspetti della laicità su cui esistono divergenze profonde, ossia ai problemi oggi realmente aperti, essi si concentrano principalmente, nei paesi di democrazia liberale ai quali limito il mio discorso, sul ruolo pubblico che le religioni possono o non possono esercitare e sulle condizioni alle quali possono eventualmente esercitarlo.
La gamma delle opinioni e posizioni al riguardo è ampia e variegata, ma sembra possibile individuare due orientamenti, e direi due sensibilità, di fondo.
Uno di essi tende a ridurre il ruolo pubblico delle religioni, talvolta fin quasi a sopprimerlo, e viene motivato sottolineando, da una parte, il carattere personale, spirituale e intimo, piuttosto che sociale e istituzionale, della religiosità autentica; privilegiando, d’altra parte, nella vita di una nazione, la sfera propriamente politica rispetto a quella del sociale.
L’altro orientamento tende invece a favorire, o comunque ad accogliere senza riserve mentali, il ruolo pubblico delle religioni, ritenendo anche le dimensioni sociali e istituzionali essenziali per le religioni e insistendo sull’autonomia e la rilevanza irriducibile della sfera del sociale.
Va detto qui chiaramente che queste diversità di orientamenti si pongono oggi in maniera trasversale rispetto alla distinzione, consueta in Italia, tra cattolici e laici, come anche tra credenti e non credenti.
Tra i cattolici si trovano infatti non pochi sostenitori di una religiosità concentrata sul suo aspetto spirituale, che sono facilmente critici del ruolo pubblico delle religioni e in particolare del cattolicesimo, mentre tra i laici, specialmente dopo l’emergere delle nuove e grandi questioni etiche e antropologiche, e dopo la rinnovata presenza delle religioni non cristiane sulla scena mondiale, sono numerosi quelli che riconoscono volentieri un tale ruolo, e non di rado lo auspicano.
*** Su questa problematica tenterò ora di esporre sinteticamente il mio punto di vista.
I fenomeni religiosi, in concreto tutte le religioni, compreso evidentemente il cristianesimo, hanno di per sé non minori titoli che ogni altra realtà o fenomeno sociale ad influire sulla scena pubblica, ivi compresa la dimensione propriamente politica.
Ciò naturalmente nel rispetto delle regole della democrazia e dello Stato di diritto o, per usare una terminologia oggi in voga, delle procedure attraverso le quali si formano e si esprimono le decisioni politiche.
Non vi è quindi ragione per porre alle religioni speciali condizioni per esercitare un ruolo pubblico: ad esempio condizioni riguardanti la razionalità del loro argomentare.
La decisione se un modo di argomentare sia razionale, o forse più precisamente plausibile e convincente, in un sistema democratico è affidata infatti, in ultima analisi, soltanto alla valutazione che ne dà la generalità dei cittadini nelle sedi appropriate, anzitutto quelle elettorali.
Vorrei indicare infine i motivi per i quali il ruolo pubblico delle religioni – in particolare del cristianesimo – è importante e può rendere un servizio positivo alla vita della società.
In altri termini, vorrei indicare le ragioni pratiche di quella laicità “sana” o “positiva” di cui ha parlato a più riprese Benedetto XVI, aperta cioè alle fondamentali istanze etiche e al senso religioso che portiamo dentro di noi.
Una motivazione assai rilevante è stata indicata da E.-W.
Böckenförde già molti anni fa, nel suo classico saggio su “La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione”: lo Stato liberale secolarizzato vive infatti di presupposti che esso stesso non può garantire e tra questi, come già sosteneva Hegel, sembrano svolgere un ruolo peculiare gli impulsi e i vincoli morali di cui la religione è la sorgente.
Molto recentemente Rémi Brague, in un intervento su “Fede e democrazia” pubblicato sulla rivista “Aspenia” nel 2008, ha proposto un aggiornamento interessante, e a mio parere nella sostanza condivisibile, della tesi di Böckenförde.
In primo luogo ha esteso questa tesi dallo Stato all’uomo di oggi, che in larga misura ha smesso di credere nel proprio valore, a causa di quella tendenza a ridurre l’uomo stesso a un fenomeno della natura e di quel totale relativismo che sono alla base delle attuali interpretazioni della laicità contrarie all’apertura sollecitata da Benedetto XVI.
È l’uomo, dunque, e non solo lo Stato, ad aver bisogno oggi – ma, a mio avviso, sostanzialmente sempre – di un sostegno che non è in grado di garantirsi da se stesso.
In secondo luogo la religione non è soltanto, e nemmeno primariamente, fonte di impulsi e vincoli etici.
Oggi, prima che di assicurare dei limiti e degli argini, si tratta di trovare delle ragioni di vita.
Proprio questa è, fin dall’inizio, la funzione, o meglio la missione più propria del cristianesimo: esso infatti ci dice anzitutto non “come” vivere, ma “perché” vivere, perché scegliere la vita, perché gioirne e perché trasmetterla.
Il libro “Confini” è, come precisa il suo sottotitolo, un esercizio di “dialogo sul cristianesimo e il mondo contemporaneo”, che cerca di approfondire nelle sue motivazioni e di rivestire di concretezza quella laicità non ostile al cristianesimo, anzi alimentata in buona misura da esso, nella quale il professor Galli della Loggia ed io, pur con tutti i nostri diversi punti di vista, individuiamo concordemente un presidio essenziale dell’ispirazione umanistica della nostra civiltà.
__________ Il rapporto tra religione e politica è una classica questione di “confini”, come dice anche il titolo di un dialogo, divenuto un libro, tra il pensatore laico Ernesto Galli della Loggia e il cardinale Camillo Ruini.
Presentando il libro a Milano, a Palazzo Marino, lo scorso 9 settembre, Ruini ha trovato occasione per dire in sintesi come lui vede il ruolo pubblico della religione nelle moderne democrazie e i punti d’accordo e di disaccordo tra la Chiesa e la visione laica.
Il suo intervento, riprodotto integralmente più sotto, è tanto più interessante in quanto va ai “fondamentali” della controversia sulla laicità.
È una controversia che implica inevitabilmente la domanda suprema su Dio.
Perché “con Dio o senza Dio cambia tutto”, ha detto il cardinale, che proprio alla questione di Dio ha dedicato un grande convegno che si terrà a Roma dal 10 al 12 dicembre, promosso dalla conferenza episcopale italiana e in particolare dal suo comitato per il “progetto culturale”, di cui lo stesso Ruini è presidente.
Il convegno non sarà strettamente “di Chiesa”.
Spazierà dalla filosofia alla teologia, dall’arte alla musica, dalla letteratura alla scienza.
E gli oratori saranno di assoluto rilievo internazionale nei rispettivi campi: siano essi cattolici o no, credenti od agnostici, da Robert Spaemann ad Aharon Appelfeld, da Roger Scruton a Rémi Brague, da Martin Nowak a Peter van Inwagen.
Non sarà neppure una sfilata di opinioni giustapposte, tanto meno una sorta di “cattedra dei non credenti” del tipo di quelle promosse anni fa dal cardinale Carlo Maria Martini.
Il disegno è mirato.
Punta deciso a mettere a fuoco quella “priorità” che per Benedetto XVI “sta al di sopra di tutte”, in un tempo “in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento”.
La priorità cioè – come ha scritto papa Joseph Ratzinger nella sua lettera ai vescovi del 10 marzo 2009 – “di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio.
Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine, in Gesù Cristo crocifisso e risorto”.
Per la conferenza episcopale italiana un convegno di tale portata è una prima assoluta.
Il “progetto culturale” di cui Ruini è stato ideatore trova in esso una delle sue esplicazioni maggiori.
Perché tale progetto non è altro che “uno sforzo per trasformare il messaggio della Chiesa in cultura popolare”, come ha detto il rettore dell’Università Cattolica di Milano, Lorenzo Ornaghi, nel commentare il libro di Ruini e Galli della Loggia.
Uno sforzo che ha avuto e ha nel quotidiano “Avvenire” una delle sue tribune più importanti.
Ma lasciamo la parola al cardinale.
Sandro Magister

XXIII Domenica del tempo ordinario anno B

Effatà «A tante domande sulla malattia del comunicare umano contrapponiamo ora una scena di risanamento.
Contempliamo Gesù nel momento in cui sta facendo uscire un uomo dalla sua incapacità a comunicare.
Si tratta della guarigione del sordomuto raccontata in Mc 7, 31-37.
S.
Ambrogio chiama questo episodio -e la sua ripetizione nel rito battesimale – “il mistero dell’apertura”: “Cristo ha celebrato questo mistero nel Vangelo, come leggiamo, quando guarì il sordomuto” (I misteri, I, 3).
Dividiamo il racconto in tre tempi: la descrizione del sordomuto, i segni e gesti di aper-tura, il miracolo e le sue conseguenze.
1.
La narrazione evangelica precisa anzitutto il disagio comunicativo di quest’uomo.
E’ uno che non sente e che sì esprime con suoni gutturali, quasi con mugolìi, di cui non si co-glie il senso.
Non sa neanche bene cosa vuole, perché è necessario che gli altri lo portino da Gesù.
Il caso è in sé disperato (7, 31-32).
2.
Ma Gesù non compie subito il miracolo.
Vuole anzitutto far capire a quest’uomo che gli vuol bene, che si interessa del suo caso, che può e vuole prendersi cura di lui.
Per que-sto lo separa dalla folla, dal luogo del vociferare convulso e delle attese miracolistiche.
Lo porta in disparte e con simboli e segni incisivi gli indica ciò che gli vuol fare: gli introduce le dita nelle orecchie come per riaprire i canali della comunicazione, gli unge la lingua con la saliva per comunicargli la sua scioltezza.
Sono segni corporei che ci appaiono persino rozzi, scioccanti.
Ma come comunicare altrimenti con chi si è chiuso nel proprio mondo e nella propria inerzia ? come esprimere l’amore a chi è bloccato e irrigidito in sé, se non con qualche gesto fisico? Notiamo anche che Gesù comincia, sia nei segni come poi nel co-mando successivo, con il risanare l’ascolto, le orecchie.
Il risanamento della lingua sarà conseguente.
A questi segni Gesù aggiunge lo sguardo verso l’alto e un sospiro che indica la sua sof-ferenza e la sua partecipazione a una così dolorosa condizione umana.
Segue il comando vero e proprio, che abbiamo scelto come titolo di questa lettera: “Effatà” cioè “Apriti!” (7, 34).
E’ il comando che la liturgia ripete prima del Battesimo degli adulti: il celebrante, toc-cando con il pollice l’orecchio destro e sinistro dei singoli eletti e la loro bocca chiusa, dice: “Effatà, cioè: apriti, perché tu possa professare la tua fede a lode e gloria di Dio” (Rito del-l’Iniziazione Cristiana degli Adulti, n.
202).
3.
Ciò che avviene a seguito del comando di Gesù è descritto come apertura (“gli si a-prirono le orecchie”), come scioglimento (“si sciolse il nodo della sua lingua”) e come ritro-vata correttezza espressiva (“e parlava correttamente”).
Tale capacità di esprimersi diviene contagiosa e comunicativa: “E comandò loro di non dirlo a nessuno.
Ma più egli lo racco-mandava, più essi ne parlavano”.
La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga.
Lo stupore e la gioia si diffon-dono per le valli e le cittadine della Galilea: “E, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”” (7, 35-37).
In quest’uomo, che non sa comunicare e viene rilanciato da Gesù nel vortice gioioso di una comunicazione autentica, noi possiamo leggere la parabola del nostro faticoso comu-nicare interpersonale, ecclesiale, sociale.
Possiamo anche individuare le tre parti di questa Lettera: 1.
rendersi conto delle proprie difficoltà comunicative; 2.
lasciarsi toccare e risana-re da Gesù; 3.
riaprire i canali della comunicazione a tutti i livelli.
Il comunicare autentico non è solo una necessità per la sopravvivenza di una comunità civile, familiare, religiosa.
E’ anche un dono, un traguardo da raggiungere, una partecipa-zione al mistero di Dio che è comunicazione».
(Card.
C.M.
MARTINI, Lettera pastorale: Effatà, apriti, 1990-1991).
Dal silenzio alla parola Vivere è percorrere la stessa avventura del sordomuto della Decapoli: ognuno è un uomo che non sa parlare, un uomo che non sa ascoltare.
Un nodo in gola, un nodo in cuo-re.
Penso alle mie sordità, al mio ascoltare senza partecipazione; penso alla mia lingua an-nodata, all’insignificanza dei miei messaggi e delle mie parole.
E ne comprendo la causa.
Non so ascoltare chi è appena fuori del mio spazio vitale, dall’ambito della famiglia o delle amicizie; o ascolto distrattamente, “a mezzo orecchio”, sperando solo che l’altro finisca in fretta, perché ho cose più intelligenti da dire, osservazioni più acute, idee più importanti.
E la parola si fa dura e vuota.
«Il primo servizio che dobbiamo rendere ai fratelli è quel-lo dell’ascolto.
Chi non sa ascoltare il proprio fratello presto non saprà neppure ascoltare Dio, sarà sempre lui a parlare, anche con il Signore» (Bonhoeffer), come il fariseo nel tempio: «Io, Signore, io e i miei digiuni, io e le decime, io…».
In quante famiglie si parla tra sordi.
E diventano culle di silenzio e di solitudini.
Quanti figli perduti nelle nostre case, e bastava forse solo ascoltarli.
Chi non sa ascoltare perderà la parola, perché parlerà senza toccare il cuore dell’altro.
Guariremo tutti dalla povertà delle parole solo quando ci sarà donato un cuore che a-scolta.
È ciò che fa Gesù: porta in disparte il sordomuto, lo tocca con le sue dita, con il se-gno intimo e vitale della saliva.
È ciò che continua a fare con me: mi tocca in ogni gioia e in ogni prova, i giorni vibrano della sua presenza, mi tocca in ogni fratello che mi viene incontro, nei poveri senza voce, negli anziani soli che nessuno ascolta.
Mi tocca e mi restituisce il dono di ascoltare e di “parlare correttamente”, che non è l’e-loquenza ma una nuova capacità di comunicare, di indovinare quelle parole che toccano il nervo della vita, bruciano le ipocrisie, hanno il gusto dell’amicizia.
Gesù ripete anche a me: «Effatà, apriti! Esci dal tuo nodo di silenzi e di paure; apriti ad accogliere vite nella tua vi-ta, spalanca le tue porte a Cristo».
Se rimani chiuso in te, non scoprirai mai, diceva un tormentato scrittore, «un Dio che gioisce e ride con l’uomo davanti ai caldi giochi del sole o del mare» (Pasolini) o che versa le sue lacrime nelle tue lacrime, ma solo distanza e solitudine.
«E comandò loro di non dirlo a nessuno».
Gesù aiuta senza condizioni.
Per lui è più importante la gioia del sordomuto, che non la sua gratitudine; la felicità dell’uomo conta più della fedeltà.
Quanti miracolati del Vangelo sembrano scomparire nel nulla, rapiti nel gorgo della lo-ro felicità.
Invece stanno fecondando in silenzio la storia con una nuova capacità di vere relazioni.
(Ermes Ronchi) La tua Parola La tua Parola, Signore, non l’hai scritta perché io la studiassi e la spiegassi.
La tua Paro-la, Signore, mi è giunta perché l’amassi, perché mi sforzassi di calarla nel mio intimo, per-ché anch’io potessi diventare una tua parola.
(E.
OLIVERO, L’amore ha già vinto Pensieri e lettere spirituali, Cinisello Balsamo, San Pao-lo, 2005, 119).
«Apri la tua bocca» Sia sempre nel nostro cuore e sulla nostra bocca la meditazione della sapienza e la no-stra lingua esprima la giustizia.
La legge del nostro Dio sia nel nostro cuore.
Per questo la Scrittura ci dice: «Parlerai di queste cose quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai» (Dt 6,7).
Parliamo dunque del Signore Gesù, per-ché egli è la Sapienza, egli è la Parola, è la parola di Dio.
Infatti è stato scritto anche questo: «Apri la tua bocca alla parola di Dio».
Tu la apri, egli parla.
Per questo Davide ha detto: «Ascolterò che cosa dice in me il Signore» (cfr.
Sal 84,9) e lo stesso Figlio di Dio dice: «Apri la tua bocca, la voglio riempire» (Sal 80,11).
Ma non tutti pos-sono ricevere la perfezione della sapienza come Salomone e come Daniele.
A tutti però viene infuso lo spirito della sapienza secondo la capacità di ciascuno, perché tutti abbiano la fede.
Se credi, hai lo spirito di sapienza.
Perciò medita sempre, parla sempre delle cose di Dio «quando sarai seduto in casa tua» (Dt 6,7).
Per casa possiamo intendere il nostro intimo, per parlare all’interno di noi stessi.
Parla con saggezza per sfuggire al peccato e per non cadere con il troppo parlare.
Quando stai seduto parla con te stesso, quasi come se dovessi giudicarti.
Parla per strada, per non essere mai ozioso.
Tu parli per strada se parli secondo Cristo, perché Cristo è la via.
In cammino parla a tè stesso, parla a Cristo.
Quando ti alzi, parlagli per eseguire ciò che ti è comandato.
Senti come Cristo ti sveglia.
La tua anima dice: «Un rumore! È il mio diletto che bussa», e Cristo dice: «Aprimi sorella mia, mia amica» (Ct 5,2).
Senti come tu devi svegliare Cristo.
L’anima dice: «Io vi scongiuro, figlio di Gerusalemme, svegliate, ridestate l’amore» (Ct 3,5).
L’amore è Cristo.
(S.
Ambrogio di Milano).
Preghiera Benedetto sei Tu, Signore nostro Dio, per l’amore che hai mostrato a noi in Gesù Cristo nostro Signore.
In Lui, che ci ha amati sino alla fine, noi siamo vincitori sul dolore, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la miseria, e pericoli e la morte violenta.
Nel silenzio dell’abbandono e della solitudine Tu elargisci le ricchezze della tua benedizione e sfami la fame di compagnia con l’abbondanza della Tua Parola e del Tuo Corpo.
Ti rendiamo grazie, perché Tu ascolti il silenzio dei nostri cuori, Tu agisci in noi con la tua potenza, ci guarisci dall’incomunicabilità, sciogli la nostra lingua e metti sulle nostre labbra il nome di Gesù tuo Figlio.
Fa’ che possiamo testimoniarTi come nostro unico Salvatore, sempre più uniti in una sola fede e in un solo Battesimo.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Isaia 35,4-7a Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina.
Egli viene a salvarvi».
Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa.
La terra bruciata diventerà una pa-lude, il suolo riarso sorgenti d’acqua.
I capitoli 34-35 costituiscono la cosiddetta «Piccola Apocalisse» del libro di Isaia.
Com-posti probabilmente dopo l’esilio, contengono una serie di oracoli di giudizio contro i ne-mici d’Israele (34), contrapposti a oracoli di salvezza (35).
Un inno di gioia (35, 1-3) introduce l’oracolo di consolazione rivolto agli «smarriti di cuore»: l’intervento del Signore è insieme vendetta, ricompensa e salvezza.
La giustizia si pre-senta con due facce, il castigo degli empi e la retribuzione dei giusti.
All’annuncio del v.
4 segue la descrizione del giorno della salvezza (vv.
5 e ss.), per mezzo delle immagini tradizionali che rappresentano i tempi messianici.
Ciechi, sordi, zoppi e muti saranno sanati: le diverse situazioni di schiavitù, i diversi impedimenti che incatenano il popolo credente cadono come per incanto.
Sono guarigioni reali e simboliche a un tempo: aprire gli occhi, schiudere gli orecchi significa anche dare la vera conoscenza spirituale e convertire i cuori all’ascolto della parola del Signore: saltare come cervi e gridare di gioia rappresenta la libertà e l’entusiasmo di confessare la fede.
La salvezza coinvolge non solo gli esseri umani, ma anche la natura, il cui ritorno alla vita è rappresentato con le immagini dell’acqua che rigenera il deserto e feconda la terra.
Il paese inaridito che simboleggiava il castigo divino (34, 10ss.) torna qui a fiorire: scaturi-ranno acque, torrenti nella steppa, la terra bruciata sarà una palude e il suolo riarso si a-nimerà di sorgenti.
Seconda lettura: Giacomo 2,1-5 Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali.
Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuo-samente, ed entri anche un povero con un vestito logoro.
Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sga-bello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi? Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quel-li che lo amano? La lettera di Giacomo entra nel quotidiano della vita di comunità, con chiare indicazioni di comportamento.
Le conseguenze pratiche della fede sono estremamente chiare fin dall’inizio della lette-ra.
Il secondo capitolo si apre con un’affermazione categorica: esiste una contraddizione insanabile tra la fede nel Signore Gesù e gli interessi personali, egoistici e transitori.
I tre versetti successivi (2-4) chiariscono l’affermazione con un esempio.
La descrizione dell’uomo ricco e del povero accolti nell’assemblea con evidente disparità di trattamento è vivace e realistica, tanto da far pensare che già nella comunità delle origini esistessero que-sti problemi.
L’interrogativo finale lascia alla coscienza della persona la decisione: ma l’ac-cusa è forte e fa riflettere.
Si tratta infatti non semplicemente di discriminare (diakrinô), ma addirittura di giudizi perversi (kritaì dialigismôn ponêrôn).
Non è quindi solo una fede debo-le e incerta, ma una vera e propria ingiustizia nei confronti dei fratelli, qualcosa che ferisce profondamente la comunità.
Potremmo dire, con linguaggio moderno, che i favoritismi dettati dall’attenzione al denaro e ai privilegi sociali non sono semplicemente un «peccato veniale».
Segue infatti un ragionamento stringato che ribadisce il pensiero dell’Apostolo.
Il v.
5, che introduce l’argomentazione, è una domanda retorica che, nella linea del pensiero dei profeti d’Israele e dello stesso Paolo, ricorda la scelta preferenziale di Dio a favore dei po-veri.
I poveri agli occhi del mondo sono ricchi nella fede ed eredi del regno: i criteri umani sono quindi completamente capovolti dalla logica di Dio, e se preferenza deve esserci nella co-munità cristiana, questa deve andare proprio a coloro che dal mondo sono emarginati e respinti.
Vangelo: Marco 7,31-37 In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, pas-sando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano.
Lo prese in disparte, lonta-no dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la sa-liva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!».
E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo del-la sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno.
Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
Esegesi La guarigione del sordomuto, narrata solo in Marco, è localizzata in territorio pagano (la Decapoli), dove tuttavia sembra essere già giunta la fama di Gesù taumaturgo.
Il primo versetto (31) offre una precisa indicazione geografica, anche se non appare chiaro l’itinerario seguito da Gesù per giungere da Tiro e Sidone (sulla costa fenicia) fino alla Decapoli, a est del lago di Tiberiade.
Il v.
32 presenta la situazione, senza indugiare sui preamboli: la gente del posto chiede a Gesù di imporre le mani sul malato, credendo forse che la sua potenza passi come un flui-do magnetico.
Non è ancora fede, ma ingenua fiducia, forse mista a superstizione, nei con-fronti di un uomo che opera prodigi.
I tre versetti centrali (33-35) descrivono il miracolo, con alcune notazioni importanti che introducono il tema del «segreto messianico».
Gesù prende in disparte l’uomo, lontano dalla folla, come a voler dissipare ogni fraintendimento propagandistico in quello che sta per fa-re; eppure indulge alla semplicità della gente e compie anche dei gesti concreti (le dita nel-le orecchie, la saliva) che potrebbero farlo assomigliare ai maghi e taumaturghi del tempo.
Il prodigio tuttavia non si compie direttamente in conseguenza dei gesti, ma appare piut-tosto effetto dell’invocazione di Gesù e della sua parola, non a caso nel versetto centrale (34): egli alza gli occhi al cielo, rivolto palesemente a Dio, e dice in aramaico «Apriti!».
Il collegamento parola-evento è chiaramente sottolineato dall’avverbio «e subito».
Il prodigio è espresso con verbi che adombrano anche un significato di conversione interio-re: gli orecchi «si aprono», il cuore e la mente dell’uomo sono quindi aperti ad accogliere la Parola del Signore; la lingua «si scioglie», l’uomo è quindi liberato dai legami del male che lo tenevano prigioniero.
Viene poi la raccomandazione del segreto, caratteristica di Marco (v.
36): l’ora non è an-cora giunta, e tuttavia la notizia del prodigio viene diffusa nonostante il divieto di Gesù.
La reazione (v.
37) è di stupore, il miracolo risveglia qualcosa di più della superstizione che lo aveva preceduto.
Queste persone credevano possibili guarigioni prodigiose, ma l’a-zione di Gesù li sorprende: ancora adesso non è fede, ma un passo ulteriore si è compiuto, ci si interroga su chi sia quest’uomo che fa udire i sordi e fa parlare i muti.
Meditazione Il passo evangelico di questa domenica inizia con una breve introduzione di carattere geografico.
Sono nominate le città di Tiro e Sidone, il territorio della Decàpoli: l’evangelista Marco ha cura di farci sapere che Gesù, dopo l’episodio della donna siro-fenicia (cfr.
7,24-30), rimane nella regione pagana del paese e quindi anche il personaggio che tra poco in-contrerà è un pagano.
«Gli portarono un sordomuto…» (v.
32).
Sulla scena compaiono all’improvviso alcune persone anonime che si preoccupano di condurre a Gesù un uomo gravemente colpito nel-la sua dimensione comunicativa (è infatti «sordo» e «muto», cioè incapace di ascoltare e di parlare) per chiederne la guarigione.
È da notare che il termine impiegato da Marco per connotare il mutismo di quest’uomo (in greco: mogilálon, «che parla a fatica, con difficol-tà») si trova solo qui in tutto il NT e ricorre un’altra volta soltanto nell’AT, precisamente nel testo di Is 35,6 (vedi il brano proposto come prima lettura).
Con ciò l’evangelista vuole invitare i suoi lettori a comprendere questo episodio come il compimento di una profezia, come uno dei segni messianici che Gesù realizza.
Subito, senza perdere tempo e senza troppi discorsi, Gesù mette in atto la sua ‘terapia’ (vv.
33-34).
E per prima cosa «prende con sé» il sordomuto (il verbo evidenzia un tratto di delicata accoglienza da non trascurare, soprattutto nel difficile rapporto che a volte si in-staura tra malato e guaritore) e lo porta «in disparte».
Per un incontro vero e personale con Gesù è necessario separarsi dalla folla, allontanarsi dagli umori sempre ambigui e volubili di essa.
Poi Gesù compie due gesti molto concreti (all’apparenza quasi rozzi e poco elegan-ti) che esprimono la volontà di stabilire un contatto con il malato – anche fisico, corporeo -, di stabilire una comunicazione che prende avvio proprio dagli organi malati: gli orecchi e la lingua.
È un «toccare» che mira a riaprire i canali chiusi della comunicazione alla loro sorgente, là dove ogni suono e ogni voce entra nel corpo (gli orecchi) e là dove ogni parola prende forma per uscire verso l’esterno (la lingua).
Gesù quindi prosegue levando gli occhi al cielo, in un gesto di preghiera, ed emettendo un sospiro, un «gemito», quasi a esprimere un appello, un’invocazione muta e silenziosa a quel Dio che può donargli la forza di vince-re ogni resistenza insita nel corpo dell’infermo.
Un sospiro che dice la sua pena e, insieme, la sua partecipazione a una tale condizione umana.
Da ultimo pronuncia un comando, for-te e imperioso, che è la parola centrale e decisiva di tutto il racconto: «Effatà».
È una parola in aramaico, come altre parole cruciali e decisive riportate da Marco nel suo vangelo.
È cu-rioso che qui Gesù parli al singolare: «Apriti!»: è anzitutto l’uomo come tale, nella sua tota-lità, che deve aprirsi, che deve lasciare che questa parola rompa, infranga, vinca la sua chiusura.
Prima che essere rivolta alle sue orecchie, questa parola di Gesù è rivolta al suo cuore, al centro interiore dell’intera sua persona.
Ed ecco il risultato immediato di tutta questa opera di guarigione: «E subito gli si apri-rono gli orecchi…» (v.
35).
C’è un’«apertura», c’è uno «scioglimento», c’è un parlare ritrova-to e «corretto», che manifestano l’efficacia della ‘cura’ di Gesù e diventano altresì contagio-si, tanto che i presenti non riescono a ubbidire al comando di Gesù, che ingiungeva loro il silenzio, ma «più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano…» (v.
36).
Con una bella im-magine, il card.
C.M.
Martini nella sua lettera pastorale «Effatà, Apriti» così commenta: «La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga.
Lo stupore e la gioia si diffondono per le valli e le cittadine della Gali-lea…».
L’esclamazione conclusiva (v.
37), pronunciata al colmo dello stupore, rievoca la fi-nale del racconto della creazione: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31).
Siamo dunque in presenza di un evento che dischiude di nuovo la real-tà originaria, un evento in grado di ricreare quell’umanità così come Dio l’aveva voluta a-gli inizi della creazione.
S.
Ambrogio, nella sua spiegazione al rito dell’ Effatà che si celebrava durante la liturgia battesimale (reinserito ora nella celebrazione del Battesimo degli adulti), chiama questo episodio evangelico: «il mistero dell’apertura».
In un contesto di iniziazione è fondamenta-le che qualcosa venga ‘aperto’ ed è nondimeno fondamentale la consapevolezza del biso-gno di ‘lasciarsi aprire’.
Tutto il vangelo di Marco è attraversato da questa ‘apertura’ (dai cieli che si aprono al battesimo di Gesù fino al velo del tempio che si squarcia «da cima a fondo» al momento della sua morte) e forse non è un caso che questo racconto di guari-gione sia stato collocato a questo punto della narrazione evangelica: la sua valenza simbo-lica in ordine al cammino di sequela dei discepoli può essere illuminante.
Ricordiamo che siamo nel contesto della cosiddetta «sezione dei pani» (Mc 6,30-8,21) in cui è più volte sot-tolineata l’ottusità dei discepoli, la loro lentezza di mente, la loro durezza di cuore: di fron-te a sempre nuove e più grandi rivelazioni di Gesù corrisponde da parte loro un’incom-prensione sempre maggiore.
I discepoli appaiono come ciechi e sordi, incapaci di vedere e udire la novità del vangelo.
Ecco allora che la fatica impiegata da Gesù per guarire quel sordomuto (la molteplicità dei dettagli è indicativa di tutta la laboriosità e lo sforzo com-piuto per risolvere il caso) diventa segno della fatica usata a guarire i discepoli dalla loro cecità e sordità spirituale (riguardo alla cecità, l’episodio del cieco di Betsàida, in 8,22-26, svolge una funzione analoga).
Ma, nello stesso tempo, l’’apertura’ del sordomuto diventa anche segno della possibilità offerta a tutti (discepoli compresi!) di ottenere la guarigione, di ritrovare una capacità nuova di ascolto e comprensione del mistero di Gesù.
Ed è pro-prio questo il vero miracolo a cui tende tutto il vangelo…
 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

Unità 1 Sperimentatori

In queste schede verranno inseriti i contributi degli sperimentatori.
Per l’inserimento fare i seguenti passaggi: 1.
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Sostituire il nome nuova scheda con  il titolo del contributo 3.
Copiare il testo dal proprio computer e Incollarlo sulla scheda     (per incollarlo cliccare sul tasto destro del mouse e scegliere la voce Paste from Word ) 4.
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Il sangue nelle culture ebraica e cristiana

Il sangue nelle culture degli ebrei e dei cristiani, il sangue come simbolo che attraversa i due mondi e le loro credenze e ritualità:  il sangue dei sacrifici e il sangue di Cristo, il sangue dei martiri, quello della circoncisione e quello dell’accusa di omicidio rituale rivolta agli ebrei.
Un appassionante percorso tra le due culture, attraverso questo filo rosso che le congiunge e al tempo stesso ne separa la strada, ripercorso nei tempi lunghi della storia, dalla Bibbia fino all’oggi, da David Biale, professore di storia ebraica in California noto al pubblico italiano soprattutto per il suo L’eros nell’ebraismo, tradotto nel 2003 (Firenze, La Giuntina).
Di questa storia complessa l’autore individua continuità e rotture, ma anche suggestioni reciproche, inaspettati prestiti culturali e simbolici, riaffermazioni identitarie contrapposte.
Il libro (David Biale, Blood and belief.
The circulation of a symbol between jews and christians, Berkeley, University of California Press, 2007; traduzione  francese, Montrouge, Bayard, 2009, pagine 397, euro 29) vuole infatti essere uno “studio di mentalità”, si propone di “analizzare la storia culturale di una sostanza materiale”.
Uno sguardo sintetico di lungo periodo, che si fonda su un impressionante apparato di fonti e di bibliografia critica, e al tempo stesso racconta, spiega, interroga le curiosità del lettore in un linguaggio sempre accessibile, mai rivolto esclusivamente agli addetti ai lavori.
Le origini sono nella Bibbia, e in particolare in un passo dell’Esodo (24, 3-8) in cui Mosè asperge il popolo con una parte del sangue dei sacrifici, a significare l’alleanza con Dio.
Versetti complessi e inquietanti, che offriranno diverse e divergenti possibilità interpretative tanto alla lettura patristica che a quella rabbinica.
Due mondi entrambi derivati dalla Bibbia ebraica, e legati fra loro da nessi complessi e inaspettati, oltre che da conflitti assai duri per la supremazia.
Non una derivazione/separazione del mondo cristiano da quello ebraico – sottolinea Biale – ma cristianesimo ed ebraismo rabbinico come due nuove religioni che nascono dall’antica religione biblica.
In questo passaggio fondamentale, la direzione generale è quella, per il cristianesimo, di trasformare il sangue in un simbolo, quello eucaristico, che al tempo stesso ne salvaguardi anche il valore di realtà corporale e indichi la corporeità del Cristo.
Un passaggio però complesso, perché la presenza reale nell’Eucaristia si afferma con difficoltà e non senza opposizione fra i primi padri.
Dall’altra parte, l’ebraismo rabbinico, dopo la fine dei sacrifici animali con la caduta del Tempio, sembra rifiutare il sangue, sottolineando il divieto di cibarsene, ma mantiene nei divieti e nelle interpretazioni – circoncisione, purezza femminile, concezione dei rapporti sessuali – un’attenzione assai ambivalente verso questo stesso sangue, quasi a rispecchiare l’ambivalenza del primo cristianesimo.
In questo complesso passaggio, le due religioni si interpretano e si riecheggiano, oltre che combattersi, e i rapporti tra di esse ci appaiono, attraverso questo filtro della purezza e del sangue – ma anche del potere dato alla gestione del sangue – molto più ricchi e complessi di quanto non ci si aspetti. Che il filo non sia rotto del tutto lo si vede anche nell’ideologia del martirio, in cui – sottolinea Biale – il martirologio cristiano echeggia temi biblici e suggestiona, a partire dal secondo millennio, quelli del martirologio ebraico, in una “stupefacente convergenza tra la teologia ebraica e quella cristiana”.
L’altro nodo importante è quello del consolidamento a dogma della dottrina eucaristica e del contemporaneo emergere delle accuse agli ebrei di profanazione dell’ostia e di omicidio rituale.
Nell’accusa di profanazione dell’ostia, il sangue sgorga dall’ostia ferita, a significarne la presenza reale del Cristo, mentre in quella dell’accusa del sangue gli ebrei raccolgono a scopi rituali e medicinali il sangue della loro vittima cristiana.
Il libro analizza queste favole, che tanto sangue degli ebrei hanno fatto spargere, allargando il discorso dall’accusa del sangue in sé alla cultura del sangue nelle forme diverse assunte tra gli ebrei e tra i cristiani.
Un intento questo, di inserire l’accusa del sangue nel modo in cui il sangue era percepito dalla società del tempo, da cui era partito lo stesso Ariel Toaff nelle sue Pasque di sangue.
Ma, a differenza di Toaff, che si serve della cultura del sangue per dimostrare che gli ebrei non avevano poi tutto l’orrore del sangue che si attribuisce loro – con conseguenza di poter anche praticare l’omicidio rituale – Biale scava nell’immaginario rispettivo dei due mondi, interpreta con sguardo antropologico ritualità, linguaggi e pratiche, e riconduce le accuse, come le ritualità, ai linguaggi e alle culture religiose che li sottendono.
Il libro insegue così il percorso del sangue attraverso il medioevo e la prima età moderna, non senza soffermarsi sulle leggi di limpieza de sangre della Spagna fra Quattrocento e Cinquecento e sul nesso fortissimo, nella cultura spagnola tanto ebraica che cristiana, fra sangue e onore.
L’autore passa infine a trattare il momento della modernità e l’uso del sangue nell’antisemitismo razziale e poi nel nazismo e nel suo “antisemitismo redentore”, dove Biale riprende la calzante espressione di Saul Friedländer.
Quali sono le continuità, quali le fratture? I legami con il passato esistono, sostiene Biale, le radici medievali cristiane sono ben presenti, ma anche la discontinuità è netta, dal razzismo biologico al mito del “Cristo ariano” all’anticristianesimo radicale del nazismo.
Un capitolo ricchissimo, in cui Biale scava, più che nella cultura nazista vera e propria, in testi dimenticati dai più e di grande interesse per comprendere la costruzione ideologica che ha portato al nazismo.
Poi, con coraggio e senza reticenze, Biale affronta nell’ultimo capitolo anche le suggestioni della cultura della razza e dei nazionalismi sugli ebrei e sulla loro cultura, in particolare sul sionismo e sull’idea della comunità di sangue, soffermandosi sul conflitto tra il sionismo della terra e quello spirituale.
Per chiudere questo libro appassionante con le parole di un poeta ebreo polacco, Julian Tuwim, che nel 1944 si richiama non alla comunità di sangue creata dal sangue che cola nelle vene, ma da quella, di fraternità, creata da quello che ne sgorga.
La comunità di sangue frutto non della natura, ma della storia, non della biologia ma della sofferenza comune.
(©L’Osservatore Romano – 31 agosto – 1 settembre 2009 )

IV Giornata per la Salvaguardia del Creato

Si celebra il primo settembre 2009 la IV Giornata per la Salvaguardia del Creato, dal titolo: “Laudato si’, mi’ Signore… per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento”.
Promotori dell’evento l’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro e l’Ufficio Nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della CEI.
Il testo del messaggio per la Giornata e le indicazioni per la sua celebrazione a livello diocesano sono reperibili in rete su www.chiesacattolica.it/lavoro o www.chiesacattolica.it/ecumenismo.
In allegato trovate anche il testo della catechesi pronunciata da Bendetto XVI a Castel Gandolfo durante l’udienza generale di mercoledì 26 agosto e dedicata proprio al tema della Giornata.
 Documenti allegati:CATECHESI DEL SANTO PADRE.doc