XXXII Giornata per la Vita: 7 febbraio 2010

Messaggio per la 32ª Giornata Nazionale per la vita (7 febbraio 2010) Chi guarda al benessere economico alla luce del Vangelo sa che esso non è tutto, ma non per questo è indifferente.
Infatti, può servire la vita, rendendola più bella e apprezzabile e perciò più umana.
Fedele al messaggio di Gesù, venuto a salvare l’uomo nella sua interezza, la Chiesa si impegna per lo sviluppo umano integrale, che richiede anche il superamento dell’indigenza e del bisogno.
La disponibilità di mezzi materiali, arginando la precarietà che è spesso fonte di ansia e paura, può concorrere a rendere ogni esistenza più serena e distesa.
Consente, infatti, di provvedere a sé e ai propri cari una casa, il necessario sostentamento, cure mediche, istruzione.
Una certa sicurezza economica costituisce un’opportunità per realizzare pienamente molte potenzialità di ordine culturale, lavorativo e artistico.
Avvertiamo perciò tutta la drammaticità della crisi finanziaria che ha investito molte aree del pianeta: la povertà e la mancanza del lavoro che ne derivano possono avere effetti disumanizzanti.
La povertà, infatti, può abbrutire e l’assenza di un lavoro sicuro può far perdere fiducia in se stessi e nella propria dignità.
Si tratta, in ogni caso, di motivi di inquietudine per tante famiglie.
Molti genitori sono umiliati dall’impossibilità di provvedere, con il proprio lavoro, al benessere dei loro figli e molti giovani sono tentati di guardare al futuro con crescente rassegnazione e sfiducia.
Proprio perché conosciamo Cristo, la Vita vera, sappiamo riconoscere il valore della vita umana e quale minaccia sia insita in una crescente povertà di mezzi e risorse.
Proprio perché ci sentiamo a servizio della vita donata da Cristo, abbiamo il dovere di denunciare quei meccanismi economici che, producendo povertà e creando forti disuguaglianze sociali, feriscono e offendono la vita, colpendo soprattutto i più deboli e indifesi.
Il benessere economico, però, non è un fine ma un mezzo, il cui valore è determinato dall’uso che se ne fa: è a servizio della vita, ma non è la vita.
Quando, anzi, pretende di sostituirsi alla vita e di diventarne la motivazione, si snatura e si perverte.
Anche per questo Gesù ha proclamato beati i poveri e ci ha messo in guardia dal pericolo delle ricchezze (cfr Lc 6,20–25).
Alla sua sequela e testimoniando la libertà del Vangelo, tutti siamo chiamati a uno stile di vita sobrio, che non confonde la ricchezza economica con la ricchezza di vita.
Ogni vita, infatti, è degna di essere vissuta anche in situazioni di grande povertà.
L’uso distorto dei beni e un dissennato consumismo possono, anzi, sfociare in una vita povera di senso e di ideali elevati, ignorando i bisogni di milioni di uomini e di donne e danneggiando irreparabilmente la terra, di cui siamo custodi e non padroni.
Del resto, tutti conosciamo persone povere di mezzi, ma ricche di umanità e in grado di gustare la vita, perché capaci di disponibilità e di dono.
Anche la crisi economica che stiamo attraversando può costituire un’occasione di crescita.
Essa, infatti, ci spinge a riscoprire la bellezza della condivisione e della capacità di prenderci cura gli uni degli altri.
Ci fa capire che non è la ricchezza economica a costituire la dignità della vita, perché la vita stessa è la prima radicale ricchezza, e perciò va strenuamente difesa in ogni suo stadio, denunciando ancora una volta, senza cedimenti sul piano del giudizio etico, il delitto dell’aborto.
Sarebbe assai povera ed egoista una società che, sedotta dal benessere, dimenticasse che la vita è il bene più grande.
Del resto, come insegna il Papa Benedetto XVI nella recente Enciclica Caritas in veritate, “rispondere alle esigenze morali più profonde della persona ha anche importanti e benefiche ricadute sul piano economico” (n.
45), in quanto “l’apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica” (n.
44).
Proprio il momento che attraversiamo ci spinge a essere ancora più solidali con quelle madri che, spaventate dallo spettro della recessione economica, possono essere tentate di rinunciare o interrompere la gravidanza, e ci impegna a manifestare concretamente loro aiuto e vicinanza.
Ci fa ricordare che, nella ricchezza o nella povertà, nessuno è padrone della propria vita e tutti siamo chiamati a custodirla e rispettarla come un tesoro prezioso dal momento del concepimento fino al suo spegnersi naturale.
Roma, 7 ottobre 2009 Memoria della Beata Vergine del Rosario  «Nessuno si salva da solo» Stare accanto nella crisi Fare argine alla precarietà di vita che segna sempre più la nostra società.
E servire la vita, prendendoci cura gli uni degli altri e continuando a stare sempre e solo dalla parte della persona umana, «nella sua interezza».
Il messaggio che i vescovi hanno deciso di inviare ai cattolici italiani e a ogni donna e uomo di buona volontà in occasione della 32esima Giornata nazionale per la vita si fa carico in questi termini del peso ulteriore e troppe volte drammatico che la grande crisi ha scaraventato sulla quotidianità di tante famiglie e di tanti singoli.
Richiama l’attenzione sulle situazioni di indigenza e di bisogno rese più acute e dolorose da una tempesta economico-finanziaria che ha fatto grandinare numeri sballati, scoperchiato vergogne affaristiche e stravolto progetti ed esistenze.
E chiama tutti noi che «conosciamo Cristo» a testimoniare con la passione di sempre eppure con un’urgenza nuova il valore della vita umana, esercitando il «dovere» di riconoscere e denunciare i «meccanismi» che producono povertà e disuguaglianza e feriscono «soprattutto i più deboli e indifesi».
Ogni tempo dell’uomo, lo sappiamo, è  un tempo di prova.
E purtroppo in ogni tempo accade che la vita dei piccoli e dei senza difesa venga misconosciuta, colpita e, addirittura, negata.
Ma ogni tempo ha anche caratteristiche sue proprie.
Quello che stiamo vivendo propone difficoltà e insidie che sembrano fatte apposta per enfatizzarne altre, già esistenti, moltiplicandone gli esiti nefasti per la nostra comunità nazionale (e non solo per essa) e inducendo una crescita del tasso di insicurezza e di egoismo.
E’ proprio per questo, mentre il 2010 è ancora giovane, che la riflessione sull’impegno per la vita ci viene riproposta con accentuazioni un po’ insolite che fanno tornare alla mente temi e tempi forti dell’anno che ci siamo appena lasciati alle spalle.
Pensiamo solo ai gesti esemplari e “contagiosi” – perché tesi, appunto, a suscitare una solidarietà diffusa e iniziative analoghe di altri soggetti istituzionali – con cui Conferenza episcopale e Diocesi hanno promosso fondi di sostegno alle famiglie e alle imprese investite dalla crisi.
O alla parola forte e alla presenza collaborativa (con autorità e realtà civili) spese dai nostri Pastori in tutte le situazioni di emergenza create dai disastri (non solo naturali) che si sono abbattuti su realtà piccole e grandi della nostra Italia: dalla ricostruzione post-sismica nell’Aquilano al complicato dopo-alluvione nel Messinese e al disorientante dopo-terremoto in una minuscola porzione d’Umbria, dalla crisi occupazionale in Sardegna al disagio crescente in importanti realtà industriali del Centro-Nord.  Segni chiari, segni di speranza e di contraddizione.
«Nessuno si salva da solo», continua infatti a rammentarci Charles Peguy.
Ed è quanto mai opportuno tenerlo a mente in questi mesi di crisi, mentre continua a emergere e rischia di accentuarsi una preoccupante tendenza ad affievolire gli impegni reciproci, ad allentare i legami di solidarietà, a non accettare accanto a sé presenze scomode e, comunque, “ingombranti”.
Il mito della “qualità della vita” porta a smarrire il senso della vita e a squalificare le vite che sono o vengono percepite come inadeguate o imperfette, vite minori e d’insuccesso: il bambino non nato, il disabile o il malato grave, l’anziano non autosufficiente, l’immigrato a cui si chiede e dà lavoro ma non vita civile, il disoccupato che pesa sulla fiscalità generale, il padre separato divenuto barbone, la madre abbandonata, la donna sola che cerca un’alternativa alla “libertà” di abortire e non riesce a trovarla nei labirinti libertari costruiti attorno al suo dramma.  «Nessuno si salva da solo».
E’ proprio necessario ricordarlo in un momento storico in cui il montare dell’onda degli egoismi viene o sottovalutato o addirittura nobilitato come un conquistato approdo di autonomia e di autodeterminazione.
Ci sono “architetti” che progettano una società di persone sole.
Noi no.
E anche il tempo della crisi può diventare un’occasione per affermarlo nei fatti.
Per ribadire che c’è ancora e sempre un’alternativa a quello sguardo cupo ed escludente, che non sta scritto che nella sofferenza si debba essere soli e che la disperazione può e deve essere vinta.
Il popolo della vita lo dimostra nelle opere e nei giorni.
Con riconoscenza, con coraggio e con pazienza.   Marco Tarquinio

Classe terza – Febbraio

Unità di Lavoro possibilmente interdisciplinare (Irc, Lettere, Scienze) di educazione all’affettività Seconda parte OSA di riferimento  IRC Conoscenze – La fede, alleanza tra Dio l’uomo, vocazione e progetto di vita.
– Il “comandamento nuovo” di Gesù.
Abilità – Descrivere l’insegnamento cristiano sui rapporti interpersonali, l’affettività e la sessualità.
– Motivare le risposte del Cristianesimo ai problemi della società di oggi.
– Confrontare criticamente comportamenti e aspetti della cultura attuale con la proposta cristiana.  Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e saper descrivere l’insegnamento della Chiesa cattolica in merito alla funzione della sessualità e alle caratteristiche di un autentico amore di coppia, del matrimonio, della famiglia.
– Esprimere opinioni motivate.
Obiettivi Formativi di educazione alla Convivenza Civile Conoscenze – Cambiamenti fisici e situazioni psicologiche.
– Aspetto culturale e valoriale della connessione tra affettività-sessualità-moralità.  Abilità – Riconoscere e descrivere il rapporto tra affettività, sessualità e moralità.
– Condurre discussioni argomentate su esperienze di relazioni interpersonali significative e sui problemi dei diversi momenti della vita.  Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale:  – Saper prendere in considerazione il progetto di vita cristiano e la visione cristiana dell’esistenza come ipotesi di interpretazione della realtà sociale e individuale; – voler indagare su bene e male, saper ricercare una “verità”; – avviare processi introspettivi, in vista di una migliore conoscenza di sé e dello sviluppo di opinioni personali.    1) Una cosa sola Il concetto di sessualità indica innanzitutto l’identità maschile e femminile: due modi diversi di esprimersi, due diverse “strutture” del pensiero e dell’emotività…
con uguale dignità.
Le due metà del genere umano sono splendidamente complementari.
L’interiorità femminile è tendenzialmente più complessa e sfumata: accoglie, analizza affetti e idee; “slancio vitale”, linearità e sintesi caratterizzano in maggior misura l’interiorità maschile, senza voler generalizzare.
Il termine “sessualità” indica anche il modo di esprimere l’amore in quanto uomo e in quanto donna.
La nostra “dimensione fisica” è il nostro irrinunciabile mezzo espressivo: se fossimo “nuvolette incorporee”, come esprimeremmo l’ira, la gioia, il dolore, la simpatia? Un sorriso, un abbraccio rendono comunque “bello” il nostro corpo…
perché esso esprime la ricchezza dei pensieri e dei sentimenti.
Il gesto più significativo che si possa compiere tra esseri umani è il rapporto sessuale.
In esso, nei fatti, si promette a un’altra persona di voler divenire con essa una cosa sola, e le emozioni e le sensazioni in gioco contribuiscono, vissute con la giusta intenzione, a cementare l’unione, a realizzare una totale vicinanza, una totale intimità e condivisione, senza riserva, delle reciproche vite.
Il vero “rapporto” sessuale è totale accoglienza dell’altro nel proprio mondo ed è totale dono di sé.
Una visione seria e responsabile dell’amore ammette l’incontro fisico unicamente come espressione di un tale amore, autentico impegno per l’esistenza Si tratta di un gesto “oggettivamente” importante: da esso si origina il miracolo della vita! Il suo valore è dunque “unitivo” e “procreativo”.
Seconda fase dell’attività  Questionario e dibattito conclusivo riguardanti la prima e seconda parte dell’Unità (Domande per l’Irc e domande trasversali per l’Educazione alla Convivenza Civile) – Quali possono essere gli aspetti fondamentali di un amore autentico? (Trasversale) – Oltre che di sentimento, l’amore autentico ha bisogno…
di volontà e uso della ragione.
In che senso? Sei d’accordo? (trasversale) – L’amore che finisce…
non è amore.
Trovi giusta questa affermazione? (Trasversale) – Quali aspetti “in più” ritrovi nel rapporto d’amore tra uomo e donna basato sulla fede? (Irc) – Come definiresti la sessualità? Qual è il valore della sua espressione fisica, in un’ottica seria e responsabile? E in un’ottica cristiana specifica? (Irc) – Quali danni personali e sociali può provocare un uso impoverito e addirittura separato dalla dimensione dell’amore dell’incontro sessuale? Qual è la tua opinione? (Trasversale) – L’eventuale precocità delle esperienze sessuali può rappresentare un impoverimento? (Trasversale) – Qual è la fisionomia specifica di una famiglia cristiana? (Irc) – Nel documento “Famiglia e società”, quali collegamenti fa Chiara Lubich tra compiti della famiglia e un possibile miglioramento della società? Spiega in sintesi.
(Trasversale) (Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per la classe terza e Guida) 3) Un gioco a termine  «L’amore è un cammino di liberazione.
Lungo, lento, difficile.
Fortunati i giovani quando incontrano un “lui” o una “lei” che hanno capito che l’amore è qualcosa di profondamente religioso, perché fa parte, pur nella sua precarietà, dell’immensa realtà dell’amore di Dio svelato a noi attraverso Cristo.
Voler bene “anima e corpo” vuol dire essere tesi verso qualcosa che ci supera con la ricchezza del mistero che l’esperienza amorosa racchiude.
Certo, ci vuole impegno, tenerezza, fedeltà, responsabilità, dono.
Ma questa è la vera “liberazione” che il cristianesimo annuncia per promuovere la pienezza umana e divina dell’amore» (Carlo Fiore).
La componente istintiva che suscita l’attrazione sessuale e le emozioni sostengono, facilitano attraverso la tenerezza la dimensione spirituale dell’amore, che conduce al dono generoso di sé e all’impegno di accogliere totalmente l’altro.
Si può scegliere l’impegno in amore anche se non si è credenti; oggi, però, una mentalità egocentrica e superficiale riguardante i rapporti umani sembra diventata “mentalità comune”, evidente nei mass-media.
L’amore che non è più progetto diviene semplicemente un gioco di emozioni, un gioco da adulti che a un certo punto può stancare; l’altro deve “farmi stare bene”: lo uso come oggetto di consumo, anche sul piano sessuale.
Si arriva a scindere atto sessuale e amore: nel “gioco dei corpi”, l’atto viene degradato, svuotato di significato; diviene semplicemente un mezzo per procurarsi sensazioni fisiche piacevoli…
alla stregua di una buona cena, di un bicchiere di birra.
L’“essere uno” non esiste, il gesto diviene una menzogna e, fatalmente, un mezzo di sfruttamento nei confronti di chi non è più persona…
ma soltanto un corpo che fa “divertire”.
«…
Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,27): Gesù condanna ogni sfruttamento, anche soltanto fantastico, dell’immagine della donna.
Nella dimensione della pornografia un egoismo vuoto e infantile fa perdere all’altro ogni identità: è una cosa da usare senza riguardi né complicazioni.
Questa gelida assenza di rapporto diviene il contrario del rispetto: nei fatti, è disprezzo.
Banalizzare le cose grandi della vita può essere estremamente distruttivo e pericoloso: chi si abitua all’amore-gioco, magari già in età molto giovane, non riuscirà facilmente a cambiare prospettiva quando avvertirà il vuoto della solitudine; imparare davvero a relazionarsi è il risultato di un faticoso cammino, fatto anche di autocontrollo, di sacrificio.
La posta in gioco è la pienezza dell’esistenza.
Seconda fase dell’attività  L’insegnante di religione presenta agli allievi, dopo i testi-guida riguardanti le caratteristiche dell’amore tra uomo e donna in un’ottica soprattutto cristiana, quelli riguardanti l’etica sessuale e la famiglia.  2) Sessualità e Bibbia  In un’ottica di fede, l’incontro sessuale ha senso come segno di un’unione indissolubile e aperta alla vita, nell’ambito di un progetto definitivo, il matrimonio cristiano sostenuto dalla forza di Dio.
Per la Bibbia, l’uomo è unità profonda di anima e corpo, entrambi preziosi; il linguaggio del corpo riveste un’immensa importanza.
La nudità innocente, nella Genesi, di Adamo e Eva, prima delle complicazioni causate dal peccato di egoismo, indica la “verità” senza maschere della loro personalità e anche della loro femminilità e mascolinità; indica la bellezza della persona “integrale”, anche nell’espressione sessuale e nella fisicità creata da Dio, destinata a un “recupero” e a una “glorificazione”, con la resurrezione dei corpi, alla fine dei tempi…
«Tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna» (Gen 2,25) Nel Cantico dei Cantici, tradizionalmente attribuito a Salomone, il travolgente rapporto amoroso di due sposi racconta in realtà il rapporto tra l’anima e Dio…
«Adamo, unendosi a Eva e diventando una sola carne con lei, indica che l’unione sessuale sarà espressione di una comunione profonda.
Con l’avvento dei profeti (Isaia, Geremia, Ezechiele, Osea, ecc.) la sessualità è interpretata come espressione dei rapporti tra Dio e il Suo popolo (“Israele, ti farò mia sposa…”), tra Dio e l’umanità intera.
Nel Nuovo Testamento, l’unione dell’uomo e della donna nel matrimonio prefigura il mistero dell’amore nuziale tra Cristo e la Sua Chiesa» (C.
Fiore).
Famiglia e società Siamo alle soglie del terzo millennio.
La famiglia, ogni famiglia può divenire un protagonista di questa era.
Congegnata da Dio come capolavoro dell’amore, la famiglia può ispirare delle linee per contribuire a cambiare il mondo di domani.
Se noi infatti osserviamo la famiglia, se facciamo quasi una radiografia di essa, possiamo scoprirvi dei valori immensi e preziosissimi, che proiettati e applicati all’umanità possono trasformarla in una grande famiglia.
La famiglia è fondata sull’amore, un legame che ha tutti i sapori: amore tra gli sposi, tra genitori e figli, tra nonni, zii e nipoti, tra fratelli.
Un amore che cresce e si supera di continuo.
Così l’amore degli sposi genera nuova vita e la fraternità diventa amicizia.
Autorità e ruoli, perché espressioni d’amore, sono riconosciuti naturalmente.
Nella famiglia è spontaneo mettere tutto in comune, condividere ogni bene, avere un’unica cassa.
Il risparmio non è accumulo, ma previdenza.
È normale sovvenire alle necessità di chi ancora non è produttivo e di chi non lo è più.
Nella famiglia persone di tutte le età abitano insieme.
È naturale vivere per l’altro, amarsi reciprocamente.
Anche l’educazione avviene in modo spontaneo: pensiamo ai primi passi e alle prime parole del bambino.
Si castiga e si perdona solo per il bene della persona.
Il senso della giustizia è normale nella famiglia, così come sentirsi addosso la colpa e la vergogna dell’altro.
Soffrire, sacrificarsi per gli altri, portare i pesi gli uni degli altri è naturale.
Spontanea è la solidarietà, la fedeltà alla propria famiglia.
Nella famiglia la vita dell’altro è preziosa quanto la propria, talvolta più preziosa della propria; ci si preoccupa della salute di tutti e ci si fa carico di chi non sta bene.
È lì che naturalmente si accende e si spegne la vita, che trovano accoglienza, affetto e cura l’handicappato, l’anziano e il malato terminale.
Nella famiglia si vestono e si nutrono i membri secondo le loro necessità.
La casa è creata e curata insieme, con la partecipazione di tutti.
Nella famiglia si insegna e si impara: tutto contribuisce alla maturazione delle persone.
I suoi membri possono avere valori culturali diversi, ma ogni diversità diventa ricchezza per tutti.
Anche la comunicazione è spontanea in famiglia; ciascuno partecipa di tutto e condivide tutto.
Ora, compito di ogni famiglia è vivere talmente alla perfezione la propria vocazione di famiglia da poter divenire modello per l’intera famiglia umana, trasferendo in essa i suoi valori con il loro tipico modo di essere.
Così la famiglia diventerà seme di comunione per l’umanità del terzo millennio.
Nella famiglia è naturale mettere tutto in comune? Ecco il seme che può far crescere nella società un’economia per l’uomo; ecco il seme di una cultura del dare, di una economia di comunione.
Nella famiglia è spontaneo vivere l’uno per l’altro, vivere l’altro? Ecco il seme dell’accoglienza tra gruppi, popoli, tradizioni, razze e civiltà, che apre alla reciproca inculturazione.
Nella famiglia la trasmissione di valori avviene spontanea, di generazione in generazione? Può essere allora d’incentivo ad una nuova valorizzazione dell’educazione nella società, e la maniera di correggere e perdonare nella vita di famiglia può essere di luce al modo di condurre la giustizia.
Nella famiglia la vita dell’altro è preziosa quanto la propria? Ecco il seme di quella cultura della vita che deve informare le leggi e le strutture sociali.
La famiglia cura la propria casa e vi riflette la sua armonia? Ecco il seme per una rinnovata attenzione all’ambiente e all’ecologia.
Nella famiglia lo studio è finalizzato alla maturazione della persona? Ecco il seme che può dare alla ricerca culturale, scientifica e tecnologica di scoprire via via il misterioso disegno di Dio sull’umanità e di operare per il bene comune.
Nella famiglia la comunicazione è disinteressata e costruttiva? Ecco il seme per un sistema di comunicazioni sociali a servizio dell’uomo, che esalti e diffonda il positivo e sia uno strumento di pace e di unità planetaria.
Nella famiglia l’amore è il legame naturale tra i membri? Ecco il seme per strutture e istituzioni che cooperino al bene della comunità e dei singoli, fino alla fratellanza universale, valorizzando ogni singolo popolo.
Nel mondo esistono già strutture e istituzioni, a livello locale, nazionale e internazionale: ministeri, ospedali, scuole, tribunali, banche, associazioni, organismi vari.
Ma occorre umanizzare queste strutture, dar loro un’anima, in modo che lo spirito di servizio raggiunga quell’intensità, quella spontaneità e quella spinta di amore per la persona che si respira nella famiglia.
Dio ha creato la famiglia come segno e tipo di ogni altra convivenza umana.
Ecco quindi il compito delle famiglie: tenere sempre acceso nelle case l’amore, ravvivando così quei valori che sono stati donati da Dio alla famiglia, per portarli ovunque nella società, generosamente e senza sosta.                                                       (Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari) 4) Famiglia, piccola Chiesa  Per i Cristiani, il termine “vocazione” indica la chiamata di Dio a vivere l’amore: per ciascuno, in modo originale.
Nel matrimonio cristiano, si è chiamati a riconoscersi l’uno come il completamento dell’altro; si è chiamati a vivere insieme il progetto di vita cristiano imitando il Cristo nell’amore “carità”, un amore da vivere nella coppia, trasmettere ai figli, testimoniare al mondo.
Il matrimonio è un Sacramento celebrato dagli stessi sposi: il Sacerdote prende atto come testimone della comunità ecclesiale della loro volontà di formare una nuova famiglia.
È la loro realtà di amore radicato in Cristo che apre le porte allo Spirito Santo donato dal Risorto, Dio come Forza che sosterrà la promessa indissolubile di fedeltà reciproca, simboleggiata dagli anelli scambiati; che sosterrà la promessa di aprirsi alla vita, di accogliere i figli.
Il matrimonio cristiano è un progetto impegnativo: sceglierlo non ha realmente senso per chi lo fa soltanto per compiacere le famiglie di origine, o per avere un’atmosfera più “romantica” e tradizionale, magari affermando, tra gli auguri di amici e parenti: «…
Speriamo che duri!».
I matrimoni che la Chiesa dichiara “nulli”, da un punto di vista religioso in realtà non sono mai avvenuti, non sono basati sull’intenzione di mantenere promesse fatte in coscienza di fronte a Dio e al mondo.
La famiglia autenticamente cristiana è chiamata a essere “Chiesa domestica”: gli sposi “fanno evangelizzazione” trasmettendo la fede ai figli e vivendo con coerenza i valori che insegnano, come primi testimoni di Cristo (che davvero occupa il posto d’onore in famiglia, a cui ci si riferisce per ogni scelta) per loro e per il mondo…
fanno “promozione umana” accogliendo amici in difficoltà, assistendo i malati e gli anziani della famiglia, talvolta facendo volontariato, o aprendosi all’adozione o all’affidamento, per aiutare altre famiglie e bambini soli; fanno talvolta catechesi esplicita lavorando nelle Parrocchie come laici impegnati; attingono forza dalla preghiera e dai Sacramenti.
Il Vangelo viene vissuto in mezzo alle normali difficoltà di tutte le esistenze: lavoro stressante, troppe commissioni, sentirsi “diversi” e un po’ incompresi se si è davvero coerenti…
E i figli? Bisogna aiutarli a trovare la loro strada, nel rispetto della loro libertà, garantendo loro per prima cosa la sicurezza affettiva.
E i genitori? Anche loro hanno bisogno di sostegno morale, di aiuto pratico, di dialogo e gratitudine.
Non si finisce mai di crescere insieme.
«Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita.
Anche se perdesse il senno, compatiscilo e non disprezzarlo, mentre sei nel pieno vigore.
Poiché la pietà verso il padre non sarà dimenticata» (Sir 3,12-14).
«Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto.
E voi, padri, non inasprite i vostri figli…» (Ef 6,1-4).

“L´eterna battaglia contro i negazionisti”

L’intervista «Io, Elie Wiesel, sopravvissuto e testimone, ricordo ancora oggi ogni singolo momento.
Quando fummo chiusi nel Ghetto, quando vennero a prenderci, quando ci caricarono sui treni, quando arrivammo ad Auschwitz, quando vidi mia madre, mio padre e mia sorella portati a morire».
Così Elie Wiesel, Nobel per la pace, attivista di primo piano per la pace e i diritti umani nel mondo, racconta l´Olocausto.
Oggi, nella Giornata della Memoria, terrà un discorso al Parlamento italiano.
Ascoltiamolo.
Professor Wiesel, come rammenta quegli anni tremendi? «Rivedo ancora oggi ogni episodio.
L´arresto in massa, la deportazione.
Il viaggio atroce nei carribestiame fino ad Auschwitz.
Ricordo cosa voleva dire sentirsi improvvisamente trattati come “Untermenschen”, come subumani da eliminare.
Ricordo quando, io ancora piccolo, restai solo ad Auschwitz.
Fu terribile, è difficile descrivere cosa vuol dire restare solo, senza più la famiglia che hai visto sterminare, e al tempo stesso sentire che non sei solo, che non lo saresti stato mai più.
Perché eri insieme a migliaia e migliaia di persone, trattati da subumani da eliminare come te, e al loro fianco sentivi la vicinanza della Morte.
Ognuno di noi la sentiva, e al tempo stesso non vivevamo accanto alla Morte, vivevamo nella Morte».
Com´era possibile sopravvivere a questo sentimento? «Penso ancora oggi che quando entrammo ad Auschwitz entrammo in un´altra Creazione, una dimensione speculare, parallela, opposta e negativa.
Nella Creazione che conoscevamo la Germania era il cuore della cultura, la patria di una letteratura straordinaria espressa da una grande lingua, la terra dei migliori ingegneri.
Ma là entrammo come in un mondo parallelo, fatto solo di “to kill and to die”, di chi uccide e di chi muore».
Il genocidio pianificato con precisione industriale fu un crimine speciale, tutto tedesco? «Vede, una delle cose più terribili che la Storia ci ha riservato è questa: nella prima guerra mondiale i tedeschi si comportarono bene, combatterono contro i pogrom zaristi all´Est.
Per il popolo ebraico, la Germania era terra di cultura, di alta tecnologia, di grandi talenti letterari.
Non ce lo aspettavamo.
I nazisti riuscirono a mobilitare tutto il talento dei tedeschi – talento in ogni forma, di psicologi, scienziati, ingegneri, giornalisti – per l´Olocausto.
Per questo quel crimine senza pari fu così atrocemente efficiente».
Lei oggi si fida dei tedeschi? «Io non credo nella colpa collettiva.
Solo i colpevoli sono colpevoli.
Sono testimone, non giudice.
Certo, purtroppo la Resistenza, l´opposizione al nazismo e alla Shoah, furono minoritari.
Ma insisto, la colpa collettiva per me non esiste.
E ammiro moltissimo Angela Merkel, perché lei che oggi guida la Germania sa parlare e agire nel mondo giusto: in nome della Memoria, e del diritto di Israele all´esistenza».
Qual è il significato della giornata della Memoria? «Sono lieto di tenere un discorso al Parlamento italiano.
E´ una giornata importante per tutto il mondo civile.
Perché è fondamentale non solo ricordare, ma anche capire come e perché l´orrore assoluto accadde.
E perché dimenticare è un grande pericolo, perché l´oblìo significa tradimento.
Chi oggi chiede di dimenticare deve sapere che non sfugge a questa responsabilità: insisto, dimenticare vuol dire tradire la memoria delle vittime.
E dai tradimenti non può mai derivare il bene».
E´ anche il pericolo posto dal negazionismo? «Il più grande, pericoloso e attivo negazionista del mondo è Ahmadinejad, per questo conduco una campagna contro le sue posizioni.
E´ il negazionista numero uno: nega in pubblico l´Olocausto, dichiara di volere bombe atomiche per distruggere Israele.
Dovrebbe essere arrestato, dovrebbe venire tradotto davanti a un tribunale internazionale e processato dal mondo per incitamento a crimini contro l´umanità e all´odio razziale».
Una specie di Processo di Norimberga? «Esiste già il Tribunale internazionale dell´Aja».
Lei è soddisfatto o no di come il mondo ricorda l´Olocausto? «In Europa la situazione è migliorata.
Gli Stati Uniti sono all´avanguardia: i due massimi memoriali sono a Washington e in Israele.
In tutto il mondo percepisco più sensibilità di prima al tema.
Forse perché alcuni di noi sopravvissuti sono ancora in vita.
Il mondo comincia a pensare che un giorno, presto, non ci saremo più, e che è doveroso ricordare mentre siamo ancora in vita.
Perché i sopravvissuti aiutano a tenere viva la Memoria, la comunicano al mondo di dopo l´Olocausto».
Ma quanto è grande il pericolo che, con sempre meno superstiti della Shoah ancora in vita, opinioni pubbliche e leader cedano alla tentazione di dimenticare, di “voltare pagina”? «Io vedo che in molti paesi i giovani che studiano l´Olocausto sono più numerosi che mai.
In America, e non solo, non c´è una scuola in cui la Shoah non sia materia d´insegnamento.
Mai come oggi ho visto tanti corsi, seminari, mostre, programmi tv.
Sono ottimista sulla capacità di ricordare.
Ma c´è sempre da chiedere che uso si fa della Memoria, quanto la si usa per capire».
L´antisemitismo è vivo e spesso in ascesa, per esempio in Europa.
Quanto è grave la minaccia? «Sono trend pericolosi.
Anche perché si manifestano spesso su uno sfondo d´indifferenza.
Nel 2009, in tutto il mondo ma specie in Europa, si è registrato il numero più alto di manifestazioni di antisemitismo dal 1945.
Recentemente sono stato in Ungheria, ho visto un aumento preoccupante dell´antisemitismo.
E anche altrove, gli antisemiti conquistano nuove tribune.
Come dico da decenni, spesso siamo di fronte a un antisemitismo senza ebrei, cioè a correnti antisemite in società dove quasi non vivono più ebrei.
Poi c´è un violento, ingiusto odio verso Israele.
Il bisogno di un capro espiatorio non è morto.
E tocca sempre agli ebrei.
Intanto, per esempio, dell´eccezionale efficienza dell´aiuto umanitario israeliano a Haiti si parla poco o nulla».
Le élite in Europa sono conosce della minaccia dell´antisemitismo e dell´oblìo o no? «Lo spero.
In alcuni paesi – l´Ungheria, l´Ucraina, ma anche paesi dell´Europa occidentale – vediamo trend pericolosi.
Umori antisemiti, il sorgere di partiti filonazisti.
Alle leadership politiche toccano anche doveri e considerazioni morali.
Non possiamo separare la politica dalla morale.
Serve una visione etica del mondo, e deve venire dai leader».
L´antisemitismo come ricerca del capro espiatorio è un male europeo? «L´antisemitismo è il più antico pregiudizio di gruppo della Storia.
Ed è presente tuttora, nel nostro quotidiano.
Dobbiamo combatterlo, non illuderci che la lotta sia finita».
Tra i negazionisti ci sono anche esponenti religiosi, come il vescovo Williamson.
Quanto sono pericolosi? «Sono pericolosi prima di tutto per la Chiesa cattolica.
Il fatto che papa Benedetto non abbia revocato la revoca della scomunica è al di là della mia comprensione.
Parliamo di un negazionista dell´Olocausto, predica odio verso gli ebrei e Israele, come può essere ancora un vescovo? Scomunicato o perdonato, come può essere ancora vescovo? Angela Merkel ha avuto ragione a criticare il Papa su questo tema».
in “la Repubblica” del 27 gennaio 2010

«Irrinunciabile la riconciliazione degli animi»

La vicinanza al popolo di Haiti, così duramente colpito dal terremoto.
E poi il ricordo del Sinodo africano, con la sottolineatura della necessità di una riconciliazione a ogni livello della società, i fatti di Rosarno, la crisi e la condizione delle imprese e del Paese, l’importanza di una nuova generazione di cattolici e di italiani che interpretino la cosa pubblica come un impegno alto e fondamentale per difendere e propagare i valori non negoziabili della vita e della famiglia.
Sono i temi toccati dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, nella prolusione al Consiglio episcopale permanente.
Eccone alcuni passaggi chiave.    L’emergenza di Haiti e il dovere della solidarietà.
«Nella giornata di ieri, domenica 24 gennaio, in tutte le nostre parrocchie si è svolta una raccolta straordinaria di aiuti per la popolazione di Haiti durissimamente colpita dal tragico terremoto del 12 gennaio.
Una prima cifra, com’è noto, è stata immediatamente erogata dalla Presidenza della Cei, ma molto di più si deve ora fare attraverso la Caritas che è già sul posto.
Siamo certi che i cattolici italiani vorranno come sempre corrispondere al dovere della generosità verso un popolo la cui tragedia lascia senza fiato.
Non abbiamo la pretesa di saper placare i quesiti più profondi ed inquietanti che sono suggeriti da questo genere di prove nella vita dei popoli, ma sappiamo che nella pronta solidarietà e nella genuina condivisione vi è già la traccia di ogni possibile risposta.
I missionari che da tempo operano nell’isola caraibica, i volontari stabili e quelli che si sono aggiunti in queste settimane sono i testimoni di una vicinanza che non verrà meno, dovendosi trovare le strade più rispettose ed efficaci per arrecare sollievo alle popolazioni colpite, in particolare ai bambini rimasti orfani e alle persone variamente segnate dalla tragedia».
La riconciliazione.
«Mi ha colpito, per restare ancora sull’importante discorso che il Santo Padre ha tenuto alla Curia romana alla vigilia di Natale, il significativo capitolo dedicato alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace, che gli era stato suggerito dal tema del recente Sinodo sull’Africa e dagli argomenti in esso vivacemente trattati.
Ma lo spettro della riflessione effettuata non era in modo vincolante circoscritto a quel continente, verso il quale peraltro sono ancora intatte tutte le responsabilità proprie del Nord del Mondo.
Di qui l’esame del concetto di riconciliazione quale compito della Chiesa di oggi, e come interpellanza diretta agli uomini del nostro tempo che hanno bisogno di apprendere nuovamente lo stile del riconciliarsi e i gesti che lo pongono in essere.
A cominciare dal sacramento della Riconciliazione: «Il fatto che esso in gran parte sia scomparso dalle abitudini esistenziali dei cristiani è un sintomo di una perdita di veracità nei confronti di noi stessi e di Dio; una perdita che mette in pericolo la nostra umanità e diminuisce la nostra capacità di pace» (ib).
Parole che suonano indubbiamente incalzanti per i popoli dell’Africa e le loro relazioni interne, spesso difficili e segnate da conflitti, ma anche per ogni altro popolo, dunque anche per noi e per la verità del nostro apporto di credenti alla costruzione dell’edificio comune che coincide anzitutto con il nostro Paese».
I fatti di Rosarno.
«Gli episodi di contestazione sociale che, attorno al fenomeno degli immigrati, hanno recentemente avuto luogo in Calabria, e specialmente a Rosarno e nella Piana di Gioia Tauro, potrebbero in una certa misura essere anch’essi ricondotti alla difficile crisi economica che l’Italia come gli altri Paesi si è trovata ad affrontare.
Ritengo che l’opinione pubblica nazionale abbia con l’occasione potuto avviare una riflessione che nessuna ruspa può facilmente rimuovere.
Voci sagge si sono alzate per dire cose importanti, da non scordare.
Io vorrei riprendere le parole essenziali che il Pontefice ha usato per centrare «il cuore del problema»: «Bisogna ripartire dal significato della persona.
Un immigrato è un essere umano, differente per provenienza, cultura e tradizioni, ma è una persona da rispettare e con diritti e doveri, in particolare, nell’ambito del lavoro, dove è più facile la tentazione dello sfruttamento, ma anche nell’ambito delle condizioni concrete di vita» (Saluto all’Angelus, 10 gennaio 2010).
Niente può farci dimenticare questa verità: l’immigrato è uno di noi; noi italiani siamo stati a nostra volta immigrati, e prima di noi lo è stato Gesù.
Bisogna partire da qui, e mai staccarsi da questa consapevolezza che va incardinata nei pensieri personali e collettivi degli adulti, come dei giovani e dei bambini».
Il sogno di una nuova generazione di cattolici.
«Confido in un sogno, di quelli che si fanno ad occhi aperti, e che dicono una direzione verso cui preme andare.
Mentre incoraggiamo i cattolici impegnati in politica ad essere sempre coerenti con la fede che include ed eleva ogni istanza e valore veramente umani, vorrei che questa stagione contribuisse a far sorgere una generazione nuova di italiani e di cattolici che, pur nel travaglio della cultura odierna e attrezzandosi a stare sensatamente dentro ad essa, sentono la cosa pubblica come importante e alta, in quanto capace di segnare il destino di tutti, e per essa sono disposti a dare il meglio dei loro pensieri, dei loro progetti, dei loro giorni.
Italiani e credenti che avvertono la responsabilità davanti a Dio come decisiva per l’agire politico.
So che per riuscire in una simile impresa ci vuole la Grazia abbondante di Dio, ma anche chi accetti di lasciarsi da essa investire e lavorare.
Ci vuole una comunità cristiana in cui i fedeli laici imparino a vivere con intensità il mistero di Dio nella vita, esercitandosi ai beni fondamentali della libertà, della verità, della coscienza.
Cresce l’urgenza di uomini e donne capaci, con l’aiuto dello Spirito, di incarnare questi ideali e di tradurli nella storia non cercando la via meno costosa della convenienza di parte comunque argomentata, ma la via più vera, che dispiega meglio il progetto di Dio sull’umanità, e perciò capaci di suscitare nel tempo l’ammirazione degli altri, anche di chi è mosso da logiche diverse».
Prolusione del (25 gennaio 2010) «Auspico il sorgere di una nuova generazione di italiani e di cattolici» .

“La legge morale vale anche per non credenti”

La legge morale naturale “non è esclusivamente o prevalentemente confessionale”, ma si fonda sulla stessa natura umana: lo ha ricordato Benedetto XVI ai partecipanti all’assemblea plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, ricevuti in udienza nella mattina di venerdì 15 gennaio, nella Sala Clementina.
Signori Cardinali, Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, Carissimi fedeli collaboratori, è per me motivo di grande gioia incontrarvi in occasione della Sessione Plenaria e manifestarvi i sentimenti di profonda riconoscenza e di cordiale apprezzamento per il lavoro che svolgete al servizio del Successore di Pietro nel suo ministero di confermare i fratelli nella fede (cfr.
Lc 22, 32).
Ringrazio il Signor Cardinale William Joseph Levada per il suo indirizzo di saluto, nel quale ha richiamato le tematiche che impegnano attualmente la Congregazione, nonché le nuove responsabilità che il Motu Proprio “Ecclesiae Unitatem” le ha affidato, unendo in modo stretto al Dicastero la Pontificia Commissione Ecclesia Dei.
Vorrei ora brevemente soffermarmi su alcuni aspetti che Ella, Signor Cardinale, ha esposto.
Anzitutto, desidero sottolineare come la Vostra Congregazione partecipi del ministero di unità, che è affidato, in special modo, al Romano Pontefice, mediante il suo impegno per la fedeltà dottrinale.
L’unità è infatti primariamente unità di fede, sostenuta dal sacro deposito, di cui il Successore di Pietro è il primo custode e difensore.
Confermare i fratelli nella fede, tenendoli uniti nella confessione del Cristo crocifisso e risorto costituisce per colui che siede sulla Cattedra di Pietro il primo e fondamentale compito conferitogli da Gesù.
È un inderogabile servizio dal quale dipende l’efficacia dell’azione evangelizzatrice della Chiesa fino alla fine dei secoli.
Il Vescovo di Roma, della cui potestas docendi partecipa la Vostra Congregazione, è tenuto costantemente a proclamare: “Dominus Iesus” – “Gesù è il Signore”.
La potestas docendi, infatti, comporta l’obbedienza alla fede, affinché la Verità che è Cristo continui a risplendere nella sua grandezza e a risuonare per tutti gli uomini nella sua integrità e purezza, così che vi sia un unico gregge, radunato attorno all’unico Pastore.
Il raggiungimento della comune testimonianza di fede di tutti i cristiani costituisce pertanto la priorità della Chiesa di ogni tempo, al fine di condurre tutti gli uomini all’incontro con Dio.
In questo spirito confido in particolare nell’impegno del Dicastero perché vengano superati i problemi dottrinali che ancora permangono per il raggiungimento della piena comunione con la Chiesa da parte della Fraternità S.
Pio X.
Desidero inoltre rallegrarmi per l’impegno in favore della piena integrazione di gruppi di fedeli e di singoli, già appartenenti all’Anglicanesimo, nella vita della Chiesa Cattolica, secondo quanto stabilito nella Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus.
La fedele adesione di questi gruppi alla verità ricevuta da Cristo e proposta dal Magistero della Chiesa non è in alcun modo contraria al movimento ecumenico, ma mostra, invece, il suo ultimo scopo che consiste nel giungere alla piena e visibile comunione dei discepoli del Signore.
Nel prezioso servizio che rendete al Vicario di Cristo, mi preme ricordare anche come la Congregazione per la Dottrina della Fede nel settembre 2008 ha pubblicato l’Istruzione Dignitas personae su alcune questioni di bioetica.
Dopo l’Enciclica Evangelium vitae del Servo di Dio Giovanni Paolo ii nel marzo 1995, questo documento dottrinale, centrato sul tema della dignità della persona, creata in Cristo e per Cristo, rappresenta un nuovo punto fermo nell’annuncio del Vangelo, in piena continuità con l’Istruzione Donum vitae, pubblicata da codesto Dicastero nel febbraio 1987.
In temi tanto delicati ed attuali, quali quelli riguardanti la procreazione e le nuove proposte terapeutiche che comportano la manipolazione dell’embrione e del patrimonio genetico umano, l’Istruzione ha ricordato che “il valore etico della scienza biomedica si misura con il riferimento sia al rispetto incondizionato dovuto ad ogni essere umano, in tutti i momenti della sua esistenza, sia alla tutela della specificità degli atti personali che trasmettono la vita” (Istr.
Dignitas personae, n.
10).
In tal modo il Magistero della Chiesa intende offrire il proprio contributo alla formazione della coscienza non solo dei credenti, ma di quanti cercano la verità e intendono dare ascolto ad argomentazioni che vengono dalla fede ma anche dalla stessa ragione.
La Chiesa, nel proporre valutazioni morali per la ricerca biomedica sulla vita umana, attinge infatti alla luce sia della ragione che della fede (cfr.
Ibid., n.
3), in quanto è sua convinzione che “ciò che è umano non solamente è accolto e rispettato dalla fede, ma da essa è anche purificato, innalzato e perfezionato” (Ibid., n.
7).
In questo contesto viene altresì data una risposta alla mentalità diffusa, secondo cui la fede è presentata come ostacolo alla libertà e alla ricerca scientifica, perché sarebbe costituita da un insieme di pregiudizi che vizierebbero la comprensione oggettiva della realtà.
Di fronte a tale atteggiamento, che tende a sostituire la verità con il consenso, fragile e facilmente manipolabile, la fede cristiana offre invece un contributo veritativo anche nell’ambito etico-filosofico, non fornendo soluzioni precostituite a problemi concreti, come la ricerca e la sperimentazione biomedica, ma proponendo prospettive morali affidabili all’interno delle quali la ragione umana può ricercare e trovare valide soluzioni.
Vi sono, infatti, determinati contenuti della rivelazione cristiana che gettano luce sulle problematiche bioetiche: il valore della vita umana, la dimensione relazionale e sociale della persona, la connessione tra l’aspetto unitivo e quello procreativo della sessualità, la centralità della famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna.
Questi contenuti, iscritti nel cuore dell’uomo, sono comprensibili anche razionalmente come elementi della legge morale naturale e possono riscuotere accoglienza anche da coloro che non si riconoscono nella fede cristiana.
La legge morale naturale non è esclusivamente o prevalentemente confessionale, anche se la Rivelazione cristiana e il compimento dell’uomo nel mistero di Cristo ne illumina e sviluppa in pienezza la dottrina.
Come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica, essa “indica le norme prime ed essenziali che regolano la vita morale” (n.
1955).
Fondata nella stessa natura umana e accessibile ad ogni creatura razionale, la legge morale naturale costituisce così la base per entrare in dialogo con tutti gli uomini che cercano la verità e, più in generale, con la società civile e secolare.
Questa legge, iscritta nel cuore di ogni uomo, tocca uno dei nodi essenziali della stessa riflessione sul diritto e interpella ugualmente la coscienza e la responsabilità dei legislatori.
Nell’incoraggiarvi a proseguire nel Vostro impegnativo e importante servizio, desidero esprimervi anche in questa circostanza la mia spirituale vicinanza, impartendo di cuore a voi tutti, in pegno di affetto e di gratitudine, la Benedizione Apostolica.
(©L’Osservatore Romano – 16 gennaio 2010)

«A Rosarno immigrati accolti come fratelli»

Domenica, in tutte le chiese della diocesi di Oppido-Palmi, verrà letto il messaggio scritto dal vescovo Luciano Bux (che pubblichiamo di seguito) dopo la guerriglia urbana, con agguati e ferimenti, che per alcuni giorni, ha sconvolto la cittadina calabrese di Rosarno, nel cuore della piana di Gioia Tauro, contrapponendo lavoratori stranieri – in maggioranza giovani africani –  e residenti della zona, probabilmente manovrati dalla criminalità organizzata.
Dopo la confusa campagna dei mezzi di comunicazione, specie le tv a livello nazionale, e dopo tante dichiarazioni di personaggi locali e nazionali ritengo di dover dire una parola al clero e ai fedeli della nostra diocesi.
Tralascio ogni considerazione di carattere sociale, civile, politico e culturale: non si addicono a una sacra celebrazione.
Ritengo sia mio grato dovere, di vescovo, dire un grazie al Signore per il comportamento della Chiesa di Oppido-Palmi non solo in questi giorni, ma per tutti i lunghi anni in cui è nato e cresciuto il fenomeno degli immigrati in diocesi, specie a Rosarno.
In tutti questi anni la nostra Chiesa ha dato esempio di come si possa essere “servi inutili” (Lc.
17, 10), a cominciare dal vescovo, ma servi che si sentiranno dire dal Signore: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto» (Mt.
25, 35).
Poi, il Signore dirà a tanti sacerdoti e laici di parrocchie, aggregazioni ecclesiali, organismi diocesani:  «Non vi chiamo più servi… ma vi ho chiamati amici» (Gv.
15, 17).
La misericordia di Dio praticata dal nostro clero e dai nostri laici mi è stata di grande conforto nelle recenti tristi giornate.
Abbiamo accolto gli immigrati non solo come persone umane, ma come nostri fratelli, a cominciare dai fedeli di Rosarno guidati dai sacerdoti operanti nelle tre parrocchie insieme ai diaconi e alle suore, fino a comunità e gruppi operanti in tante altre località della diocesi.
Quando li abbiamo invitati, in anni diversi, a due convegni diocesani per rallegrare con la loro presenza e i loro canti i nostri intervalli di convegno, sono venuti con gioia, e più di uno rinunciando a mezza giornata di lavoro e di guadagno… Ricordo anche dei ragazzi stranieri e musulmani felici di far parte della squadretta di calcio parrocchiale… Dico:  “Grazie”  al Signore e grazie ai preti e ai laici che si sono affaticati con amore generoso per anni, non solo nei giorni passati.
A quei fedeli che sono stati solo a guardare dico:  ogni volta che vedete un essere umano che è nel bisogno, non state solo a guardare e a parlare, ma rimboccatevi le maniche e datevi da fare come potete per alleviare le loro sofferenze.  Questo ci insegna Gesù nella parabola del buon Samaritano (cfr.
Lc.
10, 30 ss.).
Alle persone che vivono con la mente e il cuore lontano da Dio, anche se si mostrano religiosi credenti, ricordate loro che Gesù dice:  «Nessuno può servire due padroni, perché … si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro.  Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt.
6, 24).
Concludo con le parole che il Santo Padre, il Papa, ha pronunciato domenica scorsa, con attenzione anche alla nostra Terra:  «Un immigrato è un essere umano, differente per provenienza, cultura e tradizioni, ma è una persona da rispettare e con diritti e doveri, in particolare nell’ambito del lavoro dove è più facile la tentazione dello sfruttamento, ma anche nell’ambito delle condizioni concrete di vita».  «La violenza non deve essere mai, per nessuno, la via per risolvere le difficoltà.  Il problema è anzitutto umano.  Invito a guardare il volto dell’altro e a scoprire che egli ha un’anima, una storia e una vita:  è una persona e Dio lo ama come ama me».
O Signore, nostro e di tutti i popoli, o Signore della Chiesa e di questa Chiesa particolare che è in Oppido-Palmi, grazie a Te e grazie a voi, sacerdoti e fedeli.
Per il futuro restiamo nella fedeltà al Vangelo di Gesù nostro Signore e alla Sua Chiesa, che è il Suo mistico Corpo.
Luciano Bux vescovo di Oppido-Palmi

Francesco Guccini

Il 7 settembre 2009 è scomparso John T.
Elson, l’autore di una clamorosa inchiesta pubblicata sul “Time” e destinata a fare epoca.
Portava la data dell’8 aprile 1966, una manciata di mesi dopo la conclusione del concilio Vaticano ii e qualcuno in più prima dello scoppio fragoroso di quello che sarebbe stato il – mitico, famigerato, rimpianto, a seconda dei gusti – Sessantotto.
La sua copertina, su sfondo scuro, riportava solo un interrogativo lapidario, in caratteri rossi:  Is God dead? (“Dio è morto?”).
Nel ricordarlo, “L’Osservatore Romano” ha dedicato una riflessione alla canzone di Francesco Guccini ispirata da quel titolo, ancor oggi, per tanti, la sua più famosa:  Dio è morto, appunto.
Che viene presentata come “un’esaltazione di valori umani e naturaliter cristiani; tanto che, al contrario del cieco bacchettonismo dei canali nazionali ufficiali, il pezzo fu messo in onda dalla Radio Vaticana”.
Fra le leggende metropolitane legate al brano ce n’è una, perlomeno verosimile, che racconta di come Paolo vi l’avrebbe definito un lodevole esempio di esortazione alla pace e al ritorno a sani e giusti principi morali.
Siamo andati a parlarne direttamente con Guccini, raggiungendolo nei primi giorni di ottobre nel suo buen retiro di Pàvana, dove da qualche anno ha scelto di abitare nella casa in cui è cresciuto da bambino, e che sta pian piano rimettendo a posto.
A partire da Dio è morto, con lui – modenese di nascita, classe 1940, storico cantautore, scrittore, sceneggiatore di fumetti, linguista e persino attore (per gioco, tiene a precisare) – abbiamo ripercorso la sua vasta produzione musicale, scegliendo il filo rosso della spiritualità.
Non si è tirato indietro, confermando – una volta di più – la sua vocazione a porsi controcorrente rispetto al clima dominante nel Paese, la sua vitalità genuina, il suo impegno civile e la passione per la forza primigenia della parola, in musica e non solo.
Cominciamo con Dio è morto.
Avevo venticinque anni e stavo studiando all’università di Bologna (sembra strano, sono stato giovane anch’io!), i primi sit-in e il Sessantotto erano alle porte, era mia intenzione scrivere qualcosa di generazionale con Dio è morto.
Sta arrivando qualcosa che ci porterà a una nuova primavera, l’idea è questa, giocata su un registro fra l’apocalittico e l’esistenziale.
Oltre allo spunto del “Time”, un altro mi venne da alcuni miei versi vagamente ispirati a Thomas S.
Eliot, intitolati Le tecniche da difendere, che dicevano fra l’altro:  “Non abbiamo tecniche da difendere / né miti da venerare / dei ed eroi”, per concludersi con un’esortazione rivolta ai coetanei:  “Voi della mia generazione:  svegliatevi!” (che poi cambiai, imitando il Paradiso perduto di Milton, quando Satana parla agli angeli che poi decadranno, con “O potentati, principi guerrieri”).
Anche se l’incipit, ovviamente, mi derivò da una famosa poesia di Allen Ginsberg che ispirò la beat generation, Howl (“Urlo”):  “Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia”.
Tutto nasce, comunque, dalla consapevolezza che qualcosa doveva cambiare! Faccio spesso questo esempio:  la scuola che racconta Fellini in Amarcord, dunque di prima della guerra, in pieno fascismo, era identica alla scuola che ho frequentato io, alcuni decenni più tardi, in piena democrazia! I primi versi di Dio è morto sono un’accusa, gli ultimi risentono del pacifismo che c’era allora, ed era una mia risposta a un extraparlamentarismo che sentivo come troppo violento.
Del resto, l’aggiunta finale della speranza non mi venne dalla volontà di trasmettere il canonico happy end, ma dal fatto che all’epoca la speranza covava veramente.
Certo, il “dio” di cui parlavo era un “dio” con la minuscola, un “dio” laico simbolo dell’autenticità…
Anche se il primo recital che ho fatto, quattro brani in tutto, dopo le esibizioni in osteria o con gli amici – era il dicembre 1968 – fu proprio alla Cittadella di Assisi, un luogo simbolo del rinnovamento della Chiesa…
E poco dopo andai anche a Loppiano, e mi esibii, anzi, fui preso di forza e piacevolmente costretto a cantare davanti ai focolarini.
Per evitare problemi (che ci saranno ugualmente), la prima incisione, dei Nomadi, porta nel titolo un punto interrogativo, oltre al sottotitolo fra parentesi “Se Dio muore è per tre giorni e poi risorge”…
Ma c’è un altro aneddoto su Dio è morto…
Quando andavo all’università pensavo a una carriera accademica.
Fortunatamente ho cambiato strada! Avevo fatto tutti gli esami, mancava solo la tesi, ma mi bocciarono in latino, sui paradigmi, e io ricordavo solo i più facili.
Il professore disse all’assistente:  “Lo sa che questo ragazzo ha scritto quella canzone bellissima che si chiama Dio è morto?” (era stata appena incisa dai Nomadi).
“Però, si ricordi, i paradigmi vanno chiesti a tutti”.
E mi dissero di tornare.
La ricomporresti oggi? Dio è morto 2.
La vendetta, come certi film? No, perché, appunto, è una canzone generazionale, che si rivolgeva alla gente di allora, anche se ogni volta che la canto in concerto mi stupisco del fatto che i giovani la conoscano a memoria, dopo tanti anni…
Non riesco a eliminarla dalla scaletta! Il merito però, devo dire, non è del tutto mio, ma degli “sponsor” di queste canzoni (potrei ricordare anche Auschwitz), i razzisti e gli imbecilli che, a quanto pare, tornano periodicamente alla ribalta.
Passerei a Libera nos Domine, da Amerigo, siamo nel 1978, un anno cruciale per il nostro Paese.
Qui c’è la memoria dell’infanzia, con il recupero delle rogazioni, classico genere della tradizione religiosa popolare nostrana.
Con le rogazioni si chiedeva il soccorso divino per ottenere finalmente la pioggia dopo un periodo di siccità, o si supplicava di vedere allontanate le malattie collettive (tipo peste, colera e dintorni).
La nostra era una religiosità popolare, casalinga, piena di credenze paganeggianti.
Io, quando l’ho composta, avevo lasciato da parecchi anni la Chiesa, suppergiù a dodici anni, dopo aver fatto la comunione e la cresima (lo stesso giorno, come usava allora, credo per risparmiare sulle feste) presso la parrocchia di Sant’Agnese, a Modena.
Mentre solo qualche anno dopo avrei fondato, con alcuni amici, sempre a Modena, il Movimento Laico Indipendente, con il quale facemmo uscire due numeri di una rivistina.
Qui si tratta di una preghiera laica, che procede per accumulazione con un vasto elenco di mali epocali da cui trovare liberazione, con accenti che riecheggiano gli scenari della stessa Dio è morto:  “Da tutti gli imbecilli d’ogni razza e colore / dai sacri sanfedisti e da quel loro odore / dai pazzi giacobini e dal loro bruciore / da visionari e martiri dell’odio e del terrore / da chi ti paradisa dicendo “è per amore” / dai manichei che ti urlano “o con noi o traditore” / libera, libera, libera, / libera nos, Domine”.
Ce l’avevo con tutti gli integralisti, con gli ipocriti, di ogni religione! Beh, anche questa canzone funziona ancora, purtroppo.
È il turno di Shomér ma mi-llailah?, del 1983, tratta dal disco intitolato minimalisticamente Guccini.
Lo spunto mi venne da uno squarcio meraviglioso del profeta Isaia (21, 11-12).
Il titolo – letteralmente – si potrebbe tradurre con “Sentinella, che cosa della notte?”.
Mi colpì soprattutto l’invito del profeta a insistere, a ridomandare, a tornare ancora senza stancarsi.
Io sono uno sempre in ricerca, curioso di tutto.
All’epoca stavo leggendo la traduzione di Isaia proposta da Guido Ceronetti, bellissima, uscita per Adelphi.
Non si tratta, però, come qualcuno ha voluto vederci, di un simbolo di carattere sociale e politico, ma piuttosto di un universale antropologico.
Isaia, il profeta che di regola minaccia fuoco e fiamme per quanti non seguono le indicazioni divine, a un certo momento della sua vicenda dimostra in pieno la sua profonda apertura umana, in un paio di versetti pieni di speranza:  sentinella, a che punto stiamo della notte? Vale a dire, non bisogna stancarsi di porsi delle domande:  questa è la cosa più importante fra tutte! Coltivare la curiosità, la sete di ricerca.
Non ci si può mai fermare.
La sentinella risponde:  “La notte sta per finire, ma l’alba non è ancora giunta.
Tornate, domandate, insistete!”.
Potrei avvicinare questo pezzo a Signora Bovary, del 1987, in cui m’interrogo su “cosa c’è in fondo a quest’oggi”, “cosa c’è in fondo a questa notte”, “cosa c’è proprio in fondo in fondo / quando bene o male faremo due conti”…
Qui c’è un’angoscia esistenziale, l’angoscia della notte che non finisce…
Anche se non ci sono ancora arrivato, a fare quei due conti…
Staremo a vedere! Francesco, tu sei e sei sempre stato un gran lettore.
Che rapporto hai con la Bibbia? La Bibbia è un grande libro, assolutamente da leggere.
È pieno di storie affascinanti, di testi poetici.
Da ragazzetti si leggeva soprattutto il Cantico dei Cantici, che era così erotico.
Certo, quando t’imbatti nel Levitico o in quelle interminabili genealogie di personaggi più o meno sconosciuti, l’entusiasmo tende inevitabilmente a scemare, e li salti a piè pari.
Amo in particolare, naturalmente, la Genesi e l’Apocalisse, e sono convinto che ci possa essere una lettura di questi libri non necessariamente confessionale.
Qual è il tuo rapporto con Dio? Beh, parlerei piuttosto del rapporto con un senso religioso delle cose:  in genere mi definisco agnostico, anche se, quando sono soprappensiero, mi scopro vagamente panteista.
Il senso religioso della vita può essere l’avere una morale che hai assunto fin da quando eri bambino.
Poi si è modificato con certe conoscenze, certi incontri e certe cose, ma grosso modo è quello.
E quindi per me il senso religioso della vita è innanzitutto attenersi alla propria morale e poi pensare che tutto sommato anche per me, che sono laico, c’è la parte misteriosa della vita che non può essere schiacciata dal positivismo, dallo scientismo, come poi i secoli hanno sempre dimostrato, e quindi le fughe nell’irrazionale ci sono e ci saranno sempre.
Anzi, sono un po’ non solo la nostra condanna, ma anche, a volte, la nostra fortuna, la nostra possibilità di espansione.
Qualche settimana fa, come sai, è morta mia madre, Ester.
Da qualche tempo, sto pensando a una canzone, che forse però non ultimerò mai, che sarebbe la mia personale Spoon River, e che vorrei intitolare Vignale, dal nome della località in cui si trova il cimitero di Pàvana, in cui vedo i miei passati con cui parlo; se si vive in un paesino come questo, la morte è presente, ogni anno se ne va qualcuno.
Mi viene in mente anche un pezzo di molti anni fa, Gli amici, in cui canto:  “Se e quando moriremo, ma la cosa è insicura, / avremo un paradiso su misura, / in tutto somigliante al solito locale, / ma il bere non si paga e non fa male.
/ E ci andremo di forza, senza pagare il fìo / di coniugare troppo spesso in Dio:  / non voglio mescolarmi in guai o problemi altrui, / ma questo mondo ce l’ha schiaffato Lui”.
Ho scritto, tempo fa, un ricordo per Biggi, un amico che se n’è andato, un farmacista ligure che era stato partigiano assieme a Italo Calvino, per una pubblicazione del Club Tenco, in cui gli dico:  hai presente la mia canzone Gli amici? Immagino sarai sicuramente là – lui era un discreto bevitore – e stapperai le bottiglie di vino:  ci sarà Amilcare del Club Tenco, Augusto dei Nomadi, Victor dell’Equipe 84, il fumettista Bonvi, e poi ora è arrivato anche De André.
Vedrai che un tavolo di carte lo organizzate di certo! Gli dicevo anche che la morte è un fatto del tutto naturale, e che noi uomini siamo come piante, che hanno un’infanzia, una giovinezza, una maturità, poi, a un certo punto, il loro ciclo è finito e se ne vanno:  siamo esseri umani, Biggi, fondamentalmente buoni e retti, con una nostra morale implacabile, ma religiosi il giusto.
Del resto, che noia sarebbe essere immortali…
(©L’Osservatore Romano – 16 gennaio 2010)

Benedetto XVI ai diplomatici

Come ad ogni inizio d’anno, papa Benedetto XVI ha rivolto stamane al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede il suo discorso sullo stato del mondo.
Il discorso ha lo stile e le prudenze della diplomazia vaticana.
Non vi si fa parola, ad esempio, né della Cina né dell’India, le due superpotenze emergenti, dove la Chiesa cattolica è per motivi diversi schiacciata e aggredita.
Ciò non toglie, però, che il discorso trasmetta dei messaggi volutamente alternativi a quelli correnti.
In particolare tre.
1.
ECOLOGIA DELLA NATURA, MA SOPRATTUTTO DELL’UOMO Il primo messaggio coincide con quello già lanciato da Benedetto XVI per la Giornata Mondiale della Pace, celebrata a Capodanno: “Se vuoi coltivare la pace, coltiva il creato”.
Con una sottolineatura decisiva e controcorrente: il primato dato alla salvaguardia integrale dell’uomo.
Ecco tre passaggi del discorso che svolgono questo tema: “Vent’anni fa, quando cadde il Muro di Berlino e quando crollarono i regimi materialisti ed atei che avevano dominato lungo diversi decenni una parte di questo continente, si è potuta avere la misura delle profonde ferite che un sistema economico privo di riferimenti fondati sulla verità dell’uomo aveva inferto, non solo alla dignità e alla libertà delle persone e dei popoli, ma anche alla natura, con l’inquinamento del suolo, delle acque e dell’aria.
La negazione di Dio sfigura la libertà della persona umana, ma devasta anche la creazione! Ne consegue che la salvaguardia del creato non risponde in primo luogo ad un’esigenza estetica, ma anzitutto a un’esigenza morale, perché la natura esprime un disegno di amore e di verità che ci precede e che viene da Dio”.
[…] “Se si vuole edificare una vera pace, come sarebbe possibile separare, o addirittura contrapporre la salvaguardia dell’ambiente a quella della vita umana, compresa la vita prima della nascita? È nel rispetto che la persona umana nutre per se stessa che si manifesta il suo senso di responsabilità verso il creato”.
[…] “Le creature sono differenti le une dalle altre e possono essere protette, o al contrario messe in pericolo, in modi diversi, come ci mostra l’esperienza quotidiana.
Uno di tali attacchi proviene da leggi o progetti, che, in nome della lotta contro la discriminazione, colpiscono il fondamento biologico della differenza fra i sessi.
Mi riferisco, per esempio, ad alcuni paesi europei o del continente americano.
‘Se togli la libertà, togli la dignità’, come disse san Colombano.
Tuttavia, la libertà non può essere assoluta, perché l’uomo non è Dio, ma immagine di Dio, sua creatura.
Per l’uomo, il cammino da seguire non può quindi essere l’arbitrio, o il desiderio, ma deve consistere, piuttosto, nel corrispondere alla struttura voluta dal Creatore”.
2.
LAICITÀ POSITIVA Un secondo messaggio controcorrente è rivolto principalmente all’Europa e all’Occidente.
Rivendica il ruolo pubblico della Chiesa.
Ecco in che senso: “Le radici della situazione che è sotto gli occhi di tutti sono di ordine morale e la questione deve essere affrontata nel quadro di un grande sforzo educativo, per promuovere un effettivo cambiamento di mentalità ed instaurare nuovi stili di vita.
Di ciò può e vuole essere partecipe la comunità dei credenti, ma perché ciò sia possibile, bisogna che se ne riconosca il ruolo pubblico.
Purtroppo, in alcuni paesi, soprattutto occidentali, si diffondono, negli ambienti politici e culturali, come pure nei mezzi di comunicazione, un sentimento di scarsa considerazione, e, talvolta, di ostilità, per non dire di disprezzo verso la religione, in particolare quella cristiana.
È chiaro che, se il relativismo è concepito come un elemento costitutivo essenziale della democrazia, si rischia di concepire la laicità unicamente in termini di esclusione o, meglio, di rifiuto dell’importanza sociale del fatto religioso.
Un tale approccio crea tuttavia scontro e divisione, ferisce la pace, inquina la ‘ecologia umana’ e, rifiutando, per principio, le attitudini diverse dalla propria, si trasforma in una strada senza uscita.
“Urge, pertanto, definire una laicità positiva, aperta, che, fondata su una giusta autonomia tra l’ordine temporale e quello spirituale, favorisca una sana collaborazione e un senso di responsabilità condivisa.
In questa prospettiva, io penso all’Europa, che con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha iniziato una nuova fase del suo processo di integrazione, che la Santa Sede continuerà a seguire con rispetto e con benevola attenzione.
Nel rilevare con soddisfazione che il Trattato prevede che l’Unione Europea mantenga con le Chiese un dialogo ‘aperto, trasparente e regolare’ (art.
17), auspico che, nella costruzione del proprio avvenire, l’Europa sappia sempre attingere alle fonti della propria identità cristiana”.
3.
LIBERTÀ DI RELIGIONE Infine, un terzo messaggio è di rivendicazione della libertà di religione e di denuncia delle situazioni nelle quali tale libertà è conculcata.
Benedetto XVI cita alcuni casi che vedono come vittime i cristiani: Iraq, Pakistan, Egitto, Medio Oriente.
Dell’islam non fa parola, ma in tutti i casi citati gli aggressori sono musulmani: “Per amore del dialogo e della pace, che salvaguardano la creazione, esorto i governanti e i cittadini dell’Iraq ad oltrepassare le divisione, la tentazione della violenza e l’intolleranza, per costruire insieme l’avvenire del loro paese.
Anche le comunità cristiane vogliono dare il loro contributo, ma perché ciò sia possibile, bisogna che sia loro assicurato rispetto, sicurezza e libertà.
Anche il Pakistan è stato duramente colpito dalla violenza in questi ultimi mesi e alcuni episodi hanno preso di mira direttamente la minoranza cristiana.
Domando che si compia ogni sforzo affinché tali aggressioni non si ripetano e i cristiani possano sentirsi pienamente integrati nella vita del loro paese.
Trattando delle violenze contro i cristiani, non posso non menzionare, peraltro, i deplorevoli attentati di cui sono state vittime le Comunità copte egiziane in questi ultimi giorni, proprio quando stavano celebrando il Natale.
[…] “Le gravi violenze che ho appena evocato, unite ai flagelli della povertà e della fame, come pure alle catastrofi naturali ed al degrado ambientale, contribuiscono ad ingrossare le fila di quanti abbandonano la propria terra.
Di fronte a tale esodo, invito le autorità civili, che vi sono coinvolte a diverso titolo, ad agire con giustizia, solidarietà e lungimiranza.
In particolare, vorrei menzionare i cristiani in Medio Oriente: colpiti in varie maniere, fin nell’esercizio della loro libertà religiosa, essi lasciano la terra dei loro padri in cui si è sviluppata la Chiesa dei primi secoli.
È per offrire loro un sostegno e per far loro sentire la vicinanza dei fratelli nella fede che ho convocato, per l’autunno prossimo, l’assemblea speciale del sinodo dei vescovi sul Medio Oriente”.
* Come negli anni passati, anche questa volta il testo del discorso è stato preparato negli uffici della segreteria di Stato.
Ma anche questa volta Benedetto XVI non ha mancato di lasciarvi la sua impronta.
La “firma” personale di Joseph Ratzinger è nelle righe d’inizio, nelle quali egli ha immediatamente offerto ai diplomatici presenti, molti dei quali estranei alla fede cristiana, la contemplazione della nascita del Verbo incarnato, annunciata dagli angeli ai pastori.
E ha citato il prefazio della seconda messa di Natale: “Nel mistero adorabile del Natale, Egli, Verbo invisibile, apparve visibilmente nella nostra carne, e generato prima dei secoli, cominciò ad esistere nel tempo, per assumere in sé tutto il creato e sollevarlo dalla sua caduta”.
Sandro Magister www.chiesa,it Per leggere il testo integrale del discorso del papa al corpo diplomatico: > “È per me motivo di grande gioia…”

La Sindone dal 1992 a oggi

Nel 1992 l’arcivescovo di Torino e custode pontificio della Sindone, il cardinale Giovanni Saldarini, nominò una commissione scientifica internazionale composta da alcuni tra i maggiori esperti di tessuti antichi e da eminenti studiosi, con l’incarico di avviare un ampio e articolato piano di studio per affrontare e risolvere il delicato e importante problema della conservazione della Sindone.
I lavori ebbero inizio nel 1992 con un’ostensione privata alla presenza della commissione e si conclusero nel 1996 con la consegna alla Santa Sede, proprietaria della reliquia, di una relazione finale.
In tale relazione la commissione di esperti faceva il punto sullo stato di conservazione della Sindone e suggeriva una serie di indicazioni e condizioni irrinunciabili per la sua conservazione ottimale che si possono così riassumere: a) la Sindone deve essere conservata in posizione distesa, piana e orizzontale.
b) La Sindone deve essere liberata dagli accessori che servivano alle vecchie modalità di conservazione e di ostensione, ovvero il cilindro di legno, il telo rosso che la ricopriva quando veniva arrotolata, il nastro di seta azzurra cucito lungo il perimetro e le bandelle d’argento cucite all’interno del nastro azzurro lungo i due lati più corti.
c) La Sindone deve essere conservata in una teca di vetro antiproiettile, a tenuta stagna, in assenza di aria e in presenza di un gas inerte, al fine di interrompere il progressivo ingiallimento del tessuto dovuto al naturale processo di ossidazione e che è responsabile della progressiva riduzione di visibilità dell’immagine.
La teca deve essere protetta dalla luce e mantenuta in condizioni climatiche (pressione, temperatura, umidità, e così via) costanti.
d) È necessario studiare a fondo il problema dell’eventuale sostituzione del telo d’Olanda con un nuovo telo e dell’eventuale asportazione o sostituzione dei rattoppi per migliorare le condizioni di conservazione.
Poco mancò che tutti questi studi si rivelassero vani, in quanto il 12 aprile dell’anno successivo un terribile incendio danneggiò seriamente la cappella della Sindone.
Fortunatamente il lenzuolo, che era stato spostato nel duomo per permettere i restauri della cappella stessa, fu risparmiato sia dal fuoco, sia dall’acqua, sia dai crolli di materiale.
Le indicazioni suggerite dalla commissione imponevano ovviamente una modalità di conservazione radicalmente diversa da quella utilizzata negli ultimi tre secoli – l’arrotolamento su di un cilindro – e soprattutto la necessità di costruire una teca di dimensioni ben maggiori.
L’intera operazione si presentava naturalmente molto complessa e delicata poiché numerose erano le difficoltà da superare tanto in fase progettuale quanto in fase esecutiva.
Nonostante le non poche difficoltà incontrate, la costruzione della teca fu completata nei tempi previsti e il 17 aprile 1998 la Sindone venne per la prima volta ospitata nella nuova teca e in essa esposta al pubblico durante l’ostensione tenutasi in quell’anno.
La teca è un parallelepipedo dal peso di 2.500 chilogrammi, le cui superfici laterali e inferiore sono realizzate con un doppio strato di acciaio balistico e la cui superficie superiore è fatta di uno spesso vetro laminato a prova di proiettile.
La teca è sorretta da un carrello mobile che consente di effettuare gli spostamenti e le rotazioni necessarie in occasione delle ostensioni.
All’interno della teca la Sindone è cucita su di un mollettone non trattato e appoggiata su di un supporto di alluminio scorrevole su rotaia.
Al termine dell’ostensione del 2000 la Sindone fu trasferita dalla teca utilizzata per le ostensioni in una nuova teca, più leggera e maneggevole, destinata alla conservazione ordinaria.
All’interno della teca a tenuta stagna è stata introdotta una miscela di argon (99,5 per cento) e di ossigeno (0,5 per cento).
La presenza di un gas inerte come l’argon – che non reagisce con i più comuni elementi chimici – miscelato a una piccola quantità di ossigeno è indispensabile per impedire lo sviluppo di batteri sia aerobici che anaerobici e, come si è detto, per interrompere il progressivo ingiallimento del tessuto.
La nuova teca è provvista di un sistema di controllo della pressione interna costituito da una batteria di soffietti mobili (posizionati al di sotto della teca) che garantiscono un costante equilibrio tra pressione interna ed esterna alla teca, necessario per evitare rischi di rotture del vetro.
Al termine di una lunga e delicata fase di preparazione, il 20 giugno 2002 ebbe inizio l’ultima fase dei lavori, consistente in un importante e indispensabile intervento di restauro conservativo che si concluse il successivo 23 luglio.
Sotto la guida di Mechthild Flury Lemberg, esperta di fama internazionale di restauri di tessuti antichi, la Sindone venne scucita dal vecchio telo d’Olanda e successivamente furono scucite tutte le toppe al di sotto delle quali fu trovata una notevolissima quantità di materiale inquinante – costituito soprattutto da residui di tessuto carbonizzato durante l’incendio di Chambéry e polverizzatosi durante i secoli successivi – che costituiva ovviamente un notevole rischio per la conservazione del tessuto sindonico.
Tale materiale fu asportato, raccolto in appositi contenitori sigillati, catalogato e consegnato al cardinale Severino Poletto, arcivescovo di Torino e custode pontificio della Sindone Prima di provvedere alla cucitura di un nuovo telo di sostegno sul retro della Sindone venne effettuato un completo rilievo fotografico e tramite scanner, oltre a rilievi fotografici in fluorescenza e registrazioni spettroscopiche Uv-Vis e Raman a diverse lunghezze d’onda in siti con diverse caratteristiche – al di sotto di siti senza immagine, con la sola immagine, con il solo sangue, con sangue e immagine, e così via.
Fu inoltre effettuata un’analisi microscopica in alcuni siti con l’utilizzo di un videomicroscopio con ingrandimenti.
Infine vennero inoltre effettuati, sempre sul retro, alcuni prelievi microscopici con i metodi della suzione e del nastro adesivo.
Tutti i dati ottenuti e il materiale raccolto furono consegnati al custode pontificio della Sindone e, se e quando la Santa Sede lo riterrà opportuno, potranno essere messi a disposizione degli scienziati per studi e ricerche.
L’esame del retro della Sindone – rimasto coperto, e quindi non visibile, dal 1534 al 2002 – permise di confermare pienamente l’ipotesi avanzata nel 1978 dagli scienziati dello Sturp relativa al fatto che sul retro appaiono ben evidenti le macchie di sangue presenti sulla faccia visibile della Sindone, mentre è assente ogni traccia dell’immagine corporea perché possiede uno spessore solo di qualche centesimo di millimetro.
La Sindone è stata poi ricucita su di un nuovo telo di supporto, anch’esso tessuto in Olanda e preventivamente testato e analizzato per garantirne le caratteristiche chimico-fisiche.
Infine i bordi delle bruciature furono cuciti al nuovo telo d’Olanda in quanto si è ritenuto non più necessario coprirli con nuove toppe, sia perché la Sindone è ora conservata completamente distesa in posizione orizzontale e quindi non più sottoposta a tensioni meccaniche, sia per rendere del tutto visibili l’immagine sindonica e le macchie ematiche.
Al termine dei lavori la Sindone è tornata nella sua teca, nel transetto sinistro della cattedrale di Torino, protetta e monitorata da sistemi moderni e sofisticati.
Il futuro della ricerca sul misterioso lenzuolo è stato tracciato dal simposio “La Sindone: passato, presente e futuro” svoltosi a Torino nel 2000, che ha visto la partecipazione, su invito, di 40 tra i maggiori esperti a livello internazionale di studi sulla Sindone e dei campi di ricerca a essa connessi, provenienti da dieci Paesi.
Al termine del simposio è stato deciso di raccogliere nuove proposte di ricerca al fine di avviare nuovi studi e una raccolta di nuovi dati.
Negli anni successivi al simposio sono pervenute a Torino, da scienziati di tutto il mondo, nuove proposte e progetti di ricerca che sono stati sottoposti all’esame di una commissione internazionale di esperti, per valutare la possibilità di avviare una nuova campagna coordinata di studi e di ricerche.
Al momento attuale tutto il materiale raccolto è stato consegnato alla Santa Sede.
Sarà la Santa Sede, proprietaria della Sindone, a decidere se e quando avviare una nuova campagna di ricerche dirette.
La nuova e affascinante sfida che la Sindone lancia alla scienza per il nuovo millennio è già iniziata.
di Bruno Barberis e Gian Maria Zaccone ”Muoio, dice il Signore, per vivificare tutti per mezzo mio”.
Queste parole, che un Padre della Chiesa, san Cirillo d’Alessandria, s’immaginava sulla bocca di Cristo, suggeriscono il vero significato della Santa Sindone nella vita della Chiesa: non tanto una reliquia di sofferenza e mortalità, ma il segno della vittoria: della tomba vuota, del sudario abbandonato, della vita che trionfa sulla morte.
Tale vittoria coinvolge poi ogni uomo, non solo il Salvatore: “Con la mia carne ho redento la carne di tutti”, prosegue Cristo nel testo di san Cirillo, spiegando che “la morte infatti morrà nella mia morte e la natura umana, che era caduta, risorgerà insieme con me”.
Questa universale e definitiva vittoria è visualizzata in un capolavoro del Rinascimento d’oltralpe: un pannello dell’altare di Isenheim, opera del tedesco Matthias Grunewald, dove Cristo esplode dal sepolcro ancora avvolto dalla Sindone, la quale viene gradualmente impregnata della sua nuova condizione, colorata dalla luce che lo circonda.
In questa composizione divisa in due parti, Cristo risorto in alto e i soldati messi a sorvegliare il sepolcro sotto di lui, è infatti la Sindone a collegare la terra e il cielo; e laddove nella parte inferiore i militi sono supini o curvi – intorpiditi dal sonno e spaventati – in alto Cristo sorge eretto e libero, il suo corpo nudo sotto la Sindone sciolta mentre le guardie rimangono imprigionate nelle pesanti armature; libero è anche il volto del salvatore – schietto e gioioso – in contrasto alle facce coperte e ombreggiate delle guardie.
Numerosi dettagli, e soprattutto le armi inutilmente impugnate dai militi evocano lo scontro celebrato nell’antica sequenza pasquale, dove si narra che “morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello.
Il Signore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa”.
Gonfalone e reliquia di questo trionfo è la Sindone.
Il tema della Sindone come reliquia della Pasqua era stato elaborato in un altro dipinto nordico, una Risurrezione attribuita a Michael Wolgemut, trent’anni prima.
Nella versione di Wolgemut, il primo maestro di Albrecht Dürer, l’attenzione viene attirata da affascinanti dettagli: l’alba del nuovo giorno su cui si staglia Gerusalemme, sullo sfondo a destra; nella media distanza, poi, le donne che varcano la soglia del giardino murato; e in primo piano i militi assopiti al piede del sepolcro.
S’impongono tuttavia i due elementi narrativi principali, posti al centro della composizione: il Risorto in piedi davanti alla tomba, con lo scettro in mano e un regale manto scarlatto, e, appena dietro di lui, la Sindone, sistemata da un angelo metà dentro il sepolcro, metà fuori.
Sappiamo che tra pochi istanti Cristo scomparirà e che le donne, arrivando, non lo vedranno più; rimarrà solo la Sindone come testimonianza della sua Risurrezione.
La Sindone – il lungo telo utilizzato per il trasporto e la sepoltura del Salvatore morto in croce – appare soprattutto in raffigurazioni della sua deposizione e del successivo compianto sul cadavere: una tavola dell’olandese Geertgen tot Sint Jans, assai vicino al linguaggio stilistico e allo spirito pietistico della Risurrezione attribuita al Wolgemut, illustra bene quest’uso iconografico.
La stoffa bianca su cui il corpo rigido di Gesù è steso, alla stregua della corona di spine e dei chiodi disposti appena sotto di essa, viene presentata come veneranda reliquia del sacrificio della croce; Golgotha, luogo del sacrificio, di fatto è visibile sopra il gruppo costituito da Cristo morto e Maria.
Questa immagine suggerisce poi un’altra dimensione di significato della Sindone.
La tavola di Geertgen è quanto rimane di un grande trittico descritto nelle fonti antiche: una pala d’altare databile intorno al 1484, la cui immagine centrale era la Crocifissione, mentre quella a sinistra rappresentava forse la Via Crucis, e quella a destra il Compianto.
Tale programma iconografico serviva da sfondo per l’Eucaristia, celebrata davanti a queste raffigurazioni del sacrificio fisico del Salvatore, e il telo bianco steso sotto il corpo di Cristo nella tavola era pertanto visto appena sopra l’altare rivestito di un analogo tessuto bianco, la tovaglia su cui il sacerdote pone il Corpus Domini sacramentale: l’ostia consacrata.
Nella simbologia liturgica medievale, l’altare era infatti considerato simbolo del sepolcro, e le “deposizioni” ed “elevazioni” dell’ostia immagine del corpo storico di Gesù tra Venerdì Santo e Pasqua.
La stessa mistica allusione all’altare eucaristico è presente in una piccola tavola del Beato Angelico, dove i temi di compianto e sepoltura, sovrapponendosi e fondendosi, suggeriscono un’adorante “comunione spirituale” che è anche un addio.
Il cruciforme corpo di Cristo, sostenuto da Nicodemo, Maria e Giovanni, il discepolo diletto, è poi avvolto nella lunga Sindone che, sull’erba fiorita del giardino, diventa un perfetto rettangolo di stoffa bianca evocante la tovaglia della mensa eucaristica.
Pure in questo caso l’opera era infatti parte di una pala d’altare – il pannello centrale della predella – e anche qui la tovaglia bianca sulla mensa era visibile pochi centimetri sotto la Sindone raffigurata e della stessa forma.
Quest’immagine era al centro della predella della celebre pala angelicana per la chiesa fiorentina di San Marco, oggi conservata nell’attiguo convento domenicano diventato museo.
Leggendo dall’alto verso il basso si capiva quindi che Cristo era prima nato, poi morto e successivamente sepolto; l’elevazione dell’ostia dalla tovaglia-sindone, alla consacrazione della Messa, avrebbe sottolineato che Egli era anche, infine, risorto.
E la stoffa bianca della Sindone raffigurata nella predella – sotto la tavola grande e sopra l’altare – diventava anche allusione al “velo della carne” avuto dalla madre – il velo con cui Gesù Cristo nascose la sua divinità e s’immolò.
Il collegamento tra la Passione del Salvatore e la sua Natività è antico nell’iconografia cristiana, come suggerisce un’opera palestinese del VI secolo, il coperchio di una teca per reliquie.
Il soggetto principale è la Passione, e al centro vediamo Cristo che stende le braccia tra i due ladri, il suo corpo così grande da quasi occultare la croce stessa.
Ma l’anonimo artista ha inserito la crocifissione tra altri momenti della Vita Christi, così che l’immagine si presenta come un sunto in cui la crocifissione è l’atto dominante, occupando l’intero centro del campo visivo – anzi, configurando la composizione in termini cruciformi.
Ecco allora perché i vangeli e la prima arte cristiana hanno trattato con concisione l’evento della crocifissione in sé, capivano cioè che il senso della crocifissione non era limitato all’evento stesso, ma che sulla croce Cristo aveva portato tutta la sua esistenza passata e futura.
Il legame morte-nascita è ancora più esplicito in uno spettacolare oggetto conservato nel Museo Sacro della Biblioteca Vaticana, la Croce di Papa Pasquale i, un capolavoro di smalto cloisonné su lamina d’oro realizzato forse da un maestro siriaco attivo a Costantinopoli nei primi decenni del IX secolo.
Il programma iconografico è focalizzato sul mistero natalizio ma i sette episodi vengono organizzati nelle braccia e al centro di una croce, così che l’Annunciazione, la Visitazione, la Natività, l’Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio, la Fuga in Egitto e il Battesimo di Cristo devono essere obbligatoriamente letti tutti in rapporto alla futura crocifissione del Salvatore.
Ciò che abbiamo chiamato “croce” è poi in realtà una stauroteca – un contenitore per frammenti della vera croce – sapendo che l’oggetto conteneva il legno su cui Cristo era morto, il credente contemplava queste scene della sua nascita con profonda commozione; non a caso il centro, corrispondente alla testa di Cristo in un crocifisso, è occupato dalla Natività stessa, col bambino in una mangiatoia, allusione alla futura offerta del corpo di Cristo come alimento.
Lo stesso modo di riassumere in un’unica immagine gli estremi esistenziali dell’umanato Figlio di Dio emerge in una piccola tavola trecentesca dove sono raffigurati sia il neonato Gesù, in basso, che il Vir dolorum, in alto, quasi a conferma dell’affermazione di san Leone Magno, secondo cui “l’unico scopo del Figlio di Dio nel nascere era di rendere possibile la crocifissione.
Nel grembo della Vergine egli assunse una carne mortale, e in quella carne mortale ha compiuto la sua passione”.
L’enfasi delle Scritture e dell’arte sul legame tra la nascita di Cristo e la sua morte ha la funzione di presentare la Passione non come un episodio tragico – una conclusione imprevista e indesiderata del racconto esistenziale di Gesù – bensì come il senso stesso della sua vita, la ragione per cui è venuto nel mondo (cfr.
Giovanni, 19, 37).
Ma la morte di Cristo dà senso anche alle nostre vite, come suggerisce un capolavoro assoluto dell’arte occidentale, la grande pala dipinta da Giovanni Bellini per i francescani di Pesaro negli anni 1470, oggi divisa in due parti: la tavola principale al Museo Civico della città adriatica e la cimasa alla Pinacoteca Vaticana.
Un’immagine drammatica che descrive l’unzione del cadavere di Cristo, tenuto sull’orlo del sepolcro da Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo e Maria Maddalena, con la Sindone che gli avvolge le gambe; anche qui, nella sistemazione originale sopra l’altare della chiesa, il significato eucaristico della scena doveva essere evidente.
Ma quest’immagine di Cristo morto sovrastava un’altra, più grande, del Salvatore che, risorto, impone la corona a Maria sua madre.
Il messaggio complessivo riguardava quindi la morte e la risurrezione di Cristo; riguardava anche la risurrezione di Maria, seduta accanto a Cristo, e dei quattro santi intorno al trono: Paolo e Pietro, Girolamo e Francesco.
L’insieme d’immagini rappresenta infatti la meta finale di ogni donna e uomo, la vocazione celeste della carne umana; Maria è l’antesignana di questa “sorte beata”, ma con lei ci sono altri e così capiamo che la nuova condizione del Signore morto e risorto si estende anche a noi.
La bianca Sindone, in alto, che si trasforma in sontuoso abito di festa nella figura di Cristo in basso, diventa metafora della trasformazione della nostra mortalità in quella vita eterna promessa da lui, Cristo.
Piuttosto che “abito di festa” dobbiamo poi dire abito nuziale, perché Chi chiama l’umanità accanto a sé è anche Sposo.
Un analogo livello di interpenetrazione dell’umano col divino traspare in alcune raffigurazioni del Cristo morto dei maestri del Cinquecento.
La prima è un disegno eseguito da Michelangelo Buonarroti per Vittoria Colonna: una Pietà in cui lo stupendo Cristo morto sembra nascere dal corpo della madre.
Maria, seduta sotto la croce dalla quale il figlio è stato deposto, con le mani alzate nel gesto antico di preghiera sembra crocifissa anche lei; figura della Chiesa, supplica il Padre di ridare vita al corpo del figlio, anch’esso figura ecclesiale; la Chiesa che chiede dal cielo la risurrezione della Chiesa, si può dire.
La seconda opera, sempre di Michelangelo e strettamente legata al disegno appena citato, è intensamente personale: la monumentale Pietà di marmo iniziata dal Buonarroti nel 1547 e lasciata incompiuta nel 1555, in cui, nella figura del vecchio che sostiene il corpo di Cristo vediamo l’autoritratto dell’artista.
Secondo i suoi biografi contemporanei, Ascanio Condivi e Giorgio Vasari, Michelangelo intendeva collocare questo gruppo scultoreo sull’altare della cappella in cui pensava di essere sepolto, probabilmente nella basilica romana di Santa Maria Maggiore, servendosene come monumento funebre; esso costituisce pertanto una confessio fidei in cui il committente assume il carattere di un personaggio scritturistico.
In questo caso committente e artista sono la stessa persona, e il “personaggio” assunto ha un significato speciale: Michelangelo si presenta come Nicodemo, il vecchio che “andò da Gesù di notte” per chiedergli “come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?” (Giovanni, 3, 2-4).
Secondo una tradizione popolare diffusa in Toscana, Nicodemo era infatti scultore, autore del Volto Santo di Lucca.
Confrontando questa Pietà scolpita e il coevo disegno per Vittoria Colonna, rimaniamo colpiti dall’evidente rapporto tra le due opere.
Nel disegno e nel gruppo scultoreo, il corpo di Cristo, potente anche nella morte, è sorretto da un personaggio che lo sovrasta e che, all’apice della composizione, diventa interprete del senso spirituale dell’evento.
Ma laddove per Vittoria Colonna l’ “interprete” è Maria (in cui dobbiamo forse vedere un ritratto ideale della devota nobildonna) nella Pietà eseguita per Michelangelo stesso – nella veste di Nicodemo – è il vecchio che vuole rinascere a dare il senso.
Nel gruppo marmoreo Michelangelo si sostituisce alla figura di Maria, cioè, mantenendo però l’idea base del disegno in cui il corpo di Cristo “nasce” dal corpo di chi lo sovrasta, così che vediamo Cristo nascere da Michelangelo forse secondo l’intuizione di sant’Ambrogio, per cui “ogni anima che crede concepisce e genera il Verbo di Dio (…) se c’è una sola madre di Cristo secondo la carne, secondo la fede invece Cristo è il frutto di tutti”.
di Timothy Verdon (©L’Osservatore Romano – 10 gennaio 2010) ”La Sindone: provocazione all’intelligenza, specchio del Vangelo” è il tema dell’incontro che si svolgerà lunedì 11 gennaio, nell’Auditorium della chiesa del Santo Volto a Torino, in occasione della presentazione del volume “Sindone” edito dalla Utet.
Dal libro, ancora non in distribuzione, anticipiamo ampi stralci di due saggi.
Il primo è stato scritto rispettivamente dal direttore scientifico del Museo della Sindone e dal direttore del Centro internazionale di sindonologia.
Il secondo ripercorre la fortuna della Sindone nella storia dell’arte.