Quaresima-Pasqua: “Ritornate a me con tutto il cuore”

E’ disponibile in tutte le librerie cattoliche d’Italia e nel sito dell’Ufficio liturgico nazionale www.chiesacattolica.it/liturgia il Sussidio liturgico-pastorale della CEI per il tempo di Quaresima- Pasqua 2010 dal titolo “Ritornate a me con tutto il cuore” (Gioele 2,12) è edito dalla San Paolo.
«Il presente sussidio – scrive nell’introduzione S.
E.
Mons.
Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI – a partire dalla Parola di Dio annunciata e ascoltata nella liturgia offre indicazioni e stimoli per articolare in precisi itinerari le dimensioni fondamentali che la Parola ci indica, favorendo il recupero di una interiorità rinnovata, un annuncio sincero e convinto.
La Quaresima è tempo della conversione del cuore, occasione favorevole per ritrovare identità.
La Pasqua è il tempo della gioia della risurrezione, che non può essere tenuta nascosta nel chiuso del cenacolo, ma si apre alla proclamazione gioiosa: “Cristo è risorto!”.
Per tutto il mondo c’è possibilità di salvezza, di perdono, di vita nuova»

La pastorale della Scuola di fronte alla sfida educativa

“La pastorale della scuola di fronte all’istanza educativa” è il tema del convegno promosso dall’Ufficio nazionale per l’e ducazione, la scuola e l’università della CEI.
Si terrà dal 18 al 20 febbraio a Roma, presso il Summit Hotel.
Dopo la presentazione di don Maurizio Viviani, Direttore dell’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’università e il saluto di S.E.
Mons.
Michele Pennisi, Vescovo di Piazza Armerina e Segretario della Commissione episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università, è prevista la relazione del Dott.
Ernesto Diaco, Vice responsabile del Servizio Nazionale per il progetto culturale.
Nella seconda parte del pomeriggio gli interventi di Don Edmondo Lanciarotta, Don Filippo Morlacchi e Don Giuseppe Lombardo, faranno il punto sulla pastorale nella scuola rispettivamente al Nord, Centro e Sud Italia.
Al termine della giornata S.
E.
Mons.
Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI, presiederà la celebrazione eucaristica.
Nella mattinata di venerdì 19 sono previste le relazioni di Don Riccardo Tonelli (“La sfida educativa interpella la pastorale”)e Don Cesare Bissoli (“La figura dell’educatore nei Vangeli”), entrambi docenti emeriti presso l’Università Pontificia Salesiana, mentre il pomeriggio sarà dedicato ai lavori di gruppo e la Celebrazione Eucaristica delle 19.00 sarà presieduta da S.E.
Mons.
Lino Fumagalli, membro della Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università.
L’ultima mattinata di lavori, sabato 20, prevede infine l’intervento del Dott.
Sergio Govi, Dirigente del Ministero della Pubblica Istruzione, su “Lo status quaestionis del sistema scolastico in Italia”.

La santità è democratica

La congregazione salesiana nacque il 18 dicembre 1859, in una riunione, tenuta nella stanza di don Bosco all’oratorio di Valdocco, di cui ci è giunto uno scarno verbale redatto in termini vagamente burocratici e in un italiano qua e là zoppicante.
Quell’adunanza era stata preceduta e preparata da una “conferenza speciale” pubblicamente preannunciata da don Bosco l’8 dicembre in occasione della festa dell’Immacolata Concezione, quando aveva convocato per l’indomani “i preti, i chierici, i laici che cooperavano alle sue fatiche e ammessi entro alle segrete cose”.
Nella conferenza del 9 dicembre don Bosco anticipò l’intenzione di procedere alla costituzione di quella congregazione “che da tanto tempo egli meditava di erigere” affermando di aver avuto l’incoraggiamento di Pio IX, incontrato per la prima volta l’anno precedente.
Diede una settimana di tempo ai collaboratori per decidere in piena libertà se aderire o meno alla costituenda società.
A quanto sembra, due soli si defilarono, sebbene al termine della conferenza del 9 dicembre più d’uno fu udito esclamare: “Don Bosco ci vuole fare tutti frati”.
Fatto sta che il 18 dicembre si radunarono nella modesta camera di don Bosco 18 persone, di cui, va notato, due soli sacerdoti, 15 chierici e un giovane laico.
Se è vero che nella tradizione salesiana fu più tardi attribuita a quell’adunanza la denominazione di primo Capitolo, o Capitolo superiore, si trattò indubbiamente di un singolare Capitolo.
Esso era tuttavia l’immagine abbastanza fedele della natura in se stessa singolare (e ancora notevolmente fluida) dell’ambiente in cui la congregazione prendeva vita.
Vanno inoltre rilevate le circostanze di estremo riserbo e prive di qualsiasi solennità in cui si compì quell’atto di fondazione: possiamo senz’altro ammettere che, a parte i diretti interessati, in quell’ultimo scorcio del 1859 nessuno se ne accorse.
Del resto l’attenzione dell’opinione pubblica era presa da ben più pressanti avvenimenti, concernenti, come sappiamo, le vicende susseguite all’appena conclusa guerra franco-piemontese contro l’Austria.
Si può ben dire che mentre don Bosco fondava i salesiani in quella sua sperduta stanza dell’oratorio, stava nascendo, tra le doglie di un parto difficile e nient’affatto scontato nei suoi esiti, lo Stato nazionale italiano.
Quando don Bosco affermava davanti ai suoi collaboratori che progettava da tempo di dar vita a una congregazione, non diceva però con precisione quale tipo di congregazione avesse in mente: di certo le sue idee in proposito non corrispondevano ai modelli di comunità religiosa consolidati nella tradizione canonica.
In effetti, quell’atto che possiamo definire costituente, fu solo una tappa, pur importante, di una storia ch’era iniziata molto prima di quel 18 dicembre 1859, e che si sarebbe sviluppata, in modi allora imprevedibili e attraversando parecchie metamorfosi, nei successivi decenni.
Quella storia fu largamente condizionata da tre principali ordini di fattori.
Anzitutto dalle dinamiche interne che caratterizzarono l’espansione dell’opera di don Bosco, dalle sue origini sino al rapido sviluppo della congregazione salesiana da piccolo nucleo torinese, pressoché sconosciuto fuori dal Piemonte, a istituzione di scala e risalto internazionale, presente e attiva in vari Paesi europei e in diversi continenti, a partire dall’America latina.
In secondo luogo, quella storia fu condizionata dai rapporti tra la congregazione e le strutture istituzionali della Chiesa cattolica, sia sul piano locale, sia e soprattutto a livello di vertice, cioè dai rapporti di don Bosco e dei salesiani con il Papato, e con gli apparati di governo della Chiesa romana, da cui dipendeva, tra l’altro, l’approvazione degli statuti e delle regole della società.
In terzo luogo, ebbe considerevole incidenza sulla fisionomia e la vita della congregazione il contesto politico e istituzionale in cui essa prese forma e nel quale ebbe modo di svilupparsi.
Il contesto politico in cui si erano poste le basi per la fondazione della congregazione salesiana non era il più propizio alla nascita e allo sviluppo in Piemonte di nuove forme di vita religiosa associata.
La politica ecclesiastica dei governi costituzionali piemontesi, in specie sotto la presidenza di Massimo d’Azeglio e poi di Cavour, aveva imboccato senza esitazioni, ma non senza forti controversie, la via della laicizzazione dello Stato.
Uno dei settori più colpiti dalla politica laicizzatrice dei governi liberali era stato quello degli ordini e delle comunità religiose.
L’ostilità nei loro confronti dei governi, e di una parte consistente del ceto dirigente e dell’opinione pubblica, veniva giustificata con tre principali argomenti, di natura morale ed economica, che riguardavano in modo specifico gli ordini detti “contemplativi” o “mendicanti”: il loro carattere parassitario, nel senso almeno della loro estraneità allo svolgimento di funzioni considerate utili alla collettività; la privazione (seppur volontariamente accettata) di diritti e prerogative di natura civile conseguente alla sottomissione alle regole proprie dei vari ordini religiosi, tra cui la rinuncia al diritto di proprietà individuale; e infine la sottrazione di un cospicuo patrimonio immobiliare e fondiario alle dinamiche e alle innovazioni di un’economia di mercato, che proprio in quegli anni era entrata in fase di espansione.
L’acutizzarsi del conflitto fu determinato in modo particolare dal primo sgretolamento territoriale dello Stato della Chiesa avvenuto durante la guerra del 1859, in seguito al distacco dal governo pontificio della parte nord-orientale dello Stato (Bologna e le Romagne).
Ciò aveva riproposto in termini pressanti, e più generali, il problema controverso del potere temporale dei Papi: problema non solo italiano, ma dotato di delicate e complesse implicazioni di natura sia religiosa sia internazionale, già sorte drammaticamente nel 1849, e allora risolte dall’intervento militare francese contro la Repubblica romana che aveva dichiarato decaduto il potere temporale.
Ma 10 anni dopo la situazione era molto cambiata, e le tendenze – presenti anche tra il clero detto “nazionale” – avverse al temporalismo, avevano guadagnato terreno, urtandosi però con l’intransigenza di Pio IX, pronto a ricorrere nuovamente all’arma della scomunica in difesa di quelli che giudicava inalienabili diritti della Chiesa.
In stretta concomitanza con la guerra del 1859, la questione delle future sorti dello Stato Pontificio era tornata prepotentemente nell’agenda politica internazionale.
Don Bosco sapeva benissimo i rischi che correva con il suo progetto di dar vita a una nuova congregazione religiosa, e aveva preso le sue precauzioni.
Anche per questo aveva insistito nell’imprimerle una connotazione “di vita attiva” e non “contemplativa”, pienamente in linea peraltro con la natura dell’opera da lui svolta fino a quel momento.
“Siamo in tempi in cui bisogna operare.
Il mondo attuale vuole vedere le opere, vuole vedere il clero lavorare a istruire e a educare la gioventù povera e abbandonata con opere caritatevoli, con ospizi, scuole.
Chi non sa lavorare non è salesiano”.
In secondo luogo aveva previsto che i membri della congregazione conservassero a pieno titolo i diritti civili “in faccia alle autorità governative”, compreso, in particolari forme, quello di proprietà (che secondo Don Bosco costituiva un “nuovo modello riguardo al voto di povertà”): del resto il suo obiettivo dichiarato era quello di congiungere strettamente la formazione religiosa con un’educazione alla cittadinanza, a formare buoni cristiani che fossero buoni cittadini.
Infine aveva prospettato una consociazione religiosa dalla fisionomia altamente flessibile, dotata nel contempo di un forte centro di governo (che durante la sua esistenza s’identificò totalmente con la sua personalità carismatica) e di una considerevole plasticità nei modi dell’affiliazione (non esclusa un’affiliazione di “esterni”), della cooperazione e dei campi d’attività: una società, in ogni caso, popolare non solo nel senso caritativo, tradizionale, ma anche nel senso di una sua specifica conformazione popolare, da realizzarsi mediante la costituzione di un proprio clero formato nel seno e a contatto con la comunità, in base alla convinzione profetica (manifestata da don Bosco a Pio IX) che fosse ormai venuto “il tempo (…) che i popoli saranno evangelizzati dai popoli.
I leviti saranno cercati tra la zappa, la vanga e il martello, affinché si compiano le parole di Davide: “Ho sollevato il povero dalla terra, per collocarlo sul trono dei principi del suo popolo””.
Sebbene la cosa possa destare sorpresa, a dare una mano a don Bosco nel profilare i tratti dell’erigenda congregazione era stato proprio l’ex-ministro della giustizia e convinto propugnatore della legge sui frati, Urbano Rattazzi.
Questi gli aveva suggerito la costituzione di una “associazione di liberi cittadini, i quali si uniscono e vivono insieme a uno scopo di beneficenza”, e i cui membri conservassero i diritti civili, fossero soggetti alle leggi, pagassero le imposte e via dicendo, insomma un’associazione come tante, a carattere privato.
Non era esattamente quello a cui stava pensando don Bosco, ma è certo che di quel suggerimento egli tenne debito conto.
Per converso il medesimo Rattazzi, a dispetto delle sue idee in vari modi opposte a quelle di don Bosco, concepì da allora una personale e durevole ammirazione nei riguardi suoi e delle opere salesiane.
Si deve aggiungere, a completare il quadro, che gli organi di governo dello Stato sabaudo, a partire dal ministero degli Interni, non ebbero alcuna esitazione ad approfittare largamente della capacità di accoglimento dell’oratorio salesiano di Valdocco, affidandogli a più riprese casi di adolescenti orfani o abbandonati dai genitori o comunque in difficoltà, con la corresponsione di sussidi una tantum di una certa entità: dimostrazione del fatto che l’oratorio aveva finito per esercitare un ruolo pubblico di recupero e di assistenza, cui lo Stato sabaudo non era in grado di far fronte.
Veniamo così ai rapporti tra don Bosco (e la sua congregazione) e il movimento nazionale italiano.
Per intendere tale aspetto, occorre considerare che la visione del mondo di don Bosco si radicava in una percezione della realtà in cui la dimensione terrena e quella ultraterrena si compenetravano intimamente, in cui fenomeni naturali e sovrannaturali convivevano in una stringente interrelazione, in cui la presenza divina, come quella diabolica, era agevolmente avvertibile in segni sensibili, in cui anche i fatti calamitosi erano il frutto di un diretto intervento punitivo di origine divina per atti o comportamenti personali o collettivi considerati contrari alla legge di Dio od ostili alla sua Chiesa (ma le due cose per don Bosco s’identificavano senza residui).
D’altra parte, la stessa immagine di una vicinanza quasi fisica della mano di Dio alla storia dell’uomo e alla vicenda personale di ogni essere umano anche il più umile, consentiva a don Bosco di professare e promuovere l’idea di un accesso relativamente agevole alla salvezza eterna, di diffondere addirittura un’immagine di santità che, a certe condizioni, poteva diventare un attributo comune, per tutti disponibile, non più dipendente da particolari pratiche ascetiche né da rigorosi esercizi di pietà né da prove di specifico eroismo, ma unicamente dall’adempimento rigoroso dei propri doveri di stato, dal rispetto della legge morale, dalla pratica religiosa compresa la comunione frequente, dalla preghiera di devozione, dalla fedeltà alla Chiesa e soprattutto alla persona del suo capo, vicario di Cristo e suo rappresentante indefettibile e infallibile sulla terra.
Possiamo dire, a tal proposito, che con don Bosco si apriva l’epoca di una santità, per così dire, “democratizzata” e, in parte almeno, de-clericalizzata, di cui faceva parte integrante il rispetto di un’etica del lavoro e della professione, d’impianto teologico sostanzialmente diverso da quello di matrice protestante, ma in grado di competere con esso.
Da questo sfondo di convinzioni, di immagini, di strutture mentali discendevano le due idee dominanti che guidavano il suo modo di guardare agli eventi storici in cui era immerso.
In primo luogo, l’idea che la religione cattolica, in quanto unica vera religione, non fosse soltanto sicura via di salvezza delle anime, ma costituisse altresì la ragione insostituibile di un ordinato vivere civile, la base irrinunciabile di una “buona società”, la cui omogeneità religiosa andava preservata dagli attacchi dell’empietà, generatori di tutti i mali del secolo, nonché dal suo ipotetico sgretolamento per mano di pericolose minoranze a-cattoliche.
La seconda idea-guida concerneva il legame indissociabile che avvinceva l’Italia al cattolicesimo e alla Chiesa cattolica, e in modo particolare al papato, suo vertice gerarchico e carismatico, costituendone l’autentico principio di nazionalità, il fattore che più e prima di ogni altro le conferiva una propria inconfondibile identità nazionale.
(©L’Osservatore Romano – 7 febbraio 2010)

Classe seconda – Febbraio

Unità di Lavoro per una riflessione degli allievi sulla propria esperienza, con approfondimenti teologici sull’identità della comunità-Chiesa.
Seconda parte OSA di riferimento  Conoscenze  – L’opera di Gesù e la missione della Chiesa nel mondo.
– I Sacramenti, incontro con Cristo nella Chiesa, fonte di vita nuova.    Abilità  – Cogliere gli aspetti costitutivi e i significati della celebrazione dei Sacramenti.
– Individuare caratteristiche e responsabilità di ministeri, stati di vita e istituzioni ecclesiali.  Obiettivi Formativi ipotizzabili – Conoscere e saper descrivere il concetto di Chiesa nelle varie accezioni.
– Conoscere e saper descrivere la relazione tra sequela Gesù e appartenenza ecclesiale.
– Sviluppare, in proposito, opinioni motivate.
– Saper riflettere, esprimendo opinioni motivate, sui rapporti con i propri coetanei, l’amicizia, l’esperienza di gruppo.    Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale – Provando interesse nei confronti degli interrogativi di senso, avviare percorsi di introspezione e di analisi della realtà sociale.
– Saper prendere in considerazione la visione cristiana dell’esistenza, sulla base di conoscenze acquisite.
F – Questionario conclusivo e dibattito  – Quali sono i compiti della Chiesa? Quali sono i modi in cui essa agisce “come comunità”? – Quali caratteristiche di “diversità positiva” hanno i rapporti umani in un gruppo ecclesiale ben impostato? – In “Giovani opinioni”, quali aspetti dell’appartenenza ecclesiale entusiasmano i ragazzi delle testimonianze? Esprimi la tua opinione sulle loro idee, motivandola.
– Descrivi, se ti è possibile, un’esperienza felice di gruppo cristiano tua o di altri.
Perché la ritieni positiva? Quali risultati ci sono stati per gli individui, la comunità, il mondo “fuori”? Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida E – L’insegnante, presentando il testo-guida, propone agli allievi una riflessione su come i cristiani dovrebbero “essere comunità” in nome del loro Maestro, uniti a genti lontane dal desiderio di cambiare se stessi e il mondo.
La Chiesa: “stare insieme” nello stile di Gesù 1) Un grande compito La Chiesa…
è l’immensa comunità dei credenti che riconoscono in Cristo il loro Dio e Maestro, dei battezzati sparsi in tutto il mondo.
Gesù ha espresso chiaramente la volontà che i “suoi”, rimanendo uniti a Lui e imitandolo, vivessero, testimoniassero e insegnassero l’amore estremo per Dio e per gli altri che è il cuore del Vangelo, divenendo sale, luce, lievito per il mondo…
la Chiesa è comunità di “ministero”, in cui le membra di un unico organismo la cui anima è Cristo Risorto, vivo e presente, hanno incarichi diversi, tutti importanti per il bene comune – clero, laici, religiosi…
In essa, il cattivo esempio di un cristiano solo ferisce l’intero organismo, la crescita di ciascuno si ripercuote su tutti.
La Chiesa è una comunità, secondo i credenti, con una misteriosa forza di coesione che è lo Spirito Santo, la presenza di Dio come forza dell’Amore; essa è donata dal Risorto soprattutto attraverso i Sacramenti per poter amare e vincere il male.
La Chiesa è una comunità in cui è più facile avvertire la fratellanza umana, perché in essa si conoscono il volto del Padre di tutti e le caratteristiche del Suo amore per tutti i figli…
È facile guardare gli altri con rispetto, coglierne i lati positivi se si cerca di vederli con gli occhi di Dio.
La Chiesa è il primo “luogo” in cui il Risorto fa germogliare il Suo Regno, in cui inizia la riconciliazione dell’universo, a partire dai credenti, alimentati dalla Parola e dall’intima unione con Cristo, soprattutto attraverso l’Eucaristia; il rapporto con Cristo rende capaci di amarsi l’un l’altro come Lui ha insegnato.
La Chiesa è poi comunità missionaria, Sua testimone di fronte al mondo.
Ciò avviene attraverso l’evangelizzazione, che annuncia il messaggio di Cristo a chi non lo conosce o lo conosce male con la vita vissuta, la cultura, il dialogo; attraverso la catechesi, un percorso di approfondimento dottrinale che può riguardare bambini, futuri sposi, famiglie; attraverso la promozione umana, che è la lotta concreta in difesa della persona umana, della vita e della pace, in opposizione a ogni ingiustizia.
Lo “stare insieme” nello stile di Gesù è la prima testimonianza.
I cristiani sono chiamati a sostenersi reciprocamente mentre camminano seguendo Cristo, a formarsi e trasformarsi insieme per poi condividere con il resto del mondo il loro “tesoro”, la certezza che il senso della vita consista unicamente nell’imparare ad amare Dio e gli altri nel modo più ampio e profondo possibile.
Il Battesimo rappresenta il fondamentale legame con Cristo che è vincolo di unione tra le chiese cristiane (Cattolici, Ortodossi, Protestanti), nonostante le divergenze.
La Chiesa: “stare insieme” nello stile di Gesù 3) Giovani opinioni «In un certo senso non sono io che ho scelto la Chiesa; ho piuttosto la sensazione di essere stato scelto dalla Chiesa.
A 19 anni mi sono ribellato.
Nel corso di una crisi che è durata un anno, a poco a poco però ho capito che la barca della Chiesa era la mia barca» (Sandro) «Ora Gesù è mio amico.
Ho deciso: voglio che entri nella mia vita.
Questa volta, mi sento veramente cristiana.
È la prima volta che dico un “voglio” così deciso» (Manuela) «È nato un ragazzo nuovo.
È stato come un boato per me.
Prima la calma, poi l’esplosione.
Prima la tristezza, poi la gioia» (Carmine) «Sento il bisogno di ritrovare ogni tanto dei ragazzi della mia età, che la pensano un po’ come me, che hanno i miei stessi ideali, che hanno le mie stesse difficoltà.
Dopo questi incontri ritorno più sereno, più ottimista, e mi riesce più facile essere un testimone di Gesù Cristo» (Giacomo) «Ho cominciato quasi per gioco, poi mi sono ritrovata entusiasta e solo ora capisco tutto ciò che ho ricevuto dal gruppo.
Sono cose impercettibili all’istante, ma che col passare del tempo si capiscono.
Ora sono cambiata parecchio, con me e con gli altri.
La mia vita ha un senso e, benché non abbia ancora una fede con le basi solide, trovo in Dio una grande serenità» (Claudia) «Il nostro gruppo è una comunità che si rifà alla comunità di Gesù.
Noi in gruppo siamo Chiesa perché siamo salvati, e ci sforziamo di essere testimoni tra i nostri compagni» (Carla) «Ti ringrazio Signore per la mia vocazione alla Chiesa: a volte mi chiedo perché io sono tra i fortunati che sono stati aggregati al Tuo Corpo…
grazie per avermi salvato da una vita senza senso, di avermi regalato una comunità nella quale mi è tanto facile entrare in rapporto con Te» (Giulio)                                   (In Dossier adolescenti, U.
De Vanna, Questa nostra Chiesa, LDC) La Chiesa: “stare insieme” nello stile di Gesù 2) Dall’ideale ai problemi concreti  I Cristiani possono esprimere nel concreto il loro “essere comunità” agendo insieme – nei momenti di azione liturgica, in cui ricercano l’unione con Dio pregando, celebrando la Messa domenicale, vivendo i Sacramenti e le feste che rievocano le grandi azioni di Gesù…
– nei momenti in cui la Chiesa si pronuncia su questioni importanti per proporre il proprio pensiero al mondo, tramite il Papa e i Vescovi sostenuti dallo Spirito, e tutti i credenti sono chiamati a difendere e diffondere questo pensiero; – nei momenti formativi della vita parrocchiale, come animatori o “animati”; in gruppi biblici, di giovani, di famiglie…
– nei movimenti che vivono la fede accentuando alcuni aspetti del cammino (i Focolarini nella loro ricerca di “unità” con il mondo, gli Scouts con il loro itinerario che comprende vita semplice e natura, ecc.) – nei momenti in cui, insieme, si fa promozione umana attraverso volontariato condiviso sulla base della fede comune, o si cerca di lottare contro qualche ingiustizia o di offrire sollievo a qualche sofferenza; – nei momenti in cui, insieme, dialogano con il mondo con proposte culturali – dibattiti, arte, giornali – o semplicemente ritrovandosi in due o tre nella stessa classe, nello stesso ufficio, con l’esigenza di testimoniare la loro fede nei fatti e nei discorsi (per esempio, opponendosi al bullismo o al “mobbing” che opprimono un qualsiasi compagno o collega…).
Stare insieme “nello stile di Gesù” è un fatto serio, richiede innanzitutto di evitare qualsiasi superficialità e qualsiasi falsità, di essere assolutamente autentici e sinceri, fino al riconoscimento degli errori commessi e delle difficoltà personali.
Condividendo il più meraviglioso dei segreti, la certezza di aver trovato il senso della vita, ci si deve guardare negli occhi comprendendo, senza parole, che la posta in gioco è altissima, così come gli Apostoli devono aver fatto in tempi lontani: si deve mettere in atto il meglio della propria umanità identificando e combattendo i lati oscuri.
Si è anche consapevoli di quanto sia difficile avvicinarsi davvero al Signore e amare l’altro come se stessi imitando il Maestro, imparando il dono gratuito del meglio di sé, il perdono che ricostruisce i rapporti dimenticando l’orgoglio personale e le rivendicazioni, l’attenzione allo spazio che l’altro deve avere…
Non si può che ricercare il massimo di ciò che si può dare, in ogni rapporto la massima profondità e ampiezza.
In una comunità cristiana, che si esprima come “gruppo del dopo-Cresima” o altro, si dovrebbero realmente combattere invidia e maldicenza; ciascuno dovrebbe essere al centro di una premurosa attenzione, certo di essere realmente accettato, di poter gradualmente condividere gioie e dolori.
Si potrà sperimentare un “viaggio interiore” condiviso con i sacerdoti-guide, con i fratelli, irrobustendo la fede nel confronto, in una comune meditazione della Parola…
Per poi uscire dal “nido accogliente” e portare al mondo, fuori, l’amore di Cristo.
Dove i rapporti nuovi non si vedono, anche fra errori e ricadute, si vive una fede ancora troppo abitudinaria, stancamente ereditata…
I figli si mandano in Parrocchia perché si tratta comunque di un “luogo sano”, i Sacramenti sono soltanto un segno di appartenenza sociale…
e la forza dello Spirito viene ignorata, come un dono meraviglioso chiuso in un armadio.
Il Cristiano “tiepido” si riduce al nulla; non cambia nulla, non lascia realmente spazio all’agire del Risorto nella propria vita; il “mondo”, fuori, non ha nulla di diverso da vedere.
Non si vede la “carità” dell’Inno di San Paolo, che è paziente, che non si gonfia di orgoglio, che controlla l’ira, che cerca nei rapporti la verità…
essa è totalmente assente quando un ragazzino torna mogio mogio dal catechismo per essere stato preso in giro pesantemente proprio come è successo, il giorno prima, ai giardinetti sotto casa.

XXXII Giornata per la Vita: 7 febbraio 2010

Messaggio per la 32ª Giornata Nazionale per la vita (7 febbraio 2010) Chi guarda al benessere economico alla luce del Vangelo sa che esso non è tutto, ma non per questo è indifferente.
Infatti, può servire la vita, rendendola più bella e apprezzabile e perciò più umana.
Fedele al messaggio di Gesù, venuto a salvare l’uomo nella sua interezza, la Chiesa si impegna per lo sviluppo umano integrale, che richiede anche il superamento dell’indigenza e del bisogno.
La disponibilità di mezzi materiali, arginando la precarietà che è spesso fonte di ansia e paura, può concorrere a rendere ogni esistenza più serena e distesa.
Consente, infatti, di provvedere a sé e ai propri cari una casa, il necessario sostentamento, cure mediche, istruzione.
Una certa sicurezza economica costituisce un’opportunità per realizzare pienamente molte potenzialità di ordine culturale, lavorativo e artistico.
Avvertiamo perciò tutta la drammaticità della crisi finanziaria che ha investito molte aree del pianeta: la povertà e la mancanza del lavoro che ne derivano possono avere effetti disumanizzanti.
La povertà, infatti, può abbrutire e l’assenza di un lavoro sicuro può far perdere fiducia in se stessi e nella propria dignità.
Si tratta, in ogni caso, di motivi di inquietudine per tante famiglie.
Molti genitori sono umiliati dall’impossibilità di provvedere, con il proprio lavoro, al benessere dei loro figli e molti giovani sono tentati di guardare al futuro con crescente rassegnazione e sfiducia.
Proprio perché conosciamo Cristo, la Vita vera, sappiamo riconoscere il valore della vita umana e quale minaccia sia insita in una crescente povertà di mezzi e risorse.
Proprio perché ci sentiamo a servizio della vita donata da Cristo, abbiamo il dovere di denunciare quei meccanismi economici che, producendo povertà e creando forti disuguaglianze sociali, feriscono e offendono la vita, colpendo soprattutto i più deboli e indifesi.
Il benessere economico, però, non è un fine ma un mezzo, il cui valore è determinato dall’uso che se ne fa: è a servizio della vita, ma non è la vita.
Quando, anzi, pretende di sostituirsi alla vita e di diventarne la motivazione, si snatura e si perverte.
Anche per questo Gesù ha proclamato beati i poveri e ci ha messo in guardia dal pericolo delle ricchezze (cfr Lc 6,20–25).
Alla sua sequela e testimoniando la libertà del Vangelo, tutti siamo chiamati a uno stile di vita sobrio, che non confonde la ricchezza economica con la ricchezza di vita.
Ogni vita, infatti, è degna di essere vissuta anche in situazioni di grande povertà.
L’uso distorto dei beni e un dissennato consumismo possono, anzi, sfociare in una vita povera di senso e di ideali elevati, ignorando i bisogni di milioni di uomini e di donne e danneggiando irreparabilmente la terra, di cui siamo custodi e non padroni.
Del resto, tutti conosciamo persone povere di mezzi, ma ricche di umanità e in grado di gustare la vita, perché capaci di disponibilità e di dono.
Anche la crisi economica che stiamo attraversando può costituire un’occasione di crescita.
Essa, infatti, ci spinge a riscoprire la bellezza della condivisione e della capacità di prenderci cura gli uni degli altri.
Ci fa capire che non è la ricchezza economica a costituire la dignità della vita, perché la vita stessa è la prima radicale ricchezza, e perciò va strenuamente difesa in ogni suo stadio, denunciando ancora una volta, senza cedimenti sul piano del giudizio etico, il delitto dell’aborto.
Sarebbe assai povera ed egoista una società che, sedotta dal benessere, dimenticasse che la vita è il bene più grande.
Del resto, come insegna il Papa Benedetto XVI nella recente Enciclica Caritas in veritate, “rispondere alle esigenze morali più profonde della persona ha anche importanti e benefiche ricadute sul piano economico” (n.
45), in quanto “l’apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica” (n.
44).
Proprio il momento che attraversiamo ci spinge a essere ancora più solidali con quelle madri che, spaventate dallo spettro della recessione economica, possono essere tentate di rinunciare o interrompere la gravidanza, e ci impegna a manifestare concretamente loro aiuto e vicinanza.
Ci fa ricordare che, nella ricchezza o nella povertà, nessuno è padrone della propria vita e tutti siamo chiamati a custodirla e rispettarla come un tesoro prezioso dal momento del concepimento fino al suo spegnersi naturale.
Roma, 7 ottobre 2009 Memoria della Beata Vergine del Rosario  «Nessuno si salva da solo» Stare accanto nella crisi Fare argine alla precarietà di vita che segna sempre più la nostra società.
E servire la vita, prendendoci cura gli uni degli altri e continuando a stare sempre e solo dalla parte della persona umana, «nella sua interezza».
Il messaggio che i vescovi hanno deciso di inviare ai cattolici italiani e a ogni donna e uomo di buona volontà in occasione della 32esima Giornata nazionale per la vita si fa carico in questi termini del peso ulteriore e troppe volte drammatico che la grande crisi ha scaraventato sulla quotidianità di tante famiglie e di tanti singoli.
Richiama l’attenzione sulle situazioni di indigenza e di bisogno rese più acute e dolorose da una tempesta economico-finanziaria che ha fatto grandinare numeri sballati, scoperchiato vergogne affaristiche e stravolto progetti ed esistenze.
E chiama tutti noi che «conosciamo Cristo» a testimoniare con la passione di sempre eppure con un’urgenza nuova il valore della vita umana, esercitando il «dovere» di riconoscere e denunciare i «meccanismi» che producono povertà e disuguaglianza e feriscono «soprattutto i più deboli e indifesi».
Ogni tempo dell’uomo, lo sappiamo, è  un tempo di prova.
E purtroppo in ogni tempo accade che la vita dei piccoli e dei senza difesa venga misconosciuta, colpita e, addirittura, negata.
Ma ogni tempo ha anche caratteristiche sue proprie.
Quello che stiamo vivendo propone difficoltà e insidie che sembrano fatte apposta per enfatizzarne altre, già esistenti, moltiplicandone gli esiti nefasti per la nostra comunità nazionale (e non solo per essa) e inducendo una crescita del tasso di insicurezza e di egoismo.
E’ proprio per questo, mentre il 2010 è ancora giovane, che la riflessione sull’impegno per la vita ci viene riproposta con accentuazioni un po’ insolite che fanno tornare alla mente temi e tempi forti dell’anno che ci siamo appena lasciati alle spalle.
Pensiamo solo ai gesti esemplari e “contagiosi” – perché tesi, appunto, a suscitare una solidarietà diffusa e iniziative analoghe di altri soggetti istituzionali – con cui Conferenza episcopale e Diocesi hanno promosso fondi di sostegno alle famiglie e alle imprese investite dalla crisi.
O alla parola forte e alla presenza collaborativa (con autorità e realtà civili) spese dai nostri Pastori in tutte le situazioni di emergenza create dai disastri (non solo naturali) che si sono abbattuti su realtà piccole e grandi della nostra Italia: dalla ricostruzione post-sismica nell’Aquilano al complicato dopo-alluvione nel Messinese e al disorientante dopo-terremoto in una minuscola porzione d’Umbria, dalla crisi occupazionale in Sardegna al disagio crescente in importanti realtà industriali del Centro-Nord.  Segni chiari, segni di speranza e di contraddizione.
«Nessuno si salva da solo», continua infatti a rammentarci Charles Peguy.
Ed è quanto mai opportuno tenerlo a mente in questi mesi di crisi, mentre continua a emergere e rischia di accentuarsi una preoccupante tendenza ad affievolire gli impegni reciproci, ad allentare i legami di solidarietà, a non accettare accanto a sé presenze scomode e, comunque, “ingombranti”.
Il mito della “qualità della vita” porta a smarrire il senso della vita e a squalificare le vite che sono o vengono percepite come inadeguate o imperfette, vite minori e d’insuccesso: il bambino non nato, il disabile o il malato grave, l’anziano non autosufficiente, l’immigrato a cui si chiede e dà lavoro ma non vita civile, il disoccupato che pesa sulla fiscalità generale, il padre separato divenuto barbone, la madre abbandonata, la donna sola che cerca un’alternativa alla “libertà” di abortire e non riesce a trovarla nei labirinti libertari costruiti attorno al suo dramma.  «Nessuno si salva da solo».
E’ proprio necessario ricordarlo in un momento storico in cui il montare dell’onda degli egoismi viene o sottovalutato o addirittura nobilitato come un conquistato approdo di autonomia e di autodeterminazione.
Ci sono “architetti” che progettano una società di persone sole.
Noi no.
E anche il tempo della crisi può diventare un’occasione per affermarlo nei fatti.
Per ribadire che c’è ancora e sempre un’alternativa a quello sguardo cupo ed escludente, che non sta scritto che nella sofferenza si debba essere soli e che la disperazione può e deve essere vinta.
Il popolo della vita lo dimostra nelle opere e nei giorni.
Con riconoscenza, con coraggio e con pazienza.   Marco Tarquinio

Classe terza – Febbraio

Unità di Lavoro possibilmente interdisciplinare (Irc, Lettere, Scienze) di educazione all’affettività Seconda parte OSA di riferimento  IRC Conoscenze – La fede, alleanza tra Dio l’uomo, vocazione e progetto di vita.
– Il “comandamento nuovo” di Gesù.
Abilità – Descrivere l’insegnamento cristiano sui rapporti interpersonali, l’affettività e la sessualità.
– Motivare le risposte del Cristianesimo ai problemi della società di oggi.
– Confrontare criticamente comportamenti e aspetti della cultura attuale con la proposta cristiana.  Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e saper descrivere l’insegnamento della Chiesa cattolica in merito alla funzione della sessualità e alle caratteristiche di un autentico amore di coppia, del matrimonio, della famiglia.
– Esprimere opinioni motivate.
Obiettivi Formativi di educazione alla Convivenza Civile Conoscenze – Cambiamenti fisici e situazioni psicologiche.
– Aspetto culturale e valoriale della connessione tra affettività-sessualità-moralità.  Abilità – Riconoscere e descrivere il rapporto tra affettività, sessualità e moralità.
– Condurre discussioni argomentate su esperienze di relazioni interpersonali significative e sui problemi dei diversi momenti della vita.  Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale:  – Saper prendere in considerazione il progetto di vita cristiano e la visione cristiana dell’esistenza come ipotesi di interpretazione della realtà sociale e individuale; – voler indagare su bene e male, saper ricercare una “verità”; – avviare processi introspettivi, in vista di una migliore conoscenza di sé e dello sviluppo di opinioni personali.    1) Una cosa sola Il concetto di sessualità indica innanzitutto l’identità maschile e femminile: due modi diversi di esprimersi, due diverse “strutture” del pensiero e dell’emotività…
con uguale dignità.
Le due metà del genere umano sono splendidamente complementari.
L’interiorità femminile è tendenzialmente più complessa e sfumata: accoglie, analizza affetti e idee; “slancio vitale”, linearità e sintesi caratterizzano in maggior misura l’interiorità maschile, senza voler generalizzare.
Il termine “sessualità” indica anche il modo di esprimere l’amore in quanto uomo e in quanto donna.
La nostra “dimensione fisica” è il nostro irrinunciabile mezzo espressivo: se fossimo “nuvolette incorporee”, come esprimeremmo l’ira, la gioia, il dolore, la simpatia? Un sorriso, un abbraccio rendono comunque “bello” il nostro corpo…
perché esso esprime la ricchezza dei pensieri e dei sentimenti.
Il gesto più significativo che si possa compiere tra esseri umani è il rapporto sessuale.
In esso, nei fatti, si promette a un’altra persona di voler divenire con essa una cosa sola, e le emozioni e le sensazioni in gioco contribuiscono, vissute con la giusta intenzione, a cementare l’unione, a realizzare una totale vicinanza, una totale intimità e condivisione, senza riserva, delle reciproche vite.
Il vero “rapporto” sessuale è totale accoglienza dell’altro nel proprio mondo ed è totale dono di sé.
Una visione seria e responsabile dell’amore ammette l’incontro fisico unicamente come espressione di un tale amore, autentico impegno per l’esistenza Si tratta di un gesto “oggettivamente” importante: da esso si origina il miracolo della vita! Il suo valore è dunque “unitivo” e “procreativo”.
Seconda fase dell’attività  Questionario e dibattito conclusivo riguardanti la prima e seconda parte dell’Unità (Domande per l’Irc e domande trasversali per l’Educazione alla Convivenza Civile) – Quali possono essere gli aspetti fondamentali di un amore autentico? (Trasversale) – Oltre che di sentimento, l’amore autentico ha bisogno…
di volontà e uso della ragione.
In che senso? Sei d’accordo? (trasversale) – L’amore che finisce…
non è amore.
Trovi giusta questa affermazione? (Trasversale) – Quali aspetti “in più” ritrovi nel rapporto d’amore tra uomo e donna basato sulla fede? (Irc) – Come definiresti la sessualità? Qual è il valore della sua espressione fisica, in un’ottica seria e responsabile? E in un’ottica cristiana specifica? (Irc) – Quali danni personali e sociali può provocare un uso impoverito e addirittura separato dalla dimensione dell’amore dell’incontro sessuale? Qual è la tua opinione? (Trasversale) – L’eventuale precocità delle esperienze sessuali può rappresentare un impoverimento? (Trasversale) – Qual è la fisionomia specifica di una famiglia cristiana? (Irc) – Nel documento “Famiglia e società”, quali collegamenti fa Chiara Lubich tra compiti della famiglia e un possibile miglioramento della società? Spiega in sintesi.
(Trasversale) (Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per la classe terza e Guida) 3) Un gioco a termine  «L’amore è un cammino di liberazione.
Lungo, lento, difficile.
Fortunati i giovani quando incontrano un “lui” o una “lei” che hanno capito che l’amore è qualcosa di profondamente religioso, perché fa parte, pur nella sua precarietà, dell’immensa realtà dell’amore di Dio svelato a noi attraverso Cristo.
Voler bene “anima e corpo” vuol dire essere tesi verso qualcosa che ci supera con la ricchezza del mistero che l’esperienza amorosa racchiude.
Certo, ci vuole impegno, tenerezza, fedeltà, responsabilità, dono.
Ma questa è la vera “liberazione” che il cristianesimo annuncia per promuovere la pienezza umana e divina dell’amore» (Carlo Fiore).
La componente istintiva che suscita l’attrazione sessuale e le emozioni sostengono, facilitano attraverso la tenerezza la dimensione spirituale dell’amore, che conduce al dono generoso di sé e all’impegno di accogliere totalmente l’altro.
Si può scegliere l’impegno in amore anche se non si è credenti; oggi, però, una mentalità egocentrica e superficiale riguardante i rapporti umani sembra diventata “mentalità comune”, evidente nei mass-media.
L’amore che non è più progetto diviene semplicemente un gioco di emozioni, un gioco da adulti che a un certo punto può stancare; l’altro deve “farmi stare bene”: lo uso come oggetto di consumo, anche sul piano sessuale.
Si arriva a scindere atto sessuale e amore: nel “gioco dei corpi”, l’atto viene degradato, svuotato di significato; diviene semplicemente un mezzo per procurarsi sensazioni fisiche piacevoli…
alla stregua di una buona cena, di un bicchiere di birra.
L’“essere uno” non esiste, il gesto diviene una menzogna e, fatalmente, un mezzo di sfruttamento nei confronti di chi non è più persona…
ma soltanto un corpo che fa “divertire”.
«…
Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,27): Gesù condanna ogni sfruttamento, anche soltanto fantastico, dell’immagine della donna.
Nella dimensione della pornografia un egoismo vuoto e infantile fa perdere all’altro ogni identità: è una cosa da usare senza riguardi né complicazioni.
Questa gelida assenza di rapporto diviene il contrario del rispetto: nei fatti, è disprezzo.
Banalizzare le cose grandi della vita può essere estremamente distruttivo e pericoloso: chi si abitua all’amore-gioco, magari già in età molto giovane, non riuscirà facilmente a cambiare prospettiva quando avvertirà il vuoto della solitudine; imparare davvero a relazionarsi è il risultato di un faticoso cammino, fatto anche di autocontrollo, di sacrificio.
La posta in gioco è la pienezza dell’esistenza.
Seconda fase dell’attività  L’insegnante di religione presenta agli allievi, dopo i testi-guida riguardanti le caratteristiche dell’amore tra uomo e donna in un’ottica soprattutto cristiana, quelli riguardanti l’etica sessuale e la famiglia.  2) Sessualità e Bibbia  In un’ottica di fede, l’incontro sessuale ha senso come segno di un’unione indissolubile e aperta alla vita, nell’ambito di un progetto definitivo, il matrimonio cristiano sostenuto dalla forza di Dio.
Per la Bibbia, l’uomo è unità profonda di anima e corpo, entrambi preziosi; il linguaggio del corpo riveste un’immensa importanza.
La nudità innocente, nella Genesi, di Adamo e Eva, prima delle complicazioni causate dal peccato di egoismo, indica la “verità” senza maschere della loro personalità e anche della loro femminilità e mascolinità; indica la bellezza della persona “integrale”, anche nell’espressione sessuale e nella fisicità creata da Dio, destinata a un “recupero” e a una “glorificazione”, con la resurrezione dei corpi, alla fine dei tempi…
«Tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna» (Gen 2,25) Nel Cantico dei Cantici, tradizionalmente attribuito a Salomone, il travolgente rapporto amoroso di due sposi racconta in realtà il rapporto tra l’anima e Dio…
«Adamo, unendosi a Eva e diventando una sola carne con lei, indica che l’unione sessuale sarà espressione di una comunione profonda.
Con l’avvento dei profeti (Isaia, Geremia, Ezechiele, Osea, ecc.) la sessualità è interpretata come espressione dei rapporti tra Dio e il Suo popolo (“Israele, ti farò mia sposa…”), tra Dio e l’umanità intera.
Nel Nuovo Testamento, l’unione dell’uomo e della donna nel matrimonio prefigura il mistero dell’amore nuziale tra Cristo e la Sua Chiesa» (C.
Fiore).
Famiglia e società Siamo alle soglie del terzo millennio.
La famiglia, ogni famiglia può divenire un protagonista di questa era.
Congegnata da Dio come capolavoro dell’amore, la famiglia può ispirare delle linee per contribuire a cambiare il mondo di domani.
Se noi infatti osserviamo la famiglia, se facciamo quasi una radiografia di essa, possiamo scoprirvi dei valori immensi e preziosissimi, che proiettati e applicati all’umanità possono trasformarla in una grande famiglia.
La famiglia è fondata sull’amore, un legame che ha tutti i sapori: amore tra gli sposi, tra genitori e figli, tra nonni, zii e nipoti, tra fratelli.
Un amore che cresce e si supera di continuo.
Così l’amore degli sposi genera nuova vita e la fraternità diventa amicizia.
Autorità e ruoli, perché espressioni d’amore, sono riconosciuti naturalmente.
Nella famiglia è spontaneo mettere tutto in comune, condividere ogni bene, avere un’unica cassa.
Il risparmio non è accumulo, ma previdenza.
È normale sovvenire alle necessità di chi ancora non è produttivo e di chi non lo è più.
Nella famiglia persone di tutte le età abitano insieme.
È naturale vivere per l’altro, amarsi reciprocamente.
Anche l’educazione avviene in modo spontaneo: pensiamo ai primi passi e alle prime parole del bambino.
Si castiga e si perdona solo per il bene della persona.
Il senso della giustizia è normale nella famiglia, così come sentirsi addosso la colpa e la vergogna dell’altro.
Soffrire, sacrificarsi per gli altri, portare i pesi gli uni degli altri è naturale.
Spontanea è la solidarietà, la fedeltà alla propria famiglia.
Nella famiglia la vita dell’altro è preziosa quanto la propria, talvolta più preziosa della propria; ci si preoccupa della salute di tutti e ci si fa carico di chi non sta bene.
È lì che naturalmente si accende e si spegne la vita, che trovano accoglienza, affetto e cura l’handicappato, l’anziano e il malato terminale.
Nella famiglia si vestono e si nutrono i membri secondo le loro necessità.
La casa è creata e curata insieme, con la partecipazione di tutti.
Nella famiglia si insegna e si impara: tutto contribuisce alla maturazione delle persone.
I suoi membri possono avere valori culturali diversi, ma ogni diversità diventa ricchezza per tutti.
Anche la comunicazione è spontanea in famiglia; ciascuno partecipa di tutto e condivide tutto.
Ora, compito di ogni famiglia è vivere talmente alla perfezione la propria vocazione di famiglia da poter divenire modello per l’intera famiglia umana, trasferendo in essa i suoi valori con il loro tipico modo di essere.
Così la famiglia diventerà seme di comunione per l’umanità del terzo millennio.
Nella famiglia è naturale mettere tutto in comune? Ecco il seme che può far crescere nella società un’economia per l’uomo; ecco il seme di una cultura del dare, di una economia di comunione.
Nella famiglia è spontaneo vivere l’uno per l’altro, vivere l’altro? Ecco il seme dell’accoglienza tra gruppi, popoli, tradizioni, razze e civiltà, che apre alla reciproca inculturazione.
Nella famiglia la trasmissione di valori avviene spontanea, di generazione in generazione? Può essere allora d’incentivo ad una nuova valorizzazione dell’educazione nella società, e la maniera di correggere e perdonare nella vita di famiglia può essere di luce al modo di condurre la giustizia.
Nella famiglia la vita dell’altro è preziosa quanto la propria? Ecco il seme di quella cultura della vita che deve informare le leggi e le strutture sociali.
La famiglia cura la propria casa e vi riflette la sua armonia? Ecco il seme per una rinnovata attenzione all’ambiente e all’ecologia.
Nella famiglia lo studio è finalizzato alla maturazione della persona? Ecco il seme che può dare alla ricerca culturale, scientifica e tecnologica di scoprire via via il misterioso disegno di Dio sull’umanità e di operare per il bene comune.
Nella famiglia la comunicazione è disinteressata e costruttiva? Ecco il seme per un sistema di comunicazioni sociali a servizio dell’uomo, che esalti e diffonda il positivo e sia uno strumento di pace e di unità planetaria.
Nella famiglia l’amore è il legame naturale tra i membri? Ecco il seme per strutture e istituzioni che cooperino al bene della comunità e dei singoli, fino alla fratellanza universale, valorizzando ogni singolo popolo.
Nel mondo esistono già strutture e istituzioni, a livello locale, nazionale e internazionale: ministeri, ospedali, scuole, tribunali, banche, associazioni, organismi vari.
Ma occorre umanizzare queste strutture, dar loro un’anima, in modo che lo spirito di servizio raggiunga quell’intensità, quella spontaneità e quella spinta di amore per la persona che si respira nella famiglia.
Dio ha creato la famiglia come segno e tipo di ogni altra convivenza umana.
Ecco quindi il compito delle famiglie: tenere sempre acceso nelle case l’amore, ravvivando così quei valori che sono stati donati da Dio alla famiglia, per portarli ovunque nella società, generosamente e senza sosta.                                                       (Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari) 4) Famiglia, piccola Chiesa  Per i Cristiani, il termine “vocazione” indica la chiamata di Dio a vivere l’amore: per ciascuno, in modo originale.
Nel matrimonio cristiano, si è chiamati a riconoscersi l’uno come il completamento dell’altro; si è chiamati a vivere insieme il progetto di vita cristiano imitando il Cristo nell’amore “carità”, un amore da vivere nella coppia, trasmettere ai figli, testimoniare al mondo.
Il matrimonio è un Sacramento celebrato dagli stessi sposi: il Sacerdote prende atto come testimone della comunità ecclesiale della loro volontà di formare una nuova famiglia.
È la loro realtà di amore radicato in Cristo che apre le porte allo Spirito Santo donato dal Risorto, Dio come Forza che sosterrà la promessa indissolubile di fedeltà reciproca, simboleggiata dagli anelli scambiati; che sosterrà la promessa di aprirsi alla vita, di accogliere i figli.
Il matrimonio cristiano è un progetto impegnativo: sceglierlo non ha realmente senso per chi lo fa soltanto per compiacere le famiglie di origine, o per avere un’atmosfera più “romantica” e tradizionale, magari affermando, tra gli auguri di amici e parenti: «…
Speriamo che duri!».
I matrimoni che la Chiesa dichiara “nulli”, da un punto di vista religioso in realtà non sono mai avvenuti, non sono basati sull’intenzione di mantenere promesse fatte in coscienza di fronte a Dio e al mondo.
La famiglia autenticamente cristiana è chiamata a essere “Chiesa domestica”: gli sposi “fanno evangelizzazione” trasmettendo la fede ai figli e vivendo con coerenza i valori che insegnano, come primi testimoni di Cristo (che davvero occupa il posto d’onore in famiglia, a cui ci si riferisce per ogni scelta) per loro e per il mondo…
fanno “promozione umana” accogliendo amici in difficoltà, assistendo i malati e gli anziani della famiglia, talvolta facendo volontariato, o aprendosi all’adozione o all’affidamento, per aiutare altre famiglie e bambini soli; fanno talvolta catechesi esplicita lavorando nelle Parrocchie come laici impegnati; attingono forza dalla preghiera e dai Sacramenti.
Il Vangelo viene vissuto in mezzo alle normali difficoltà di tutte le esistenze: lavoro stressante, troppe commissioni, sentirsi “diversi” e un po’ incompresi se si è davvero coerenti…
E i figli? Bisogna aiutarli a trovare la loro strada, nel rispetto della loro libertà, garantendo loro per prima cosa la sicurezza affettiva.
E i genitori? Anche loro hanno bisogno di sostegno morale, di aiuto pratico, di dialogo e gratitudine.
Non si finisce mai di crescere insieme.
«Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita.
Anche se perdesse il senno, compatiscilo e non disprezzarlo, mentre sei nel pieno vigore.
Poiché la pietà verso il padre non sarà dimenticata» (Sir 3,12-14).
«Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto.
E voi, padri, non inasprite i vostri figli…» (Ef 6,1-4).

“L´eterna battaglia contro i negazionisti”

L’intervista «Io, Elie Wiesel, sopravvissuto e testimone, ricordo ancora oggi ogni singolo momento.
Quando fummo chiusi nel Ghetto, quando vennero a prenderci, quando ci caricarono sui treni, quando arrivammo ad Auschwitz, quando vidi mia madre, mio padre e mia sorella portati a morire».
Così Elie Wiesel, Nobel per la pace, attivista di primo piano per la pace e i diritti umani nel mondo, racconta l´Olocausto.
Oggi, nella Giornata della Memoria, terrà un discorso al Parlamento italiano.
Ascoltiamolo.
Professor Wiesel, come rammenta quegli anni tremendi? «Rivedo ancora oggi ogni episodio.
L´arresto in massa, la deportazione.
Il viaggio atroce nei carribestiame fino ad Auschwitz.
Ricordo cosa voleva dire sentirsi improvvisamente trattati come “Untermenschen”, come subumani da eliminare.
Ricordo quando, io ancora piccolo, restai solo ad Auschwitz.
Fu terribile, è difficile descrivere cosa vuol dire restare solo, senza più la famiglia che hai visto sterminare, e al tempo stesso sentire che non sei solo, che non lo saresti stato mai più.
Perché eri insieme a migliaia e migliaia di persone, trattati da subumani da eliminare come te, e al loro fianco sentivi la vicinanza della Morte.
Ognuno di noi la sentiva, e al tempo stesso non vivevamo accanto alla Morte, vivevamo nella Morte».
Com´era possibile sopravvivere a questo sentimento? «Penso ancora oggi che quando entrammo ad Auschwitz entrammo in un´altra Creazione, una dimensione speculare, parallela, opposta e negativa.
Nella Creazione che conoscevamo la Germania era il cuore della cultura, la patria di una letteratura straordinaria espressa da una grande lingua, la terra dei migliori ingegneri.
Ma là entrammo come in un mondo parallelo, fatto solo di “to kill and to die”, di chi uccide e di chi muore».
Il genocidio pianificato con precisione industriale fu un crimine speciale, tutto tedesco? «Vede, una delle cose più terribili che la Storia ci ha riservato è questa: nella prima guerra mondiale i tedeschi si comportarono bene, combatterono contro i pogrom zaristi all´Est.
Per il popolo ebraico, la Germania era terra di cultura, di alta tecnologia, di grandi talenti letterari.
Non ce lo aspettavamo.
I nazisti riuscirono a mobilitare tutto il talento dei tedeschi – talento in ogni forma, di psicologi, scienziati, ingegneri, giornalisti – per l´Olocausto.
Per questo quel crimine senza pari fu così atrocemente efficiente».
Lei oggi si fida dei tedeschi? «Io non credo nella colpa collettiva.
Solo i colpevoli sono colpevoli.
Sono testimone, non giudice.
Certo, purtroppo la Resistenza, l´opposizione al nazismo e alla Shoah, furono minoritari.
Ma insisto, la colpa collettiva per me non esiste.
E ammiro moltissimo Angela Merkel, perché lei che oggi guida la Germania sa parlare e agire nel mondo giusto: in nome della Memoria, e del diritto di Israele all´esistenza».
Qual è il significato della giornata della Memoria? «Sono lieto di tenere un discorso al Parlamento italiano.
E´ una giornata importante per tutto il mondo civile.
Perché è fondamentale non solo ricordare, ma anche capire come e perché l´orrore assoluto accadde.
E perché dimenticare è un grande pericolo, perché l´oblìo significa tradimento.
Chi oggi chiede di dimenticare deve sapere che non sfugge a questa responsabilità: insisto, dimenticare vuol dire tradire la memoria delle vittime.
E dai tradimenti non può mai derivare il bene».
E´ anche il pericolo posto dal negazionismo? «Il più grande, pericoloso e attivo negazionista del mondo è Ahmadinejad, per questo conduco una campagna contro le sue posizioni.
E´ il negazionista numero uno: nega in pubblico l´Olocausto, dichiara di volere bombe atomiche per distruggere Israele.
Dovrebbe essere arrestato, dovrebbe venire tradotto davanti a un tribunale internazionale e processato dal mondo per incitamento a crimini contro l´umanità e all´odio razziale».
Una specie di Processo di Norimberga? «Esiste già il Tribunale internazionale dell´Aja».
Lei è soddisfatto o no di come il mondo ricorda l´Olocausto? «In Europa la situazione è migliorata.
Gli Stati Uniti sono all´avanguardia: i due massimi memoriali sono a Washington e in Israele.
In tutto il mondo percepisco più sensibilità di prima al tema.
Forse perché alcuni di noi sopravvissuti sono ancora in vita.
Il mondo comincia a pensare che un giorno, presto, non ci saremo più, e che è doveroso ricordare mentre siamo ancora in vita.
Perché i sopravvissuti aiutano a tenere viva la Memoria, la comunicano al mondo di dopo l´Olocausto».
Ma quanto è grande il pericolo che, con sempre meno superstiti della Shoah ancora in vita, opinioni pubbliche e leader cedano alla tentazione di dimenticare, di “voltare pagina”? «Io vedo che in molti paesi i giovani che studiano l´Olocausto sono più numerosi che mai.
In America, e non solo, non c´è una scuola in cui la Shoah non sia materia d´insegnamento.
Mai come oggi ho visto tanti corsi, seminari, mostre, programmi tv.
Sono ottimista sulla capacità di ricordare.
Ma c´è sempre da chiedere che uso si fa della Memoria, quanto la si usa per capire».
L´antisemitismo è vivo e spesso in ascesa, per esempio in Europa.
Quanto è grave la minaccia? «Sono trend pericolosi.
Anche perché si manifestano spesso su uno sfondo d´indifferenza.
Nel 2009, in tutto il mondo ma specie in Europa, si è registrato il numero più alto di manifestazioni di antisemitismo dal 1945.
Recentemente sono stato in Ungheria, ho visto un aumento preoccupante dell´antisemitismo.
E anche altrove, gli antisemiti conquistano nuove tribune.
Come dico da decenni, spesso siamo di fronte a un antisemitismo senza ebrei, cioè a correnti antisemite in società dove quasi non vivono più ebrei.
Poi c´è un violento, ingiusto odio verso Israele.
Il bisogno di un capro espiatorio non è morto.
E tocca sempre agli ebrei.
Intanto, per esempio, dell´eccezionale efficienza dell´aiuto umanitario israeliano a Haiti si parla poco o nulla».
Le élite in Europa sono conosce della minaccia dell´antisemitismo e dell´oblìo o no? «Lo spero.
In alcuni paesi – l´Ungheria, l´Ucraina, ma anche paesi dell´Europa occidentale – vediamo trend pericolosi.
Umori antisemiti, il sorgere di partiti filonazisti.
Alle leadership politiche toccano anche doveri e considerazioni morali.
Non possiamo separare la politica dalla morale.
Serve una visione etica del mondo, e deve venire dai leader».
L´antisemitismo come ricerca del capro espiatorio è un male europeo? «L´antisemitismo è il più antico pregiudizio di gruppo della Storia.
Ed è presente tuttora, nel nostro quotidiano.
Dobbiamo combatterlo, non illuderci che la lotta sia finita».
Tra i negazionisti ci sono anche esponenti religiosi, come il vescovo Williamson.
Quanto sono pericolosi? «Sono pericolosi prima di tutto per la Chiesa cattolica.
Il fatto che papa Benedetto non abbia revocato la revoca della scomunica è al di là della mia comprensione.
Parliamo di un negazionista dell´Olocausto, predica odio verso gli ebrei e Israele, come può essere ancora un vescovo? Scomunicato o perdonato, come può essere ancora vescovo? Angela Merkel ha avuto ragione a criticare il Papa su questo tema».
in “la Repubblica” del 27 gennaio 2010

«Irrinunciabile la riconciliazione degli animi»

La vicinanza al popolo di Haiti, così duramente colpito dal terremoto.
E poi il ricordo del Sinodo africano, con la sottolineatura della necessità di una riconciliazione a ogni livello della società, i fatti di Rosarno, la crisi e la condizione delle imprese e del Paese, l’importanza di una nuova generazione di cattolici e di italiani che interpretino la cosa pubblica come un impegno alto e fondamentale per difendere e propagare i valori non negoziabili della vita e della famiglia.
Sono i temi toccati dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, nella prolusione al Consiglio episcopale permanente.
Eccone alcuni passaggi chiave.    L’emergenza di Haiti e il dovere della solidarietà.
«Nella giornata di ieri, domenica 24 gennaio, in tutte le nostre parrocchie si è svolta una raccolta straordinaria di aiuti per la popolazione di Haiti durissimamente colpita dal tragico terremoto del 12 gennaio.
Una prima cifra, com’è noto, è stata immediatamente erogata dalla Presidenza della Cei, ma molto di più si deve ora fare attraverso la Caritas che è già sul posto.
Siamo certi che i cattolici italiani vorranno come sempre corrispondere al dovere della generosità verso un popolo la cui tragedia lascia senza fiato.
Non abbiamo la pretesa di saper placare i quesiti più profondi ed inquietanti che sono suggeriti da questo genere di prove nella vita dei popoli, ma sappiamo che nella pronta solidarietà e nella genuina condivisione vi è già la traccia di ogni possibile risposta.
I missionari che da tempo operano nell’isola caraibica, i volontari stabili e quelli che si sono aggiunti in queste settimane sono i testimoni di una vicinanza che non verrà meno, dovendosi trovare le strade più rispettose ed efficaci per arrecare sollievo alle popolazioni colpite, in particolare ai bambini rimasti orfani e alle persone variamente segnate dalla tragedia».
La riconciliazione.
«Mi ha colpito, per restare ancora sull’importante discorso che il Santo Padre ha tenuto alla Curia romana alla vigilia di Natale, il significativo capitolo dedicato alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace, che gli era stato suggerito dal tema del recente Sinodo sull’Africa e dagli argomenti in esso vivacemente trattati.
Ma lo spettro della riflessione effettuata non era in modo vincolante circoscritto a quel continente, verso il quale peraltro sono ancora intatte tutte le responsabilità proprie del Nord del Mondo.
Di qui l’esame del concetto di riconciliazione quale compito della Chiesa di oggi, e come interpellanza diretta agli uomini del nostro tempo che hanno bisogno di apprendere nuovamente lo stile del riconciliarsi e i gesti che lo pongono in essere.
A cominciare dal sacramento della Riconciliazione: «Il fatto che esso in gran parte sia scomparso dalle abitudini esistenziali dei cristiani è un sintomo di una perdita di veracità nei confronti di noi stessi e di Dio; una perdita che mette in pericolo la nostra umanità e diminuisce la nostra capacità di pace» (ib).
Parole che suonano indubbiamente incalzanti per i popoli dell’Africa e le loro relazioni interne, spesso difficili e segnate da conflitti, ma anche per ogni altro popolo, dunque anche per noi e per la verità del nostro apporto di credenti alla costruzione dell’edificio comune che coincide anzitutto con il nostro Paese».
I fatti di Rosarno.
«Gli episodi di contestazione sociale che, attorno al fenomeno degli immigrati, hanno recentemente avuto luogo in Calabria, e specialmente a Rosarno e nella Piana di Gioia Tauro, potrebbero in una certa misura essere anch’essi ricondotti alla difficile crisi economica che l’Italia come gli altri Paesi si è trovata ad affrontare.
Ritengo che l’opinione pubblica nazionale abbia con l’occasione potuto avviare una riflessione che nessuna ruspa può facilmente rimuovere.
Voci sagge si sono alzate per dire cose importanti, da non scordare.
Io vorrei riprendere le parole essenziali che il Pontefice ha usato per centrare «il cuore del problema»: «Bisogna ripartire dal significato della persona.
Un immigrato è un essere umano, differente per provenienza, cultura e tradizioni, ma è una persona da rispettare e con diritti e doveri, in particolare, nell’ambito del lavoro, dove è più facile la tentazione dello sfruttamento, ma anche nell’ambito delle condizioni concrete di vita» (Saluto all’Angelus, 10 gennaio 2010).
Niente può farci dimenticare questa verità: l’immigrato è uno di noi; noi italiani siamo stati a nostra volta immigrati, e prima di noi lo è stato Gesù.
Bisogna partire da qui, e mai staccarsi da questa consapevolezza che va incardinata nei pensieri personali e collettivi degli adulti, come dei giovani e dei bambini».
Il sogno di una nuova generazione di cattolici.
«Confido in un sogno, di quelli che si fanno ad occhi aperti, e che dicono una direzione verso cui preme andare.
Mentre incoraggiamo i cattolici impegnati in politica ad essere sempre coerenti con la fede che include ed eleva ogni istanza e valore veramente umani, vorrei che questa stagione contribuisse a far sorgere una generazione nuova di italiani e di cattolici che, pur nel travaglio della cultura odierna e attrezzandosi a stare sensatamente dentro ad essa, sentono la cosa pubblica come importante e alta, in quanto capace di segnare il destino di tutti, e per essa sono disposti a dare il meglio dei loro pensieri, dei loro progetti, dei loro giorni.
Italiani e credenti che avvertono la responsabilità davanti a Dio come decisiva per l’agire politico.
So che per riuscire in una simile impresa ci vuole la Grazia abbondante di Dio, ma anche chi accetti di lasciarsi da essa investire e lavorare.
Ci vuole una comunità cristiana in cui i fedeli laici imparino a vivere con intensità il mistero di Dio nella vita, esercitandosi ai beni fondamentali della libertà, della verità, della coscienza.
Cresce l’urgenza di uomini e donne capaci, con l’aiuto dello Spirito, di incarnare questi ideali e di tradurli nella storia non cercando la via meno costosa della convenienza di parte comunque argomentata, ma la via più vera, che dispiega meglio il progetto di Dio sull’umanità, e perciò capaci di suscitare nel tempo l’ammirazione degli altri, anche di chi è mosso da logiche diverse».
Prolusione del (25 gennaio 2010) «Auspico il sorgere di una nuova generazione di italiani e di cattolici» .

“La legge morale vale anche per non credenti”

La legge morale naturale “non è esclusivamente o prevalentemente confessionale”, ma si fonda sulla stessa natura umana: lo ha ricordato Benedetto XVI ai partecipanti all’assemblea plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, ricevuti in udienza nella mattina di venerdì 15 gennaio, nella Sala Clementina.
Signori Cardinali, Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, Carissimi fedeli collaboratori, è per me motivo di grande gioia incontrarvi in occasione della Sessione Plenaria e manifestarvi i sentimenti di profonda riconoscenza e di cordiale apprezzamento per il lavoro che svolgete al servizio del Successore di Pietro nel suo ministero di confermare i fratelli nella fede (cfr.
Lc 22, 32).
Ringrazio il Signor Cardinale William Joseph Levada per il suo indirizzo di saluto, nel quale ha richiamato le tematiche che impegnano attualmente la Congregazione, nonché le nuove responsabilità che il Motu Proprio “Ecclesiae Unitatem” le ha affidato, unendo in modo stretto al Dicastero la Pontificia Commissione Ecclesia Dei.
Vorrei ora brevemente soffermarmi su alcuni aspetti che Ella, Signor Cardinale, ha esposto.
Anzitutto, desidero sottolineare come la Vostra Congregazione partecipi del ministero di unità, che è affidato, in special modo, al Romano Pontefice, mediante il suo impegno per la fedeltà dottrinale.
L’unità è infatti primariamente unità di fede, sostenuta dal sacro deposito, di cui il Successore di Pietro è il primo custode e difensore.
Confermare i fratelli nella fede, tenendoli uniti nella confessione del Cristo crocifisso e risorto costituisce per colui che siede sulla Cattedra di Pietro il primo e fondamentale compito conferitogli da Gesù.
È un inderogabile servizio dal quale dipende l’efficacia dell’azione evangelizzatrice della Chiesa fino alla fine dei secoli.
Il Vescovo di Roma, della cui potestas docendi partecipa la Vostra Congregazione, è tenuto costantemente a proclamare: “Dominus Iesus” – “Gesù è il Signore”.
La potestas docendi, infatti, comporta l’obbedienza alla fede, affinché la Verità che è Cristo continui a risplendere nella sua grandezza e a risuonare per tutti gli uomini nella sua integrità e purezza, così che vi sia un unico gregge, radunato attorno all’unico Pastore.
Il raggiungimento della comune testimonianza di fede di tutti i cristiani costituisce pertanto la priorità della Chiesa di ogni tempo, al fine di condurre tutti gli uomini all’incontro con Dio.
In questo spirito confido in particolare nell’impegno del Dicastero perché vengano superati i problemi dottrinali che ancora permangono per il raggiungimento della piena comunione con la Chiesa da parte della Fraternità S.
Pio X.
Desidero inoltre rallegrarmi per l’impegno in favore della piena integrazione di gruppi di fedeli e di singoli, già appartenenti all’Anglicanesimo, nella vita della Chiesa Cattolica, secondo quanto stabilito nella Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus.
La fedele adesione di questi gruppi alla verità ricevuta da Cristo e proposta dal Magistero della Chiesa non è in alcun modo contraria al movimento ecumenico, ma mostra, invece, il suo ultimo scopo che consiste nel giungere alla piena e visibile comunione dei discepoli del Signore.
Nel prezioso servizio che rendete al Vicario di Cristo, mi preme ricordare anche come la Congregazione per la Dottrina della Fede nel settembre 2008 ha pubblicato l’Istruzione Dignitas personae su alcune questioni di bioetica.
Dopo l’Enciclica Evangelium vitae del Servo di Dio Giovanni Paolo ii nel marzo 1995, questo documento dottrinale, centrato sul tema della dignità della persona, creata in Cristo e per Cristo, rappresenta un nuovo punto fermo nell’annuncio del Vangelo, in piena continuità con l’Istruzione Donum vitae, pubblicata da codesto Dicastero nel febbraio 1987.
In temi tanto delicati ed attuali, quali quelli riguardanti la procreazione e le nuove proposte terapeutiche che comportano la manipolazione dell’embrione e del patrimonio genetico umano, l’Istruzione ha ricordato che “il valore etico della scienza biomedica si misura con il riferimento sia al rispetto incondizionato dovuto ad ogni essere umano, in tutti i momenti della sua esistenza, sia alla tutela della specificità degli atti personali che trasmettono la vita” (Istr.
Dignitas personae, n.
10).
In tal modo il Magistero della Chiesa intende offrire il proprio contributo alla formazione della coscienza non solo dei credenti, ma di quanti cercano la verità e intendono dare ascolto ad argomentazioni che vengono dalla fede ma anche dalla stessa ragione.
La Chiesa, nel proporre valutazioni morali per la ricerca biomedica sulla vita umana, attinge infatti alla luce sia della ragione che della fede (cfr.
Ibid., n.
3), in quanto è sua convinzione che “ciò che è umano non solamente è accolto e rispettato dalla fede, ma da essa è anche purificato, innalzato e perfezionato” (Ibid., n.
7).
In questo contesto viene altresì data una risposta alla mentalità diffusa, secondo cui la fede è presentata come ostacolo alla libertà e alla ricerca scientifica, perché sarebbe costituita da un insieme di pregiudizi che vizierebbero la comprensione oggettiva della realtà.
Di fronte a tale atteggiamento, che tende a sostituire la verità con il consenso, fragile e facilmente manipolabile, la fede cristiana offre invece un contributo veritativo anche nell’ambito etico-filosofico, non fornendo soluzioni precostituite a problemi concreti, come la ricerca e la sperimentazione biomedica, ma proponendo prospettive morali affidabili all’interno delle quali la ragione umana può ricercare e trovare valide soluzioni.
Vi sono, infatti, determinati contenuti della rivelazione cristiana che gettano luce sulle problematiche bioetiche: il valore della vita umana, la dimensione relazionale e sociale della persona, la connessione tra l’aspetto unitivo e quello procreativo della sessualità, la centralità della famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna.
Questi contenuti, iscritti nel cuore dell’uomo, sono comprensibili anche razionalmente come elementi della legge morale naturale e possono riscuotere accoglienza anche da coloro che non si riconoscono nella fede cristiana.
La legge morale naturale non è esclusivamente o prevalentemente confessionale, anche se la Rivelazione cristiana e il compimento dell’uomo nel mistero di Cristo ne illumina e sviluppa in pienezza la dottrina.
Come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica, essa “indica le norme prime ed essenziali che regolano la vita morale” (n.
1955).
Fondata nella stessa natura umana e accessibile ad ogni creatura razionale, la legge morale naturale costituisce così la base per entrare in dialogo con tutti gli uomini che cercano la verità e, più in generale, con la società civile e secolare.
Questa legge, iscritta nel cuore di ogni uomo, tocca uno dei nodi essenziali della stessa riflessione sul diritto e interpella ugualmente la coscienza e la responsabilità dei legislatori.
Nell’incoraggiarvi a proseguire nel Vostro impegnativo e importante servizio, desidero esprimervi anche in questa circostanza la mia spirituale vicinanza, impartendo di cuore a voi tutti, in pegno di affetto e di gratitudine, la Benedizione Apostolica.
(©L’Osservatore Romano – 16 gennaio 2010)