Riforma delle superiori avanti

Dopo quasi tre settimane di attesa, il Miur ha finalmente resi noti i testi dei tre regolamenti approvati in seconda lettura dal Consiglio dei Ministri il 4 febbraio scorso.
Sul sito del ministero (www.istruzione.it) sono in linea i regolamenti dei liecei, dei tecnici e dei professionali che andranno a riforma dal prossimo settembre, con un ampio corredo di allegati con tabelle di confluenza, quadri orari, profili ecc.
Il materiale di documentazione, necessario per le iscrizioni che si chiuderanno tra circa un mese il 26 marzo prossimo, comprende anche un brochure di sintesi della riforma, slides che illustrano sinteticamente le caratteristiche dei nuovi istituti riformati.
Sullo stesso sito del Miur è anche in linea una speciale Guida (130 pagine) che illustra per gli studenti la riforma.
La Guida, ora in formato digitale, sarà inviata su supporto cartaceo alle scuole nei prossimi giorni.
Mentre le scuole superiori sono ora impegnate a capire e conoscere il nuovo sistema, e le famiglie degli studenti di terza media esplorano questo nuovo sistema in trasformazione per scegliere la scuola a cui iscriversi, i regolamenti seguono la prevista procedura per la loro definizione ufficiale.
Dovranno essere promulgati nelle prossime settimane dal Capo dello Stato sotto forma di DPR, poi dovranno essere registrati dall Corte dei Conti.
Dopo questi due passaggi, poitranno essere pubblicati sulla Gazzetta ufficiale ed entrare immediatamente in vigore (aprile 2010?).  Licei, a tre giorni dalle iscrizioni ecco i regolamenti del Ministero di Salvo Intravaia Ecco, finalmente, i tre Regolamenti che danno ufficialmente avvio alla riforma della scuola superiore.
Il ministero dell’Istruzione li ha pubblicati pochi minuti fa sul proprio sito (www.istruzione.it) dopo avere avuto, per la che riguarda i tagli, l’ok del ministero dell’Economia.
Con i tre decreti vidimati da via XX settembre le scuole, le province e le regioni possono partire con i loro piani dell’offerta formativa.
Ma è quasi certo che ad appena tre giorni dall’apertura delle iscrizioni (il prossimo 26 febbraio) le scuole apporteranno pochissime modifiche ai percorsi disegnati da viale Trastevere.
E restano ancora parecchi dubbi, che con tutta probabilità verranno fugati chiariti solo nei prossimi giorni.
I licei.
Saranno in tutto sei: classico, scientifico (con eventuale opzione di Scienze applicate), linguistico, delle scienze umane (con eventuale opzione “economico-sociale”), artistico con ben 6 indirizzi (arti figurative; architettura e ambiente; audiovisivo e multimedia; design; grafica; scenografia), musicale/coreutico, di cui verranno attivati soltanto 40 sezioni, per il primo, e 10 sezioni per il secondo.
Dove, ancora, non si sa.
I quadri orario, con ore e materie, sono reperibili sul sito del ministero.
Restano per alunni e famiglie alcune incognite.
E’ possibile scegliere liberamente fra gli indirizzi e le opzioni dei singoli licei? Sembra proprio di no.
O meglio, le scuole non potranno garantire ai genitori la scelta perché le diverse opzioni saranno attivate in relazione alle disponibilità di organico.
Ma una cosa è certa: si partirà soltanto dalle prime classi.
Tutte le altre classi continueranno fino alla conclusione del quinquennio con le materie e gli orari attuali Gli istituti tecnici.
Gli alunni degli istituti tecnici saranno i più penalizzati dalla riforma.
Anche nei tecnici si partirà con indirizzi e materie nuove dal primo anno.
Ma a settembre le seconde, terze e quarte classi dovranno subire una contrazione delle ore.
Oltre mezzo milione di studenti si vedranno ridurre le ore settimanali a 32 ore, ma non è ancora chiaro quali materie verranno ridimensionate.
Per il prossimo anno, gli alunni dovranno scegliere fra due settori (Economico e Industria/artigianato) e 11 indirizzi (Amministrazione, Finanza e Marketing; Turismo; Meccanica, Meccatronica ed Energia; Trasporti e Logistica; Elettronica ed Elettrotecnica; Informatica e Telecomunicazioni; Grafica e Comunicazione; Chimica, Materiali e Biotecnologie; Sistema Moda; Agraria, Agroalimentare e Agroindustria; Costruzioni, Ambiente e Territorio).
Gli istituti professionali.
Verranno articolati in due settori (Servizi e Industria/artigianato) e 6 indirizzi (Servizi per l’agricoltura e lo sviluppo rurale; Servizi socio-sanitari; Servizi per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera; Servizi commerciali; Produzioni artigianali e industriali; Manutenzione e assistenza tecnica).
E si partirà dal primo anno.
Ma, come nei tecnici, anche le seconde e terze classi degli istituti professionali dovranno lasciare sul campo una fetta di ore.
Nel 2010/2011 le seconde e terze funzioneranno con 34 ore settimanali e l’anno successivo si passerà a 32 ore.  L’Autonomia.
Per adeguare i curricula alle esigenze del territorio, i licei potranno manovrare la leva dell’autonomia.
Sarà possibile ritagliare, nel primo biennio, il 20 per cento del monte ore complessivo per attivare nuovi insegnamenti o integrare quelli esistenti.
Nel secondo biennio la quota di autonomia sale al 30 per cento per scendere nuovamente al 20 per cento all’ultimo anno.
Ma tutto è ancora una volta vincolato dalla dotazione organica assegnata dal ministero alla singola scuola.
Negli istituti tecnici la quota di flessibilità è più spinta: 20 per cento dell’orario al primo biennio, 30 per cento nel secondo biennio e 35 per cento all’ultimo anno.
E nei professionali si può arrivare al 40 per cento all’ultimo anno.
I tagli e classi di concorso.
La riforma costerà al sistema di istruzione oltre 17 mila cattedre, il grosso delle quali saranno tagliate negli istituti tecnici e professionali.
Solo a settembre salteranno quasi 12 mila cattedre.
Se aggiungiamo le cattedre in meno alla scuola primaria e alla scuola media si tocca quota 27 mila.
E cosa potranno insegnare il prossimo anno i prof nei nuovi indirizzi verrà definito fra un anno.
Repubblica  (23 febbraio 2010)

Una fede che si tuffa nel futuro

Muovendo dalla crisi prodotta dalla rivoluzione francese, il pensatore poeta delineava una prospettiva messianico-spiritualista, che aiutasse a superarne i drammatici effetti.
L’idea chiave era quella del primato della religione: soltanto l’ordine della cristianità, modellato su quello medioevale, avrebbe potuto salvare l’Europa.
Per Novalis non si trattava di un semplice ritorno all’antico, ma di un ribaltamento utopico, orientato alla creazione di una “nuova cristianità”, che avrebbe dovuto “ricostruire una Chiesa visibile senza riguardo a frontiere politiche, capace di accogliere nel suo grembo tutte le anime assetate dell’ultraterreno e di fare da mediatrice fra il mondo antico e il nuovo”.
Il saggio non ebbe vita facile: rifiutato dalla rivista Athenaeum.
espressione di una parte significativa dell'”intellighentsia” tedesca, apparve integralmente soltanto nel 1826.
L’alternativa proposta alla crisi consisteva in un sistema non meno ideologico di quello che intendeva rifiutare, l’illuministico ordre de la raison.
L’utopica ripresa di un ideale, in realtà mai esistito, non avrebbe esercitato più che il fascino della suggestione, prestandosi piuttosto a strumentalizzazioni nostalgiche e reazionarie.
Il caso rappresentato da Christenheit oder Europa risulta emblematico in un tempo come il nostro, caratterizzato da una crisi di proporzioni non dissimili da quella seguita alla rivoluzione francese: il crollo del muro di Berlino – avvenuto a due secoli esatti dal fatidico 1789 – ha segnato clamorosamente la fine delle ideologie che avevano dominato il sistema dei due blocchi contrapposti.
La disgregazione che ne è seguita – sorprendente rispetto a ogni possibile aspettativa – dimostra come la vera identificazione compiutasi nel tempo della modernità sia stata quella fra l’Europa e il modello ideologico, frutto della ragione adulta dell’Illuminismo.
L’antica “casa europea” è stata la fucina di tutte le aspirazioni emancipatorie dell’età moderna, come anche dei totalitarismi ispirati a Est e a Ovest dalla pretesa delle ideologie di imporre al reale un ordine razionale, traducendo la loro “volontà di potenza” (Friedrich Nietzsche) anche nell’esercizio sistematico della violenza.
Si comprende, allora, quale rischio comporterebbe il proporre per il futuro dell’Europa nuovi modelli ideologici, compreso quello di eventuali radici da ritrovare: l’eredità ebraico-cristiana potrà servire al superamento delle difficoltà attuali della coscienza europea solo se non sarà pensata in termini di ideologia rassicurante, di ritorno al passato.
La vera posta in gioco è capire se e in che misura il “Grande Codice” che è la Bibbia (Frye Northrop) possa ispirare oggi una prassi sociale e politica, che soddisfi il bisogno diffuso di nuovo consenso etico.
Le radici ebraico-cristiane dell’Europa non vanno cercate insomma nella riproposizione di assetti ormai superati, ma nella visione biblica del Dio personale, della storia orientata al compimento della Sua promessa e del protagonismo decisivo della persona, rivelato nelle sue potenzialità e nel suo destino dalla vicenda del Figlio eterno fatto uomo per noi.
Più che stare alle nostre spalle, il potenziale delle radici ebraico-cristiane dell’Europa ci provoca come qualcosa che sta davanti a noi e che ci chiede passi di libertà audace e scelte di intelligenza creativa.
Le radici ebraico-cristiane vanno cercate in quella “riserva escatologica”, che il profetismo biblico e il Vangelo cristiano hanno suscitato, alimentando innumerevoli storie di fede e di generosità nei più svariati mondi culturali della terra europea – da San Benedetto da Norcia ai santi Cirillo e Metodio, da San Francesco d’Assisi ai “folli di Dio” della spiritualità russa.
Questo sguardo in avanti motiva il rifiuto di ogni atteggiamento passivo e rinunciatario di fronte alla crisi in atto, e l’assunzione di responsabilità verso gli altri per costruire insieme la “casa comune europea”.
Un tale “ritorno al futuro”, possibile grazie alla religione della speranza fondata nella rivelazione biblica, potrà aiutare l’Est del continente europeo a non far andar perduta – con la crisi dell’ideologia – la carica utopica che la ispirava, e l’Ovest divenuto sempre più “società liquida” (Zygmunt Bauman), senza ancore rassicuranti, a dare un orizzonte di senso al suo universo etico, quanto mai frammentato.
Le “radici ebraico-cristiane” dell’Europa sono un destino e una speranza, più che non un possesso e una certezza.
Lungi dal tranquillizzare, esse sfidano tutti e ciascuno a uscire dal calcolo individualistico, per entrare nel respiro ampio della solidarietà fra singoli, i popoli e le nazioni, e aprirsi al solo orizzonte, che motivi l’impegno, senza rischio di tramontare: quello della speranza “ultima”, fondata nelle promesse del Dio dell’alleanza, capace di dare senso e valore duraturo alle scelte complesse di tutto ciò che è “penultimo”.
Proprio così, ebraismo e cristianesimo, nel loro indiscutibile “meticciato” con la grande cultura greca e il pragmatismo latino, potranno offrire quel supplemento d’anima, di cui come mai l’Europa ha bisogno.
in “Il Sole 24 Ore” del 21 febbraio 2010 *Bruno Forte è arcivescovo di Chieti-Vasto.
Il testo che pubblichiamo uno stralcio della prolusione che terrà domani nella Sala Papale del Sacro Convento di Assisi, in occasione dell’inaugurazione del Centro studi sulle radici culturali ebraico-cristiane della civiltà europea dell’Università di Perugia Si torna a parlare delle radici ebraico-cristiane dell’Europa.
Anche la visita di Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma il 17 gennaio sembra aver riacceso questo interesse.
Esso peraltro risponde al bisogno crescente di dare un’anima alla casa comune europea, via via costruita in questi anni.
È legittimo chiedersi che cosa propriamente voglia dire questo ritorno alle radici.
Uno scritto del lontano 1799 può forse aiutarci a capirlo, sia pur se nel segno del contrario: si tratta del saggio Die Christenheit oder Europa – La cristianità ovvero l’Europa di Georg Friedrich von Hardenberg, meglio noto con lo pseudonimo di Novalis.

L’attualità del pensiero di Augusto Del Noce

Pomeriggio di studio sul pensiero di Augusto Del Noce   La Facoltà di Filosofia dell’UPS, in collaborazione con il Movimento Politico “Giovani, liberi e forti” di Roma, organizza un incontro di formazione filosofico-politica dal titolo L’attualità del pensiero di Augusto Del Noce (1910-1989).
L’incontro ha luogo presso l’Aula Marolla dell’Università Pontificia Salesiana (in Piazza Ateneo Salesiano, 1 – Roma), il prossimo venerdì 26 febbraio 2010, dalle ore 17.30 alle ore 20.
Intervengono il prof.
Gian Franco Lami dell’Università di Roma-La Sapienza, l’on.
Rocco Buttiglione, dell’Università San Pio V di Roma e il prof.
Massimo Crosti, della Facoltà di Filosofia dell’UPS.
Interviene anche il Dott.
Fabrizio Del Noce, Direttore di RAI Fiction.  Per informazioni, rivolgersi alla Facoltà di Filosofia (06.87290625; filosofia@unisal.it) o al dott.
Simone Budini (347.6726373; simone.budini@gmail.com).
(UPS – Roma, 18 febbraio 2010) –

Verità e potere

Estratti da “Memorie II, Una verità contestata” Nell’estratto che segue, Hans Küng, che ha appena parlato delle ricerche per quello che sarebbe diventato il suo libro “Essere cristiano” (1974), tenta di definire la specificità cristiana.
Che cos’è essere cristiano? “Qual è la caratteristica essenziale del cristianesimo? Per riassumere al massimo, direi che è Gesù Cristo stesso.
È l’incarnazione viva e decisiva, la sua causa, la sua vera misura.
Incarna un modo totalmente nuovo di vivere, un nuovo stile di vita.
Ci propone, a noi uomini moderni, un modo di vedere le cose e un modello di pratica unici, anche se noi possiamo evidentemente applicarli in modi molto diversi.
Con tutta la sua persona, lui è invito, richiamo, provocazione.
Chiede a tutti, individui e società, di riorientarsi concretamente, di cambiare atteggiamento scoprendo nuove motivazioni, nuove disposizioni, un nuovo orizzonte di senso ed un nuovo destino.
Chi allora è cristiano? Non è semplicemente l’uomo che conduce correttamente la sua vita sociale o anche religiosa.
Certo bisogna legare interiorità cristiana e apertura al mondo, ma anche il non cristiano può essere umano, sociale e autenticamente religioso.
È cristiano colui che cerca di vivere la sua umanità, le sue relazioni sociali e la sua vita religiosa a partire da Cristo, secondo il suo spirito, secondo la sua misura, né più né meno.” Riprendendo un’espressione resa popolare dal filosofo delle scienze Thomas S.
Kuhn, Hans Küng evoca qui i “paradigmi” del cristianesimo, cioè i diversi modelli di pensiero globale che hanno potuto strutturare la visione cristiana del mondo.
Che cos’è essere cattolico? “Che cosa vuol dire per me “cattolico”, “teologo cattolico”? Se si parte dalla nozione originale, può dirsi teologo cattolico colui che, nella sua teologia, sente di dover rispondere ai “cattolici”, in altre parole a tutta la Chiesa, alla Chiesa totale, universale.
Questo deve essere inteso in una duplice dimensione: quella del legame spirituale con la Chiesa di tutte le epoche, e quella del legame con la Chiesa di tutte le nazioni e di tutti i continenti.
Quindi la cattolicità nel tempo, con l’interesse che ciò comporta per la continuità della fede cristiana, ma anche la cattolicità nello spazio: una universalità che ingloba i diversi gruppi di credenti cristiani.
Devo insistere su questo punto: la cattolicità nel tempo e nello spazio non può ammettere che si omettano i giudeo-cristiani (paradigma I) come hanno fatto i Padri greci assolutizzando come verità atemporale della fede e della ragione il paradigma ellenistico (paradigma II), quindi una sintesi della fede e della filosofia greca, quella che difendeva il Ratzinger giovane, quella che ha ripreso nel suo discorso di Ratisbona (2006), come nel suo libro su Gesù (2007).
[…] La cattolicità nello spazio e nel tempo non può accettare neanche che si dichiari di fatto non cristiano il paradigma medioevale romano (paradigma III), come fanno troppo spesso i protestanti, né inversamente che, dall’alto della sua cattedra cattolica romana si dichiari che la Riforma (paradigma IV) e l’Illuminismo (paradigma V) sono responsabili della “disellenizzazione” e del declino progressivo dell’Occidente cristiano, del relativismo moderno dei valori e di un pluralismo che divide.
Un cattolicesimo così ristretto alla sua forma ellenistico-romana è incapace di entrare in dialogo con la filosofia attuale, con le scienze della natura o con la nostra concezione della democrazia, con il pensiero moderno in generale.
Sbarra qualsiasi intesa ecumenica.
Si oppone a qualsiasi vera inculturazione del cristianesimo impedendo la formulazione del messaggio cristiano nel quadro del pensiero indiano, cinese o africano.
È in questo senso della continuità e dell’universalità della fede cristiana che intendo essere teologo cattolico.
Intendendo le cose in questo modo, un teologo di denominazione protestante o evangelica, non potrebbe essere anche cattolico? Perfettamente! E qui vorrei dar da pensare a Joseph Ratzinger: la vera cattolicità non è possesso naturale di un’eredità consegnata ai cattolici.
Questa cattolicità diventa cattolicesimo, in altre parole ideologia, a partire dal momento in cui si ammette “la realtà cattolica così come è diventata”, con tutte le sue proliferazioni e tutte le deformazioni della devozione, della teologia e della sua costituzione ecclesiastica, invece di giudicarla su un solo criterio.
E anche per Ratzinger, questo criterio non può essere altro che il messaggio cristiano originale, l’Evangelo di Gesù Cristo.
Colui che vuole essere teologo cattolico, deve essere di mentalità evangelica, così come inversamente il teologo evangelico nel vero senso della parola deve essere teologo cattolico aperto.
In questo senso, sia cattolici che protestanti, possiamo essere teologi ecumenici.
In altre parole, la vera ecumenicità è quella di un “cattolicesimo evangelico” centrato e ordinato sulla persona di Cristo.” Il 5 luglio 1973, la Congregazione per la dottrina della fede pubblica la dichiarazione Mysterium Ecclesiae, che attacca chiaramente (ma non esplicitamente) certi punti della teologia di Hans Küng, che medita sui rimproveri che gli vengono fatti sul suo stile di difesa.
Sottomettersi umilmente? “Quando un teologo osa mettersi sulla difensiva, ci si guarda bene dal porgli la domanda della verità delle sue affermazioni: ‘Ha ragione di dire quello che ha detto?’, e anche quella del diritto: ‘Abbiamo ragione di metterlo sotto processo?’.
Se ne fa un problema di stile: ‘Come osa parlare con questo tono al presidente della Conferenza episcopale?’ Per me non è una cosa nuova: invece di implicarsi obbiettivamente nel dibattito, questo genere di ecclesiastici si lamenta sempre del tono e dello stile dei suoi critici, mentre non si interroga mai su quelli di una gerarchia che parla senza cuore e con voce comminatoria, quasi divina.
Evidentemente so molto bene quale sia ‘il tono e lo stile’ che ci si aspetta a Roma da parte di coloro che cadono sotto la critica curiale: umiltà ed obbedienza.
Anche Julius Döpfner, il mio collega del Germanicum (all’epoca presidente della Conferenza episcopale tedesca e principale esecutore delle istruzioni romane nei confronti di Küng, NDLR) ha dovuto leggere spesso, come me, certi comunicati trionfanti che riferivano che certi autori, a lungo diffamati e presi di mira in maniera molto pignola, si erano alla fine “umilmente sottomessi”: “Humiliter se subjecit.” Una vittoria per il magistero, anche se in seguito la storia rende giustizia a colui che si è umiliato.
Oggi non si possono che rifiutare certe formule di sottomissione discriminatorie e diffamatorie – del resto non si dispone più della forza dello Stato per imporle.
Ma l’autorità romana aspetta sempre la capitolazione pubblica del “deviante”, con forme più dolci e metodi più morbidi, è sempre di quello che si tratta, oggi come ieri.
Si ricorre ancora al potere, invece di cercare la verità.
Certo, dicono gli apologeti di questo sistema, non siamo più allo stile dell’Inquisizione.
Ma che cosa significa questo stile, per me? Quando mi si propone di andare a Roma per un colloquio, è unicamente allo scopo di ottenere alla fine ciò che mi chiedevano direttamente all’inizio: firmare umilmente, capitolare: Humiliter, se subjecit.” Spesso presentato come l’esatto contrario dei tradizionalisti cattolici, Hans Küng si mostra tuttavia molto misurato nei loro confronti.
E i tradizionalisti? “Presi posizione su Ecône in un articolo del giornale inglese Times del 24 agosto 1975, sotto il titolo “Roma deve trovare un modo per metter fine al conflitto che continua a crescere nella Chiesa” e in una lunga intervista sulla Neue Zürcher Zeitung del 3 ottobre 1975.
Chiedo giustizia per i tradizionalisti e sono a favore di un superamento delle polarizzazioni nella Chiesa cattolica e per una tolleranza reciproca.
Deploro questo conflitto per le persone che vi sono implicate.
Ho fatto anch’io personalmente l’esperienza di quello che costa spiritualmente dover continuamente sopportare un trattamento offensivo da parte delle autorità ecclesiastiche.
Ma devo al contempo protestare vivamente contro il parallelismo che viene stabilito tra il mio caso e quello di monsignor Lefebvre e di Ecône, indicando tutto quello che mi differenzia da loro: non ho mai contestato l’ortodossia delle autorità romane e non ho mai discreditato il concilio definendolo eretico.
Neanche ho fondato il mio specifico gruppo (“progressista”) né cercato di imporre in maniera dottrinaria la mia visione delle cose, il mio modo di vedere la formazione dei preti o la mia concezione dei seminari.
Mi tengo lontano da qualsiasi tendenza scismatica.
Non vedo veramente perché monsignor Lefebvre abbia dovuto costituire il proprio gruppo e creare un seminario particolare.
Nella nostra Chiesa non ce ne sono già abbastanza di seminari e di vescovi conservatori? Non vedo del resto neppure – questo rivolto a Roma – perché, in determinate circostanze, non si dovrebbe più celebrare la messa in latino.
Lo abbiamo già fatto durante i nostri incontri annuali di Concilium, tra teologi di lingue diverse, che capiscono certo tutti il latino.
Non vedo neanche perché noi, cattolici, dovremmo impedire di ricevere la comunione in bocca, alla maniera di ieri, invece di prenderla in mano, secondo una maniera ancora più antica.
Il senso del rinnovamento non deve consistere nel voler regolare tutto in maniera uniforme.
Secondo Agostino, “il massimo di libertà possibile, di obblighi solo quelli necessari, il tutto nell’amore”.
O almeno nella giustizia.
in “Témoignage chrétien” n° 3383 dell’11 febbraio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

Percorsi di animazione per giovani coppie e gruppi familiari

PERCORSI DI ANIMAZIONE PER GIOVANI COPPIE E GRUPPI FAMILIARI Cammini di tenerezza, di speranza e di gioia alcuni studiosi e operatori qualificati interagiscono illuminando e orientando la formazione di: · operatori pastorali sensibili al cammino dei giovani verso il matrimonio, alla realtà delle giovani coppie, alla vita dei gruppi; · psicologi interessati al benessere della persona · animatori e formatori vocazionali Programma Saluto iniziale: il Rettore, Prof.
Carlo Nanni · Introduzione: l’autore, il libro: Prof.
Mario Oscar Llanos · Un approccio biblico-catechistico: Prof.
Cesare Bissoli · Rilievi qualificanti a partire dalla terapia familiare: Prof.ssa Maria Gioia Milizia · Il testo come mediazione “vocazionale”: Prof.
Giuseppe Mariano Roggia · Pausa recitativa e musicale · Istruzioni per l’uso in gruppi di giovani coppie: Prof.
Raffaele Mastromarino · Il testo e l’animazione della Pastorale Familiare Diocesana: Prof.
Luca Pasquale    (Ufficio di Pastorale Familiare della Diocesi di Roma) · Interventi liberi, domande di approfondimemento · La parola dell’autore: riflessioni sui contributi presenti nel libro: Prof.
Romolo Taddei · Conclusione DON ROMOLO TADDEI è Sacerdote della Diocesi di Ragusa, ex allievo dell’UPS, Psicologo e Psicoterapeuta, Delegato diocesano per la Pastorale Familiare, Fondatore dell’Associazione “Due Ali per volare” Direttore del Consultorio per la Famiglia della Diocesi di Ragusa, Docente di Pastorale Familiare, Psicologia della Famiglia e Psicologia Religiosa all’Istituto San Paolo di Catania.
Collabora con l’Istituto di Gestalt Therapy HCC Kairòs; ha portato in Sicilia il movimento “Incontro matrimoniale”.
Giovedì 18 Febbraio 2010, ore 17.
Aula Artemide Zatti Università Pontificia Salesiana Piazza dell’Ateneo Salesiano, 1.
Roma Bus 90, dalla Stazione Termini – Bus 80, da Piazza San Silvestro (scendere a Piazza Vimercati) Il libro sarà disponibile per la vendita

Quaresima: La giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Cristo

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI PER LA QUARESIMA 2010 La giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Cristo (cfr Rm 3,21-22)    Cari fratelli e sorelle, ogni anno, in occasione della Quaresima, la Chiesa ci invita a una sincera revisione della nostra vita alla luce degli insegnamenti evangelici.
Quest’anno vorrei proporvi alcune riflessioni sul vasto tema della giustizia, partendo dall’affermazione paolina: La giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Cristo (cfr Rm 3,21-22).
Giustizia: “dare cuique suum” Mi soffermo in primo luogo sul significato del termine “giustizia”, che nel linguaggio comune implica “dare a ciascuno il suo – dare cuique suum”, secondo la nota espressione di Ulpiano, giurista romano del III secolo.
In realtà, però, tale classica definizione non precisa in che cosa consista quel “suo” da assicurare a ciascuno.
Ciò di cui l’uomo ha più bisogno non può essergli garantito per legge.
Per godere di un’esistenza in pienezza, gli è necessario qualcosa di più intimo che può essergli accordato solo gratuitamente: potremmo dire che l’uomo vive di quell’amore che solo Dio può comunicargli avendolo creato a sua immagine e somiglianza.
Sono certamente utili e necessari i beni materiali – del resto Gesù stesso si è preoccupato di guarire i malati, di sfamare le folle che lo seguivano e di certo condanna l’indifferenza che anche oggi costringe centinaia di milioni di essere umani alla morte per mancanza di cibo, di acqua e di medicine -, ma la giustizia “distributiva” non rende all’essere umano tutto il “suo” che gli è dovuto.
Come e più del pane, egli ha infatti bisogno di Dio.
Nota sant’Agostino: se “la giustizia è la virtù che distribuisce a ciascuno il suo…
non è giustizia dell’uomo quella che sottrae l’uomo al vero Dio” (De civitate Dei, XIX, 21).
Da dove viene l’ingiustizia? L’evangelista Marco riporta le seguenti parole di Gesù, che si inseriscono nel dibattito di allora circa ciò che è puro e ciò che è impuro: “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro.
Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro…
Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo.
Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male” (Mc 7,14-15.20-21).
Al di là della questione immediata relativa al cibo, possiamo scorgere nella reazione dei farisei una tentazione permanente dell’uomo: quella di individuare l’origine del male in una causa esteriore.
Molte delle moderne ideologie hanno, a ben vedere, questo presupposto: poiché l’ingiustizia viene “da fuori”, affinché regni la giustizia è sufficiente rimuovere le cause esteriori che ne impediscono l’attuazione.
Questo modo di pensare – ammonisce Gesù – è ingenuo e miope.
L’ingiustizia, frutto del male, non ha radici esclusivamente esterne; ha origine nel cuore umano, dove si trovano i germi di una misteriosa connivenza col male.
Lo riconosce amaramente il Salmista: “Ecco, nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre” (Sal 51,7).
Sì, l’uomo è reso fragile da una spinta profonda, che lo mortifica nella capacità di entrare in comunione con l’altro.
Aperto per natura al libero flusso della condivisione, avverte dentro di sé una strana forza di gravità che lo porta a ripiegarsi su se stesso, ad affermarsi sopra e contro gli altri: è l’egoismo, conseguenza della colpa originale.
Adamo ed Eva, sedotti dalla menzogna di Satana, afferrando il misterioso frutto contro il comando divino, hanno sostituito alla logica del confidare nell’Amore quella del sospetto e della competizione; alla logica del ricevere, dell’attendere fiducioso dall’Altro, quella ansiosa dell’afferrare e del fare da sé (cfr Gen 3,1-6), sperimentando come risultato un senso di inquietudine e di incertezza.
Come può l’uomo liberarsi da questa spinta egoistica e aprirsi all’amore? Giustizia e Sedaqah Nel cuore della saggezza di Israele troviamo un legame profondo tra fede nel Dio che “solleva dalla polvere il debole” (Sal 113,7) e giustizia verso il prossimo.
La parola stessa con cui in ebraico si indica la virtù della giustizia, sedaqah, ben lo esprime.
Sedaqah infatti significa, da una parte, accettazione piena della volontà del Dio di Israele; dall’altra, equità nei confronti del prossimo (cfr Es 20,12-17), in modo speciale del povero, del forestiero, dell’orfano e della vedova (cfr Dt 10,18-19).
Ma i due significati sono legati, perché il dare al povero, per l’israelita, non è altro che il contraccambio dovuto a Dio, che ha avuto pietà della miseria del suo popolo.
Non a caso il dono delle tavole della Legge a Mosè, sul monte Sinai, avviene dopo il passaggio del Mar Rosso.
L’ascolto della Legge, cioè, presuppone la fede nel Dio che per primo ha ‘ascoltato il lamento’ del suo popolo ed è “sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto” (cfr Es 3,8).
Dio è attento al grido del misero e in risposta chiede di essere ascoltato: chiede giustizia verso il povero (cfr Sir 4,4-5.8-9), il forestiero (cfr Es 22,20), lo schiavo (cfr Dt 15,12-18).
Per entrare nella giustizia è pertanto necessario uscire da quell’illusione di auto-sufficienza, da quello stato profondo di chiusura, che è l’origine stessa dell’ingiustizia.
Occorre, in altre parole, un “esodo” più profondo di quello che Dio ha operato con Mosè, una liberazione del cuore, che la sola parola della Legge è impotente a realizzare.
C’è dunque per l’uomo speranza di giustizia? Cristo, giustizia di Dio L’annuncio cristiano risponde positivamente alla sete di giustizia dell’uomo, come afferma l’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani: “Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio…
per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono.
Infatti non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù.
E’ lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue” (3,21-25).
Quale è dunque la giustizia di Cristo? E’ anzitutto la giustizia che viene dalla grazia, dove non è l’uomo che ripara, guarisce se stesso e gli altri.
Il fatto che l’“espiazione” avvenga nel “sangue” di Gesù significa che non sono i sacrifici dell’uomo a liberarlo dal peso delle colpe, ma il gesto dell’amore di Dio che si apre fino all’estremo, fino a far passare in sé “la maledizione” che spetta all’uomo, per trasmettergli in cambio la “benedizione” che spetta a Dio (cfr Gal 3,13-14).
Ma ciò solleva subito un’obiezione: quale giustizia vi è là dove il giusto muore per il colpevole e il colpevole riceve in cambio la benedizione che spetta al giusto? Ciascuno non viene così a ricevere il contrario del “suo”? In realtà, qui si dischiude la giustizia divina, profondamente diversa da quella umana.
Dio ha pagato per noi nel suo Figlio il prezzo del riscatto, un prezzo davvero esorbitante.
Di fronte alla giustizia della Croce l’uomo si può ribellare, perché essa mette in evidenza che l’uomo non è un essere autarchico, ma ha bisogno di un Altro per essere pienamente se stesso.
Convertirsi a Cristo, credere al Vangelo, significa in fondo proprio questo: uscire dall’illusione dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza – indigenza degli altri e di Dio, esigenza del suo perdono e della sua amicizia.
Si capisce allora come la fede sia tutt’altro che un fatto naturale, comodo, ovvio: occorre umiltà per accettare di aver bisogno che un Altro mi liberi del “mio”, per darmi gratuitamente il “suo”.
Ciò avviene particolarmente nei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia.
Grazie all’azione di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia “più grande”, che è quella dell’amore (cfr Rm 13,8-10), la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare.
Proprio forte di questa esperienza, il cristiano è spinto a contribuire a formare società giuste, dove tutti ricevono il necessario per vivere secondo la propria dignità di uomini e dove la giustizia è vivificata dall’amore.
Cari fratelli e sorelle, la Quaresima culmina nel Triduo Pasquale, nel quale anche quest’anno celebreremo la giustizia divina, che è pienezza di carità, di dono, di salvezza.
Che questo tempo penitenziale sia per ogni cristiano tempo di autentica conversione e d’intensa conoscenza del mistero di Cristo, venuto a compiere ogni giustizia.
Con tali sentimenti, imparto di cuore a tutti l’Apostolica Benedizione.
Dal Vaticano, 30 ottobre 2009   BENEDICTUS PP.
XVI  

Quaresima-Pasqua: “Ritornate a me con tutto il cuore”

E’ disponibile in tutte le librerie cattoliche d’Italia e nel sito dell’Ufficio liturgico nazionale www.chiesacattolica.it/liturgia il Sussidio liturgico-pastorale della CEI per il tempo di Quaresima- Pasqua 2010 dal titolo “Ritornate a me con tutto il cuore” (Gioele 2,12) è edito dalla San Paolo.
«Il presente sussidio – scrive nell’introduzione S.
E.
Mons.
Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI – a partire dalla Parola di Dio annunciata e ascoltata nella liturgia offre indicazioni e stimoli per articolare in precisi itinerari le dimensioni fondamentali che la Parola ci indica, favorendo il recupero di una interiorità rinnovata, un annuncio sincero e convinto.
La Quaresima è tempo della conversione del cuore, occasione favorevole per ritrovare identità.
La Pasqua è il tempo della gioia della risurrezione, che non può essere tenuta nascosta nel chiuso del cenacolo, ma si apre alla proclamazione gioiosa: “Cristo è risorto!”.
Per tutto il mondo c’è possibilità di salvezza, di perdono, di vita nuova»

La pastorale della Scuola di fronte alla sfida educativa

“La pastorale della scuola di fronte all’istanza educativa” è il tema del convegno promosso dall’Ufficio nazionale per l’e ducazione, la scuola e l’università della CEI.
Si terrà dal 18 al 20 febbraio a Roma, presso il Summit Hotel.
Dopo la presentazione di don Maurizio Viviani, Direttore dell’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’università e il saluto di S.E.
Mons.
Michele Pennisi, Vescovo di Piazza Armerina e Segretario della Commissione episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università, è prevista la relazione del Dott.
Ernesto Diaco, Vice responsabile del Servizio Nazionale per il progetto culturale.
Nella seconda parte del pomeriggio gli interventi di Don Edmondo Lanciarotta, Don Filippo Morlacchi e Don Giuseppe Lombardo, faranno il punto sulla pastorale nella scuola rispettivamente al Nord, Centro e Sud Italia.
Al termine della giornata S.
E.
Mons.
Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI, presiederà la celebrazione eucaristica.
Nella mattinata di venerdì 19 sono previste le relazioni di Don Riccardo Tonelli (“La sfida educativa interpella la pastorale”)e Don Cesare Bissoli (“La figura dell’educatore nei Vangeli”), entrambi docenti emeriti presso l’Università Pontificia Salesiana, mentre il pomeriggio sarà dedicato ai lavori di gruppo e la Celebrazione Eucaristica delle 19.00 sarà presieduta da S.E.
Mons.
Lino Fumagalli, membro della Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università.
L’ultima mattinata di lavori, sabato 20, prevede infine l’intervento del Dott.
Sergio Govi, Dirigente del Ministero della Pubblica Istruzione, su “Lo status quaestionis del sistema scolastico in Italia”.

La santità è democratica

La congregazione salesiana nacque il 18 dicembre 1859, in una riunione, tenuta nella stanza di don Bosco all’oratorio di Valdocco, di cui ci è giunto uno scarno verbale redatto in termini vagamente burocratici e in un italiano qua e là zoppicante.
Quell’adunanza era stata preceduta e preparata da una “conferenza speciale” pubblicamente preannunciata da don Bosco l’8 dicembre in occasione della festa dell’Immacolata Concezione, quando aveva convocato per l’indomani “i preti, i chierici, i laici che cooperavano alle sue fatiche e ammessi entro alle segrete cose”.
Nella conferenza del 9 dicembre don Bosco anticipò l’intenzione di procedere alla costituzione di quella congregazione “che da tanto tempo egli meditava di erigere” affermando di aver avuto l’incoraggiamento di Pio IX, incontrato per la prima volta l’anno precedente.
Diede una settimana di tempo ai collaboratori per decidere in piena libertà se aderire o meno alla costituenda società.
A quanto sembra, due soli si defilarono, sebbene al termine della conferenza del 9 dicembre più d’uno fu udito esclamare: “Don Bosco ci vuole fare tutti frati”.
Fatto sta che il 18 dicembre si radunarono nella modesta camera di don Bosco 18 persone, di cui, va notato, due soli sacerdoti, 15 chierici e un giovane laico.
Se è vero che nella tradizione salesiana fu più tardi attribuita a quell’adunanza la denominazione di primo Capitolo, o Capitolo superiore, si trattò indubbiamente di un singolare Capitolo.
Esso era tuttavia l’immagine abbastanza fedele della natura in se stessa singolare (e ancora notevolmente fluida) dell’ambiente in cui la congregazione prendeva vita.
Vanno inoltre rilevate le circostanze di estremo riserbo e prive di qualsiasi solennità in cui si compì quell’atto di fondazione: possiamo senz’altro ammettere che, a parte i diretti interessati, in quell’ultimo scorcio del 1859 nessuno se ne accorse.
Del resto l’attenzione dell’opinione pubblica era presa da ben più pressanti avvenimenti, concernenti, come sappiamo, le vicende susseguite all’appena conclusa guerra franco-piemontese contro l’Austria.
Si può ben dire che mentre don Bosco fondava i salesiani in quella sua sperduta stanza dell’oratorio, stava nascendo, tra le doglie di un parto difficile e nient’affatto scontato nei suoi esiti, lo Stato nazionale italiano.
Quando don Bosco affermava davanti ai suoi collaboratori che progettava da tempo di dar vita a una congregazione, non diceva però con precisione quale tipo di congregazione avesse in mente: di certo le sue idee in proposito non corrispondevano ai modelli di comunità religiosa consolidati nella tradizione canonica.
In effetti, quell’atto che possiamo definire costituente, fu solo una tappa, pur importante, di una storia ch’era iniziata molto prima di quel 18 dicembre 1859, e che si sarebbe sviluppata, in modi allora imprevedibili e attraversando parecchie metamorfosi, nei successivi decenni.
Quella storia fu largamente condizionata da tre principali ordini di fattori.
Anzitutto dalle dinamiche interne che caratterizzarono l’espansione dell’opera di don Bosco, dalle sue origini sino al rapido sviluppo della congregazione salesiana da piccolo nucleo torinese, pressoché sconosciuto fuori dal Piemonte, a istituzione di scala e risalto internazionale, presente e attiva in vari Paesi europei e in diversi continenti, a partire dall’America latina.
In secondo luogo, quella storia fu condizionata dai rapporti tra la congregazione e le strutture istituzionali della Chiesa cattolica, sia sul piano locale, sia e soprattutto a livello di vertice, cioè dai rapporti di don Bosco e dei salesiani con il Papato, e con gli apparati di governo della Chiesa romana, da cui dipendeva, tra l’altro, l’approvazione degli statuti e delle regole della società.
In terzo luogo, ebbe considerevole incidenza sulla fisionomia e la vita della congregazione il contesto politico e istituzionale in cui essa prese forma e nel quale ebbe modo di svilupparsi.
Il contesto politico in cui si erano poste le basi per la fondazione della congregazione salesiana non era il più propizio alla nascita e allo sviluppo in Piemonte di nuove forme di vita religiosa associata.
La politica ecclesiastica dei governi costituzionali piemontesi, in specie sotto la presidenza di Massimo d’Azeglio e poi di Cavour, aveva imboccato senza esitazioni, ma non senza forti controversie, la via della laicizzazione dello Stato.
Uno dei settori più colpiti dalla politica laicizzatrice dei governi liberali era stato quello degli ordini e delle comunità religiose.
L’ostilità nei loro confronti dei governi, e di una parte consistente del ceto dirigente e dell’opinione pubblica, veniva giustificata con tre principali argomenti, di natura morale ed economica, che riguardavano in modo specifico gli ordini detti “contemplativi” o “mendicanti”: il loro carattere parassitario, nel senso almeno della loro estraneità allo svolgimento di funzioni considerate utili alla collettività; la privazione (seppur volontariamente accettata) di diritti e prerogative di natura civile conseguente alla sottomissione alle regole proprie dei vari ordini religiosi, tra cui la rinuncia al diritto di proprietà individuale; e infine la sottrazione di un cospicuo patrimonio immobiliare e fondiario alle dinamiche e alle innovazioni di un’economia di mercato, che proprio in quegli anni era entrata in fase di espansione.
L’acutizzarsi del conflitto fu determinato in modo particolare dal primo sgretolamento territoriale dello Stato della Chiesa avvenuto durante la guerra del 1859, in seguito al distacco dal governo pontificio della parte nord-orientale dello Stato (Bologna e le Romagne).
Ciò aveva riproposto in termini pressanti, e più generali, il problema controverso del potere temporale dei Papi: problema non solo italiano, ma dotato di delicate e complesse implicazioni di natura sia religiosa sia internazionale, già sorte drammaticamente nel 1849, e allora risolte dall’intervento militare francese contro la Repubblica romana che aveva dichiarato decaduto il potere temporale.
Ma 10 anni dopo la situazione era molto cambiata, e le tendenze – presenti anche tra il clero detto “nazionale” – avverse al temporalismo, avevano guadagnato terreno, urtandosi però con l’intransigenza di Pio IX, pronto a ricorrere nuovamente all’arma della scomunica in difesa di quelli che giudicava inalienabili diritti della Chiesa.
In stretta concomitanza con la guerra del 1859, la questione delle future sorti dello Stato Pontificio era tornata prepotentemente nell’agenda politica internazionale.
Don Bosco sapeva benissimo i rischi che correva con il suo progetto di dar vita a una nuova congregazione religiosa, e aveva preso le sue precauzioni.
Anche per questo aveva insistito nell’imprimerle una connotazione “di vita attiva” e non “contemplativa”, pienamente in linea peraltro con la natura dell’opera da lui svolta fino a quel momento.
“Siamo in tempi in cui bisogna operare.
Il mondo attuale vuole vedere le opere, vuole vedere il clero lavorare a istruire e a educare la gioventù povera e abbandonata con opere caritatevoli, con ospizi, scuole.
Chi non sa lavorare non è salesiano”.
In secondo luogo aveva previsto che i membri della congregazione conservassero a pieno titolo i diritti civili “in faccia alle autorità governative”, compreso, in particolari forme, quello di proprietà (che secondo Don Bosco costituiva un “nuovo modello riguardo al voto di povertà”): del resto il suo obiettivo dichiarato era quello di congiungere strettamente la formazione religiosa con un’educazione alla cittadinanza, a formare buoni cristiani che fossero buoni cittadini.
Infine aveva prospettato una consociazione religiosa dalla fisionomia altamente flessibile, dotata nel contempo di un forte centro di governo (che durante la sua esistenza s’identificò totalmente con la sua personalità carismatica) e di una considerevole plasticità nei modi dell’affiliazione (non esclusa un’affiliazione di “esterni”), della cooperazione e dei campi d’attività: una società, in ogni caso, popolare non solo nel senso caritativo, tradizionale, ma anche nel senso di una sua specifica conformazione popolare, da realizzarsi mediante la costituzione di un proprio clero formato nel seno e a contatto con la comunità, in base alla convinzione profetica (manifestata da don Bosco a Pio IX) che fosse ormai venuto “il tempo (…) che i popoli saranno evangelizzati dai popoli.
I leviti saranno cercati tra la zappa, la vanga e il martello, affinché si compiano le parole di Davide: “Ho sollevato il povero dalla terra, per collocarlo sul trono dei principi del suo popolo””.
Sebbene la cosa possa destare sorpresa, a dare una mano a don Bosco nel profilare i tratti dell’erigenda congregazione era stato proprio l’ex-ministro della giustizia e convinto propugnatore della legge sui frati, Urbano Rattazzi.
Questi gli aveva suggerito la costituzione di una “associazione di liberi cittadini, i quali si uniscono e vivono insieme a uno scopo di beneficenza”, e i cui membri conservassero i diritti civili, fossero soggetti alle leggi, pagassero le imposte e via dicendo, insomma un’associazione come tante, a carattere privato.
Non era esattamente quello a cui stava pensando don Bosco, ma è certo che di quel suggerimento egli tenne debito conto.
Per converso il medesimo Rattazzi, a dispetto delle sue idee in vari modi opposte a quelle di don Bosco, concepì da allora una personale e durevole ammirazione nei riguardi suoi e delle opere salesiane.
Si deve aggiungere, a completare il quadro, che gli organi di governo dello Stato sabaudo, a partire dal ministero degli Interni, non ebbero alcuna esitazione ad approfittare largamente della capacità di accoglimento dell’oratorio salesiano di Valdocco, affidandogli a più riprese casi di adolescenti orfani o abbandonati dai genitori o comunque in difficoltà, con la corresponsione di sussidi una tantum di una certa entità: dimostrazione del fatto che l’oratorio aveva finito per esercitare un ruolo pubblico di recupero e di assistenza, cui lo Stato sabaudo non era in grado di far fronte.
Veniamo così ai rapporti tra don Bosco (e la sua congregazione) e il movimento nazionale italiano.
Per intendere tale aspetto, occorre considerare che la visione del mondo di don Bosco si radicava in una percezione della realtà in cui la dimensione terrena e quella ultraterrena si compenetravano intimamente, in cui fenomeni naturali e sovrannaturali convivevano in una stringente interrelazione, in cui la presenza divina, come quella diabolica, era agevolmente avvertibile in segni sensibili, in cui anche i fatti calamitosi erano il frutto di un diretto intervento punitivo di origine divina per atti o comportamenti personali o collettivi considerati contrari alla legge di Dio od ostili alla sua Chiesa (ma le due cose per don Bosco s’identificavano senza residui).
D’altra parte, la stessa immagine di una vicinanza quasi fisica della mano di Dio alla storia dell’uomo e alla vicenda personale di ogni essere umano anche il più umile, consentiva a don Bosco di professare e promuovere l’idea di un accesso relativamente agevole alla salvezza eterna, di diffondere addirittura un’immagine di santità che, a certe condizioni, poteva diventare un attributo comune, per tutti disponibile, non più dipendente da particolari pratiche ascetiche né da rigorosi esercizi di pietà né da prove di specifico eroismo, ma unicamente dall’adempimento rigoroso dei propri doveri di stato, dal rispetto della legge morale, dalla pratica religiosa compresa la comunione frequente, dalla preghiera di devozione, dalla fedeltà alla Chiesa e soprattutto alla persona del suo capo, vicario di Cristo e suo rappresentante indefettibile e infallibile sulla terra.
Possiamo dire, a tal proposito, che con don Bosco si apriva l’epoca di una santità, per così dire, “democratizzata” e, in parte almeno, de-clericalizzata, di cui faceva parte integrante il rispetto di un’etica del lavoro e della professione, d’impianto teologico sostanzialmente diverso da quello di matrice protestante, ma in grado di competere con esso.
Da questo sfondo di convinzioni, di immagini, di strutture mentali discendevano le due idee dominanti che guidavano il suo modo di guardare agli eventi storici in cui era immerso.
In primo luogo, l’idea che la religione cattolica, in quanto unica vera religione, non fosse soltanto sicura via di salvezza delle anime, ma costituisse altresì la ragione insostituibile di un ordinato vivere civile, la base irrinunciabile di una “buona società”, la cui omogeneità religiosa andava preservata dagli attacchi dell’empietà, generatori di tutti i mali del secolo, nonché dal suo ipotetico sgretolamento per mano di pericolose minoranze a-cattoliche.
La seconda idea-guida concerneva il legame indissociabile che avvinceva l’Italia al cattolicesimo e alla Chiesa cattolica, e in modo particolare al papato, suo vertice gerarchico e carismatico, costituendone l’autentico principio di nazionalità, il fattore che più e prima di ogni altro le conferiva una propria inconfondibile identità nazionale.
(©L’Osservatore Romano – 7 febbraio 2010)

Classe seconda – Febbraio

Unità di Lavoro per una riflessione degli allievi sulla propria esperienza, con approfondimenti teologici sull’identità della comunità-Chiesa.
Seconda parte OSA di riferimento  Conoscenze  – L’opera di Gesù e la missione della Chiesa nel mondo.
– I Sacramenti, incontro con Cristo nella Chiesa, fonte di vita nuova.    Abilità  – Cogliere gli aspetti costitutivi e i significati della celebrazione dei Sacramenti.
– Individuare caratteristiche e responsabilità di ministeri, stati di vita e istituzioni ecclesiali.  Obiettivi Formativi ipotizzabili – Conoscere e saper descrivere il concetto di Chiesa nelle varie accezioni.
– Conoscere e saper descrivere la relazione tra sequela Gesù e appartenenza ecclesiale.
– Sviluppare, in proposito, opinioni motivate.
– Saper riflettere, esprimendo opinioni motivate, sui rapporti con i propri coetanei, l’amicizia, l’esperienza di gruppo.    Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale – Provando interesse nei confronti degli interrogativi di senso, avviare percorsi di introspezione e di analisi della realtà sociale.
– Saper prendere in considerazione la visione cristiana dell’esistenza, sulla base di conoscenze acquisite.
F – Questionario conclusivo e dibattito  – Quali sono i compiti della Chiesa? Quali sono i modi in cui essa agisce “come comunità”? – Quali caratteristiche di “diversità positiva” hanno i rapporti umani in un gruppo ecclesiale ben impostato? – In “Giovani opinioni”, quali aspetti dell’appartenenza ecclesiale entusiasmano i ragazzi delle testimonianze? Esprimi la tua opinione sulle loro idee, motivandola.
– Descrivi, se ti è possibile, un’esperienza felice di gruppo cristiano tua o di altri.
Perché la ritieni positiva? Quali risultati ci sono stati per gli individui, la comunità, il mondo “fuori”? Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida E – L’insegnante, presentando il testo-guida, propone agli allievi una riflessione su come i cristiani dovrebbero “essere comunità” in nome del loro Maestro, uniti a genti lontane dal desiderio di cambiare se stessi e il mondo.
La Chiesa: “stare insieme” nello stile di Gesù 1) Un grande compito La Chiesa…
è l’immensa comunità dei credenti che riconoscono in Cristo il loro Dio e Maestro, dei battezzati sparsi in tutto il mondo.
Gesù ha espresso chiaramente la volontà che i “suoi”, rimanendo uniti a Lui e imitandolo, vivessero, testimoniassero e insegnassero l’amore estremo per Dio e per gli altri che è il cuore del Vangelo, divenendo sale, luce, lievito per il mondo…
la Chiesa è comunità di “ministero”, in cui le membra di un unico organismo la cui anima è Cristo Risorto, vivo e presente, hanno incarichi diversi, tutti importanti per il bene comune – clero, laici, religiosi…
In essa, il cattivo esempio di un cristiano solo ferisce l’intero organismo, la crescita di ciascuno si ripercuote su tutti.
La Chiesa è una comunità, secondo i credenti, con una misteriosa forza di coesione che è lo Spirito Santo, la presenza di Dio come forza dell’Amore; essa è donata dal Risorto soprattutto attraverso i Sacramenti per poter amare e vincere il male.
La Chiesa è una comunità in cui è più facile avvertire la fratellanza umana, perché in essa si conoscono il volto del Padre di tutti e le caratteristiche del Suo amore per tutti i figli…
È facile guardare gli altri con rispetto, coglierne i lati positivi se si cerca di vederli con gli occhi di Dio.
La Chiesa è il primo “luogo” in cui il Risorto fa germogliare il Suo Regno, in cui inizia la riconciliazione dell’universo, a partire dai credenti, alimentati dalla Parola e dall’intima unione con Cristo, soprattutto attraverso l’Eucaristia; il rapporto con Cristo rende capaci di amarsi l’un l’altro come Lui ha insegnato.
La Chiesa è poi comunità missionaria, Sua testimone di fronte al mondo.
Ciò avviene attraverso l’evangelizzazione, che annuncia il messaggio di Cristo a chi non lo conosce o lo conosce male con la vita vissuta, la cultura, il dialogo; attraverso la catechesi, un percorso di approfondimento dottrinale che può riguardare bambini, futuri sposi, famiglie; attraverso la promozione umana, che è la lotta concreta in difesa della persona umana, della vita e della pace, in opposizione a ogni ingiustizia.
Lo “stare insieme” nello stile di Gesù è la prima testimonianza.
I cristiani sono chiamati a sostenersi reciprocamente mentre camminano seguendo Cristo, a formarsi e trasformarsi insieme per poi condividere con il resto del mondo il loro “tesoro”, la certezza che il senso della vita consista unicamente nell’imparare ad amare Dio e gli altri nel modo più ampio e profondo possibile.
Il Battesimo rappresenta il fondamentale legame con Cristo che è vincolo di unione tra le chiese cristiane (Cattolici, Ortodossi, Protestanti), nonostante le divergenze.
La Chiesa: “stare insieme” nello stile di Gesù 3) Giovani opinioni «In un certo senso non sono io che ho scelto la Chiesa; ho piuttosto la sensazione di essere stato scelto dalla Chiesa.
A 19 anni mi sono ribellato.
Nel corso di una crisi che è durata un anno, a poco a poco però ho capito che la barca della Chiesa era la mia barca» (Sandro) «Ora Gesù è mio amico.
Ho deciso: voglio che entri nella mia vita.
Questa volta, mi sento veramente cristiana.
È la prima volta che dico un “voglio” così deciso» (Manuela) «È nato un ragazzo nuovo.
È stato come un boato per me.
Prima la calma, poi l’esplosione.
Prima la tristezza, poi la gioia» (Carmine) «Sento il bisogno di ritrovare ogni tanto dei ragazzi della mia età, che la pensano un po’ come me, che hanno i miei stessi ideali, che hanno le mie stesse difficoltà.
Dopo questi incontri ritorno più sereno, più ottimista, e mi riesce più facile essere un testimone di Gesù Cristo» (Giacomo) «Ho cominciato quasi per gioco, poi mi sono ritrovata entusiasta e solo ora capisco tutto ciò che ho ricevuto dal gruppo.
Sono cose impercettibili all’istante, ma che col passare del tempo si capiscono.
Ora sono cambiata parecchio, con me e con gli altri.
La mia vita ha un senso e, benché non abbia ancora una fede con le basi solide, trovo in Dio una grande serenità» (Claudia) «Il nostro gruppo è una comunità che si rifà alla comunità di Gesù.
Noi in gruppo siamo Chiesa perché siamo salvati, e ci sforziamo di essere testimoni tra i nostri compagni» (Carla) «Ti ringrazio Signore per la mia vocazione alla Chiesa: a volte mi chiedo perché io sono tra i fortunati che sono stati aggregati al Tuo Corpo…
grazie per avermi salvato da una vita senza senso, di avermi regalato una comunità nella quale mi è tanto facile entrare in rapporto con Te» (Giulio)                                   (In Dossier adolescenti, U.
De Vanna, Questa nostra Chiesa, LDC) La Chiesa: “stare insieme” nello stile di Gesù 2) Dall’ideale ai problemi concreti  I Cristiani possono esprimere nel concreto il loro “essere comunità” agendo insieme – nei momenti di azione liturgica, in cui ricercano l’unione con Dio pregando, celebrando la Messa domenicale, vivendo i Sacramenti e le feste che rievocano le grandi azioni di Gesù…
– nei momenti in cui la Chiesa si pronuncia su questioni importanti per proporre il proprio pensiero al mondo, tramite il Papa e i Vescovi sostenuti dallo Spirito, e tutti i credenti sono chiamati a difendere e diffondere questo pensiero; – nei momenti formativi della vita parrocchiale, come animatori o “animati”; in gruppi biblici, di giovani, di famiglie…
– nei movimenti che vivono la fede accentuando alcuni aspetti del cammino (i Focolarini nella loro ricerca di “unità” con il mondo, gli Scouts con il loro itinerario che comprende vita semplice e natura, ecc.) – nei momenti in cui, insieme, si fa promozione umana attraverso volontariato condiviso sulla base della fede comune, o si cerca di lottare contro qualche ingiustizia o di offrire sollievo a qualche sofferenza; – nei momenti in cui, insieme, dialogano con il mondo con proposte culturali – dibattiti, arte, giornali – o semplicemente ritrovandosi in due o tre nella stessa classe, nello stesso ufficio, con l’esigenza di testimoniare la loro fede nei fatti e nei discorsi (per esempio, opponendosi al bullismo o al “mobbing” che opprimono un qualsiasi compagno o collega…).
Stare insieme “nello stile di Gesù” è un fatto serio, richiede innanzitutto di evitare qualsiasi superficialità e qualsiasi falsità, di essere assolutamente autentici e sinceri, fino al riconoscimento degli errori commessi e delle difficoltà personali.
Condividendo il più meraviglioso dei segreti, la certezza di aver trovato il senso della vita, ci si deve guardare negli occhi comprendendo, senza parole, che la posta in gioco è altissima, così come gli Apostoli devono aver fatto in tempi lontani: si deve mettere in atto il meglio della propria umanità identificando e combattendo i lati oscuri.
Si è anche consapevoli di quanto sia difficile avvicinarsi davvero al Signore e amare l’altro come se stessi imitando il Maestro, imparando il dono gratuito del meglio di sé, il perdono che ricostruisce i rapporti dimenticando l’orgoglio personale e le rivendicazioni, l’attenzione allo spazio che l’altro deve avere…
Non si può che ricercare il massimo di ciò che si può dare, in ogni rapporto la massima profondità e ampiezza.
In una comunità cristiana, che si esprima come “gruppo del dopo-Cresima” o altro, si dovrebbero realmente combattere invidia e maldicenza; ciascuno dovrebbe essere al centro di una premurosa attenzione, certo di essere realmente accettato, di poter gradualmente condividere gioie e dolori.
Si potrà sperimentare un “viaggio interiore” condiviso con i sacerdoti-guide, con i fratelli, irrobustendo la fede nel confronto, in una comune meditazione della Parola…
Per poi uscire dal “nido accogliente” e portare al mondo, fuori, l’amore di Cristo.
Dove i rapporti nuovi non si vedono, anche fra errori e ricadute, si vive una fede ancora troppo abitudinaria, stancamente ereditata…
I figli si mandano in Parrocchia perché si tratta comunque di un “luogo sano”, i Sacramenti sono soltanto un segno di appartenenza sociale…
e la forza dello Spirito viene ignorata, come un dono meraviglioso chiuso in un armadio.
Il Cristiano “tiepido” si riduce al nulla; non cambia nulla, non lascia realmente spazio all’agire del Risorto nella propria vita; il “mondo”, fuori, non ha nulla di diverso da vedere.
Non si vede la “carità” dell’Inno di San Paolo, che è paziente, che non si gonfia di orgoglio, che controlla l’ira, che cerca nei rapporti la verità…
essa è totalmente assente quando un ragazzino torna mogio mogio dal catechismo per essere stato preso in giro pesantemente proprio come è successo, il giorno prima, ai giardinetti sotto casa.