La beatificazione di don Carlo Gnocchi

Carlo Gnocchi, terzogenito di Enrico Gnocchi, marmista, e Clementina Pasta, sarta, nasce a San Colombano al Lambro, vicino Lodi, il 25 ottobre 1902.
Rimasto orfano del padre all’età di cinque anni Carlo si trasferisce a Milano con la madre e i due fratelli Mario e Andrea.
Non molto tempo dopo entrambe i fratelli moriranno di tubercolosi.
fratelli moriranno di tubercolosi.
Carlo, di salute cagionevole, trascorre sovente lunghi periodi di convalescenza a Montesiro, paesino della Brianza, presso una zia.
Carlo Gnocchi entra in seminario alla scuola del cardinale Andrea Ferrari e nel 1925 viene ordinato sacerdote dall’Arcivescovo di Milano, Eugenio Tosi.
Don Gnocchi celebra la sua prima messa il 6 giugno a Montesiro.
Il primo impegno del giovane Don Carlo Gnocchi è quello di assistente d’oratorio: prima a Cernusco Sul Naviglio, vicino Milano, poi dopo solo un anno nella popolosa parrocchia di San Pietro in Sala, a Milano.
Grazie al suo operato raccoglie stima, consensi e affetto tra la gente tanto che la fama delle sue doti di ottimo educatore giunge fino in Arcivescovado.
Nel 1936 il Cardinale Ildefonso Schuster lo nomina direttore spirituale di una delle scuole più prestigiose di Milano: l’Istituto Gonzaga dei Fratelli delle Scuole Cristiane.
In questo periodo Don Gnocchi studia intensamente e scrive brevi saggi di pedagogia.
Sul finire degli anni ’30 il Cardinale Schuster gli affida l’incarico dell’assistenza spirituale degli universitari della Seconda Legione di Milano, che comprende in buona parte studenti dell’Università Cattolica oltre che molti ex allievi del Gonzaga.
Nel 1940 l’Italia entra in guerra e molti giovani studenti vengono chiamati al fronte.
Don Carlo, coerente alla tensione educativa che lo vuole sempre presente con i suoi giovani anche nel pericolo, si arruola come cappellano volontario nel battaglione “Val Tagliamento” degli alpini: la sua destinazione è il fronte greco albanese.
Terminata la campagna nei Balcani, dopo un breve intervallo a Milano, nel 1942 Don Carlo Gnocchi riparte per il fronte.
Questa volta la meta è la Russia, con gli alpini della Tridentina.
Nel gennaio del 1943 inizia la drammatica ritirata del contingente italiano: Don Gnocchi, caduto stremato ai margini della pista dove passava la fiumana dei soldati, viene miracolosamente soccorso, raccolto da una slitta e salvato.
È proprio in questa tragica esperienza che, assistendo gli alpini feriti e morenti e raccogliendone le ultime volontà, matura in lui l’idea di realizzare una grande opera di carità che troverà compimento, dopo la guerra, nella “Fondazione Pro Juventute”.
Ritornato in Italia nel 1943, Don Gnocchi inizia il suo pellegrinaggio attraverso le vallate alpine, alla ricerca dei familiari dei caduti, per dare loro un conforto morale e materiale.
In questo stesso periodo aiuta molti partigiani e politici a fuggire in Svizzera, rischiando in prima persona la vita: viene arrestato dalle SS con la grave accusa di spionaggio e di attività contro il regime.
A partire dal 1945 comincia a prendere forma concreta quel progetto di aiuto ai sofferenti pensato negli anni della guerra: Don Gnocchi viene nominato direttore dell’Istituto Grandi Invalidi di Arosio (Como), e accoglie i primi orfani di guerra e i bambini mutilati.
Inizia così l’opera che porterà Don Carlo Gnocchi a guadagnare sul campo il titolo più meritorio di “padre dei mutilatini”.
Le richieste di ammissione arrivano da tutta Italia e ben presto la struttura di Arosio si rivela insufficiente ad accogliere i piccoli ospiti.
Nel 1947 viene concessa in affitto – ad una cifra del tutto simbolica – una grande casa a Cassano Magnano, nel varesotto.
Nel 1949 l’Opera di Don Gnocchi ottiene un primo riconoscimento ufficiale: la “Federazione Pro Infanzia Mutilata”, da lui fondata l’anno precedente per meglio coordinare gli interventi assistenziali nei confronti delle piccole vittime della guerra, viene riconosciuta ufficialmente con Decreto del Presidente della Repubblica.
Nello stesso anno il Capo del Governo, Alcide De Gasperi, promuove Don Carlo Gnocchi consulente della Presidenza del Consiglio dei Ministri per il problema dei mutilatini di guerra.
Da questo moment, uno dopo l’altro, vengono aperti nuovi collegi: Parma (1949), Pessano (1949), Torino (1950), Inverigo (1950), Roma (1950), Salerno (1950) e Pozzolatico (1951).
Nel 1951 la “Federazione Pro Infanzia Mutilata” viene sciolta e tutti i beni e le attività vengono attribuiti al nuovo soggetto giuridico creato da Don Gnocchi: la “Fondazione Pro Juventute”, riconosciuta con Decreto del Presidente della Repubblica l’11 febbraio 1952.
Nel 1955 Don Carlo lancia la sua ultima grande sfida: si tratta di costruire un moderno centro che costituisca la sintesi della sua metodologia riabilitativa.
Nel settembre dello stesso anno, alla presenza del Capo dello Stato, Giovanni Gronchi, viene posata la prima pietra della nuova struttura nei pressi dello stadio Meazza (San Siro) a Milano.
Vittima di una malattia incurabile Don Gnocchi non riuscirà a vedere completata l’opera nella quale aveva investito le maggiori energie: il 28 febbraio 1956, la morte lo raggiunge prematuramente presso la Columbus, clinica di Milano dove è da tempo ricoverato per una grave forma di tumore.
I funerali, celebrati il giorno 1 marzo dall’arcivescovo Montini (poi Papa Paolo VI), furono grandiosi per partecipazione e commozione.
La sensazione generale era che la scomparsa di Don Carlo Gnocchi avesse privato la comunità di un vero santo.
Durante il rito venne portato al microfono un bambino.
Un’ovazione seguì le parole del fanciullo: “Prima ti dicevo: ciao don Carlo.
Adesso ti dico: ciao, san Carlo”.
A sorreggere la bara c’erano quattro alpini; altri portavano sulle spalle i piccoli mutilatini in lacrime.
Tra amici, conoscenti e semplici cittadini erano in centomila a gremire il Duomo di Milano e la sua piazza.
L’intera città listata a lutto.
Proprio il giorno del funerale esce un piccolo libro da lui scritto con le sue ultime forze, come una sorta di testamento, che condensa tutta la sua vita e il suo sacerdozio, la sua opera in mezzo alla gioventù delle parrocchie, dell’Istituto Gonzaga, di cappellano militare, ma soprattutto in mezzo al dolore dei piccoli e dei più giovani, per dare ad ogni lacrima, a ogni goccia di sangue sparsa, il significato e il valore più alto.
L’ultimo gesto apostolico di Don Gnocchi è stato la donazione delle cornee a due ragazzi non vedenti – Silvio Colagrande e Amabile Battistello – quando in Italia il trapianto di organi non era ancora disciplinato da apposite leggi.
Il doppio intervento, eseguito dal prof.
Cesare Galeazzi, riuscì perfettamente.
La generosità di Don Carlo che ebbe anche in punto di morte e l’enorme impatto che il trapianto e i risultati dell’operazioni ebbero sull’opinione pubblica impressero un’accelerazione decisiva al dibattito.
Nel giro di poche settimane venne varata una legge sul tema.
Trent’anni dopo la mortedi Don Carlo Gnocchi il cardinale Carlo Maria Martini istituirà il Processo di Beatificazione.
La fase diocesana avviata nel 1987 si è conclusa nel 1991.
Il 20 dicembre 2002 Papa Giovanni Paolo II lo ha dichiarato venerabile.
Nel 2009 il cardinale Dionigi Tettamanzi annuncia che la beatificazione avverrà il 25 ottobre dello stesso anno.
Don Carlo Gnocchi:  un nome legato indissolubilmente alle opere di carità.
Un prete autentico che ha messo in pratica gli insegnamenti evangelici offrendo aiuto e sostegno ai fratelli che erano nel bisogno.
La sua figura “resta di grande attualità ancora oggi.
Come profeta di speranza e come eroe della carità, egli continua a ispirare impegno e imitazione”.
Così ha tratteggiato la vita e l’opera di don Gnocchi l’arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, nel presiedere il rito della sua beatificazione.
La cerimonia si è svolta in piazza del Duomo a Milano, domenica mattina 25 ottobre, alla presenza del cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo della diocesi ambrosiana, che ha presieduto l’Eucaristia.
“Don Carlo fu un eroe e un santo – ha proseguito il prefetto Amato – e il segreto dell’eroismo della sua santità fu il suo amore per Cristo:  “Solo Cristo – egli diceva – può essere principio di vita divina per l’uomo.
Cristo fu per il nostro beato l’unica avventura della sua vita sacerdotale.
Fu un prete tutto di Cristo, tutto della Chiesa, tutto del prossimo bisognoso e sofferente”.
Il presule lo ha definito “prete fino in fondo” e il suo ministero sacerdotale “fu il servizio ai giovani come educatore sapiente, come cappellano eroico, come benefattore generoso dei mutilatini.
Il suo incontenibile entusiasmo apostolico era ancorato alla Provvidenza divina, da lui vista, come don Bosco, incarnata concretamente nelle persone buone e generose”.
Don Gnocchi ebbe, infatti, ha aggiunto il prefetto, “un’energia creativa, una imprenditorialità tutta milanese nel trovare mezzi e persone per far crescere e prosperare quella che lui chiamava “la mia baracca”.
Era un vero imprenditore della carità”.
Nell’omelia il cardinale Tettamanzi ha detto che è “nella ricerca del volto di Cristo impresso nel volto d’ogni uomo che don Carlo ha consumato la sua vita.
Lo ha cercato in ogni soldato, in ogni alpino – ferito o morente -, in ogni bimbo violato dalla ferocia della guerra, in ogni mutilatino vittima innocente dell’odio, in ogni mulattino frutto della violenza perpetrata sull’innocenza della donna, in ogni poliomielitico piegato nel corpo dal mistero stesso del dolore”.
È proprio qui il segreto dell’amore di don Carlo per l’uomo:  “La vivissima coscienza che nel cuore di ogni essere umano abita lo splendore del volto di Dio.
Ma ogni cristiano è chiamato ad amare sino alla fine e senza paura ogni essere umano, sapendo che in tutti è l’impronta incancellabile del volto di Dio, di tutti Creatore e Padre”.
“La seconda lettura – ha aggiunto il porporato – tratta dalla lettera di Paolo a Timoteo (1 Timoteo, 2, 1-5), ci rimanda ad un tratto caratteristico della carità di don Gnocchi.
L’Apostolo raccomanda, in particolare, “che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio”.
Don Carlo ha saputo coinvolgersi con dedizione entusiasta e disinteressata non solo nella vita della Chiesa, ma anche in quella della società.
E lo ha fatto coltivando con grande intelligenza e vigore l’intimo legame tra la carità e la giustizia:  una carità che “tende le mani alla giustizia”, egli diceva”.
“Noi – ha affermato il cardinale – possiamo continuare la sua opera chiedendo oggi alla giustizia di tendere le mani alla carità.
Don Carlo è stato mirabile nell’operare una sintesi concreta di pensiero e di impresa, appellando alle diverse istituzioni pubbliche e insieme alle molteplici forme di volontariato, ponendo come criterio necessario e insuperabile la centralità della persona umana sempre onorata nell’inviolabilità della sua dignità e nella globalità unitaria delle sue dimensioni – fisiche, psichiche e spirituali -, insistendo sull’opera educativa e culturale come decisamente prioritaria per lo sviluppo autentico della società.
Mai egli ha dimenticato il privilegio e comandamento evangelico del servizio agli “ultimi””.
Una menzione poi alla vocazione sacerdotale del nuovo beato:  “Ha vissuto la sua vocazione come impegno leale nel mondo – ha detto il porporato – senza sminuire, anzi arricchendo, il suo essere di sacerdote.
Impegno nel mondo così come si presentava al suo tempo:  lontano dalle nostalgie del passato, calato cordialmente nel presente, aperto, profetico e anticipatore del futuro, mai nel segno del pessimismo o della paura.
Egli era convinto che il tempo nel quale Dio lo aveva chiamato a vivere era il migliore possibile.
Nell’opera Educazione del cuore scrisse:  “Amiamo di un amore geloso il nostro tempo, così grande e così avvilito, così ricco e così disperato, così dinamico e così dolorante, ma in ogni caso sempre sincero e appassionato.
Se avessimo potuto scegliere il tempo della nostra vita e il campo della nostra lotta, avremmo scelto…
il Novecento senza un istante di esitazione””.
Infine, il cardinale ha concluso ricordando le parole di don Gnocchi rivolte al mondo moderno, con le quali “augurava un tempo nuovo, un nuovo tipo di umanità; augurava la personalità cristiana, cioè “cristianesimo e cristiani attivi, ottimisti, sereni, concreti e profondamente umani; che guardano al mondo, non più come a un nemico da abbattere o da fuggire, ma come a un (figlio) prodigo da conquistare e redimere con l’amore”.
Sono parole preziose anche per noi:  amiamo il nostro tempo; impegniamoci nel nostro mondo; portiamo in tutti gli ambienti della nostra vita le speranze umane e la “speranza grande” che ci viene da Cristo, il vincitore della morte e di ogni male”.
(©L’Osservatore Romano – 26-27 ottobre 2009)

Il cielo tra fisica e metafisica

“Una volta mi ero trovato in un monastero in cui si pregava per una badessa ormai agli estremi.
Un giorno fu esposto un annuncio che diceva:  “Ci si deve attendere il peggio”.
Il peggio, sembrava dire, sarebbe stato che ella andasse in cielo”.
Con questo aneddoto segnato da un’ironia bonaria ma non per questo meno pungente, il benedettino Jean Leclercq, importante studioso di san Bernardo e della letteratura cristiana medievale, evocava un simbolo tanto esaltato da tutte le civiltà ma anche un po’ esorcizzato proprio per la sua “trascendenza” rispetto all’orizzonte terreno ove abbiamo ben piantati piedi e radici.
In modo analogo il celebre asserto finale della Critica della ragion pratica kantiana – “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di riverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e a lungo il pensiero vi si sofferma:  il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me” – è nei nostri giorni gaudenti decisamente accantonato.
Il cielo, infatti, è nascosto spesso da una coltre di smog e la legge morale è subito tacitata dalla sguaiatezza e dalla superficialità.
Eppure da quando l’uomo ha conquistato la stazione eretta e ha levato il capo verso l’alto, il cielo ha continuato ad attirare.
Ricordo una bella ballata di uno scrittore a me molto caro per amicizia, Luigi Santucci:  in essa una tartaruga ribaltata dal calcio di un passante, dopo il primo smarrimento, si lasciava conquistare dalla nuova contemplazione degli spazi celesti che prima le era vietata.
Nel suo Diario Anna Frank scriveva:  “Prova anche tu, una volta che ti senti solo o infelice o triste, a guardare fuori dalla soffitta quando il tempo è bello.
Non le case o i tetti, ma il cielo.
Finché potrai guardare il cielo senza timori, sarai sicuro di essere puro dentro e tornerai a essere felice”.
E a lei faceva eco Etty Hillesum quando nel suo intenso diario composto nel lager di Auschwitz annotava al 14 luglio 1942:  “Esisterà pur sempre un pezzetto di cielo da poter guardare e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera”.
Nell’immensità cosmica celeste, però, da secoli puntano il loro sguardo anche gli strumenti delle rilevazioni astrofisiche e non solo l’occhio vivido del poeta o del credente.
E anche la visione scientifica non è priva di fremiti e di emozioni, al punto tale che in passato s’intrecciavano – persino nello stesso Galileo – senza imbarazzi astronomia e astrologia.
Lo stesso scienziato moderno, configgendo i suoi telescopi più sofisticati in quelle distese sterminate, non di rado adotta categorie, linguaggi, schemi interpretativi di matrice simbolica per formulare le sue teorie.
Per questo la mostra “Astrum 2009”, collocata nell’Anno internazionale dell’astronomia e nel quarto centenario dell’invenzione del telescopio, si presenta attraverso una serie di strumenti e di testi non riducibili a meri mezzi di ricerca attorno a quelle che sono ancor oggi classificate come “meccaniche celesti”, ma capaci anche di evocare quell’infinito che ci avvolge e ci sconvolge, ci attira e ci impaura.
Noi che non siamo scienziati, percorrendo l’affascinante itinerario espositivo della mostra, siamo invitati a non perdere mai questa straordinaria dualità che è in noi.
Certo, siamo uomini che rilevano i “fenomeni”, la “scena” come si è soliti dire oggi, ma al tempo stesso non esitiamo a investigare anche sul “fondamento” della realtà.
Fisica e metafisica, certo, corrono su livelli diversi:  sono i due famosi non-overlapping-magisteria, cioè i due percorsi conoscitivi non sovrapponibili della scienza e della filosofia o teologia o poesia, come diceva lo scienziato americano Stephen Gould.
Eppure questi due percorsi non si respingono, anzi, nella nostra conoscenza si guardano, dialogano e si ascoltano reciprocamente.
Il cielo, così, è il “continente universale, lo spacio immenso, l’eterea regione per la quale tutto discorre e si muove”, come scriveva Giordano Bruno in uno dei suoi Dialoghi italiani, quello “de l’infinito universo e mondi”, ma è anche la suprema metafora della trascendenza, dell’oltre e dell’altro rispetto al qui e al noi immanente.  La stessa Bibbia rivela questa duplicità.
Innanzitutto, infatti, essa ci offre una precisa cosmologia, ovviamente modellata sulla scienza arcaica, fiorita in Mesopotamia, in Egitto e in Persia, e non priva di una sua analisi sofisticata.
Il cielo, così, è tratteggiato come una gigantesca cupola luminosa detta in ebraico raqia’, cioè firmamento, sostenuta da colonne cosmiche le cui fondazioni penetrano, oltre la superficie terrestre orizzontale, nell’abisso caotico e infernale, antipodo del cielo.
Una cupola sopra la quale freme l’oceano celeste, il cui flusso d’acqua, regolato da grandi serrande, può disseminare sulla terra la pioggia benefica o il diluvio devastatore.
È per questo che appare, fin dalla prima, famosa pagina biblica della creazione del cielo e della terra (capitolo 1 della Genesi), la distinzione tra le “acque superiori” celesti e quelle “inferiori” dello sterminato bacino del mare.
Dal colossale serbatoio celeste scendono, dunque, acqua, grandine, brina, neve, venti, nubi e tempeste:  “Dal Signore degli eserciti sarai visitata – canta Isaia (29, 6) – con tuoni, rimbombi e rumore assordante, con uragano e tempesta e fiamme di fuoco divoratore”.
Il mirabile Salmo dei sette tuoni, il 29, è tutto scandito dal risuonare della parola onomatopeica ebraica qôl che significa sia “tuono” sia “voce” (divina).
Le immagini per raffigurare la cupola celeste si moltiplicheranno:  essa è simile a un rotolo dispiegato, dice Isaia (34, 4), che ricorre anche all’idea di un velo o di una tenda da beduini distesa dal Creatore con un gesto possente (40, 22); è una specie di basamento per un palazzo reale divino dal quale – è lo stesso testo isaiano ad affermarlo in modo pittoresco – Dio “siede e di lassù gli abitanti del mondo sembrano cavallette”.
Sulla maestosa volta del cielo sono appesi “i grandi luminari”, cioè il Sole e la Luna, veri e propri orologi cosmici e liturgici per le stagioni, per il calendario delle feste e per il ritmo circadiano; su quella volta sono fissate le stelle e le costellazioni – l’Orsa, Orione e le Pleiadi sono citate ad esempio in Giobbe 9, 9 – e i pianeti, Venere, “Lucifero”, è evocato da Isaia (14, 12), mentre Saturno, “Chiion”, da Amos (5, 26).
È significativo osservare che, mentre nell’antico Vicino Oriente il Sole, la Luna e gli astri sono divinità, per la Bibbia essi sono “laicamente” semplici creature comandate dal Creatore nel loro lavoro e nelle loro orbite:  “Sorge il Sole, tramonta il Sole affannandosi verso quel luogo da cui rispunterà” (Qohelet, 1, 5); Dio “ha assegnato al Sole una tenda:  esce come uno sposo dalla stanza nuziale, si esalta come un eroe che corre sulla sua strada; sorge da un estremo del cielo, la sua orbita raggiunge l’altro estremo:  al suo calore non v’è riparo!” (Salmi, 19, 5-7).
Tuttavia non c’è soluzione di continuità quando si passa dalla rilevazione sperimentale “scientifica” alla celebrazione del valore simbolico che astri e spazi cosmici contengono.
Scegliamo solo un paio di esempi, desunti dal Salterio.
Pensiamo al salmo 19 che introduce una sorprendente “narrazione” che il cielo personificato e il ritmo temporale ci rivolgono, senza ricorrere a parole; eppure si tratta di una voce potente e planetaria.
Ecco il canto del salmista:  “I cieli narrano la gloria di Dio, il firmamento annunzia l’opera delle sue mani, il giorno al giorno affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette la notizia, senza linguaggio e senza parole, senza che si oda la loro voce.
Eppure per tutta la Terra si espande il loro annunzio, sino ai confini del mondo va il loro messaggio” (vv.
2-5).
“Dio ha dato un tal linguaggio alla sua creazione che, parlando di se stessa, essa non può non parlare di Lui, Dio”, commentava Karl Barth.  La lezione teologica del cielo può essere altre volte inquietante ed esaltante al tempo stesso.
È il caso di quel gioiello assoluto che è il salmo 8.
Nel “silenzio eterno degli spazi infiniti”, quella “canna pensante” che è l’uomo – per usare la famosa espressione di Pascal – è solo un granello microscopico.
Ancor più insignificante è la sua entità di fronte a un Dio creatore che ricama nel cielo con le sue dita le costellazioni e i pianeti.
Eppure è proprio questo Dio che si china sull’uomo e lo incorona rendendolo di poco inferiore a se stesso, sovrano dell’orizzonte cosmico.
Ascoltiamo il corpus centrale dell’inno nella versione poetica di David Maria Turoldo:  “Quando il cielo contemplo e la Luna / e le stelle che accendi nell’alto, / io mi chiedo davanti al creato:  / cosa è l’uomo perché lo ricordi? / Cosa è mai questo figlio dell’uomo / che tu abbia di lui tale cura? / Inferiore di poco a un dio, / coronato di forza e di gloria! / Tu l’hai posto Signore al creato, / a lui tutte le cose affidasti:  / ogni specie di greggi e d’armenti, / e animali e fiere dei campi, / le creature dell’aria e del mare/ e i viventi di tutte le acque” (vv.
4-9).
L’intreccio tra meteorologia e simbologia teologica è adottato in modo folgorante anche da Gesù quando protesta perché i suoi interlocutori sanno usare il cielo solo come campo di previsioni climatiche, pur legittime, e non lo considerano anche come segno di intuizioni epocali trascendenti:  “Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite:  “Viene la pioggia”, e così accade.
E quando soffia lo scirocco, dite:  “Farà caldo”, e così accade.
Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete giudicarlo?” (Luca, 12, 54-56).
È forse un po’ anche per questo che spesso spiritualità cristiana e scienza si sono abbracciate, a partire da personaggi come Isidoro, vescovo di Siviglia (VI-VII secolo), che nei suoi Etymologiarum sive originum libri xx distingueva tra astronomia e astrologia, ma intrecciava filologia e allegoria.
O come il teologo raffinato Beda il Venerabile (VIII secolo) che era già allora convinto della sfericità della Terra (“come una palla da gioco”), che tentava di calcolare l’età del nostro pianeta rispetto al cosmo e che si cimentava nella cronologia (De temporum ratione).
L’elenco potrebbe continuare a lungo seguendo un qualsiasi manuale di storia dell’astronomia:  il monaco benedettino Abelardo di Bath (XII secolo), traduttore di testi scientifici arabo-indiani, l’arcidiacono catanese Enrico Aristippo (XII secolo), divulgatore dell’Almagesto di Tolomeo, per non parlare dei grandi Cusano, Copernico, Clavius, anch’essi religiosi.
Curiosa è la passione astronomica di alcuni Papi, a partire dal celebre Silvestro ii (Gerberto d’Aurillac), costruttore di astrolabi e sfere armillari e scienziato poliedrico, passando attraverso Gregorio XIII, l’artefice dell’omonimo calendario, per giungere a Pio x che sapeva approntare orologi solari, senza dimenticare la gloriosa Specola Vaticana, fondata nel 1789, esaltata dalle ricerche astrofisiche del gesuita Angelo Secchi, il primo classificatore delle stelle sulla base dei loro spettri.
Questa istituzione è all’origine della citata mostra “Astrum 2009” che si inaugura giovedì nei Musei Vaticani.
Le stelle, quindi, s’accendono non solo per consegnare la loro luce agli astronomi ma anche per far brillare gli occhi dell’anima, nella fede e nella poesia, tant’è vero che nell’Apocalisse Cristo non esita a presentarsi come “la stella radiosa dell’alba” (22, 16).
C’è il rischio, però, che il clamore, l’eccitazione e la distrazione ci impediscano di contemplare il cielo sia come realtà sia come simbolo.
Diceva il filosofo cinese Han Fei (III secolo prima dell’era cristiana):  “Nell’acqua di uno stagno si specchia il cielo.
Ma se vi getti un sasso, l’immagine si romperà in cerchi concentrici e il cielo sparirà”.
(©L’Osservatore Romano – 14 ottobre 2009)

Poveri perchè soli

Sua Em.za Card.
Angelo Bagnasco, Presidente della CEI, è intervenuto l’8 ottobre 2009 a Roma, presso la Sala Protomoteca in Campidoglio, in occasione della pubblicazione de “La povertà alimentare in Italia.
Prima indagine quantitativa e qualitativa”.
L’indagine è promossa dalla Fondazione per la Sussidiarietà e dalla Fondazione Banco Alimentare Onlus.
Ulteriori informazioni sono disponibili nei siti internet www.sussidiarietà.net e www.bancoalimentare.it Documenti allegati:Relazione Card.
Bagnasco.doc

Prontuario giuridico per gli insegnanti di Religione Cattolica

Questo prontuario in formato “quaderno a sequenza alfabetica”, vuole essere un agile strumento di lavoro, dalla consultazione rapida ed efficace, da utilizzare per una migliore conoscenza dei diritti e dei doveri degli IdR e per una corretta collocazione del loro ruolo e della disciplina all’interno del sistema scolastico pubblico statale.
Per la consultazione: Prontuario IdRI parte                                             > > >   more Prontuario IdRII parte

Caterina addormentata nelle mani del Padre…

Caterina addormentata nelle mani del Padre… Caro direttore, la mia Caterina ha gli occhi bellissimi.
La sua giovinezza ora è distesa su un letto di luce e di dolore.
E’ come una Bella addormentata.
Ma crocifissa.
Mi trovo involontariamente “inviato” nelle regioni del dolore estremo e in questo panorama dolente – se un angelo tiene guinzaglio l’angoscia – ci sono diverse cose che mi pare di cominciare a capire.
La prima notizia è che il mio cuore batte.
Il nostro cuore continua a battere.
So bene che normalmente la cosa non fa notizia.
Neanche la si considera.
Finchè non capita che a tua figlia, nei suoi 24 anni raggianti di vita, alla vigilia della laurea in architettura per cui ha studiato cinque anni, d’improvviso una sera il cuore si ferma e senza alcuna ragione.
Si ferma di colpo (o, come dicono, va in fibrillazione).
Lì, quando ti si spalanca davanti quell’abisso improvviso che ti fa urlare uno sconfinato “noooooo!!!”, cominci a capire: è la cosa meno scontata del mondo che in questo preciso istante il cuore dei tuoi bimbi, il mio cuore o il tuo, amico lettore, batta.
Quante volte ho sentito don Giussani stupirci con questa evidenza: che nessuno fa battere volontariamente il proprio cuore.
E’ come un dono che si riceve di continuo senza accorgersi.
Istante per istante dipendiamo da Qualcun Altro che ci dà vita… Ci illudiamo di possedere mille cose, di essere chissacchì, ma così clamorosamente non possediamo noi stessi.
Un Altro ci fa.
In ogni attimo.
Vengono le vertigini a pensarci.
Allora si può solo mendicare, come poveri che non hanno nulla, neanche se stessi, un altro battito e un altro respiro ancora dal Signore della Vita (“Gesù nostro respiro”, diceva un grande santo).
Certo, si ricorre a tutti i mezzi umani e a tutte le cure mediche.
Sono eccezionali e personalmente debbo ringraziare degli ottimi medici, competenti e umani.
Ma anch’essi sanno di avere poteri limitati, non possono arrivare all’impossibile, non potrebbero nulla se non fosse concesso dall’alto e poi se non fossero “illuminati” e guidati.
Rex tremendae maiestatis… E’ Lui il padrone e la fonte della vita e di ogni cosa che è.
E i nostri bambini e le nostre figlie sono suoi.
E’ teneramente loro Padre.
Allora – con tutte le nostre pretese annichilite e l’anima straziata – ci si scopre poveri di tutto a mendicare la vita da “Colui che esaudisce le preghiere…”.
Mendico di poter avere un sorriso da mia figlia, uno sguardo, una parola… D’improvviso ciò che sembrava la cosa più ovvia e scontata del mondo, ti appare come la più preziosa e quasi un sogno impossibile… Son pronto a dare tutto, tutto quello che ho, tutto quello che so e che sono, darei la vita sessa per quel tesoro.
Ci affanniamo sempre per mille cause, obiettivi, ambizioni che ci sembrano importanti da farci trascurare i figli.
Ma oggi come appare tutto senza alcun valore al confronto dello sguardo di una figlia, alla sua giovinezza in piena fioritura… Un gran dono ha fatto Dio agli uomini rendendoli padri e madri: così tutti possono sperimentare che significhi amare un’altra creatura più di se stessi.
E così abbiamo una pallida idea del Suo amore e della Sua compassione per noi… Caterina è una Sua prediletta, come tutti coloro che soffrono.
Mi tornano in mente le parole di quella canzone spagnola cantata dalla mia principessa e dedicata alla Madonna, “Ojos de cielo”, che dice: “Occhi di cielo, occhi di cielo/non abbandonarmi in pieno volo”.
Riascolto il suo canto, con il nodo alla gola, come la sua preghiera: “Se guardo il fondo dei tuoi occhi teneri/mi si cancella il mondo con tutto il suo inferno./ Mi si cancella il mondo e scopro il cielo/quando mi tuffo nei tuoi occhi teneri./ Occhi di cielo, occhi di cielo,/non abbandonarmi in pieno volo./ Occhi di cielo, occhi di cielo,/tutta la mia vita per questo sogno…/ Se io mi dimenticassi di ciò che è sincero/ i tuoi occhi di cielo me lo ricorderebbero,/ se io mi allontanassi dal vero./ Occhi di cielo…” E infine quest’ultima strofa che oggi suona come un presagio: “Se il sole che mi illumina un giorno si spegnesse/e una notte buia vincesse sulla mia vita,/i tuoi occhi di cielo mi illuminerebbero,/ i tuoi occhi sinceri, che sono per me cammino e guida./Occhi di cielo…”.
E’ con questa speranza certa che subito ho affidato il mio tesoro e la sua guarigione nelle mani della sua tenera Madre del Cielo.
Per le parole, chiare e intramontabili di Gesù che ci incitano “chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”, che promettono “qualunque cosa chiederete al Padre nel mio nome, egli ve la darà” e che esortano a implorare senza stancarsi mai come la vedova importuna del Vangelo (che – se non altro per la sua insistenza – verrà esaudita).
Sappiamo che la Regina del Cielo è con noi: pronta ad aprirci le porte dei forzieri delle grazie.
E’ lei infatti il rifugio degli afflitti e la nostra meravigliosa Avvocata che può ottenere tutto dal Figlio.
Già il primo miracolo, a Cana, gli fu dolcemente “rubato” da lei che ebbe pietà di quella povera gente… In questi giorni ho ricordato le parole del Montfort e quella di S.
Alfonso Maria de’ Liguori, “Le glorie di Maria”.
E’ stupefacente come duemila anni di santi e sante ci invitano a essere certi del soccorso della Madonna perché “non si è mai sentito che qualcuno sia ricorso alla tua protezione, abbia implorato il tuo aiuto, abbia cercato il tuo soccorso e sia stato abbandonato” (San Bernardo).
“Ogni bene, ogni aiuto, ogni grazia che gli uomini hanno ricevuto e riceveranno da Dio sino alla fine del mondo, tutto è venuto e verrà loro per intercessione e per mezzo di Maria” (S.
Alfonso), perché così Dio ha voluto.
Infatti “nelle afflizioni tu consoli” chi in te confida, “nei pericoli tu soccorri” chi ti chiama: tu “speranza dei disperati e soccorso degli abbandonati”.
Misero me se non la riconoscessi come Madre, convertendomi (questo significa: “Sia fatta la tua volontà”) e lasciandomi guarire nell’anima.
Per ottenere anche la guarigione del corpo.
Ma quanto è commovente accorgersi di avere una simile Madre quando si sente concretamente il suo mantello protettivo fatto dai tanti fratelli e sorelle nella fede, pronti ad aiutarti, dai giovani amici di Caterina, bei volti luminosi che condividono l’esperienza cristiana suscitata da don Giussani, dai tantissimi amici di parrocchie, comunità, dagli innumerevoli conventi di clausura e santuari – compresi radio e internet – dove in questi giorni si invoca la Madonna per Caterina.
Come non commuoversi? Ho ricevuto decine di mail anche da persone lontane dalla fede che, per la commozione della vicenda di mia figlia, sono tornate a pregare, si sono riaccostate ai sacramenti dopo anni.
E hanno compreso di avere una Madre buona che si può implorare e che non delude.
Ma è anzitutto della mia conversione che voglio parlare.
Ci è chiesto un distacco totale da tutto ciò che non vale e non dura.
Perché solo Dio non passa.
Cioè resta l’amore.
Così quando ho saputo dei 4 mila bambini malati di un lebbrosario in India che, con i missionari (uomini di Dio stupendi e immensi), hanno pregato per la guarigione di Caterina, dopo l’emozione ho capito che quei bimbi da oggi fanno parte di me, della mia vita e della mia famiglia.
E così pure i poveri moribondi curati da padre Aldo Trento in Paraguay che hanno offerto le loro sofferenze per Caterina.
Voglio aiutarli come posso.
Portando tutto il dolore del mondo sotto il mantello della Madre di Dio, affido a lei la guarigione di Caterina, perché torni a cantare “Ojos de cielo” per tutti i poveri della nostra Regina.
“Mia Signora, tu sola sei la consolazione che Dio mi ha donato, la guida del mio pellegrinaggio, la forza della mia debolezza, la ricchezza della mia miseria, la guarigione delle mie ferite, il sollievo dei miei dolori, la liberazione dalle mie catene, la speranza della mia salvezza: esaudisci le mie suppliche, abbi pietà dei miei sospiri, tu che sei la mia regina, il rifugio, l’aiuto, la vita, la speranza e la mia forza” (S.
Germano).
(su “Libero” del 6 ottobre 2009)

Una risposta vera al desiderio di felicità dei giovani

Al termine della messa celebrata a Stará Boleslav nella mattina di lunedì 28 settembre, solennità di san Venceslao e festa nazionale della Repubblica Ceca, il Papa ha rivolto un messaggio ai numerosi giovani presenti nella spianata sulla via di Melnik.
Dopo il saluto di un ragazzo, Benedetto XVI ha pronunciato il discorso che pubblichiamo di seguito.
Cari giovani! Al termine di questa celebrazione, mi rivolgo direttamente a voi e innanzitutto vi saluto con affetto.
Siete venuti numerosi da tutto il Paese e anche dai Paesi vicini; vi siete “accampati” qui ieri sera e avete pernottato nelle tende, facendo insieme un’esperienza di fede e di fraternità.
Grazie per questa vostra presenza, che mi fa sentire l’entusiasmo e la generosità che sono propri della giovinezza.
Con voi anche il Papa si sente giovane! Un ringraziamento particolare rivolgo al vostro rappresentante per le sue parole e per il meraviglioso dono.
Cari amici, non è difficile costatare che in ogni giovane c’è un’aspirazione alla felicità, talvolta mescolata a un senso di inquietudine; un’aspirazione che spesso però l’attuale società dei consumi sfrutta in modo falso e alienante.
Occorre invece valutare seriamente l’anelito alla felicità che esige una risposta vera ed esaustiva.
Nella vostra età infatti si compiono le prime grandi scelte, capaci di orientare la vita verso il bene o verso il male.
Purtroppo non sono pochi i vostri coetanei che si lasciano attrarre da illusori miraggi di paradisi artificiali per ritrovarsi poi in una triste solitudine.
Ci sono però anche tanti ragazzi e ragazze che vogliono trasformare, come ha detto il vostro portavoce, la dottrina nell’azione per dare un senso pieno alla loro vita.
Vi invito tutti a guardare all’esperienza di sant’Agostino, il quale diceva che il cuore di ogni persona è inquieto fino a quando non trova ciò che veramente cerca.
Ed egli scoprì che solo Gesù Cristo era la risposta soddisfacente al desiderio, suo e di ogni uomo, di una vita felice, piena di significato e di valore (cfr.
Confessioni i, 1, 1).
Come ha fatto con lui, il Signore viene incontro a ciascuno di voi.
Bussa alla porta della vostra libertà e chiede di essere accolto come amico.
Vi vuole rendere felici, riempirvi di umanità e di dignità.
La fede cristiana è questo: l’incontro con Cristo, Persona viva che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva.
E quando il cuore di un giovane si apre ai suoi divini disegni, non fa troppa fatica a riconoscere e seguire la sua voce.
Il Signore infatti chiama ciascuno per nome e a ognuno vuole affidare una specifica missione nella Chiesa e nella società.
Cari giovani, prendete consapevolezza che il Battesimo vi ha resi figli di Dio e membri del suo Corpo che è la Chiesa.
Gesù vi rinnova costantemente l’invito a essere suoi discepoli e suoi testimoni.
Molti di voi li chiama al matrimonio e la preparazione a questo Sacramento costituisce un vero cammino vocazionale.
Considerate allora seriamente la chiamata divina a costituire una famiglia cristiana e la vostra giovinezza sia il tempo in cui costruire con senso di responsabilità il vostro futuro.
La società ha bisogno di famiglie cristiane, di famiglie sante! Se poi il Signore vi chiama a seguirlo nel sacerdozio ministeriale o nella vita consacrata, non esitate a rispondere al suo invito.
In particolare, in quest’Anno Sacerdotale, mi appello a voi, giovani: siate attenti e disponibili alla chiamata di Gesù a offrire la vita al servizio di Dio e del suo popolo.
La Chiesa, anche in questo Paese, ha bisogno di numerosi e santi sacerdoti e di persone totalmente consacrate al servizio di Cristo, Speranza del mondo.
La speranza! Questa parola, su cui torno spesso, si coniuga proprio con la giovinezza.
Voi, cari giovani, siete la speranza della Chiesa! Essa attende che voi vi facciate messaggeri della speranza, com’è avvenuto l’anno scorso, in Australia, per la Giornata Mondiale della Gioventù, grande manifestazione di fede giovanile, che ho potuto vivere personalmente e alla quale alcuni di voi hanno preso parte.
Molti di più potrete venire a Madrid, nell’agosto 2011.
Vi invito fin da ora a questo grande raduno dei giovani con Cristo nella Chiesa.
Cari amici, grazie ancora per la vostra presenza e grazie per il vostro dono: il libro con le foto che raccontano la vita dei giovani nelle vostre diocesi.
Grazie anche per il segno della vostra solidarietà verso i giovani dell’Africa, che mi avete voluto consegnare.
Il Papa vi chiede di vivere con gioia ed entusiasmo la vostra fede; di crescere nell’unità tra di voi e con Cristo; di pregare e di essere assidui nella pratica dei Sacramenti, in particolare dell’Eucaristia e della Confessione; di curare la vostra formazione cristiana rimanendo sempre docili agli insegnamenti dei vostri Pastori.
Vi guidi su questo cammino san Venceslao con il suo esempio e la sua intercessione, e sempre vi protegga la Vergine Maria, Madre di Gesù e Madre nostra.
Vi benedico tutti con affetto! (©L’Osservatore Romano – 28-29 settembre 2009)

Bisogna sottrarre la cultura alle pressioni di interessi ideologici o economici

I rappresentanti accademici e delle istituzioni culturali della Repubblica Ceca hanno partecipato all’incontro con il Papa svoltosi nella serata di domenica 27 settembre, nel castello di Praga.
Dopo il saluto di uno studente e del rettore dell’Università Carlo, il Pontefice ha pronunciato in inglese il discorso che pubblichiamo di seguito.
Questa traduzione italiana del discorso del Papa è dell’Osservatore Romano.
Signor Presidente, Illustri Rettori e Professori, Cari Studenti ed Amici, L’incontro di questa sera mi offre la gradita opportunità di manifestare la mia stima per il ruolo indispensabile che svolgono nella società le università e gli istituti di studi accademici.
Ringrazio lo studente che mi ha gentilmente salutato in vostro nome, i membri del coro universitario per la loro ottima interpretazione e l’illustre Rettore dell’Università Carlo, il Professor Václav Hampl, per le sue profonde parole.
Il mondo accademico, sostenendo i valori culturali e spirituali della società e insieme offrendo a essi il proprio contributo, svolge il prezioso servizio di arricchire il patrimonio intellettuale della nazione e di fortificare le fondamenta del suo futuro sviluppo.
I grandi cambiamenti che venti anni fa trasformarono la società ceca furono causati, non da ultimo, dai movimenti di riforma che si originarono nelle università e nei circoli studenteschi.
Quella ricerca di libertà ha continuato a guidare il lavoro degli studiosi: la loro diakonia alla verità è indispensabile al benessere di qualsiasi nazione.
Chi vi parla è stato un professore, attento al diritto della libertà accademica e alla responsabilità per l’uso autentico della ragione, e ora è il Papa che, nel suo ruolo di Pastore, è riconosciuto come voce autorevole per la riflessione etica dell’umanità.
Se è vero che alcuni ritengono che le domande sollevate dalla religione, dalla fede e dall’etica non abbiano posto nell’ambito della ragione pubblica, tale visione non è per nulla evidente.
La libertà che è alla base dell’esercizio della ragione – in una università come nella Chiesa – ha uno scopo preciso: essa è diretta alla ricerca della verità, e come tale esprime una dimensione propria del Cristianesimo, che non per nulla ha portato alla nascita dell’università.
In verità, la sete di conoscenza dell’uomo spinge ogni generazione ad ampliare il concetto di ragione e ad abbeverarsi alle fonti della fede.
È stata proprio la ricca eredità della sapienza classica, assimilata e posta a servizio del Vangelo, che i primi missionari cristiani hanno portato in queste terre e stabilita come fondamento di un’unità spirituale e culturale che dura fino a oggi.
La medesima convinzione condusse il mio predecessore, Papa Clemente vi, a istituire nel 1347 questa famosa Università Carlo, che continua ad offrire un importante contributo al più vasto mondo accademico, religioso e culturale europeo.
L’autonomia propria di una università, anzi di qualsiasi istituzione scolastica, trova significato nella capacità di rendersi responsabile di fronte alla verità.
Ciononostante, quell’autonomia può essere resa vana in diversi modi.
La grande tradizione formativa, aperta al trascendente, che è all’origine delle università in tutta Europa, è stata sistematicamente sovvertita, qui in questa terra e altrove, dalla riduttiva ideologia del materialismo, dalla repressione della religione e dall’oppressione dello spirito umano.
Nel 1989, tuttavia, il mondo è stato testimone in maniera drammatica del rovesciamento di una ideologia totalitaria fallita e del trionfo dello spirito umano.
L’anelito per la libertà e la verità è parte inalienabile della nostra comune umanità.
Esso non può mai essere eliminato e, come la storia ha dimostrato, può essere negato solo mettendo in pericolo l’umanità stessa.
È a questo anelito che cercano di rispondere la fede religiosa, le varie arti, la filosofia, la teologia e le altre discipline scientifiche, ciascuna col proprio metodo, sia sul piano di un’attenta riflessione che su quello di una buona prassi.
Illustri Rettori e Professori, assieme alla vostra ricerca c’è un ulteriore essenziale aspetto della missione dell’università in cui siete impegnati, vale a dire la responsabilità di illuminare le menti e i cuori dei giovani e delle giovani di oggi.
Questo grave compito non è certamente nuovo.
Sin dai tempi di Platone, l’istruzione non consiste nel mero accumulo di conoscenze o di abilità, bensì in una paideia, una formazione umana nelle ricchezze di una tradizione intellettuale finalizzata a una vita virtuosa.
Se è vero che le grandi università, che nel medioevo nascevano in tutta Europa, tendevano con fiducia all’ideale della sintesi di ogni sapere, ciò era sempre a servizio di un’autentica humanitas, ossia di una perfezione dell’individuo all’interno dell’unità di una società bene ordinata.
Allo stesso modo oggi: una volta che la comprensione della pienezza e unità della verità viene risvegliata nei giovani, essi provano il piacere di scoprire che la domanda su ciò che essi possono conoscere dispiega loro l’orizzonte della grande avventura su come debbano essere e cosa debbano compiere.
Deve essere riguadagnata l’idea di una formazione integrale, basata sull’unità della conoscenza radicata nella verità.
Ciò può contrastare la tendenza, così evidente nella società contemporanea, verso la frammentazione del sapere.
Con la massiccia crescita dell’informazione e della tecnologia nasce la tentazione di separare la ragione dalla ricerca della verità.
La ragione però, una volta separata dal fondamentale orientamento umano verso la verità, comincia a perdere la propria direzione.
Essa finisce per inaridire o sotto la parvenza di modestia, quando si accontenta di ciò che è puramente parziale o provvisorio, oppure sotto l’apparenza di certezza, quando impone la resa alle richieste di quanti danno in maniera indiscriminata uguale valore praticamente a tutto.
Il relativismo che ne deriva genera un camuffamento, dietro cui possono nascondersi nuove minacce all’autonomia delle istituzioni accademiche.
Se per un verso è passato il periodo di ingerenza derivante dal totalitarismo politico, non è forse vero, dall’altro, che di frequente oggi nel mondo l’esercizio della ragione e la ricerca accademica sono costretti – in maniera sottile e a volte nemmeno tanto sottile – a piegarsi alle pressioni di gruppi di interesse ideologici e al richiamo di obiettivi utilitaristici a breve termine o solo pragmatici? Cosa potrà accadere se la nostra cultura dovesse costruire se stessa solamente su argomenti alla moda, con scarso riferimento a una tradizione intellettuale storica genuina o sulle convinzioni che vengono promosse facendo molto rumore e che sono fortemente finanziate? Cosa potrà accadere se, nell’ansia di mantenere una secolarizzazione radicale, finisse per separarsi dalle radici che le danno vita? Le nostre società non diventeranno più ragionevoli o tolleranti o duttili, ma saranno piuttosto più fragili e meno inclusive, e dovranno faticare sempre di più per riconoscere quello che è vero, nobile e buono.
Cari amici, desidero incoraggiarvi in tutto quello che fate per andare incontro all’idealismo e alla generosità dei giovani di oggi, non solo con programmi di studio che li aiutino a eccellere, ma anche mediante l’esperienza di ideali condivisi e di aiuto reciproco nella grande impresa dell’apprendere.
Le abilità di analisi e quelle richieste per formulare un’ipotesi scientifica, unite alla prudente arte del discernimento, offrono un antidoto efficace agli atteggiamenti di ripiegamento su se stessi, di disimpegno e persino di alienazione che talvolta si trovano nelle nostre società del benessere e che possono colpire soprattutto i giovani.
In questo contesto di una visione eminentemente umanistica della missione dell’università, vorrei accennare brevemente al superamento di quella frattura tra scienza e religione che fu una preoccupazione centrale del mio predecessore, il Papa Giovanni Paolo II.
Egli, come sapete, ha promosso una più piena comprensione della relazione tra fede e ragione, intese come le due ali con le quali lo spirito umano è innalzato alla contemplazione della verità (cfr.
Fides et ratio, Proemio) L’una sostiene l’altra e ognuna ha il suo proprio ambito di azione (cfr.
ibid., 17), nonostante vi siano ancora quelli che vorrebbero disgiungere l’una dall’altra.
Coloro che propongono questa esclusione positivistica del divino dall’universalità della ragione non solo negano quella che è una delle più profonde convinzioni dei credenti: essi finiscono per contrastare proprio quel dialogo delle culture che loro stessi propongono.
Una comprensione della ragione sorda al divino, che relega le religioni nel regno delle subculture, è incapace di entrare in quel dialogo delle culture di cui il nostro mondo ha così urgente bisogno.
Alla fine, la “fedeltà all’uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà” (Caritas in veritate, 9).
Questa fiducia nella capacità umana di cercare la verità, di trovare la verità e di vivere secondo la verità portò alla fondazione delle grandi università europee.
Certamente noi dobbiamo riaffermare questo oggi per donare al mondo intellettuale il coraggio necessario per lo sviluppo di un futuro di autentico benessere, un futuro veramente degno dell’uomo.
Con queste riflessioni, cari amici, formulo nella preghiera i migliori auspici per il vostro impegnativo lavoro.
Prego affinché esso sia sempre ispirato e diretto da una sapienza umana che ricerca sinceramente la verità che ci rende liberi (cfr.
8, 28).
Su di voi e sulle vostre famiglie invoco la benedizione della gioia e della pace di Dio.
(©L’Osservatore Romano – 28-29 settembre 2009)

XXVI Domenica del tempo ordinario (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Numeri 11,25-29 In quei giorni, il Signore scese nella nube e parlò a Mo-sè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito.
Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad.
E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda.
Si misero a profetizza-re nell’accampamento.
Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè e disse: «Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento».
Giosuè, figlio di Nun, servitore di Mo-sè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse: «Mo-sè, mio signore, impediscili!».
Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!».
Il c.
10 dei Numeri ha concluso la raccolta dei testi dedicati alla rivelazione del Sinai e col c.
11 riprende il viaggio faticoso e pieno di imprevisti verso la terra promessa.
Mosè, dopo l’ennesimo lamento del popolo, scoraggiato davanti alla vastità del compito a lui affidato, si lamenta a sua volta col Signore.
«Perché hai agito così male verso il tuo servo? E perché non ho trovato grazia presso di te, così che tu mi abbia messo addosso tut-to il peso di questo popolo? Ho forse concepito io tutto questo popolo? L’ho forse generato io, perché tu mi dica: portalo in collo, come una balia un lattante…
Non posso io solo reg-gere tutto questo popolo…
Ma se tu vuoi trattarmi in tal modo, deh uccidimi» (Num 11,10-12.14-15).
È venuto il momento di non affidarsi più al solo carisma di un capo, ma di perfezionare le istituzioni per assicurare la sopravvivenza del popolo.
Dio viene incontro alla richiesta di Mosè e gli ordina di radunare settanta anziani.
Mosè allora compila la lista degli anziani e li invita intorno alla tenda del convegno.
Siamo così al brano di oggi che si snoda in tre quadri: 1.
«Il Signore scese nella nube e parlò a Mosè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose so-pra i settanta uomini anziani» (Num 11,25).
Essi ricevono lo spirito di Mosè.
Il loro carisma, diremmo con la parola moderna, è lo stesso dato alla loro guida.
Essi hanno, per così dire, un potere delegato, che vale se esercitato insieme con Mosè.
All’autore biblico, però, non interessa tanto il problema dell’istituzione di un consiglio in aiuto di Mosè, quanto quello dell’esercizio della profezia.
Egli annota che «quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fece-ro più in seguito» (v.
25).
Il compito di governo e quello profetico non sono legati automati-camente.
2.
«Erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad.
E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda.
Si misero a profe-tizzare nell’accampamento» (cf.
v.
26).
Il redattore non dice come per gli altri che «Dio prese lo spirito di Mosè».
Eldad e Me-dad hanno direttamente da Dio senza mediazioni il dono dello spirito, che li abilita a pro-fetizzare.
Non c’è nemmeno l’annotazione, come per gli altri, che «non lo fecero più in segui-to» (v.
25): essi diventano profeti e lo rimangono, anche se non hanno accolto l’incarico di aiutare Mosè nel governo del popolo.
3.
Giosuè allora si fa in dovere di avvertire Mosè e gli consiglia di impedire loro di profeta-re.
Egli non riesce a concepire un rapporto personale e libero con Dio senza la mediazione dell’istituzione e un potere che non sia un’emanazione di quello del capo (cf.
v.
27-28).
Mosè, invece, risponde dimostrando grande umiltà e grandezza d’animo: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spiri-to!», (v.
29).
Mosè, potremmo dire, è aperto a una partecipazione democratica di tutto il popolo al suo governo e, soprattutto, riconosce la libertà di Dio e sa apprezzare i suoi doni in chiun-que li abbia ricevuti.
Seconda lettura: Giacomo 5,1-6 Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vo-stri vestiti sono mangiati dalle tarme.
Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggi-ne si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco.
Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vo-stre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le prote-ste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore on-nipotente.
Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage.
Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha oppo-sto resistenza.
I primi tre versetti del brano del c.
5 della lettera di Giacomo, che leggiamo oggi, sono un avvertimento ai ricchi fatto con immagini costruite per impressionare, risvegliare dal-l’illusione del benessere egoista e distogliere dall’ingiustizia: beni imputriditi, vestiti invasi dalle tarme, oro e argento addirittura arrugginiti! Le ricchezze si tramuteranno in «fuoco» per i proprietari, che le hanno accumulate ingiustamente e che sono insensibili ai bisogni altrui, saranno cioè causa della loro distruzione.
Il fuoco del v.
3 fa pensare non solo a un castigo terreno, ma anche a quello escatologico (cf.
ad es.
Am 1,12-14:7,4; Mt 18,8; Mc 9,43.48).
Siamo ormai entrati nel tempo del giudizio, ma i ricchi non se ne sono accorti: «Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni!» (v.
3), «vi siete ingrassati per il giorno della strage».
Le colpe gravissime dei ricchi, enunciate nei vv.
4-6 sono aggravate dall’essere commes-se con continuità, fino all’ultimo giorno di vita, senza badare che la vita è in realtà già fug-gita.
In mezzo alle gozzoviglie non si sono accorti che le grida dei mietitori defraudati «so-no giunte alle orecchie del Signore onnipotente» (v.
4) e si sono fidati, nell’uccidere il giusto, che egli non poteva opporre resistenza (v.
6) e nessuno avrebbe preso le sue difese: la con-danna di chi agisce in questo modo non può che essere definitiva.
Vangelo: Marco 9,38-43.45.47-48 In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo im-pedirglielo, perché non ci seguiva».
Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un mira-colo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cri-sto, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa.
Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare.
Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani anda-re nella Geènna, nel fuoco inestinguibile.
E se il tuo pie-de ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te en-trare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna.
E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».
Esegesi L’episodio riportato nei versetti 38-39 del cap.
9 di Marco ha il suo parallelo in Lc 9,49-50, mentre non è riportato da Matteo.
Del v.
38 esistono due lezioni, questa «Maestro, ab-biamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché (oti) non ci se-guiva» assimilata a Lc 9,49 e un’altra: «abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e che (os) non era dei nostri e…».
Si tratta di una sfumatura interessante per fare la storia della redazione del testo e per cogliere l’atteggiamento dei discepoli, ma che non muta la sostanza del fatto.
La proibizione da parte dei discepoli è un sopruso che Gesù stigmatizza nella sua risposta «Non glielo impedite».
I discepoli non sono padroni della potenza del nome di Gesù; essa è data da Dio e solo Dio ne dispone nei tempi e nei modi che egli ha deciso.
L’avvenuto miracolo attesta che chi l’ha operato ha agito con corretta intenzione: «non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me».
Nella chiesa primitiva, secondo il racconto degli Atti (cf.
19,13), si verificavano usi di-storti del nome di Gesù, ma il fallimento smaschera colui che ha tentato di appropriarsi della sua potenza in modo magico o superstizioso.
Il detto ripreso da Gesù: «chi non è contro di noi è per noi» sottolinea lo spirito di apertu-ra e di accoglienza della risposta di Gesù nei confronti dell’atteggiamento precedente dei discepoli.
Non dobbiamo leggere queste parole di Gesù nella forma contraria dell’altro detto: «Chi non è con me è contro di me» (Mt 12,30; Lc 11,23) e così farne una bandiera per escludere.
C’è infatti una enorme differenza fra il «noi» (Lc 9,50 ha addirittura «voi») e il «me», vale a dire fra il gruppo dei discepoli e Gesù stesso.
È da tenere presente poi che l’e-spressione di Gesù «Chi non è con me è contro di me», va letta anche con il seguito: «chi non raccoglie con me disperde», che fa capire che si tratta di una constatazione, non di un giudizio.
Senza Gesù i discepoli non possono far niente, ma la potenza di Dio manifestata in Gesù non è possesso esclusivo dei discepoli.
L’accostamento fatto dalla liturgia di oggi al brano dei Numeri accentua questa inter-pretazione: Gesù rimprovera i discepoli, come Mosè fa con Giosuè, che vuole impedire la profezia non autorizzata.
Il dono dello Spirito di Dio, la profezia, e la potenza dello Spirito che agisce vanno riconosciuti, non autorizzati dai discepoli.
Anzi, come testimonia l’episo-dio dell’incapacità dei discepoli a guarire un indemoniato (cf.
Mc 9,17s) narrato da Marco nello stesso capitolo, non è l’appartenere alla cerchia dei discepoli, che abilita a «cacciare i demoni», ma il dono di Dio e le disposizioni adatte ad accogliere questo dono.
Il detto del versetto 41 è probabilmente inserito a questo punto per la formula «nel no-me».
Luca non lo riporta e Matteo lo inserisce nell’episodio della missione (Mt 10,42).
I detti che seguono sono accumunati dall’espressione: «essere di intralcio» scandalizzo.
Essi sembrano essere stati compilati con un intento catechetico, con formule che aiutano ad essere ritenute a memoria (cf.
V.
TAYLOR, Marco.
Commento al Vangelo messianico, Assisi 1977, 474-476).
Le rinunce sono in vista di «entrare nella vita» zoê distinta da bios, che indica in genere nel Nuovo Testamento la vita in comunione con Dio.
La Geenna era originariamente il nome di una valle ad ovest di Gerusalemme, dove ve-nivano offerti bambini in sacrificio a Moloch (cf.
2Re 23,10; Ger 7,31; 19,5s), sconsacrata da Giosia venne adibita alla bruciatura dei rifiuti.
Essa divenne in seguito simbolo di luogo di pena.
«Essere gettato nella Geenna» in contrasto con «entrare nella vita» significa la rovina spiri-tuale e forse anche la distruzione.
La precisazione «nel fuoco inestinguibile» è fatta per rendere chiaro il simbolo della «Ge-enna» agli ascoltatori che non conoscevano la tradizione legata alla valle di Gerusalemme; insieme con l’aggiunta, «dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue» è un riferi-mento a Is 66,24: «E vedranno i cadaveri degli uomini a me ribelli, che il loro verme non muore e il loro fuoco non si spegne» (cf.
V.
TAYLOR, o.c., 478).
Meditazione Un brano evangelico composito, con espressioni pronunciate da Gesù in varie occasioni e qui raccolte per fornire indicazioni sulla qualità del proprio essere discepoli nella dimen-sione comunitaria.
Il tema del primo avvertimento – il tono generale del testo vuole spiccatamente mettere in guardia da alcuni ‘eccessi’ – viene trattato anche nella prima lettura, tratta dal libro dei Numeri e inerente un fatto avvenuto nel corso del cammino nel deserto, mentre il popolo usciva dall’Egitto per andare verso la terra promessa.
Quando una comunità si struttura e si organizza, manifesta ed evidenzia la propria volontà di crescere, di camminare lungo un itinerario di maturazione.
Non è un cammino facile né immediato: richiede tempo, ascolto, conoscenza e stima reciproche, capacità di valorizzazione delle caratteristiche di ogni per-sona, accoglienza e sopportazione delle inevitabili fragilità, soprattutto il ‘miracolo’ di riu-scire ad armonizzare, con un impiego notevole di energie, tutte le componenti della co-munità stessa.
La testimonianza di Paolo, riportata nei capitoli 12-14 della prima lettera ai Corinzi, è di una attualità e di una concretezza sorprendenti.
Si intuisce – e lo sperimenta immediatamente chi vive in una comunità, a partire da quella familiare – che l’auspicata armonia è sempre precaria e necessita di attenta vigilanza e premurosa cura da parte di tutti i suoi membri, nessuno escluso.
Ma con la grazia del Signore e tanta buona volontà si possono raggiungere buoni, addirittura ottimi risultati! In queste comunità si potrebbe dire che la vita funzioni tanto bene che…
tutto diviene intoccabile, è tanto perfetta che non la si può più modificare in nulla.
Ognuno ha il suo spazio, il suo incarico – che svolge con grande diligenza e professionalità, indipendente-mente che si tratti di liturgia, carità, educazione…
– e la sua azione non può essere intralcia-ta o sostituita da nessun altro.
Quello che era nato come servizio gratuito nell’ambito di una comune sequela del Signore, diviene possesso geloso e intollerante.
Se qualcuno, dal-l’esterno, tenta di entrare nella comunità, viene sottoposto ad un processo di ‘istruzione’ per fargli riconoscere tutta e sola la positività della vita comunitaria.
Figuriamoci cosa può succedere a costui se si azzarda a ipotizzare dei cambiamenti, magari a paventare delle cri-tiche…
Se giunge addirittura – non sia mai! – a fare del bene, magari dello stesso tipo di quello svolto dalla comunità, ma senza il benestare e l’autorizzazione della comunità stes-sa, si può arrivare all’interdizione pubblica…! (cfr.
v.
38).
E allora ci si accorge che non si è poi così lontani da stili e modalità sempre più spesso espressi da entità politiche, sociali, agonistiche.
È vero, queste forse non si fregiano del titolo – davvero qualificativo – di co-munità ma forse anche nelle prime si è un po’ smarrito il senso di questo termine.
C’è chi ha scritto ‘Dio è con noi’ sulle cinture dei soldati, affermando implicitamente che non era pertanto con quanti stavano dall’altra parte della barricata: auguriamoci che queste volgari e indecenti strumentalizzazioni del nome di Dio non raggiungano anche le comunità dei credenti in Cristo.
Ma se ciò avviene, non spaventiamoci: le forze egocentriche dell’uomo rialzano conti-nuamente la testa e davvero la vigilanza e la revisione si impongono a tutti i livelli.
Certo è che se l’efficienza – anche quella del bene – scalza il ruolo delle persone e diviene strumen-to per imporsi sugli altri, allora anche l’altra, severissima, parola di Gesù, riportata al v.
42 e nei versetti seguenti, «chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, sarebbe meglio per lui che gli si mettesse una mola d’asino al collo e fosse gettato nel mare», ci risulta forse meno strana e incomprensibile.
Certamente un paradosso, da non prendere alla lettera, ma, appunto, un serio avvertimento.
Non c’è ‘opera di bene’ che possa calpestare con diritto qualcuno! Quando si smarrisce l’attenzione ai più fragili, esposti, poco istruiti, umili – que-sto il senso del termine piccoli, tali quindi non solo per età – è necessario riaprirsi alla forza vivificante del vangelo per ritrovare la grazia della salvezza, per ricordare innanzi tutto che siamo dei salvati dall’amore del Signore.
Allora anche il gesto semplice e alla portata di tutti del bicchiere d’acqua offerto nel nome di Gesù (cfr.
v.
41), ovvero dato nella gratui-tà rispettosa e attenta alla singola persona, diviene epifania del Regno, speranza di un mondo migliore già qui sulla terra.
 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica   – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
Il Dio-con-noi «Chiunque voglia fare all’uomo d’oggi un discorso efficace su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell’esporre il messaggio.
È questa, del resto, e-sigenza intrinseca per ogni discorso cristiano su Dio.
Il Dio della Rivelazione, infatti, è il Dio-con-noi, il Dio che chiama e salva e dà senso alla nostra vita; e la sua parola è destinata ad irrompere nella storia, per rivelare a ogni uomo la sua vera vocazione e dargli modo di realizzarla» (Rdc 77).
[…] «Dio stesso, quando si rivela personalmente, lo fa servendosi delle categorie dell’uomo.
Così egli si rivela Padre, Figlio, Spirito d’amore; e si rivela supremamente nell’umanità di Gesù Cristo.
Per questo, non è ardito affermare che bisogna conoscere l’uomo per conosce-re Dio; bisogna amare l’uomo per amare Dio».
(RdC 122).
Amici e amiche di Paolo Ho sempre immaginato il volontariato – senza conoscerlo, naturalmente, solo la non- conoscenza favorisce la certezza – un punto di intersezione tra la vocazione mancata e la consolazione di sé.
Finché ho conosciuto “amici e amiche di Paolo”.
Questi giovani che lo accompagnano nelle pizzerie, nei cinema, nei negozi di dischi usati, dove acquista, a prez-zo di amatore, canzoni e canti popolari di altri tempi, sono gentili, misurati discreti.
In cambio non si aspettano nulla.
Non si aspettano doni né ringraziamenti.
E danno non solo un aiuto, ma ciò di cui gli uomini hanno più bisogno quando non la sentono mai, la simpa-tia.
Paolo passa le vacanze con noi, ma non le considera vacanze.
Non ho ancora capito co-me le consideri e non intendo approfondire.
Immagino che abbia solide ragioni.
Quando ancora gli si dice, dopo quindici anni di ingiunzioni, “Cammina dritto!”, che cosa gli si comunica? Un ordine, un richiamo, una esortazione, un alibi per continuare noi a sperare, una delusione, un rimprovero, una punizione? Spesso ho notato nel suo sguardo qualcosa di diverso dalla insofferenza, una atroce noia dissimulata dalla pazienza.
Se finalmente in vacanza si diverte con il suo gruppo di volontari, dove lo accettano con allegria, senza volerlo cambiare, dobbiamo chiederci il perché? L’imperativo occulto dell’educatore, secondo Droysen, viene compendiato da poche, silenziose, concilianti pa-role: “Tu devi essere come io ti voglio, perché solo così io posso avere un rapporto con te”.
C’è da stupirsi che Paolo sia felice quando non viene più educato? (Giuseppe PONTIGIA, Nati due volte, Mondadori, Milano, 2000, 247-248).
Dio è presente ovunque Non vi è altro sacramento di Dio se non il Cristo, nel quale devono essere vivificati quelli che sono morti in Adamo, poiché «come tutti muoiono in Adamo, così pure tutti ri-cevono la vita in Cristo» (1Cor 15,22), come abbiamo spiegato più sopra.
Perciò Dio, che è ovunque presente e ovunque nella sua totalità, non abita in tutti, ma soltanto in quelli che egli fa diventare suo tempio santissimo o come suoi templi santissimi, strappandoli dal potere delle tenebre e trasferendoli nel Regno del Figlio del suo amore (cfr.
Col 1,13), Re-gno che ha inizio con la rigenerazione.
Da una parte si parla di tempio di Dio in senso sim-bolico, a proposito di quello che viene costruito dalle mani degli uomini servendosi di ma-teriale inanimato, come era il tabernacolo fatto con legno, veli, pelli e altri simili arredi o come anche lo stesso tempio costruito dal re Salomone con pietre, legno e metalli; ma si parla di tempio di Dio anche a proposito della vera realtà figurata da quei templi.
Perciò si dice: «E voi come pietre vive, siete edificati come dimora spirituale» (1Pt 2,5); per lo stesso motivo sta scritto: «Noi infatti siamo templi del Dio vivente, come dice Dio: “Abiterò in lo-ro e camminerò con loro, e sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo”» (cfr.
2Cor 6,16; Lv 26,12).
Non ci deve stupire che Dio compia qualche miracolo attraverso alcuni che non appartengono o non appartengono ancora al tempio [del Signore], cioè in quelli in cui non abita o non abita ancora Dio, come li compiva per mezzo di quel tale che in nome di Cristo scacciava i demoni sebbene non fosse suo discepolo; il Signore ordinò che gli si permettes-se di farlo a lode del suo nome, cosa utile a molti (cfr.
Mc 9,37-39).
Egli afferma che molti nell’ultimo giorno gli diranno: «Abbiamo fatto molti miracoli nel tuo nome» e a costoro non risponderà: «Non vi conosco» (cfr.
Mt 7,22-23) se apparterranno al tempio di Dio che egli santifica abitando in essi.
Anche il centurione Cornelio, prima di essere incorporato in questo tempio mediante la rigenerazione, vide un angelo che gli era stato inviato da Dio e lo sentì dire che le sue preghiere erano state esaudite e le sue elemosine gradite (cfr.
At 10,4).
Dio opera queste cose o da sé, poiché è ovunque presente, o per mezzo dei suoi an-geli.
(AGOSTINO DI IPPONA, Lettere 187,12,34-36, NBA XXIII, pp.
166-168).
«Io appartengo ad altri» Questi occhi, che non sono più miei, non debbono più vedere il mio proprio interesse.
Queste mani, che sono ora di altri, non debbono più fare il mio proprio interesse…
Io appartengo ad altri! Questa dev’essere la tua convinzione, o mio cuore! Tu non devi avere ormai altro pensiero se non il bene di tutte le creature.
(Santideva, buddista).
Essere profeti Il profeta, Signore, non è un depositario di verità, ma un testimone di bene.
Non sa dire cose sublimi, ma le compie.
Annuncia la speranza nella disperazione, la misericordia nel peccato, l’intervento di Dio dove tutto sembra morto.
Il profeta è consapevole dei suoli limiti, delle sue debolezza, dei suoi dubbi, delle sue incapacità, della sua inesperienza, ma è anche sereno e coraggioso, perché Dio lo ha scelto e amato.
Il profeta fa la scelta di Dio, vive la comunione intima con lui.
Essere profeti oggi, significa passare da una pastorale di conversazione ad una pastorale missionaria, significa essere presenti là dove la gente vive, lavora, soffre, gioisce.
Tu, Signore, sei il profeta per eccellenza che dobbiamo ascoltare e accogliere.
Tua chiesa erano le piazze, le rive dei fiumi, i monti, le strade.
Ogni cristiano è profeta, è la tua bocca che evangelizza, che parla davanti agli uomini, al mondo, alla storia.
Signore, aiutaci ad essere profeti di frontiera là dove scorre la vita della gente.
(A.
Merico)

Il papa e gli amici ebrei.

1.
Kippur, il Giorno dell’Espiazione di Riccardo Di Segni Nel calendario liturgico ebraico il giorno dell’Espiazione – Kippùr o Yom Kippùr o Yom ha Kippurìm – è il più importante dell’anno; in aramaico è yomà, “il giorno” per eccellenza, che dà il titolo al trattato della Mishnà che ne espone le regole.
“Il giorno” cade il 10 di Tishri, primo mese autunnale.
Di questo giorno parla in più occasioni la Bibbia e la fonte principale è il capitolo 16 del Levitico.
Qui si descrive un complesso ordine cerimoniale affidato al Gran Sacerdote, che deve scegliere estraendo a sorte tra due capretti; uno, dedicato al Signore, viene offerto in sacrificio; l’altro riceve con un gesto simbolico il carico delle colpe di tutta la collettività e viene quindi inviato a morire nel deserto.
Di qui l’espressione e il concetto di “capro espiatorio”.
Lo stesso brano biblico si conclude spiegando che in quel giorno è d’obbligo affliggere la propria persona e non lavorare, perché “in questo giorno espierà per voi purificandovi da tutte le vostre colpe, vi purificherete davanti al Signore” (versetto 30).
Dai tempi della sua istituzione biblica Kippùr è il giorno dell’anno in cui le colpe vengono cancellate e il destino futuro di ogni uomo viene stabilito, dopo il giudizio cui è stato sottoposto nei giorni precedenti del Capodanno.
La tradizione rabbinica si è dilungata a spiegare quali colpe possano essere cancellate del tutto o in parte, o sospese, in base alla loro gravità.
La forza espiatrice del Kippùr si misura con l’obbligo principale dell’uomo nei giorni che lo precedono: la tesciuvà.
Letteralmente è il “ritorno” ed è il termine con il quale si indica il pentimento, nel senso di ritorno alla retta via.
Questo ritorno comporta la consapevolezza di avere sbagliato, l’intenzione di non commettere nuovamente l’errore, la confessione pubblica e collettiva.
Tutto questo si basa necessariamente sulla fede in un Dio misericordioso e clemente che viene incontro a chi ha sbagliato.
In ogni caso la cancellazione delle colpe si riferisce a quelle commesse nei rapporti dell’uomo con il Signore; le colpe tra uomini vengono cancellate solo dagli uomini.
Per questi motivi la vigilia del Kippùr è dovere per ognuno andare a chiedere scusa alle persone che sono state da lui offese.
Per tutto il periodo di esistenza del Tempio di Gerusalemme le cerimonie del giorno di Kippùr rappresentavano il complesso liturgico più complesso e solenne.
Solo in quel giorno era consentito al Gran Sacerdote accedere al Santo dei Santi.
Il rispetto dei dettagli prescritti era essenziale, richiedeva una preparazione prolungata e minuziosa, e un’esecuzione attenta su cui vigilava con ansia l’intera collettività raccolta nel Tempio.
Di tutto questo dopo la distruzione del Tempio è rimasto solo il ricordo nostalgico, che nella liturgia del Kippùr avviene con la lettura, al mattino, del brano del Levitico e nel primo pomeriggio con una lunga evocazione poetica del cerimoniale.
La liturgia sinagogale tocca in questo giorno il vertice dell’impegno; lunghe e solenni preghiere la sera d’inizio, e una seduta praticamente ininterrotta dal mattino successivo fino al comparire delle stelle.
Sono momenti speciali quelli della lettura di brani di suppliche, la lettura al mattino di Isaia 57, che descrive come vero digiuno la pratica della giustizia, e al pomeriggio il libro di Giona, che è una grandiosa rappresentazione della misericordia divina.
La presenza del pubblico nelle sinagoghe raggiunge il massimo annuale in questo giorno, specialmente nei momenti più solenni di apertura e chiusura.
Essenziale nel Kippùr è il coinvolgimento personale, soprattutto con un digiuno totale senza bere né mangiare per circa 25 ore – dal quale sono esenti i malati – insieme ad altre forme di astensione (lavarsi, usare creme profumate, indossare scarpe di cuoio, evitare i rapporti sessuali).
Poi c’è la dimensione familiare e sociale, nei pasti che precedono e seguono il digiuno e nelle riunioni delle famiglie in Sinagoga per ricevere la benedizione sacerdotale, impartita dai Cohanim, i discendenti di Aharon.
Malgrado l’austerità, la solennità e le forme imposte di afflizione fisica il Kippùr è vissuto collettivamente con serenità e gioia nella consapevolezza che comunque non verrà meno la misericordia divina.
A conclusione di queste brevi note esplicative, considerando la sede autorevole e certamente non abituale dove vengono pubblicate [“L’Osservatore Romano”], può essere interessante proporre una riflessione sul senso che il Kippùr ha avuto, e può avere oggi, nel confronto ebraico-cristiano.
Questo perché nella formazione del calendario liturgico cristiano le origini ebraiche hanno avuto un ruolo decisivo, come modello da riprendere e trasformare con nuovi significati: il giorno di riposo settimanale passato dal sabato alla domenica, la Pasqua e la Pentecoste.
In alcuni casi la Chiesa ha persino festeggiato il ricordo dell’osservanza di precetti biblici tipicamente ebraici (la festa della Purificazione del 2 febbraio; un tempo il 1 gennaio quella della Circoncisione).
Ma l’intero ciclo autunnale, di cui Kippùr è il giorno più importante, è come se fosse stato cancellato.
Probabilmente ciò è dovuto al fatto che i simboli del Kippùr riguardano alcune differenze inconciliabili tra i due mondi.
I temi del gran sacerdozio, del Tempio, del sacrificio, del capro espiatorio, della cancellazione delle colpe che nella tradizione ebraica si unificano nel Kippùr sono stati rielaborati dalla Chiesa, ma fuori dall’unità originaria.
Semplificando le posizioni contrapposte: un cristiano, in base ai principi della sua fede, non ha più bisogno del Kippùr, così come un ebreo che ha il Kippùr non ha bisogno della salvezza dal peccato proposta dalla fede cristiana.
(Da “L’Osservatore Romano” dell’8 ottobre 2008).
Alla vigilia del Capodanno ebraico che quest’anno si è celebrato il 19 settembre, Benedetto XVI ha inviato al rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, un telegramma d’augurio e d’amicizia.
Nel quale ha confermato che visiterà presto la sinagoga di Roma, “animato dal vivo desiderio di manifestare la personale vicinanza mia e quella di tutta la Chiesa cattolica” alla comunità ebraica.
Quella di Roma è la terza sinagoga che Benedetto XVI visiterà, dopo quelle di Colonia nell’agosto 2005 e di Park East a New York nell’aprile del 2008.
Prima di lui, Giovanni Paolo II aveva visitato la sinagoga di Roma il 13 aprile 1986.
In questi stessi giorni un rinnovato gesto di amicizia si è avuto anche tra gli ebrei e la Chiesa cattolica italiana.
Il 22 settembre il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della conferenza episcopale, ha incontrato i rabbini Di Segni e Giuseppe Laras, quest’ultimo presidente dell’assemblea rabbinica d’Italia.
E insieme hanno deciso di riprendere la celebrazione comune della giornata di riflessione ebraico-cristiana del 17 gennaio, alla quale la volta scorsa gli ebrei avevano rifiutato di partecipare per le incomprensioni seguite al caso Williamson.
Il tema della prossima giornata di riflessione comune sarà il quarto comandamento nella numerazione ebraica: “Ricordati del giorno di Sabato per santificarlo”.
Il Capodanno, Rosh Ha Shanah, apre il ciclo delle feste ebraiche d’autunno.
Ad esso seguono lo Yom Kippur e la festa di Sukkot.
Lo Yom Kippur, o Giorno dell’Espiazione, è la più importante festa dell’intero anno liturgico ebraico.
Cadrà quest’anno il 28 settembre, terzo e ultimo giorno della visita che Benedetto XVI comincerà domani nella Repubblica Ceca.
A giudizio del rabbino Di Segni, la festa del Kippur non solo esprime il cuore della fede ebraica, ma anche riflette le “differenze inconciliabili” tra questa e la fede cristiana.
I simboli del Kippur, infatti – il sommo sacerdote, il tempio, il sacrificio, il capro espiatorio, la cancellazione delle colpe – hanno assunto nel cristianesimo un significato del tutto nuovo.
Di Segni ha spiegato il significato ebraico della festa e la sua inconciliabilità con la fede cristiana in un articolo pubblicato lo scorso anno sulla prima pagina de “L’Osservatore Romano”, in occasione dalla precedente festa del Kippur.
Ma successivamente “L’Osservatore Romano” ha dedicato spazio anche all’altra faccia della questione.
Cioè a come il Nuovo Testamento rivoluziona i simboli del Kippur.
Il testo neotestamentario chiave è la Lettera agli Ebrei.
In essa il nuovo e definitivo Giorno dell’Espiazione è il sacrificio di Cristo sulla croce.
L’autore dell’analisi pubblicata da “L’Osservatore Romano” è un sacerdote e biblista africano, Christopher Robert Abeynaike, monaco cistercense, che sullo stesso tema ha scritto la sua tesi di dottorato in Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico, nel 2008.
La sua analisi è molto dotta ma anche di rara chiarezza.
E mette in luce il legame essenziale che la Lettera agli Ebrei stabilisce tra il sacrificio di Cristo, l’ultima cena e la liturgia eucaristica.
Ecco qui di seguito i due testi sul Giorno dell’Espiazione ebraico e cristiano, quello del rabbino Di Segni e quello di padre Abeynaike.
Un esempio di dialogo che va al cuore delle due fedi e proprio per questo non teme di illuminarne le differenze.
2.
L’essenza della celebrazione eucaristica secondo il Nuovo Testamento.
Ultima cena e sacrificio di Christopher Robert Abeynaike Nella Lettera agli Ebrei si trova quello che potrebbe essere considerato un vero e proprio commentario alle azioni e parole di Cristo nell’ultima cena.
Quest’affermazione potrebbe a prima vista, sorprendere, dato che l’autore della Lettera agli Ebrei non sembra fare riferimento esplicito e diretto all’ultima cena.
L’autore della Lettera agli Ebrei è l’unico scrittore del Nuovo Testamento che attribuisce a Cristo i titoli di “sacerdote” – o piuttosto, “sommo sacerdote” – e di “mediatore della Nuova Alleanza”.
L’autore, come ebreo imbevuto del pensiero dell’Antico Testamento, rilegge infatti l’azione salvifica di Cristo nel contesto di due importanti avvenimenti o cerimonie del passato: l’inaugurazione della prima alleanza da parte di Mosè sul monte Sinai e la cerimonia della purificazione dei peccati del popolo compiuta ogni anno dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno dell’Espiazione, il Kippur.
Entrambe le cerimonie erano basate sui sacrifici di animali.
Nella prima, Mosè ratificava l’alleanza di Dio con il popolo d’Israele aspergendo il popolo con il sangue delle vittime sacrificali e pronunciando le parole “Ecco il sangue dell’alleanza” (Esodo 24, 8; Ebrei 9, 18-22).
Nella seconda cerimonia invece, il sommo sacerdote, dopo aver sacrificato le vittime, prendeva del loro sangue ed entrava lui solo nel santuario – il “Santo dei Santi” dove aspergeva il sangue, compiendo così l’espiazione dei peccati del popolo (Levitico 16; Ebrei 9, 6-10).
Ma secondo quanto dice il nostro autore: “è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri” (Ebrei 10, 4) e quindi, questi sacrifici restavano inefficaci, non potendo dare al popolo il desiderato accesso a Dio, impedito dalla coscienza del peccato (Ebrei 9, 6-10).
L’autore della Lettera agli Ebrei a ogni modo trovava nelle Scritture il preannuncio di: – un nuovo sacerdote – “Il Signore ha giurato e non si pente: Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek” (Salmo 110, 4); – un nuovo sacrificio – “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Salmo 40, 7-9); – una nuova alleanza – “Ecco vengono giorni, dice il Signore, quando io stipulerò con la casa d’Israele un’alleanza nuova; non come l’alleanza che feci con i loro padri.
Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati” (Geremia 31, 31-34).
Egli vedeva appunto in Cristo questo nuovo sacerdote, che avrebbe offerto un nuovo sacrificio consistente nel suo proprio corpo, inaugurando così una nuova alleanza.
Quindi, riassumendo la sostanza della sua dottrina, dice: “Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri […] non con sangue di capri e vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario [del cielo], procurandoci così una redenzione eterna.
[…] Il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente.
Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza” (Ebrei 9, 11-15).
A questo punto dobbiamo porre una domanda.
Dove, nella vita di Cristo avrebbe potuto, il nostro autore, vederlo nel ruolo di sommo sacerdote nell’atto di offrire un sacrificio per l’espiazione dei peccati e, contemporaneamente, nel ruolo di mediatore di una Nuova Alleanza nell’atto di inaugurare tale alleanza? Con tutta probabilità nell’ultima cena, dove Cristo aveva pronunciato le parole: “Questo, è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Matteo 26, 28).
Dicendo infatti le parole “Questo è il mio sangue dell’alleanza”, Cristo, si manifestava come il mediatore di un’alleanza fondata nel suo proprio sangue e quindi contrapposta a quella inaugurata da Mosè con le parole: “Ecco il sangue dell’alleanza” (Esodo 24, 8).
Aggiungendo le parole “versato per molti in remissione dei peccati”, egli faceva intendere che l’alleanza che stava inaugurando fosse appunto la Nuova Alleanza annunciata da Geremia in cui la remissione dei peccati sarebbe stata assicurata: “Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati” (31, 34).
Inoltre, le parole: “il mio sangue versato per molti in remissione dei peccati” – dove l’idea di un sacrificio per l’espiazione dei peccati del popolo è chiarissima – non avrebbero potuto non fare ricordare al nostro autore il sacrificio offerto dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno dell’Espiazione.
Con la successiva morte di Gesù e la sua ascensione nell’invisibilità del cielo – “Entrò una volta per sempre nel santuario” (Ebrei, 9, 12) – si sarebbe stagliato davanti agli occhi dell’autore il parallelo con l’azione del sommo sacerdote levitico, il quale dopo aver immolato le vittime entrava nell’invisibilità del santuario terrestre per compiere l’espiazione dei peccati aspergendovi il sangue sacrificale.
Potremmo, dunque, affermare che l’ultima cena fosse appunto il momento della vita di Cristo in cui l’autore della Lettera agli Ebrei avrebbe potuto riconoscerlo come nuovo sommo sacerdote e, contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza.
Le parole di Gesù sul solo calice sarebbero state sufficienti per questo.
Le parole, invece, sul pane – “Questo è il mio corpo” – avrebbero dovuto far tornare in mente all’autore la profezia dei salmi, di un nuovo tipo di sacrificio in contrasto con i sacrifici dell’Antica Alleanza: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.
Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Salmo 40, 7-9).
L’autore della Lettera infatti commenta al riguardo: “Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre” (Ebrei, 10, 10).
Infine, il pane e il vino dell’ultima cena, gli stessi doni offerti da Melchisedek (Genesi 14, 18), avrebbero solo confermato al nostro autore che il nuovo sacerdote, manifestandosi nell’offerta del suo corpo alla cena, fosse appunto – in adempimento del vaticinio del salmo 110, 4 – il sacerdote “al modo di Melchisedek”.
In conclusione, possiamo dire che quando l’autore della Lettera agli Ebrei – nel cuore della sua epistola, ai versetti 9, 11-15 – parla della manifestazione di Cristo come nuovo sommo sacerdote, mediante l’offerta di se stesso a Dio per la purificazione dei peccati del popolo e, contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza, egli si riferisce alle parole e alle azioni di Gesù nell’ultima cena.
I versetti immediatamente seguenti lo confermano: “Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di modo che, quando la sua morte fosse intervenuta per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa.
Dove, infatti, c’è un testamento (diathéke), è necessario che sia accertata la morte del testatore, perché un testamento (diathéke) ha valore solo dopo la morte e rimane senza effetto finché il testatore vive.
Per questo neanche la prima alleanza (diathéke) fu inaugurata senza sangue” (Ebrei, 9, 15-18).
In questi versetti l’autore effettivamente sta giocando sul duplice senso della parola greca “diathéke”, usata nella versione dei Settanta per tradurre la parola ebraica “berith”, alleanza, mentre nel greco contemporaneo significava testamento.
Egli infatti usa un esempio preso dalla vita d’ogni giorno.
Come una “diathéke”, un testamento, diventa valida solo alla morte del testatore, così pure la “diathéke”, l’alleanza proclamata da Gesù richiedeva di essere seguita dalla sua morte per la sua ratificazione, così come anche la prima alleanza era stata dedicata con lo spargimento del sangue delle vittime.
Ma oltre ad avere in comune la stessa parola greca “diathéke”, un’alleanza e un testamento hanno qualcos’altro in comune: il concetto di un’eredità.
L’eredità sotto la prima alleanza coincideva con il possesso della terra di Canaan.
L’eredità invece sotto la Nuova Alleanza diventa il possesso del regno di Dio.
Quindi, noi troviamo Cristo che nell’ultima cena si manifesta non solo nei ruoli di sacerdote e di mediatore di una Nuova Alleanza, ma anche in quello di testatore che dà ai suoi apostoli la promessa del possesso del regno di Dio: “Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno di mio Padre (Matteo 26, 29; Luca 22, 29-30).
Quindi, il nostro autore poteva dire con ragione: “Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di modo che, quando la sua morte fosse intervenuta, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa (Ebrei 9, 15).
Come esito della nostra indagine possiamo affermare che l’ultima cena fu: – un sacrificio in cui Cristo “offrì se stesso a Dio” (Ebrei 9, 14) per la remissione dei peccati; – la promulgazione della Nuova Alleanza da parte di Cristo; – la disposizione di un testamento, in cui Gesù lasciava in “eredità eterna” (Ebrei 9, 15) ai suoi discepoli, il regno del suo Padre (Matteo 26, 29; Luca 22, 29-30).
Per tutti e tre i motivi la sua morte in croce doveva seguire ineluttabilmente.
Le parole e le azioni di Cristo all’ultima cena erano, infatti, tutte indirizzate verso il loro adempimento nella sua morte, senza la quale non avrebbero avuto nessun senso o valore.
Ma la morte di Gesù non doveva essere la fine della sua opera redentrice.
Come, infatti, il punto culminante della cerimonia del Giorno d’Espiazione era l’ingresso del sommo sacerdote levitico con il sangue sacrificale nel santuario terrestre per portare a compimento l’espiazione dei peccati, così anche Cristo nella sua ascensione è entrato nel santuario celeste “per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore” (Ebrei 9, 24), “procurandoci così una redenzione eterna” (Ebrei 9, 12).
Proprio perché Cristo “offrì se stesso con uno Spirito eterno” (Ebrei 9, 14), il suo sacrificio ha una eterna efficacia, ed Egli rimane “sommo sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedek” (Ebrei 6, 20).
Abbiamo dunque, potremmo dire, un “Giorno di Espiazione” che dura per sempre, cui l’autore si riferisce quando dice: “Il sangue di Cristo purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente” (Ebrei 9, 14).
E ancora: “Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario [celeste] per mezzo del sangue di Gesù e un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci…” (Ebrei, 10 19-22).
In un altra occasione l’autore parla di cristiani come di un popolo che si è accostato “al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste, al Dio giudice di tutti e a Gesù, mediatore della nuova alleanza e al sangue dell’aspersione” (Ebrei 12, 22-24).
Il “sangue di Gesù” è per il nostro autore un simbolo plastico per indicare i frutti della redenzione, ossia quei beni a cui i cristiani hanno accesso, un accesso che dal contesto di questi passaggi si può intravedere appunto nella Celebrazione eucaristica.
Quel perdurare dell’opera redentrice di Cristo, che l’autore della Lettera agli Ebrei esprime con il simbolo della continua aspersione con il suo sangue, lo troviamo espresso in un altro modo nella preghiera liturgica in cui si afferma che ogni volta che la messa è celebrata “si effettua l’opera della nostra redenzione” (cfr.
“Presbyterorum ordinis” 13).
Nei suddetti passaggi notiamo inoltre che, durante la celebrazione eucaristica, i cristiani in un certo qual modo sembrano trascendere i confini di questo mondo e accostarsi, per mezzo di Cristo, a Dio e al mondo celeste.
Infine, l’eucaristia è anche un banchetto sacrificale, cui il nostro autore si riferisce dicendo: “Noi abbiamo un altare del quale abbiamo diritto di mangiare” (Ebrei 13, 10).
San Paolo chiarisce il senso di queste parole quando nella prima lettera ai Corinzi (10, 14-22) paragona l’eucaristia sia ai pasti sacrificali dell’Antico Testamento (Levitico 7), sia a quelli dei pagani, affermando che il mangiare della carne sacrificale implica necessariamente un entrare in comunione (koinonía) con la divinità cui il sacrificio è stato offerto.
Egli quindi, vieta ai cristiani di partecipare al corpo e sangue di Cristo alla mensa eucaristica e, allo stesso tempo, di continuare a partecipare ai pasti sacrificali dei pagani.
Giovanni, nel suo Vangelo, approfondisce il concetto paolino della comunione con il corpo e sangue di Cristo dicendo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.
Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me” (6, 56-57).
Mangiando del corpo e bevendo del sangue di Gesù, il cristiano è assunto nella comunione di vita del Padre e Figlio, già adesso, su questa terra.
Pare che questo sia lo stesso concetto che l’autore della Lettera agli Ebrei cerca di esprimere quando dice – nel contesto della celebrazione eucaristica, usando il linguaggio dell’Antico Testamento – che i cristiani si accostano per mezzo di Cristo al santuario celeste e alla presenza di Dio.
Questa indagine sull’insegnamento del Nuovo Testamento riguardo alla celebrazione eucaristica ci fa capire quanto è grande e profondo il mistero che essa comprende.
Giustamente i padri orientali l’avevano chiamata “sacrificium tremendum”.
È chiaro che la maniera in cui l’eucaristia viene celebrata – la “ars celebrandi” – deve essere sempre in consonanza con il suo vero contenuto e deve rispecchiarlo integralmente ai partecipanti.
È questa, infatti, la suprema preoccupazione di Benedetto XVI, che deve essere anche la preoccupazione di tutti i pastori della Chiesa, vescovi e presbiteri, in modo particolare durante l’anno sacerdotale in corso, dato che, come ci ricorda il concilio Vaticano II: “I presbiteri esercitano il loro sacro ministero soprattutto nel culto eucaristico” (Lumen gentium 28).
(Da “L’Osservatore Romano” del 24 luglio 2009).