Chiesa dei peccatori, Chiesa dei santi

Chiesa dei peccatori, Chiesa dei santi Anche se si preferisce evitare parole grosse, la rivelazione nelle scorse settimane di molti casi di abusi costituisce una profonda crisi in particolare per la Chiesa cattolica.
Anche se sono implicati molti fattori esterni alla Chiesa, non ha alcun senso puntare il dito prima su altri.
Altrimenti si potrebbe dare l’impressione di voler distogliere l’attenzione dalla responsabilità propria o relativizzare ciò che è accaduto.
Come Chiesa neppure ci dobbiamo meravigliare se veniamo giudicati severamente – certo talvolta anche con malignità e malevolenza – con gli stessi criteri con cui la Chiesa in altre situazioni presenta le sue convinzioni morali, in particolare in riferimento alla sessualità.
I casi di abusi scoperti funzionano qui come un boomerang.
Certo non dobbiamo lasciarci tappare la bocca e dobbiamo dire con nettezza che si tratta chiaramente di un malcostume sociale, di cui la maggior parte di noi non aveva sospettato l’entità.
Lentamente vengono scoperti comportamenti negativi anche in luoghi finora poco sospetti.
Le indicazioni numeriche relative ai casi conosciuti e le stime dei casi presunti si differenziano di molto.
Anche se è doloroso, si può comunque esprimere sollievo per il fatto che ora molti casi vengano a galla.
E non ci si deve meravigliare che ci siano opportunisti di vario tipo che sfruttano l’onda sulla scia dei media.
Perché c’è voluto così tanto tempo prima che si parlasse pubblicamente e in modo così esteso di simili delitti? Già negli anni novanta una suora americana psicoterapeuta e professionalmente molto esperta mi disse qualcosa che all’inizio mi spaventò, e che però più tardi mi ha molto aiutato a trattare il fenomeno in maniera obiettiva: “Bisogna sempre fare i conti col fatto che i colpevoli tacciono fino alla fine, molto più di qualsiasi alcolista.” Molte cose non hanno potuto essere chiarite – e devo dire questo per i 27 anni nei quali ho avuto la responsabilità della diocesi di Magonza – perché ha continuato ad esserci questo silenzio impenetrabile.
Ho spesso brancolato a lungo nel buio, anche quando ho fatto enormi sforzi per avere chiarimenti.
L’interesse e l’attenzione alle vittime reali o possibili devono stare inequivocabilmente al primo posto in questo lavoro di chiarificazione.
Tuttavia, fino a prova contraria, non si deve passar sopra alla presunzione di innocenza di un sospettato, considerandolo personalmente responsabile.
Anche una calunnia, che in seguito si rivela infondata, può recare danno per tutta la vita.
Chi imprudentemente parla di “insabbiamento”, non ha alcuna idea di quanto sia difficile trovarsi a lungo in una situazione poco chiara.
A ciò si aggiunge la abissale intimidazione delle vittime.
Offese nell’ambito dell’abuso sessuale vivono il tutto come un tabù.
È molto difficile per le persone colpite confidarsi con qualcuno.
Anche nelle famiglie spesso non si desiderava ammettere tali mancanze.
Questo silenzio ha per le vittime delle conseguenze gravi.
Non potendo raccontare nulla, non possono neanche rielaborare i danni, che spesso continuano ad avere un effetto nel tempo.
In molti casi è soprattutto lo sviluppo sessuale ad essere pregiudicato.
Esperienze traumatiche nell’infanzia e nella giovinezza possono influire negativamente e gravemente su futuri rapporti di coppia.
Un’intera vita può quindi venire profondamente distrutta.
Un’altra cosa mi è diventata più chiara negli anni e nei decenni scorsi.
Non è da molto che in un certo senso si può definire chiaramente il fenomeno della pedofilia.
In manuali della medicina sessuale e dei disturbi sessuali si possono trovare fino a 23 diverse definizioni e descrizioni di “abuso sessuale”.
Anche esperti psicologi mi hanno continuamente assicurato, che occorre una specifica formazione ed esperienza per emettere una diagnosi differenziata di pedofilia con la necessaria certezza.
Da quando però il fenomeno della pedofilia, che effettivamente viene limitato alla inclinazione per bambini in una fase di sviluppo prepuberale, può essere meglio definito o delimitato, si apre un’altra, dapprima spaventosa constatazione: la pedofilia in questo stretto senso non ha nulla a che fare con un’occasionale “scivolata” morale, ma corrisponde ad una inclinazione profonda e radicale, che molti professionisti ritengono non curabile.
Questa cognizione si è diffusa solo negli ultimi decenni.
Anche a causa di ciò proprio da parte ecclesiale si è sopravvalutata la capacità dei colpevoli al cambiamento e alla guarigione.
In buona fede ci siamo spesso affidati alla dichiarata buona volontà.
Per questo si è giunti anche alle pratiche sbagliate e da lungo tempo certo imperdonabili, semplicemente di trasferire un colpevole, talvolta anche con sentenza passata in giudicato, ad un altro posto.
Si doveva riconoscere una cosa che un pastore d’anime non può facilmente accettare, e che mi aveva comunicato la succitata suora sulla base della sua esperienza: “Vescovo, non si faccia illusioni, l’uomo non deve in nessun caso più tornare alla cura d’anime, perché vi troverà ovunque dei bambini.” Gli equivoci, che erano legati ad un atteggiamento che si presumeva comprensivo nei confronti di un colpevole, sono grazie a Dio tutti crollati.
Ma anche altre illusioni si sono dissolte.
La sessualità umana non è così innocentemente romantica, come spesso si pensava – di fronte a tutte le demonizzazioni del sessuale.
Essa può condurre come stimolo generale dell’essere umano ad altezze meravigliose, che possono costituire la felicità terrena della persona, presenta però anche delle bassezze abissali, che mostrano una perversione dell’umano.
L’arte illustra entrambi gli aspetti.
Chi nega una di queste dimensioni, mente.
Di questi estremi abissi fanno parte le violenze sessuali su bambini e adolescenti.
Sono così negative anche per il fatto che in questo spesso l’autore nasconde la sua forza.
Infatti non è, come alcuni movimenti di pedofili suggeriscono, che le vittime bambine o adolescenti nel silenzio accondiscendano.
Ma piuttosto che le naturali inibizioni e resistenze vengono superate con perfida raffinatezza.
Non si deve nascondere la differenza di potere proprio tra adulti e bambini.
Non è necessario l’uso della forza fisica là dove possono essere sfruttate la debolezza e la dipendenza infantili dovute ad affettività e devozione.
In questo contesto sta anche il giusto modo di intendere l’educazione.
Quest’ultima vive sempre di una mescolanza di vicinanza e distanza.
Una distanza assoluta può accompagnarsi ad una spietata sete di potere.
Per questo la cattiva pedagogia degli scorsi decenni, nella quale non raramente si giungeva a insopportabili castighi e punizioni corporali, viene giustamente fustigata.
Ma non bisogna considerare alla stessa stregua questi eventi e gli abusi sessuali.
A tale riguardo, avevano fatto bene certi rami della pedagogia moderna (non era solo la “pedagogia della riforma”), ad accentuare nell’educazione più fortemente la vicinanza tra adulti e bambini.
A cui si lega però sempre anche una grande disinvoltura.
Ma vicinanza non deve significare nascondere distanza e differenza, né mancare di rispetto per la personalità dei bambini.
Non si può infatti negare che il movimento dei pedofili abbia cercato di istigare ad un’irresponsabile dimestichezza coi bambini (“Lust am Kind”).
Vi si aggiungeva una esaltazione “abbellita” dell’antica pederastia.
Grazie a Dio tutto questo negli ultimi vent’anni ha perso influenza.
Ma comunque sia, non si può mai offrire la minima scusa per azioni che in ogni caso sono criminali e peccaminose.
Tali scuse potrebbero indebolire le resistenze in qualcuno che potesse sentire in sé tali forti inclinazioni.
Ed è anche vero che specialmente in area europea si è sempre cercato di liberalizzare le leggi relative a contatti sessuali con minorenni.
È tragico che la dottrina della Chiesa mai ammettesse un dubbio sul fatto che ogni forma di abuso sessuale fondamentalmente sia e rimanga riprovevole, e che però i responsabili della Chiesa nel proprio contesto non abbiano in alcuni casi gestito con estrema meticolosità ed indipendenza una ricognizione completa.
In questo possono aver svolto un ruolo molti motivi e certi atteggiamenti e mentalità.
Il peggiore era l’atteggiamento di doversi preoccupare più degli autori che delle vittime.
È anche vergognoso, che in alcuni casi si sia cercato di proteggere l’istituzione Chiesa e anche suoi dipendenti da una macchia attraverso un veloce respingimento o copertura di un sospetto o addirittura di una colpa.
Certamente poteva esserci in questo anche un certo rapporto tra persone, come è possibile che si instauri in alcuni “sistemi chiusi” nei quali nessuno dall’esterno riesce a vedere chiaramente.
È ad ogni modo spaventoso che qui la sensibilità della coscienza, che proprio per persone religiosamente ed ecclesialmente impegnate deve essere quotidianamente curata, non abbia saputo emergere da tutte le coperture.
Ma proprio ammettendo questo, si deve però anche osservare, che la Chiesa, pur con tanta perplessità ha adottato, dopo una migliore comprensione psicologica della pedofilia, adeguate contromisure.
Quando, verso la fine del millennio e immediatamente dopo, sono venuti alla luce alcuni casi di abusi, la Conferenza episcopale tedesca ha cercato delle vie per coordinare un corretto modo di procedere.
La prassi corrente era che ogni diocesi completamente indipendente si occupasse dei casi e non dovesse mettere a conoscenza di questo nessun altro organismo ecclesiale, né la segreteria della Conferenza episcopale, né le autorità vaticane.
Questo sarebbe cambiato in parte solo nel 2002.
Fino a quel momento la mancanza di chiarezza e il deficit di informazioni, anche in considerazione dello scalpore mediatico del momento, erano molto alti.
Specialmente in seguito ai fatti avvenuti negli Stati Uniti divenne inoltre chiaro che occorreva un ammodernamento e che si dovevano percorrere vie nuove, con un fondamentale accompagnamento critico di professionisti.
Così si arrivò al primo congresso mondiale sulla pedofilia, che ebbe luogo a Roma nel 2003 con una molteplicità di professionisti non legati all’ambito ecclesiale.
L’anno successivo furono pubblicati in inglese gli atti del congresso (“Sexual Abuse in the Catholic Church.
Scientific and Legal Perspetives”, editi da R.
K.
Hanson, F.
Pfäffin e M.
Lütz, Vaticano 2004).
Già tempo addietro i vescovi tedeschi avevano fatto i primi passi e formulato le linee guida “Zum Vorgehen bei sexueller Missbrauch Minderjähriger durch Geistliche im Bereich der Deutschen Bischofskonferenz” (Del modo di procedere in casi di abusi sessuali su minorenni da parte di religiosi nell’ambito della Conferenza episcopale tedesca).
In queste linee guida, che furono pubblicate il 26 settembre 2002 sugli organi ufficiali di tutte le diocesi, si è giunti anche a riconoscere che, per i colpevoli, l’inclinazione pedofila fosse “strutturale e non modificabile”.
Nello stesso periodo o ancora prima almeno sei grandi conferenze episcopali della Chiesa cattolica hanno attuato proprie linee guida.
In Germania non c’erano per queste linee guida né precursori né esempi.
Esse furono verificate nel 2005 dopo le prime esperienze e ancora una volta nel 2008.
Secondo l’opinione dominante esse hanno superato bene la prova del fuoco.
Tuttavia le linee guida possono essere ulteriormente migliorate.
Veramente ora nella Chiesa sono spesso quelli che le hanno appena lette o – peggio – le hanno poco niente attuate, che gridano chiedendo un miglioramento.
In una ulteriore revisione delle linee guida prima di tutto c’è da considerare il fatto, se le inchieste interne alla Chiesa debbano essere poste in mani neutrali e se la collaborazione con le autorità che si occupano dell’azione penale debba diventare un obbligo in ogni singolo caso.
Nel passato del resto tale collaborazione è già avvenuta in molti casi.
Certamente le migliori linee guida non servono se non vengono seguite severamente e senza riguardo alla persona e all’istituzione.
Nell’attuale discussione su abusi sessuali su bambini colpisce una particolarità: la richiesta di responsabilità e riparazione, non ultima anche per risarcimenti, si rivolge molto spesso solo alle istituzioni.
Riguardo all’entità delle rivelazioni avvenute nelle passate settimane, essa è in un certo modo comprensibile.
L’accumulo dei casi riguarda indubbiamente anche l’istituzione Chiesa, in molte dimensioni.
Tuttavia sorprende quanto poco si parli del singolo autore e della sua responsabilità.
Almeno in ambito ecclesiale sa infatti ogni pederasta in quale misura egli faccia del male.
Non è comprensibile che nella discussione pubblica non si parli della responsabilità, della garanzia di singoli autori per i danni da loro causati.
Ma già da molto tempo si cerca la colpa prima nel collettivo e quasi sempre nel “sistema”.
Specialmente all’inizio della discussione si sostenne non raramente in modo generico che ci fosse un rapporto causale tra il celibato del prete e le violenze su bambini ed adolescenti.
Professionisti di diverse discipline hanno nel frattempo contraddetto tali supposizioni.
Però certamente c’è qualcosa da ripensare nel problema di possibili rapporti tra celibato e casi di abuso: innanzitutto la Chiesa, comprendendo preti e molte altre professioni, si occupa come poche istituzioni della nostra società (eccetto scuole di ogni tipo) quotidianamente di un grandissimo numero di bambini ed adolescenti.
Questo aumenta indubbiamente le possibilità di contatto e di conflitto.
Io spero che l’attuale discussione, che è inevitabile, non tolga a molte donne e uomini in innumerevoli istituti della Chiesa la loro piena disinvoltura nelle relazioni con bambini e adolescenti.
La Chiesa deve certamente riflettere obiettivamente fino a che punto la forma di vita presbiterale possa attirare in più alta misura uomini di tendenze pedofile, soprattutto in vista di un impegno in istituti ecclesiali.
In tali istituti non esiste solo la possibilità di incontrare molti bambini in uno spazio protetto, ma anche la probabilità di non venire scoperti per la discrezione pastorale e la tabuizzazione sociale.
I responsabili dei nostri luoghi di istruzione hanno riconosciuto questo pericolo da molto tempo.
Ma anche colloqui con professionisti ed informazioni adeguate non sempre possono escludere con tutta la vigilanza valutazioni sbagliate nel singolo caso.
Indubbiamente c’è bisogno in questa direzione di ancora maggiore attenzione e di risolutezza nel prendere decisioni.
Tutto questo è importante e rimane da considerare.
La rivelazione di casi di abuso significa senza dubbio una crisi della Chiesa.
Non si riferisce però solo al presente e a reati che non sono ancora prescritti.
Nella discussione sono state scoperte molte colpe tabuizzate, che ebbero luogo spesso decenni fa.
Sarebbe sconsiderato promettere di chiarire completamente tutti i casi del passato.
Quasi sempre i responsabili di allora sono morti.
Testimonianze scritte spesso non si trovano, indicazioni retrospettive possono essere molto incomplete.
Questo conferma in maniera dolorosa, quanto profondi siano i solchi scavati dall’abuso su un lungo periodo nella storia di una vita, ma anche la spaventosa tabuizzazione a tutti i livelli.
Proprio per questo non dobbiamo fingere di non vedere questo palo del passato piantato nella carne del presente.
Come Chiesa non siamo solo di oggi, ma – che sia comodo o scomodo – ci poniamo anche di fronte alle debolezze della nostra storia.
Sarebbe meschino semplicemente nascondersi.
Papa Benedetto XVI ha mostrato coraggiosamente con la sua lettera alla Chiesa d’Irlanda del 19 marzo, come i casi di abusi abbiano a che fare anche con fenomeni e trasformazioni legate a crisi nella Chiesa di oggi.
In questo c’è da considerare l’intreccio delle singole Chiese con la storia dei rispettivi paesi.
Ma c’è anche un rapporto che va al di là della particolare situazione e porta l’intera istituzione a doversi assumere la responsabilità.
In questo rientra anche la situazione della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II.
La mia critica non si riferisce al Vaticano II, ma agli sforzi non riusciti della successiva ricezione.
Era necessaria una rinnovata attenzione al mondo moderno.
Ma si era ancora molto sottovalutata l’azione di risucchio di questo mondo.
Sono cadute delle inibizioni, ha potuto diffondersi una falsa tolleranza.
Il “mondo” si è dimostrato più potente.
La spiritualità, la forza interiore e l’autoconsapevolezza, diventate ancora più importanti per l’attenzione prestata al mondo, sono invece diminuite.
Si sono anche sopravvalutate le possibilità di organizzazione della Chiesa, in sé feconde, in un mondo secolare, e non si sono presi in sufficiente considerazione i deficit.
Purtroppo questo ha anche portato al fatto che la Chiesa nei problemi di impostazione della sessualità umana non ha trovato la via d’uscita da queste tensioni e specialmente nell’annuncio e nell’insegnamento della fede è rimasta come paralizzata.
Anche per questo essa non ha più potuto essere sufficientemente d’aiuto.
Così non si sono sufficientemente accolte certe sfide poste dal Concilio Vaticano II.
Per me sta in questo l’affermazione sulla santità e peccaminosità della Chiesa.
Proprio alla luce del peso oggi duramente avvertito per eventi peccaminosi nella Chiesa, l’aspetto della santità non deve essere nascosto.
Deve rimanere garantito il fatto che la vita divina liberante, che la Chiesa riceve solo da Gesù Cristo, passi veramente attraverso la santità della Chiesa anche all’umanità, e cioè proprio fino al limite del perdersi.
Senza la santità della Chiesa non ci sarebbe alla fine neppure salvezza del mondo.
È del resto un problema dell’intera storia della Chiesa e della teologia, ciò che si afferma sulla tensione tra la santità e la peccaminosità della Chiesa e come si mantiene questa tensione.
Il concilio non si è (ancora) potuto imporre su una univoca affermazione, che la Chiesa stessa non è solo santa ma anche peccatrice.
A questo riguardo si è espresso con una formula molto prudente, affermando che la Chiesa “comprende nel suo seno i peccatori.
È santa e insieme ha sempre bisogno di purificazione, perciò si dà alla penitenza e al rinnovamento” (Costituzione della Chiesa articolo 8).
Questa ammissione è stata un grande passo – e nonostante alcuni buoni inizi, è ben lungi dall’essere ancora stata sufficientemente accettata nella teologia e nella spiritualità del quotidiano.
Già decenni fa sono rimasto impressionato dalle grandi elaborazioni dei teologi Karl Rahner e Hans Urs von Balthasar, come del francese Henri de Lubac.
Con le citazioni sconvolgenti sulla Chiesa “casta meretrice”, che essi trovarono negli scritti dei Padri della Chiesa, mi hanno incoraggiato a parlare, insieme alla difesa della santità, anche di una Chiesa peccatrice.
Questo discorso dialettico ha notevoli conseguenze anche per il nostro argomento.
La Chiesa non è separata dalla vita e dal comportamento dei suoi membri, né si limita a questo.
Anche come istituzione viene colpita nell’intimo quando noi ricusiamo la testimonianza vissuta del vangelo di Gesù Cristo.
Altrimenti si arriva facilmente alla tentazione di attribuire esclusivamente al singolo peccatore le mancanze nella Chiesa, risparmiandole così ogni macchia.
Una tale mentalità ha certamente contribuito a favorire le peggiori pratiche di copertura o di trasferimento del colpevole da luogo a luogo.
Indubbiamente abbiamo fatto poca attenzione alla spiritualità di una chiesa rinnovata, proprio mentre essa osa una maggiore attenzione al mondo.
Per questo c’è talmente tanto deficit e insufficiente sensibilità, prima di tutto anche tra i pederasti e i conniventi.
Qui il “mondo” inteso in senso biblico ha fatto irruzione profondamente nella Chiesa.
Per questo è necessario ora – Papa Benedetto XVI lo dice chiaramente – una autopurificazione incondizionata a tutti i livelli.
Il Papa ha condannato l’abuso sessuale di bambini con estrema chiarezza come crimine abominevole” e “grave peccato” non solo nella lettera alla Chiesa irlandese.
Chi riesce qui a superarlo in chiarezza e risolutezza? Noi abbiamo parlato di abuso sessuale come un malcostume e un’emergenza sociale, e tale si mostra sempre più.
Tavole rotonde e incaricati speciali a tutti i livelli possono aiutare fino ad un certo punto a risvegliare, affinare e soprattutto a tener desta una coscienza responsabile.
La “cultura dell’osservazione attenta” che viene sempre richiesta, deve infatti essere in vari modi ancora costruita.
Anche altrove manca il coraggio civile per questo.
Proprio i più convinti e i più convincenti sono coloro che hanno maggior bisogno di aiuto.
Perciò io ho fiducia, nonostante tutti gli errori che sono stati fatti, nelle energie spirituali e morali della Chiesa.
Essa non ha affatto solo dei falliti e dei criminali nelle sue fila, come certi critici pensano di poter affermare.
Alla Chiesa appartengono, fino al momento attuale, anche dei santi e degli eroi del quotidiano, molto coraggiosi e incorruttibili.
Tuttavia la crisi ci rende umili, tanto più che in futuro ci possono essere ancora delusioni: “Chi quindi pensa si essere in piedi, stia attento a non cadere” (1Cor 10,12).
Per tutto c’è un nuovo inizio, ma nessuna grazia a buon mercato.
Nell’incontro con l’adultera, che spesso è stata indicata dai padri della Chiesa come figura simbolo della Chiesa peccatrice, Gesù dice: “Anch’io non ti condanno.
Va e non peccare più!” (Giov 8,11).
Questo però passa attraverso la Croce.
È necessario un cambiamento di rotta.
Allora anche a Pasqua, più umilmente e più modestamente, possiamo dire un deciso e coraggioso “Nonostante tutto” e, con lo sguardo rivolto al Signore risorto, sperare fiducia e futuro.
di Karl Lehmann in “Frankfurter Allgemeine Zeitung” del 1° aprile 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

Solitudine da tradimento

«Pensi al Getsemani, signor pastore.
Tutti i discepoli si erano addormentati.
Non avevano capito nulla.
Ma non era ancora il peggio.
Quando il Cristo fu inchiodato alla croce e vi rimase, tormentato dalle sofferenze, esclamò: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Il Cristo fu preso da un grande dubbio nei momenti che precedettero la sua morte.
Dovette essere quella la più crudele delle sue sofferenze.
Voglio dire il silenzio di Dio».
A parlare così al protagonista, un pastore luterano di una comunità svedese, è un uomo semplice, il sagrestano.
Eppure egli è di fronte all’uomo di Chiesa come un cristiano autentico, mentre il suo interlocutore sta piombando nel baratro dell’incredulità.
La moglie amata gli è stata portata via da un male inesorabile e la sua fede si è disciolta come neve al sole.
I parrocchiani sentono il tono falso dei suoi sermoni e, uno dopo l’altro, disertano il tempio che, così, si trasforma in un deserto.
Quando il pastore avrà raggiunto il nadir infernale del suo ateismo, anche la chiesa sarà totalmente vuota come il suo cuore; eppure egli celebrerà lo stesso il culto in piena solitudine e forse questo atto sarà – più che un gesto estremo di desolazione – l’avvio della risurrezione.
Abbiamo evocato un intenso film che Ingmar Bergman, il regista-teologo agnostico svedese, girò nel 1962 coi suoi attori preferiti, Gunnar Björnstrand, Ingrid Thulin e Max von Sydow.
L’abbiamo citato proprio per le parole di quel sagrestano e perché l’intera opera è una parabola della fede come itinerario su cui può addensarsi la cupa ombra della prova, un po’ come era accaduto a quel «padre della fede», che è Abramo, durante i tre giorni tenebrosi della sua ascesa lungo le pendici sassose del monte Moria per immolare il figlio Isacco, dono divino, a quel Dio incomprensibile, amato e crudele (Genesi 22).
Ebbene anche Gesù, nell’autenticità della sua umanità, attraversa tutta la galleria oscura della sofferenza, consapevole che «il Figlio dell’uomo deve molto soffrire, essere respinto e poi essere ucciso» (Marco 8,31).
È significativo notare come il racconto della sua Passione e Morte – registrato da tutti gli evangelisti – si trasformi in un vero e proprio campionario del dolore umano in tutte le sue tetre iridescenze.
Si parte dalla paura della morte, quando egli è sotto le fronde degli ulivi del Getsemani che stormiscono in quella notte drammatica: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice!», implora per due volte (Matteo 26, 39.42), e il calice nel linguaggio biblico è il simbolo del destino finale di un’esistenza.
C’è la solitudine degli amici che sonnecchiano prima e poi fuggono, anzi, sono pronti a tradire (e non il solo Giuda, ma anche il capo dei discepoli, Pietro, che cede subito di fronte all’incalzare delle domande di una domestica o di un cittadino qualsiasi di Gerusalemme).
Ma ad attendere Cristo c’è poi la “via dolorosa” vera e propria, “via crucis” del dolore fisico in tutta la sua gamma lacerante: dal sudore di sangue alle torture della guarnigione romana, fino all’insopportabile pena dell’esecuzione capitale per crocifissione, col suo macabro rituale agonico.
Tuttavia, come suggeriva quel sagrestano svedese, non era ancora colma la coppa della desolazione.
Alla fine, infatti, incombe il silenzio del Padre divino.
Egli, come già aveva riconosciuto lo stesso Gesù durante il suo arresto nel Getsemani, non mette a disposizione del Figlio «più di dodici legioni di angeli» per salvarlo (Matteo 26, 53).
Se il regno annunziato da Cristo – come egli ribadirà davanti al governatore romano Pilato – «fosse di questo mondo, i suoi servitori avrebbero combattuto per non consegnarlo ai Giudei» (Giovanni 18, 36).
Nessuno muove un dito, neppure il Padre celeste con l’efficacia della sua parola e Gesù s’inoltra lungo la via stretta dell’agonia e della morte.
In quell’istante estremo egli è veramente fratello dell’umanità ed è sulla vetta del Golgota che si celebra l’atto supremo di ogni fede e fiducia in Dio, come canta David M.
Turoldo: «No, credere a Pasqua non è / giusta fede: / troppo bello sei a Pasqua! / Fede vera / è al venerdì santo / quando Tu non c’eri / lassù /.
Quando non una eco / risponde / al suo altro grido / e a stento il Nulla / dà forma / alla tua assenza».
Nell’assenza muta di Dio, Cristo incontra quella che si potrebbe definire persino una “brutta morte”: «Gesù gridò a gran voce: Elì, Elì, lemà sabactàni? Che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?…
Gridò di nuovo a gran voce ed emise lo spirito» (Matteo 27, 46.50).
Commentava Giuseppe Berto nel suo particolare «vangelo secondo Giuda», La Gloria (1978): «Non c’è risposta.
Allora con un urlo, rendi lo spirito.
O Eterno, io grido a te da luoghi troppo profondi: Signore, non ascoltare la mia voce».
Alla fine ecco Gesù divenuto un cadavere manipolabile, sul quale può persino infierire la pattuglia romana incaricata della verifica dell’avvenuta esecuzione capitale e del relativo decesso: di solito essi applicavano una brutale forma di eutanasia, spezzando gli arti inferiori dei crocifissi così da accelerare il soffocamento per asfissia; su Gesù, palesemente morto, infieriscono trapassandogli con una lancia il cuore.
In tutta questa sequenza di sofferenze e di morte la finalità fondamentale del racconto evangelico è quella di marcare il centro stesso della fede cristiana, ossia l’Incarnazione.
Per usare la celebre espressione del prologo del Vangelo di Giovanni, il Verbo divino diventa veramente sarx, “carne”, cioè umanità fragile, caduca, limitata.
Nel soffrire e morire del Figlio, Dio assume la nostra comune carta d’identità che a lui non appartiene: il dolore e la fine.
Anzi, san Paolo andrà oltre ricordando non solo che «Cristo morì per i nostri peccati e fu sepolto» (1 Corinzi 15, 3-4), ma persino che «Dio lo fece peccato in nostro favore» (2 Corinzi 5,21).
Se vogliamo ricorrere a un paradosso, Dio si fa non solo il non-Dio (morte), ma anche l’anti-Dio (peccato) per entrare veramente nella nostra realtà creaturale.
Come annotava il teologo Dietrich Bonhoeffer il 16 luglio 1944 nel lager di Flossenburg, nelle pagine del suo diario Resistenza e resa: «Dio è impotente e debole nel mondo e così e soltanto così rimane con noi e ci aiuta.
Cristo non ci aiuta in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù della sua sofferenza».
È questo lo «scandalo della croce» proclamato da Paolo; è questa la kénosis, lo “svuotamento”, una sorta di grado zero a cui si vota Dio per incontrare veramente la sua creatura, come lo stesso Apostolo ribadirà nel famoso inno incastonato nel capitolo 2 della Lettera ai Filippesi.
È per questo che una delle prime eresie, quella gnostica, cercherà di edulcorare e stemperare questo scandalo ricorrendo a una morte solo apparente di Cristo in croce, tesi ereditata dal Corano che introdurrà un sosia sul legno della crocifissione per evitare una simile umiliazione del Profeta Gesù.
In realtà, è proprio qui l’originalità del cristianesimo che va ben oltre l’idea del Dio compassionevole che si china sulla sua creatura – necessariamente finita e caduca – dall’alto del cielo dorato della sua trascendenza per offrire qualche sollievo miracoloso.
No, Dio scende e s’incarna, s’innerva Lui, infinito, nello spazio, Lui, eterno, nel tempo e nella finitudine, Lui, assoluto, nel relativo e nel contingente.
Ma proprio perché Cristo rimane sempre Dio – anche quando soffre, muore ed è sepolto come cadavere – in quella realtà umana e creaturale egli lascia l’impronta della sua divinità, vale a dire la trasforma e la trasfigura, deponendo in essa un seme di eternità, un germe di salvezza e redenzione.
È proprio questo il senso della successiva risurrezione che non è una mera rianimazione di un corpo; è, invece, una vita piena e perfetta che si irradia da Cristo all’umanità intera.
Il transito autentico di Dio nell’essere umano, il suo divenire uomo tra gli uomini, spalla a spalla con noi, incide una scia di luce nella creaturalità, nello stesso essere fisico e nella storia.
Quella di Cristo è stata un’immersione e un’irruzione vera e totale nell’intero arco dell’esistere umano per fecondarlo e trasfigurarlo, redimendolo così dalla schiavitù della corruzione, della morte, del peccato.
Di fronte a questa sorprendente concezione teologica si riesce a comprendere la reazione dell’ebreo Kafka che all’amico Gustav Janouch a proposito di Gesù di Nazaret dichiarava: «È un abisso di luce.
Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi».
Abbiamo condotto una riflessione sulla cristologia, còlta nel suo nodo capitale, nel suo apice tematico.
L’abbiamo fatto, prescindendo dall’accoglienza o meno che ogni nostro lettore può compiere, ma solo perché ciascuno cerchi di avere almeno un quadro generale della concezione che ha generato una vastissima porzione della nostra stessa civiltà occidentale, senza la quale – come affermava Thomas S.
Eliot – è impossibile comprendere lo stesso Voltaire o Nietzsche (che considerava Gesù come l’unico vero cristiano, finito però in croce), ma anche il nostro stesso volto nella sua identità culturale o spirituale.
Vorremmo adesso concludere con un breve excursus nella contemporaneità e nell'”attualità” attraverso un poco noto, ma suggestivo poemetto, Pasqua a New York, composto nel 1912 da Blaise Cendrars, poeta, narratore, sceneggiatore di film, reporter internazionale, nato nel 1887 in Svizzera da madre scozzese e da padre svizzero e morto a Parigi nel 1961.
Ecco alcuni versi da lui pronunziati davanti al Cristo crocifisso in una città “laica” come la metropoli americana, una città che non sembra conoscere il riscatto della sofferenza e della morte nella risurrezione: «È oggi, Signore, il giorno del tuo Nome, / ho letto in un vecchio libro le gesta della tua passione / e la tua angoscia e i tuoi travagli e le tue buone parole / Conosco tutti i Cristi appesi nei musei; / ma tu cammini, Signore, stasera accanto a me.
/ Il tuo costato aperto è come un grande sole, / le tue mani tutt’intorno palpitano di scintille / Fu a quest’ora, verso l’ora nona, / che cadde, Signore, sul petto la tua testa / Forse la fede mi manca, Signore, e la bontà / per vedere l’irradiarsi della tua Beltà…».
Uomo vagabondo, combattente della Prima guerra mondiale ove perse una mano (La mano mozza è il titolo di un suo romanzo), maestro dell’avanguardia, Cendrars si lascia per un momento conquistare da quel crocifisso, contemplato prima solo su vecchi libri o nei musei.
E mentre passa per le vie distratte di New York, in mezzo a prostitute e affaristi, egli sente accanto a sé una presenza.
È lui, quel Cristo dal costato aperto, che irradia luce dalle ferite dei chiodi delle mani.
È lui che all’ora nona, cioè le tre pomeridiane, reclina il capo nel sonno della morte.
«Signore» continua il poeta «sono nel quartiere dei ladri, dei vagabondi, dei pezzenti, dei ricettatori.
/ Penso ai due ladroni ch’erano con te suppliziati, / so che ti degni di sorridere a questi sventurati…».
E la poesia prosegue in una miscela di dubbio e di fede, di ordinaria miseria metropolitana e di antica speranza cristiana: «Signore, la Banca illuminata è come una cassaforte / dove si è coagulato il Sangue della tua morte / Signore, rientro stanco, solo e molto triste.
/ La mia camera nuda è come una tomba.
/ Signore, sono troppo solo.
Ho freddo.
Ti invoco» in “Il Sole 24 Ore” del 28 marzo 2010

«Valori non negoziabili Criterio-guida per il voto»

«Consiglio permanente Cei in piena sintonia con Bagnasco» Piena sintonia tra i membri del Consiglio permanente sugli argomenti trattati nella prolusione del Cardinale presidente Angelo Bagnasco.
Lo afferma il portavoce della Cei, monsignor Domenico Pompili in una dichiarazione rilasciata nel pomeriggio di ieri.
«I vescovi del Consiglio permanente – afferma la nota – hanno condiviso pienamente la lettura del momento sociale e culturale offerta dal presidente della Cei nella sua prolusione».
In particolare, aggiunge Pompili, «si sono ritrovati nei “valori non negoziabili”, che il magistero di Benedetto XVI ha chiaramente indicato nella sua recente Enciclica “Caritas in veritate” e che il Presidente ha puntualmente richiamato».
Perciò la nota riproduce in toto il passaggio della prolusione in cui quei valori erano elencati: «La dignità della persona umana, incomprimibile rispetto a qualsiasi condizionamento; l’indisponibilità della vita, dal concepimento fino alla morte naturale; la libertà religiosa e la libertà educativa e scolastica; la famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna».
Quindi la prolusione aggiungeva: «È solo su questo fondamento che si impiantano e vengono garantiti altri indispensabili valori come il diritto al lavoro e alla casa; la libertà di impresa finalizzata al bene comune; l’accoglienza verso gli immigrati, rispettosa delle leggi volta a favorire l’integrazione; il rispetto del creato; la libertà dalla malavita, in particolare quella organizzata».
Pompili fa inoltre riferimento al comunicato dei vescovi liguri.
«Ciò posto – afferma infatti – riesce francamente impossibile ipotizzare toni divaricanti tra quanto detto ieri nella prolusione e quanto scritto oggi» nel comunicato di cui riferiamo a parte.
«A meno che – conclude il portavoce della Cei – ci si affidi ad interpretazioni di volta in volta parziali e limitanti».
Nei lavori di ieri ampio spazio è stato dedicato anche alla “Lettera ai cattolici d’Irlanda”.
Unanime la condanna della pedofilia «crimine odioso».
I vescovi, ricorda Pompili, «hanno riaffermato l’esigenza di compiere una selezione accurata dei candidati al sacerdozio, vagliando la loro maturità umana ed affettiva oltre che la loro maturità spirituale e pastorale».
Inoltre hanno concordato sul fatto che «il celibato non costituisce un impedimento o una menomazione della sessualità, ma una forma alternativa e umanamente arricchente di vivere la propria identità in una radicale donazione a Cristo e alla Chiesa».
Dopo aver riconfermato «fiducia e gratitudine» ai sacerdoti che compiono ogni giorno il loro dovere, il Consiglio ha «preso in esame la bozza degli Orientamenti pastorali del prossimo decennio, sulla sfida educativa.
<+_Nero>( Mimmo Muolo  Sono i «valori non negoziabili», da assumere «nel loro insieme», «il criterio guida per un sapiente discernimento» al momento del voto.
Lo affermano i vescovi della Liguria in un comunicato pubblicato ieri in vista delle elezioni regionali.
Comunicato che giunge il giorno dopo la prolusione con cui il presidente della Cei aveva aperto lunedì il Consiglio permanente e che sottolinea (né poteva essere diversamente) i medesimi concetti.
«Il criterio guida per un sapiente discernimento tra le diverse rappresentanze – si legge nel comunicato – è l’impegno programmatico, chiaramente assunto, di assicurare il pieno rispetto di quei valori che esprimono le esigenze fondamentali della persona umana e della sua dignità, valori che sono la condizione e il fondamento di una società veramente solidale».
Questi valori sono esattamente gli stessi contenuti nella prolusione del cardinale Bagnasco e “guidati” dal valore prioritario della intangibilità della vita umana.
«Si tratta – prosegue il testo del vescovi liguri – di valori chiaramente e ripetutamente ribaditi dal magistero conciliare, postconciliare e pontificio e che possono essere sinteticamente richiamati: fra tutti, il rispetto della vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale; la tutela e il sostegno della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna; il diritto di libertà religiosa, la libertà della cultura e dell’educazione».
È questo il non negoziabile «fondamento» del «complesso indivisibile», come ha ribadito lunedì il cardinal Bagnasco, degli altri valori meritevoli di tutela, «e quindi il diritto al lavoro e alla casa; l’accoglienza degli immigrati, rispettosa delle leggi e volta a favorire l’integrazione; la promozione della giustizia e della pace; la salvaguardia del creato».
Tali valori, sottolineano gli otto presuli che hanno firmato la nota, «non possono essere selezionati secondo la sensibilità personale, ma vanno assunti nella loro integralità».
Solo nel loro insieme, infatti, quegli stessi valori «esprimono una concezione dell’uomo, della comunità e del bene comune, che costituisce il centro della Dottrina Sociale della Chiesa, e rivelano quel collegamento tra etica della vita ed etica sociale che Papa Benedetto XVI ha più volte sottolineato».
A tal proposito il comunicato riprende una frase della Caritas in Veritate.
«Non può avere basi solide una società che – mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace – si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata».
Perciò il vescovi della Liguria confidano che «il tempo della Quaresima, così propizio per la conversione dei cuori, possa aiutare tutti a testimoniare la profonda ragionevolezza di questa concezione e a favorirne il riconoscimento condiviso».
Il comunicato contiene anche l’auspicio che si possa «favorire la riconciliazione degli animi, che appare sempre più urgente non solo a livello individuale e interpersonale, ma anche a livello collettivo e pubblico».
Per questo la nota ricorda che «un’effettiva coesione tra i diversi componenti dell’intera comunità nazionale rappresenta la condizione imprescindibile per realizzare quel principio di solidarietà che deve animare la convivenza civile e orientare l’agire politico a servizio del bene comune».
Un altro concetto in totale sintonia con la prolusione del cardinale Bagnasco.
Mimmo Muolo

«Lasciatevi riconciliare con Dio»

La prolusione del presidente della Cei ha aperto a Roma i lavori del Consiglio permanente.
L’impegno educativo e nel sacerdozio, l’imperativo dell’onestà, i valori non negoziabili guida al voto. Sono alcuni capi saldi irrinunciabili da tutelare e promuovere.
Il testo integrale della Prolusione Un primo commento Riconoscere il male e non farsi incantare di Marco Taquinio «Riconciliamoci con la Verità» “Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”: questo versetto della seconda Lettera di S.
Paolo ai Corinti fa da pensiero unificante della prolusione che il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha presentato oggi ai partecipanti al Consiglio permanente dei vescovi, che proseguirà fino a giovedì 25 marzo a Roma.
Tutto il testo è segnato dalla “consapevolezza di una conversione necessaria e irrevocabile”, in riferimento a molteplici fattori ed eventi che segnano la vita della Chiesa come quella della società nel suo complesso.
Il cardinale fa riferimento anzitutto agli attacchi a quel “mistagogo formidabile del nostro tempo che è Benedetto XVI”, notando come “quanto più, da qualche parte, si tenta inutilmente di sfiorare la sua limpida e amabile persona, tanto più il popolo di Dio a lui guarda commosso e fiero”.
Circa il ruolo e il comportamento di vescovi e preti, aggiunge, “non ci sono incarichi o ruoli da interpretare come ‘un privilegio personale’, o da trasformare in occasioni per ‘una brillante carriera’, quando c’è solo ‘un servizio da rendere con dedizione e umiltà’”.
Il presidente cita, a questo proposito, recenti parole del Papa: “Le cose nella società civile e, non di rado, nella Chiesa, soffrono per il fatto che molti di coloro ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità”.
La Lettera ai cattolici d’Irlanda.
Nei passaggi iniziali della sua prolusione, il card.
Bagnasco dedica ampio spazio alla Lettera ai Cattolici d’Irlanda scritta dal Papa nei giorni scorsi, dopo l’esplodere dello scandalo della pedofilia, notando come questi fatti rappresentino un “crimine odioso, ma anche peccato scandalosamente grave che tradisce il patto di fiducia iscritto nel rapporto educativo”.
“Senza dubbio la pedofilia è sempre qualcosa di aberrante – prosegue – e, se commessa da una persona consacrata, acquista una gravità morale ancora maggiore.
Per questo, insieme al profondo dolore e ad un insopprimibile senso di vergogna, noi Vescovi ci uniamo al Pastore universale nell’esprimere tutto il nostro rammarico e la nostra vicinanza a chi ha subìto il tradimento di un’infanzia violata”.
Il cardinale nota quindi che “Benedetto XVI non lascia margini all’incertezza o alle minimizzazioni” e prosegue citando passi della Lettera del Papa: “nonostante l’indegnità, ‘i peccati, i fallimenti di alcuni membri della Chiesa, particolarmente di coloro che furono scelti in modo speciale per guidare e servire i giovani’”, rimane la verità che “‘è nella Chiesa che voi troverete Gesù Cristo, che è lo stesso ieri, oggi e sempre’”.
Chiede quindi ai Vescovi italiani un “intensificato sforzo educativo dei candidati al sacerdozio, il rigore del discernimento, la vigilanza per prevenire situazioni e fatti non compatibili con la scelta di Dio, una formazione permanente del nostro clero adeguata alle sfide”.
Strategie di discredito generalizzato.
Dopo aver notato come “non da ora il fenomeno della pedofilia appaia tragicamente diffuso in diversi ambienti e in varie categorie di persone”, il cardinale afferma che “questo, però, non significa subire – qualora ci fossero – strategie di discredito generalizzato.
Dobbiamo in realtà tutti interrogarci, senza più alibi, a proposito di una cultura che ai nostri giorni impera incontrastata e vezzeggiata, e che tende progressivamente a sfrangiare il tessuto connettivo dell’intera società, irridendo magari chi resiste e tenta di opporsi: l’atteggiamento cioè di chi coltiva l’assoluta autonomia dai criteri del giudizio morale e veicola come buoni e seducenti i comportamenti ritagliati anche su voglie individuali e su istinti magari sfrenati”.
Secondo il presidente dei Vescovi “l’esasperazione della sessualità sganciata dal suo significato antropologico, l’edonismo a tutto campo e il relativismo che non ammette né argini né sussulti fanno un gran male perché capziosi e talora insospettabilmente pervasivi”.
“Conviene allora – afferma il presidente della Cei – che torniamo tutti a chiamare le cose con il loro nome sempre e ovunque, a identificare il male nella sua progressiva gravità e nella molteplicità delle sue manifestazioni, per non trovarci col tempo dinanzi alla pretesa di una aberrazione rivendicata sul piano dei principi”.
L’interesse religioso nella popolazione.
“Sacerdoti di convinzione, capaci di autonomia pensante”: è quanto il presidente dei Vescovi chiede al clero, per essere all’altezza dei tempi, senza “indulgere in ingenua condiscendenza allo spirito del tempo”, rilevando tra l’altro un crescente interesse religioso nella popolazione, come ad esempio nel caso delle “ostensioni” (quella di Sant’Antonio, a Padova, e presto quella della Sindone a Torino).
Rilancia quindi l’esigenza dell’ “educazione”, che sarà oggetto degli orientamenti pastorali per il prossimo decennio, discussi nel Consiglio permanente, richiamando a questo proposito la XXV Giornata Mondiale della Gioventù che verrà celebrata la Domenica delle Palme.
Il cardinale Bagnasco passa poi a trattare i temi internazionali, a partire dai due recenti terremoti di Haiti e del Cile, notando l’esigenza di “attrezzarsi per rispondere in modo non improvvisato né episodico alle tragedie che si presentano” e anche la generosità della risposta della popolazione italiana.
Un altro tema all’attenzione è quello degli attacchi alla “libertà religiosa” e in particolare “la recrudescenza degli attacchi ai cattolici”.
Su questo argomento nota come “la mitezza che contrassegna in generale la risposta cattolica non può essere fraintesa: nessuno ha il diritto di farsi padrone degli altri in nome di Dio”.
Italia, società vivace.
Passando a riflettere sulla situazione italiana, il card.
Bagnasco ha sottolineato che “la nostra è una società vivace, che in vari campi ha delle punte di eccellenza” anche se con venature di pessimismo.
Ha infatti affermato: “Da più parti si parla di un declino che sarebbe incombente sul nostro amato Paese.
Perché nei paragoni, che talora si avanzano, dove l’Italia è messa per l’uno o l’altro dei suoi parametri a confronto con altri contesti nazionali, si finisce puntualmente per concludere – magari con un sottile compiacimento intellettuale – che siamo in svantaggio?”.
Il presidente dei Vescovi si pone le domande: “Si tratta di irriducibile pessimismo o di cronico snobismo? Rimestare sistematicamente nel fango, fino a far apparire l’insieme opaco, se non addirittura sporco, a cosa serve? E a sospingere verso analisi fin troppo crudeli, è l’amore per la verità o qualcos’altro di meno confessabile?”.
Si interroga anche su un altro fenomeno, legato alla crisi economica: quello dei suicidi di dipendenti e anche di imprenditori, “in particolare del Nordest, che nell’impossibilità a far fronte agli impegni”, “disperatamente non scorgono alternative diverse dal tragico gesto”.
Di fronte a questi fatti, il presidente dei Vescovi afferma che “la crisi la si supera sforzandosi di immaginare il nuovo”.
Difesa della vita e valori non negoziabili.
Gli ultimi argomenti affrontati dal card.
Bagnasco nella prolusione al Consiglio permanente dei Vescovi, hanno riguardato i temi della difesa della vita, della riaffermazione dei “valori non negoziabili” in politica e della esigenza che a rappresentare i cittadini ci siano cittadini onesti e possibilmente pervasi dei valori cristiani.
Circa il primo aspetto ha rilevato che in Europa nel solo 2008 “quasi tre milioni di bambini non sono nati” a causa dell’aborto, “ossia uno ogni undici secondi”.
Ha collegato questa tendenza alla introduzione nel nostro Paese della pillola Ru486, che “banalizzerà l’aborto (…) giacché l’idea di pillola è associata a gesti semplici”.
Quanto alle imminenti elezioni ha ricordato valori quali “dignità della persona umana”, “indisponibilità della vita dal concepimento alla morte naturale”, “libertà educativa e scolastica”, “famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna”, come anche “accoglienza verso gli immigrati”, “libertà dalla malavita”.
“Si tratta – ha detto – di un complesso indivisibile di beni, dislocati sulla frontiera della vita e della solidarietà”.
Quanto, infine, alla onestà nella vita politica, ha ammonito: “non è vero che tutti rubano”, ma se anche ciò accadesse “non si attenuerebbe in nulla l’imperativo dell’onestà”.

De Rita: il protagonismo? Ai cattolici non piace

L’intervista «Sono state le elezioni meno politiche degli ultimi anni.
Perché nessuno ha veramente parlato di “politica”, di scelte, di prospettive.
Il risultato finale? Da una parte un fortissimo localismo, una gran voglia di radicamento nel territorio: lo dimostra la differenza tra il pesante astensionismo alle elezioni regionali rispetto a quello più basso registrato per le provinciali e le comunali.
Dall’altra c’è il clamoroso protagonismo di Berlusconi, che ha rivendicato la propria dimensione carismatica, il suo essere l’uomo giusto al momento giusto…».
Giuseppe De Rita, sociologo e da sempre analista delle abitudini degli italiani, sintetizza così questo risultato elettorale: «Per aggiungere altri dati rispetto a ciò che ho appena detto, mi sembrano evidenti altre due tendenze.
La prima, chiarissima a tutti: la Lega è radicata ovunque al Nord, ben salda proprio in virtù del localismo.
E l’altra è che si va, se continua così, verso il partito dei cacicchi, cioè dei capetti locali ben riconoscibili dalla base.
È accaduto per Roberto Formigoni in Lombardia.
Lo stesso è successo, specularmente, per Nichi Vendola in Puglia.
Saranno questi “cacicchi”, in futuro e se si prosegue in questa direzione, ad attirare consensi.
Altro che i discorsi politici che non si sentono più».
Ma dove si trovano le radici profonde dell’astensionismo, professor De Rita? «Purtroppo il mondo politico italiano sta vivendo una stagione strettamente legata al protagonismo, ovviamente Berlusconi è il primo.
Per comprenderne gli sbocchi, basta seguire L’isola dei famosi o Il grande fratello.
Allora si verifica un fenomeno molto semplice.
Passi per un duello, che so, Berlusconi-Prodi.
Ma quando c’è il duello tra due mini-protagonisti regionali, magari inventati lì per lì negli ultimi sei mesi, allora non si va a votare perché la garetta tra minori non appassiona, non interessa.
È come assistere a una partitella di serie B o addirittura C dopo aver visto un grande match di serie A, o come passare dall’attico al pianterreno».
E così, spiega il professor De Rita, va a votare solo chi ha interesse specifico: «La gente “normale” diserta, va chi è legato alla formazione politica o ad altre questioni che lo interessano.
Si sopporta, invece, il protagonismo del piccolo sindaco locale: perché sanno chi è, lo considerano uno di loro, ne conoscono pregi e difetti personali».
Professor De Rita, secondo alcune analisi il mancato voto cattolico avrebbe contribuito a nutrire il fenomeno dell’astensionismo.
Pensa che sia così? «Tenderei ad escludere che il voto cattolico abbia deciso le sorti della Bresso o della Bonino, per capirci.
Penso invece che gli elettori di fede cattolica mal sopportino per temperamento la personalizzazione della politica: proprio quel fenomeno del protagonismo di cui parlavo».
E perché? «Perché i cattolici, da De Gasperi in poi passando per un protagonista naturale come Fanfani, ha sempre visto al potere personalità forti ma mai “leader soli al comando”.
Anche Fanfani, robusto decisionista, doveva fare i conti con le correnti e gli altri capi, mettersi a capire le loro istanze…».
Secondo De Rita anche la recente posizione della Conferenza episcopale non ha deciso le sorti del voto: «Il cattolicesimo più autentico, quello che riempie le parrocchie e le messe domenicali, non fa militanza di vertice ma di base.
Si occupa della comunità, la vive.
Hanno una cultura di gran rispetto nei confronti degli altri.
Non sono mai centrati su se stessi».
Ma lei sostiene che il voto cattolico, dopo il discorso di Bagnasco, non ha deciso nemmeno nel caso Polverini-Bonino? «Sinceramente non credo.
L’astensionismo nel Lazio si deve, a mio avviso, nella mancanza della gamba principale per la Polverini e nel quesito irrisolto della Bonino».
E quale sarebbe? «La Bonino ha corso da solista radicale slegata dalla coalizione o invece, semplicemente, la coalizione proprio non c’era e la Bonino era l’unica realtà visibile di qualcosa che non esisteva? Un bel problema…
Bersani ha parlato di Bonino fuoriclasse.
Ma non è detto che i fuoriclasse siano destinati alla vittoria».
E quindi, arrivando alla sintesi, a una conclusione? «Mi viene in mente una meravigliosa espressione di Gianni Brera, quando parlava di calciatori e diceva: puoi anche avere i piedi più belli di questa terra, ma se non sai correre, figlio mio…».
in “Corriere della Sera” del 31 marzo 2010

Mons. Rino Fisichella: «Lettera del Papa sulla pedofilia»

intervista a mons.
Rino Fisichella, a cura di Gian Guido Vecchi Sugli scandali dei casi di pedofilia nella Chiesa «tra poco uscirà la lettera del Papa agli irlandesi e credo sarà un ulteriore esempio della sua voce chiara e decisa, senza alcuna dissimulazione», dice al Corriere l’Arcivescovo Rino Fisichella, presidente della pontificia Accademia per la vita.
E aggiunge: «Ci fosse anche un solo caso in Europa, e ahimè non è così, sarebbe troppo.
Questi fatti gettano ombre e dubbi su tutta la Chiesa: la tolleranza zero per noi non è un optional, è un obbligo morale».
Eccellenza, in piena tempesta pedofilia c’è chi descrive il Papa come perso tra i suoi libri, ignaro, in preda a un’angoscia paralizzante…
«Ma figuriamoci! Papa Benedetto XVI è una persona chiara, netta, determinata ed estremamente lucida nella sua analisi.
Una lucidità che lo porta, primo, a saper distinguere le cose e, secondo, a prendere i provvedimenti necessari…».
L’arcivescovo Rino Fisichella, presidente della pontifica Accademia per la vita nonché consultore della Congregazione per la dottrina della fede, non è tipo da sopire o eludere.
Tre anni fa, quando la Rai trasmise il documentario della Bbc Sex, crimes and the Vatican, fu lui a metterci la faccia e andare in studio a rappresentare la Chiesa.
L’anno scorso intervenne sulla vicenda d’una bimba brasiliana di 9 anni stuprata dal patrigno e rimasta incinta di due gemelli: pesava 30 chili, i medici la fecero abortire, e mentre il vescovo locale annunciava scomuniche lui ricordò che la piccola andava anzitutto «difesa e abbracciata con dolcezza», attirandosi strali integralisti.
Ora premette: «A costo d’essere frainteso, come nel caso di quella bimba, sui casi di pedofilia voglio essere molto chiaro: io starò sempre dalla parte delle vittime.
Sempre, e in ogni caso.
Perché una simile violenza grida vendetta al cospetto di Dio».
Contro i pedofili, il Papa ha evocato le parole di Gesù, «sarebbe meglio per lui che gli mettessero al collo una mola e lo buttassero in mare»…
«Certo.
Tra poco uscirà la lettera del Papa agli irlandesi e credo sarà un ulteriore esempio della sua voce chiara e decisa, senza alcuna dissimulazione.
Ci fosse anche un solo caso in Europa, e ahimè non è così, sarebbe troppo.
Questi fatti gettano ombre su tutta la Chiesa, soprattutto noi vescovi dobbiamo considerarli con la massima serietà: la tolleranza zero voluta da Benedetto XVI non è un optional, è un obbligo morale».
Parlava dei provvedimenti necessari.
Ad esempio? «Ora mi trovo negli Usa, per tre giorni sono stato in uno dei seminari più importanti del Paese e posso dire che dieci anni dalle vicende di abusi su minori non sono passati invano: considerato ciò che accade ora in Europa, l’esperienza americana può insegnare parecchio».
E cioè? «Ho visto discernimento molto più attento nella selezione dei candidati, e un impegno nella formazione accademica e spirituale senza precedenti, 130 seminaristi che fanno pensare a una generazione nuova di sacerdoti seriamente impegnati».
Cos’è accaduto, prima? «Paghiamo anni nei quali per diversi preti e religiosi è venuta meno l’identità sacerdotale: si è persa per strada la spiritualità.
Almeno dagli Anni Sessanta si è diffusa una cultura che ritiene tutto sia ammissibile e ha compreso tutti, non solo la Chiesa».
E il celibato? «Noi non siamo dei repressi: siamo persone che hanno fatto una scelta libera di dedizione e amore per la Chiesa e coloro che ci vengono affidati.
I pochi che vi attentano creano un danno enorme alla stragrande maggioranza di preti che vive questa dimensione con gioia e serietà».
Non solo la Chiesa? «Basta vedere le cronache, purtroppo.
Se pensiamo che in Olanda c’è un partito che sostiene la pedofilia…
Ognuno deve fare i conti in casa propria, ma qui c’è un fenomeno generalizzato e la società nel suo complesso è chiamata a risolverlo.
L’essenziale è saper distinguere.
Ed essere onesti».
In che senso? «Coinvolgere il Papa e l’intera Chiesa è una violenza ulteriore e un segno di inciviltà.
L’accanimento contro il pontefice, in particolare, è insensato: parlano per lui tutta la sua storia, la sua vita, i suoi scritti.
Ciò che disse negli Usa, due anni fa, è stato di una chiarezza cristallina come ciò che dirà all’Irlanda».
E l’abolizione della prescrizione per i pedofili? «Da mesi si stanno studiando queste cose: la Chiesa non agisce sotto pressione degli eventi ma per il bene di tutti».
C’è una «cultura del silenzio» in Italia? «I rari casi che si sono verificati sono diventati pubblici.
La nostra cultura mi sembra ci allontani da tutto ciò.
E non penso né vedo che i vescovi in Italia vogliano usare il silenzio come nascondimento: piuttosto, bisogna avere il tempo di valutare per non rischiare di rovinare un innocente».
L’«accanimento» contro il Papa che effetto ha? «Il Santo Padre non si fa intimorire.
Proprio perché ha una visione profonda della vita e del servizio che deve rendere a tutta la Chiesa e al mondo, saprà ancora una volta farci compiere un balzo in avanti.
Attentare all’autorità morale del pontefice e della Chiesa è una strategia tendenziosa che può creare un danno permanente alla società.
Ma non ci riusciranno».

Padre

Che cosa sta succedendo? I motivi indicati da monsignor Camisasca sono molteplici.
C’è la crisi della famiglia, c’è l’insicurezza diffusa, con la paura della vita e la fuga dal rischio, ci sono i richiami di una cultura fondata sull’apparire e sull’effimero.
Ma soprattutto mancano esempi credibili.
Per questo, scrive l’autore, il primo compito di un seminario dovrebbe essere quello di aiutare i ragazzi a riscoprire la positività della vita, il valore delle cose, la concretezza degli incontri, compreso l’incontro con se stessi e con il proprio corpo.
Sono venuti meno i formatori capaci di «condurre i giovani seminaristi alla conoscenza di sé e alla confidenza in Dio», «abbiamo preferito creare dei patiti della liturgia, degli specialisti della preghiera, dei professionisti dell’azione sociale, ma non dei veri uomini, uomini maturi, uomini di Dio».
L’analisi è impietosa, ma è, secondo Camisasca, l’unica utile se si vuole andare al cuore del problema.
Le risposte non vanno cercate all’esterno, ma dentro la Chiesa, troppo spesso non più capace di educare «persone autenticamente affascinate dal silenzio, dalla lettura, dallo studio», e di creare «intelligenze adulte», cioè in grado di attuare una sintesi insieme rigorosa e libera tra filosofia e teologia.
Il prete oggi «è ucciso» dalle cose da fare, dai convegni, dall’attivismo, dai documenti, dalle tecnologie, dalle competenze che gli vengono richieste.
Ma tutto ciò è superficialità, è contorno.
Ciò che occorre è invece il ritorno al silenzio e allo studio serio, per alimentare il «fuoco nascosto» che motiva e sostiene.
«Silenzio e studio non si oppongono, non si escludono.
Anzi, nascono l’uno dall’altro».
La vita del prete è certamente una vita sulle strade, in mezzo alle persone, ma se c’è soltanto questo il prete si perde.
Coraggiosa è l’analisi dei problemi affettivi.
La questione affettiva, centrale in ogni uomo, lo è anche nella vita del prete, segnata dalla scelta di non avere una propria famiglia carnale.
«Uno dei pericoli più gravi per il sacerdote – scrive Camisasca – è il vuoto affettivo».
I preti spesso non hanno una vita affettiva matura perché anche in questo caso non si sono confrontati con testimoni credibili.
Senza un padre, non c’è vera vita affettiva.
«I vescovi devono dedicare più tempo ai loro sacerdoti e ai seminaristi.
I preti devono fare l’esperienza di essere figli per poter diventare padri del loro popolo ».
E ancora: «Alla radice della solitudine del prete c’è spesso un’agenda del vescovo troppo occupata da convegni, riunioni, incontri».
C’è stata è c’è «una divaricazione tra la figura del padre e quella dell’autorità».
Negli ultimi decenni i vescovi sono stati scelti soprattutto per le loro doti amministrative, mentre devono tornare a essere padri.
Nella Chiesa, osserva Camisasca, c’è poi poca amicizia.
Anzi, se ne ha paura.
E invece, «non si arginano le patologie se non si aiuta lo sviluppo di una vita sana».
Proprio l’amicizia è in grado di riempire il vuoto affettivo.
Non bisogna nascondere i «legami di preferenza».
Circa il celibato, l’autore dice che consentire ai preti di sposarsi non risolverebbe il problema della carenza di vocazioni e ridurrebbe la capacità di testimonianza.
Oltretutto, osserva con un pizzico di sarcasmo, dato che la vita familiare è così difficile, perché dovremmo aggiungere anche questa difficoltà alle tante con cui il prete deve già fare i conti? «Le ragioni del celibato si trovano in maniera radicale nella scelta che Gesù stesso ha fatto».
Nella cultura ebraica era una scelta dissennata perché non avere figli era considerata una maledizione.
Eppure Gesù scelse questa strada perché «riteneva che essa esprimesse, più di ogni altra, il suo cuore indiviso nell’amore del Padre e degli uomini».
Un altro punto centrale nel libro riguarda la liturgia.
«Se il sacerdote non ritrova il senso vero della liturgia nella sua vita, non può ritrovare se stesso».
La liturgia non è un’azione, non è uno spettacolo, non è un luogo nel quale esibire la creatività personale.
Camisasca non nega la positività del Concilio Vaticano II, ma riconosce che negli anni c’è stato un impoverimento da cui la Chiesa deve sollevarsi.
«Il protagonista della liturgia è Cristo, e solo accettando il suo protagonismo possiamo diventare a nostra volta protagonisti».
La liturgia non può essere vissuta né come un «esilio in Dio che ci allontana dagli uomini» né come «un piegarsi sugli uomini che ci allontana da Dio».
Per questo Benedetto XVI insiste sulla bellezza della celebrazione liturgica: attraverso la bellezza si entra in Dio che è comunione e dono di sé, perché «la vera bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel mistero pasquale».
Sulle tesi dell’autore si può concordare o meno, ma certamente gli vanno riconosciute chiarezza e sincerità.  di Aldo Maria Valli in “Europa” del 2 marzo 2010 Ci saranno ancora sacerdoti nel futuro della Chiesa? Monsignor Massimo Camisasca se lo chiede nel libro Padre (San Paolo, 221 pagine, 16 euro) e mette la domanda addirittura nel sottotitolo.
Da venticinque anni superiore della Fraternità San Carlo, società missionaria che conta oggi circa cento preti e quaranta seminaristi, l’autore conosce il problema grazie al rapporto diretto, e non ci gira attorno.
I dati sono impietosi.
In continua diminuzione in Europa e nell’America del Nord, in aumento in America Latina, Asia e Africa, i preti sono comunque sempre di meno rispetto alla popolazione, e sono sempre più in difficoltà.
Se trenta o quarant’anni fa i problemi erano soprattutto di ordine ideologico, adesso la crisi riguarda di più la sfera affettiva.
Molti hanno perso il gusto della vocazione, moltissimi si sentono soli, il rischio dell’abbandono avanza.

Perché esistono gli angeli?

Il Card.
Carlo Maria Martini risponde sul  “Corriere della Sera” alle domande dei lettori Eminenza, perché esistono gli angeli? Michele Toriaco – Torremaggiore (Foggia) Una lettera brevissima, ma che apre un campo assai vasto di riflessioni, di ipotesi e di ricerche.
Anzitutto il mio interlocutore sembra avere la certezza che gli angeli esistano, in quanto domanda sul loro perché.
Non sarei così sicuro che egli possa trovare tutti consenzienti sulla esistenza degli angeli.
Succede un po’ agli angeli come ad altre realtà: per un certo tempo sono come di moda e molti ne parlano; in un altro tempo sono come relegati nel limbo della dimenticanza.
Il nostro momento storico, salvo alcune eccezioni, è piuttosto un tempo di dimenticanza.
Non è sempre stato così.
Per esempio san Tommaso nella sua Summa Theologiae dedicava ben quindici delle sue «Questioni» agli angeli.
Molti autori riformati rifiutano la venerazione degli angeli e non pochi dubitano della loro esistenza.
I razionalisti, come è ovvio, la negano del tutto, mentre il grande teologo protestante Karl Barth riconosce agli angeli un ruolo straordinario nel piano di Dio.
Io ritengo che noi ne sappiamo poco sugli angeli: tuttavia essi esistono e la Scrittura ne parla più volte come di esseri celesti e messaggeri di Dio.
Perché esistono? Appare conveniente che ci siano, oltre all’uomo, che è un essere corporeo, anche altri esseri che siano come intermediari tra l’uomo e l’infinità assoluta di Dio.
Come dice il Salmo 8,8: «hai fatto l’uomo poco meno degli angeli di gloria e di onore lo hai coronato».
La realtà degli angeli è anzitutto una realtà di fede e il motivo ultimo della loro esistenza è, come per noi uomini, la bontà di Dio che vuole comunicarsi a esseri capaci di dialogare con lui.
Scrive Paolo che senza la risurrezione di Cristo la nostra fede è vana.
Ma Gesù risorto, anziché mostrarsi al popolo e convincere tutti della sua divinità, appare ai discepoli, già convinti che egli fosse il Cristo: dunque, una testimonianza «sospetta».
Il pagano Celso aveva notato l’aporia: «Quando in carne ed ossa non era creduto, senza posa annunciava a tutti la sua novella, quando invece risuscitando dai morti avrebbe offerto una sicura garanzia, allora apparve di nascosto ad una sola donnetta e a quelli della sua confraternita» (Discorso sulla verità, II 70b).
Antonio Zandonati – Rovereto (Trento) Le dirò sinceramente che per qualche tempo sono stato anch’io turbato da questo fatto, che è esposto chiaramente in un discorso di Pietro negli Atti degli Apostoli (10, 40-42): «Dio lo ha risuscitato, al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua resurrezione dai morti.
E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio».
Dicevo a Gesù: «Tu hai voluto morire davanti a tutto il popolo, così che ogni persona che entrava o usciva da Gerusalemme potesse vederti nei tuoi ultimi istanti.
Perché quando sei risorto non sei apparso a tutto il popolo, così che tutti ti potessero vedere?».
Ho superato questo turbamento riflettendo su quattro cose.
Primo, che non si era trattato, di un’apparizione a una donnetta, ma a testimoni diffidenti e increduli.
I racconti dopo la risurrezione mostrano chiaramente che i discepoli non si lasciarono convincere facilmente che quell’uomo apparso a loro era davvero Gesù vivo e vero.
Secondo: ho riflettuto sulle parole e sui gesti straordinari di Gesù durante il suo ministero pubblico.
Sono parole e gesti che superano il tempo e hanno un sapore di eternità.
Parole che nessun uomo oserebbe pronunciare, gesti di cui la gente dice: «Non abbiamo mai visto nulla di simile» (Mc 2,12).
Terzo, le profezie che facilitarono anche agli apostoli l’accettazione della risurrezione di Cristo e della sua missione nella storia.
Quarto: l’anelito alla permanenza oltre la morte che è in ciascuno di noi.
Mi pare che il Signore ci abbia dato motivi sufficienti per la ragionevolezza del nostro credere, ma non ce li abbia dati così schiaccianti da costringere in qualche modo la nostra libertà.
La fede è sempre un fidarsi di Dio e un buttarsi nelle sue braccia.
Sto leggendo il libro «Perché è Santo» di Slawomir Oder e sono rimasto turbato e amareggiato dalla notizia che Papa Wojtyla si flagellasse.
Perché infliggere punizioni al proprio corpo, dono di Dio? Bernardo Colussi – San Vito al Tagliamento (Pordenone) Nessuno che abbia un po’ di conoscenza della storia dell’ascetica si stupirà di piccole afflizioni corporali, (digiuni, cilici ecc.) motivate dal fatto che, come diceva un asceta del buon tempo antico «il corpo sappia che deve servire».
V’era anche il desiderio di riparare per tutti i peccati che si commettevano nel mondo.
È forse improprio parlare di «flagellazione», perché si pensa a quella dolorosissima che dovette subire Gesù e che veniva praticata senza risparmio per i condannati a morte.
Nella ascesi si trattava piccole penitenze, che non erano dannose per il corpo.
Non si deve quindi pensare a una sorta di autolesionismo o di masochismo.
Il corpo è, come lei dice, dono di Dio, ma si deve anche tener conto della sua propensione alla comodità e alla golosità.
Oggi l’ascetica insiste meno su queste pratiche, benché esse siano ancora esercitate.
Si è preso maggiormente coscienza del fatto che già il vivere con un certo ordine in questa società disordinata e caotica è in sé una penitenza.
Eminenza, ho un dubbio: che la preghiera «Requiem aeternam dona eis Domine et lux perpetua luceat eis, requiescant in pace» sembri poco cristiana.
Mi fa pensare al Paradiso come a un grande dormitorio.
Non sarebbe meglio se suonasse così: «Gaudium aeternum dona eis Domine et lux perpetua luceat eis, gaudeant in pace et in laetitia».
Augusto Colonnelli – San Donato (Milano) La preghiera proposta è certamente bella e chi vuole la può recitare così.
Ma anche la preghiera tradizionale è bella perché secondo la pregnanza biblica del termine «Requies» va intesa non come un sonno, ma come il giusto riposo che segue alle battaglie della vita.
La «luce eterna» è lo splendore del Verbo che illumina ogni cosa (cfr.
Apocalisse 21.23: «La città non ha bisogno della luce del sole né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello»).
Similmente il «requiescant in pace» è l’augurio di entrare con pienezza nello shalom, che è, secondo la Scrittura, la sintesi di tutti i doni di Dio.
Ascoltavo con attenzione il prologo in forma breve del Vangelo secondo Giovanni quando ho avuto un «tonfo» al cuore nel sentire: «La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta».
Nella mia mente e nel mio cuore giravano le parole ascoltate e conosciute da sempre: «La luce splende nelle tenebre ma le tenebre non l’hanno accolta».
Un completo ribaltamento del rapporto luce tenebre dopo circa duemila anni? Antonio Cerino – Roma Del verbo greco sottostante si può dare una duplice versione: «vinta» o «accolta».
La gran parte degli esegeti greci, a partire da Origene, stanno per la prima interpretazione.
Negli esegeti moderni si trova piuttosto la seconda.
È quella che è stata seguita anche dai revisori della Bibbia in italiano.
Si può oscillare tra le due tradizioni, ma non si ha un ribaltamento del rapporto «luce/tenebre» bensì una duplice possibilità di intesa dell’azione delle tenebre.
in “Corriere della Sera” del 28 febbraio 2010

II DOMENICA DI QUARESIMA (Anno C).

Preghiere e Racconti  La Trasfigurazione  L’icona della Trasfigurazione ci rimanda al tema della divinizzazione dell’uomo, tanto caro alla tradizione dell’ Oriente cristiano.
I colori usati emanano e rivelano la luce taborica.
Questa immagine manifesta lo splendore divino e rispecchia il principio per cui un’icona non si guarda, ma si contempla.
Anticamente, questa era la prima icona che un allievo iconografo scriveva per apprendere il segreto della sua missione: penetrare nel Mistero di Dio e dischiudere gli occhi alla sua luce, al fine di rendere gli altri partecipi di questa grazia.
Nell’episodio della Trasfigurazione Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li porta sopra il monte alto dove Dio si fa conoscere dall’uomo.
Al centro dell’icona Gesù risplende, è avvolto in vesti candide ed è circondato da una nube luminosa.
Egli benedice i discepoli e li introduce nell’esodo pasquale che compirà a Gerusalemme.
In basso, quasi alle falde del monte, gli apostoli, costretti al suolo e incapaci di sostenere il bagliore della divinità, sono estasiati e turbati spettatori della Gloria di Dio.
Lo splendore e la magnificenza di Gesù ci rendono consapevoli della nostra meschinità e dell’infinita distanza che ci separa da Lui; possiamo, però, essere fiduciosi e sereni: la sua luce accompagna i nostri passi mentre scendiamo dal monte e riprendiamo il quotidiano cammino.
L’evento della Trasfigurazione, custodito e meditato in cuore, ci  aiuterà ad affrontare le difficoltà della strada: la Gloria che gli apostoli hanno visto è la meta bellissima che ci attende!  Lasciare che il mio cuore si sciolga alla dolce tua presenza, contemplare il tuo volto e perdermi…
La tua bellezza mi trasfiguri la tua luce mi invada il tuo amore mi trasformi così  potrò percorrere le strade della terra irradiando Te.
Così  sarà meno duro vivere nell’attesa di essere con te per sempre.
La Trasfigurazione di Gesù   Gesù  voleva che i suoi discepoli in particolare quelli che avrebbero avuto la responsabilità di guidare la Chiesa nascente facessero un esperienza diretta della sua gloria divina per affrontare lo scandalo della croce.
In effetti quando verrà l’ora del tradimento e Gesù si ritirerà a pregare nel Getsemani terrà vicini gli stessi Pietro Giacomo e Giovanni chiedendo loro di vegliare e pregare con Lui (cfr Mt 26 38).
Essi non ce la faranno, ma la grazia di Cristo li sosterrà e li aiuterà a credere nella Risurrezione.
Mi preme sottolineare che la Trasfigurazione di Gesù è stata sostanzialmente un’esperienza di preghiera (cfr.
Lc 9, 28-29).
La preghiera infatti raggiunge il suo culmine e perciò diventa fonte di luce interiore quando lo spirito dell’uomo aderisce a quello di Dio e le loro volontà si fondono quasi a formare un tutt’uno.
Quando Gesù salì sul monte si immerse nella contemplazione del disegno d’amore del Padre che l’aveva mandato nel mondo per salvare l’umanità.
[…] Cari fratelli e sorelle vi esorto a trovare in questo tempo di Quaresima prolungati momenti di silenzio possibilmente di ritiro per rivedere la propria vita alla luce del disegno d’amore del Padre celeste.
Lasciatevi guidare in questo più intenso ascolto di Dio dalla Vergine Maria maestra e modello di preghiera.
Lei anche nel buio fitto della passione di Cristo non perse ma custodì nel suo animo la luce del Figlio divino.
Per questo la invochiamo Madre della fiducia e della speranza.
  (Benedetto XVI, Parole prima dell’Angelus, 08.
03.
2009).
Per fondare la nostra speranza   Era necessario che gli apostoli concepissero con tutto il cuore quella forte e beata fermezza e non tremassero davanti all’asprezza della croce che dovevano prendere; era necessario che non arrossissero del supplizio di Cristo, né che stimassero vergognosa per lui la pazienza con la quale doveva subire le sofferenze della passione senza perdere la gloria del suo potere.
Così Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, suo fratello (Lc 9,28), salì con loro su una montagna in disparte e manifestò loro lo splendore della sua gloria […] Senza dubbio la trasfigurazione aveva quale primo scopo quello di rimuovere dal cuore dei suoi discepoli lo scandalo della croce, affinché l’umiltà della Passione liberamente subita non turbasse la fede di coloro ai quali era stata rivelata la sublimità della dignità nascosta.
Ma con non minore previdenza veniva fondata la speranza della santa chiesa, in modo che l’intero corpo di Cristo conoscesse quale trasformazione avrebbe ricevuto in dono e i mèmbri si ripromettessero di partecipare all’onore che aveva rifulso sul capo del corpo.
  A questo proposito il Signore stesso aveva detto, parlando della maestosità  della sua venuta: Allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro (Mt 13,43), e il beato Paolo afferma la stessa cosa quando dice: «Io ritengo, infatti, che le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi (Rm 8,18) […] Pietro disse: Signore, è bello per noi stare qui.
Se vuoi, facciamo tre tende, una per te, una per Mosè, una per Elia» (Mt 17,4).
Il Signore non risponde a tale proposta, volendo mostrare non che era cattiva, ma che era fuori luogo, perché il mondo non poteva essere salvato se non dalla morte di Cristo e la fede dei credenti era chiamata dall’esempio di Cristo a comprendere che, senza giungere a dubitare della felicità promessa, dobbiamo tuttavia in mezzo alle tentazioni di questa vita, chiedere la pazienza prima della gloria, perché la felicità del regno non può precedere il tempo della sofferenza.
  (LEONE MAGNO, Discorsi 38,2-3.5, SC 74, pp.
16-19).
Il Tabor e il Getsemani   Quanto più la preghiera diventa preghiera del cuore tanto più si ama e si soffre, si vedono più luce e più tenebre, più grazia e più peccato, più Dio e più umanità.
Quanto più si scende nel profondo del cuore estendendosi di laggiù fino a Dio, tanto più la solitudine parlerà alla solitudine, l’abisso all’abisso, il cuore al cuore.
Laggiù amore e dolore si fondono.                                                       Per due volte Gesù invitò gli amici più cari, Pietro, Giovanni e Giacomo, a condividere la sua preghiera più segreta.
La prima volta li portò sulla vetta del monte Tabor e lassù  essi videro il suo volto brillare come il sole e le sue vesti divenire candide come la luce (Mt 17,2).
La seconda volta egli li condusse nel giardino di Getsemani dove essi videro il suo volto angosciato e il sudore fluire come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44).
La preghiera del cuore conduce al Tabor ma anche al Getsemani.
Dopo aver visto Dio nella gloria lo si vedrà anche nel tormento e dopo aver sentito l’abiezione della sua umiliazione si sperimenterà la bellezza della sua trasfigurazione.
  (Henri J.M.
NOWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia,1980,140).
Ancora e sempre sul monte di luce    Ancora e sempre sul monte di luce                                      Cristo ci guidi perché comprendiamo                                   il suo mistero di Dio e di uomo,   umanità  che si apre al divino.    Ora sappiamo che è il figlio diletto   in cui Dio Padre si è compiaciuto;   ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,   perché  egli solo ha parole di vita.    In lui soltanto l’umana natura   trasfigurata è in presenza divina,   in lui già ora son giunti a pienezza   giorni e millenni, e legge e profeti.    Andiamo dunque al monte di luce,   liberi andiamo da ogni possesso;   solo dal monte possiamo diffondere   luce e speranza per ogni fratello.    Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo   gloria cantiamo esultanti per sempre:   cantiamo lode perché questo è il tempo   in cui fiorisce la luce del mondo.
  (D.M.
Turoldo).
    * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di Quaresima e Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.  Lectio Anno c    Prima lettura: Genesi 15,5-12.17-18          In quei giorni, Dio condusse fuori Abram e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza».
Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.
E gli disse: «Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra».
Rispose: «Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?».
Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un colombo».
Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli.
Gli uccelli rapaci calarono su quei cadaveri, ma Abram li scacciò.
Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono.
Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi.
In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram: «Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate».
   Nella seconda domenica di quaresima la liturgia ci propone nell’anno A la chiamata, nell’anno B il sacrificio di Isacco e nell’anno C l’alleanza.
La vita di Abramo era completamente cambiata dopo che aveva sentito la chiamata del Signore (Gn 12).
Si era fidato della sua parola.
Era partito per una terra che non conosceva fidandosi di Dio che gli aveva promesso un figlio.
Il tempo però era passato e la promessa non sembrava realizzarsi.
Abramo sperimenta l’incertezza, l’oscurità della fede per il silenzio prolungato di Dio.
      Ma ora il Signore stesso prende l’iniziativa e gli parla: Guarda in cielo e conta le stelle(v.
5).
Nonostante la sterilità avrà una discendenza come le stelle del cielo.
Abramo ancora una volta credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia (v.
6).
È l’”amen” della fede proclamata dai profeti.
La fede è un “credente in” prima ancora di un “credere che”.
È fondare la propria vita sulla parola del Signore.
Come i sacerdoti usavano pronunciare un giudizio a riguardo della perfezione della vittima sacrificale (cf.
Lv 7,18), ora il giudizio viene pronunciato da Dio a riguardo della decisione di fede di Abramo.
Era quello il giusto rapporto della creatura con il suo creatore.
Anche i profeti dicevano: “obbedire è meglio del sacrificio” (cf.
1Sam 15,22).
Nell’interpretazione paolina “giustizia” è l’atto ultimo della storia della salvezza.
Abramo diventa il primo dei credenti a sperimentare la giustizia di Dio, la riconciliazione con lui, a prescindere da ogni opera della legge, in quanto la circoncisione gli verrà chiesta solo più tardi.
(c.
17).
      Il Signore con un rito tradizionale in cui si tagliavano le bestie a metà, sigilla con Abramo un’alleanza: Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra (v.
7).
Con essa egli gli rinnova la promessa della terra.
I contraenti dovevano secondo l’uso passare attraverso gli animali tagliati imprecando la stessa sorte se venissero meno alla parola.
Dio non permette ad Abramo di passare.
Lui solo passa in mezzo agli animali come braciere fumante (v.
17), impegnandosi da solo a mantenere le promesse.  Seconda: Filippesi 3,17-4,1           Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi.
Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo.
La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio.
Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra.
La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose.
Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!                Paolo in questa lettera parla alla comunità di Filippi della propria esperienza di Gesù Cristo, come sia stato lui afferrato sulla via di Damasco e come ora tutta la sua vita non sia altro che un correre dietro a lui, in attesa di stare sempre con lui in cielo.
Allora si capisce come il brano della lettura odierna inizi con questa frase dell’apostolo: Fratelli, fatevi insieme miei imitatori (v.
17).
Paolo era stato un giudeo praticante, ma ora tutte le pratiche ebraiche sono diventate una spazzatura di fronte all’esperienza dell’amore salvifico di Cristo manifestatosi nella sua croce.
      Anche i cristiani si mettano nello stesso cammino che sta dando la vita all’apostolo che ha portato loro la fede.
Molti si comportano da nemici della croce di Cristo (v.
18).
Molti non seguono il suo esempio.
Il peccato continua a manifestarsi come potenza efficace.
Il fallimento dei cristiani è l’abbandono della croce di Cristo.
Nonostante la redenzione si dà ancora tiepidezza, tentazione, tradimento, perciò è importante stare attenti non solo alla predicazione dell’apostolo, ma anche al suo esempio.
Alcuni preferiscono salvarsi con i propri sforzi, non accettando l’amore preveniente di Dio manifestatesi nel volto di Cristo in croce.  Ma il cammino della croce è l’unico che conduce al cielo: La nostra cittadinanza infatti è nei cieli (v.
20).
La comunità cristiana tiene lo sguardo rivolto all’abitazione celeste.
È lì che ci aspetta Cristo risorto.
Egli trasfigurerà il nostro misero corpo (v.
21).
In cielo ci sarà una nuova esistenza per l’uomo intero.
L’uomo vivrà, non sarà più nella bassezza, ma nella gloria, configurato al corpo di risurrezione di Cristo, assiso alla destra di Dio.
Vi è un evidente legame di questo passo con il vangelo odierno.  Vangelo: Luca 9,28-36           In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare.
Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante.
Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.
Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.
Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui.
Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa».
Egli non sapeva quello che diceva.
Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra.
All’entrare nella nube, ebbero paura.
E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
Appena la voce cessò, restò Gesù solo.
Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.
               Esegesi       Il ministero di Gesù in Galilea stava per concludersi con esito deludente.
Inizia l’ultima parte dell’esodo di Gesù al Padre che si compirà a Gerusalemme sul monte Calvario.
Il monte Tabor, che secondo la tradizione è il monte della trasfigurazione di Gesù, si sovrappone al Calvario per interpretare il senso della passione: La croce è gloriosa.
      Osserviamo chi partecipa a questa esperienza.
Innanzitutto Gesù, che salì sul monte a pregare (v.
28).
L’evento è così inserito totalmente nella sfera di Dio.
L’unione con il Padre si manifesta anche visibilmente nel volto di Gesù che cambiò d’aspetto (v.
29).
Come nella preghiera del Getsemani gli appare un angelo a confortarlo, anche ora appaiono due personaggi dell’Antico Testamento, Mosè ed Elia (v.
30), che parlavano con lui del suo esodo (v.
31).
Un esodo non è una fine, ma una pasqua, un passaggio dalla sofferenza alla gioia, da questo mondo al Padre, un passaggio che dirà al mondo che egli è sempre vissuto in unione con il Padre.
      I discepoli non ci sono tutti, ma solo Pietro, Giovanni e Giacomo (v.
28).
Tre sono sufficienti per dare una legittima testimonianza.
Come nell’orto degli Ulivi essi sono oppressi dal sonno (v.
32).
È un sonno che manifesta anche l’incomprensione del mistero di Gesù Cristo.
Per questo in quei giorni, cioè durante la vita terrena di Gesù, non riferirono a nessuno ciò che avevano visto (v.
36).
Dopo Pasqua tutto sarà chiaro e potranno testimoniare la gloria di Gesù.
Hanno bisogno degli occhi del cuore per capire il senso della croce.
Pietro cerca di rendere eterno quel momento paradisiaco, che forse gli ricordava la gioia della festa delle capanne.
Invece Mosè ed Elia si separavano da lui (v.
33); l’antico si ritirava per far posto alla novità.
      Venne una nube e li coprì con la sua ombra (v.
34).
La nube è un segno della presenza di Dio, che conferma in questo caso di essere dalla parte di Gesù, cioè che la salvezza si realizza mediante il suo esodo.
La voce divina interpreta il significato della trasfigurazione di Gesù.
Questi è il Figlio mio, l’eletto (=scelto), parola che evoca la figura del servo di JHWH (Is 42,1).
Il Messia è legato alla sofferenza e alla croce.
Il comando: ascoltatelo (v.
35) si rifà a Dt 18,15, che invita ad ascoltare il profeta definitivo di Dio, che porta a compimento la Legge (Mosè) e i profeti (Elia).  Meditazione       Ogni anno liturgico ci fa ascoltare, nella seconda domenica di Quaresima, il racconto della Trasfigurazione del Signore.
Il cammino quaresimale sembra così interrompersi, o meglio giungere già alla sua meta, facendoci contemplare la gloria pasquale che traspare dal corpo luminoso del Signore trasfigurato.
Dopo il cammino nel deserto della prova (nella prima domenica di Quaresima) oggi saliamo con Gesù e i suoi tre discepoli più intimi sul Tabor.
Anche noi probabilmente saremmo tentati con Pietro di arrestare qui la nostra sequela costruendo tre tende, ma di fatto l’esperienza del Tabor non costituisce la meta finale del cammino; ci suggerisce piuttosto quali siano le condizioni e gli atteggiamenti interiori che consentono a Gesù, come a ogni suo discepolo, di proseguire il viaggio – l’esodo lo definisce Luca nel suo racconto – verso Gerusalemme e verso la Pasqua.
Più che interrompere il cammino quaresimale, la Trasfigurazione ce ne svela il significato più nascosto, permettendoci di assaporare già il suo frutto.
      Il brano della lettera ai Filippesi che ascoltiamo come seconda lettura ci suggerisce un angolo prospettico in cui rileggere l’esperienza del Tabor.
Paolo polemizza con coloro che «si comportano da nemici della croce di Cristo» (3,18).
Probabilmente allude a quanti pretendono che l’obbligo della circoncisione e dell’osservanza integrale della Legge di Mosè venga imposto anche ai cristiani provenienti dal mondo pagano.
Se per l’autentica esperienza di Dio sono ancora indispensabili i precetti della Torah, allora viene svuotata di significato la Croce, che per Paolo è invece la rivelazione luminosa di una salvezza che ci raggiunge gratuitamente, non in forza delle nostre opere, ma dell’amore di Dio che nel Figlio crocifisso ci libera dal peccato e dalla morte.
Noi oggi avvertiamo come molto distanti da noi queste tematiche: non abbiamo più il problema della circoncisione o dell’osservanza della legge mosaica.
Eppure le parole di Paolo conservano la loro attualità, perché dietro la posizione di chi si comporta da nemico della croce di Cristo, egli scorge l’atteggiamento di chiunque, in vario modo, presume di potersi salvare in forza delle proprie opere, confidando in se stesso e nelle proprie pratiche religiose.
Paolo definirebbe questo atteggiamento un confidare nelle «opere della carne», anziché gloriarsi, o vantarsi di Gesù Cristo, confidando in lui e nella sua grazia.
Infatti, all’atteggiamento dei nemici della croce di Cristo, Paolo contrappone quello di coloro che aspettano «come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose» (Fil 3, 20-21).
Anziché confidare in una salvezza da conquistare con l’opera delle proprie mani, occorre attendere colui che nel suo amore ha la possibilità di trasfigurare la nostra vita rendendola conforme alla sua.
      Tale è anche la fede di Abramo di cui ci parla la prima lettura tratta dal libro della Genesi.
«Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (v.
6).
Abramo crede al Signore e si fida del segno che gli viene donato: «poi lo condusse fuori e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”; e soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”» (v.
5).
La garanzia della promessa di Dio è un cielo stellato.
Ad Abramo che chiede un erede, Dio promette molto di più: una discendenza numerosa come le stelle del cielo.
Dio sottolinea l’‘eccesso’ della sua promessa con l’espressione «se riesci a contarle», che sembra anzitutto mostrare quanto il progetto di Dio sia infinitamente più grande dell’attesa di Abramo.
Sovrasta la sua speranza quanto il cielo sovrasta la terra.
Inoltre, questo cielo stellato che nessuno può contare ricorda ad Abramo che egli dovrà fidarsi della promessa senza poterla verificare.
Contare una realtà significa poter esercitare un controllo su di essa.
Abramo, al contrario, deve contemplare le stelle senza poterle contare; deve cioè fidarsi del-la promessa senza cercare di dominarla.
In una parola, deve semplicemente credere.
Ed è ciò che Abramo fa, come afferma il v.
6: «Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia».
A rendere l’uomo giusto non sono le opere della carne – il confidare in se stessi e nelle proprie possibilità – ma è la fede, come disponibilità ad affidarsi all’opera che Dio compie in noi.
Non pretendendo peraltro di avere altra certezza se non quella offerta dalla Parola stessa.
In altri termini, non avendo altra garanzia che un cielo stellato, che non puoi contare.
Si tratta sempre della garanzia di un affidamento, non di un possesso.
      Questa è la fede che anche Pietro, Giacomo, Giovanni devono ricevere dall’esperienza che vivono sul Tabor.
Pietro vorrebbe costruire tre capanne, in qualche modo per bloccare l’esperienza di Dio in ciò che può personalmente dominare, edificare con le proprie mani, tenere sotto il controllo dei propri occhi.
Al contrario, Pietro viene rinviato, dalle parole del Padre, all’affidamento dell’ascolto e alla perseveranza della sequela.
«Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!» (v.
35).
Queste parole risuonano sul Tabor «circa otto giorni dopo questi discorsi», come precisa l’evangelista introducendo il racconto (v.
28).
Il riferimento non può che andare a ciò che Gesù ha iniziato a dire ai discepoli subito prima, annunciando il suo destino di passione e invitando Pietro e i suoi compagni a seguirlo lungo la stessa via: «se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (9,23).
L’imperativo dell’ascolto è l’imperativo della sequela: si devono ascoltare le parole di Gesù per seguirlo lungo la stessa strada che conduce a Gerusalemme, dove Gesù vivrà l’esodo pasquale del quale conversa con Mosè ed Elia, cioè con la Legge e i Profeti, con tutte le Scritture.
È nella luce della parola di Dio che Gesù comprende il significato del suo cammino e trova il sostegno per viverlo.
Ed è nella luce delle stesse Scritture che possono farlo anche i discepoli.
La gloria di Gesù la si contempla non tentando di circoscriverla nelle tre capanne costruite da mani di uomo, ma seguendolo fino a Gerusalemme, fino ai piedi della croce.
Solo lì si manifesterà pienamente la gloria del Figlio di Dio di cui la Trasfigurazione rimane un’anticipazione profetica.
      Anche per Gesù e i suoi discepoli, dopo l’esperienza straordinaria del Tabor, riprende il cammino nella discesa dal monte, forse con la stessa fatica di prima, anzi con una fatica che si fa ancora più grave, giacché ora la via si precisa sempre più come orientata verso Gerusalemme e verso la croce.
Ma ora diviene un cammino che può essere vissuto con un cuore trasfigurato dall’incontro con Dio.
Questo è stato vero innanzitutto per l’esperienza di fede che ha vissuto Gesù stesso.
La scena della Trasfigurazione ci rivela infatti la gloria e la luce in cui Gesù ha potuto vivere fino in fondo, nella fedeltà e nella perseveranza, nell’ascolto della Parola e nell’obbedienza al Padre, il suo cammino esodico e pasquale.
Rivela non semplicemente la gloria e la luce che lo attendevano al termine del cammino, ma la gloria nella cui luce ha potuto egli stesso camminare verso la Pasqua.
Mentre attorno a lui tutto si oscurava, egli aveva la sorgente della luce dentro di sé, e proprio questa luce intima, segreta, gloriosa, ha continuato a illuminare i suoi passi anche nella notte.
E l’aveva dentro di sé, ci ricorda il racconto di Luca, perché ha vegliato nella preghiera e ha conversato con le Scritture.
Chi non prega e non ascolta la parola di Dio, come inizialmente accade a Pietro, rimane nella notte e viene sopraffatto dal sonno. 

“Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno”

La cultura del bene comune Guardare a meridione con il coraggio di «pensare insieme» Con la pubblicazione del documento “Per un Paese solidale”, il Mezzogiorno torna al centro dell’attenzione della Chiesa italiana.
Frutto di un’ampia riflessione collegiale, esso si inserisce con l’autorità morale dei vescovi in un dibattito sulle emergenze del Sud che negli ultimi tempi, a partire da ottiche differenti e secondo sensibilità politiche e culturali articolate, è di nuovo attuale.
La Chiesa invita a guardare al Mezzogiorno «con amore», a condividerne i bisogni e le speranze.
Fa appello all’intelligenza, alla creatività, al coraggio di un «pensare insieme», all’assunzione di una responsabilità nuova, riponendo grande speranza nei giovani del Sud.
Sono proprio loro, in qualche modo, i protagonisti del documento, sollecitati continuamente al duro ma necessario compito del riscatto da modelli di pensiero individualisti e nichilisti e da strutture che sfruttano e abbruttiscono il territorio.
Sono loro a essere stimolati a valorizzare il patrimonio morale e religioso che il Mezzogiorno, nonostante tutto, sa ancora esprimere, incoraggiati a sperimentare nuove strade nello sviluppo economico, chiamati a favorire «un cambiamento di mentalità e di cultura» per vincere «i fantasmi della paura e della rassegnazione» (n.
16).
Lo spettro di osservazione del documento è ampio, perché tocca mali antichi come il fatalismo, emergenze moderne come la questione ecologica, e tematiche recentissime come il federalismo, sul quale il giudizio dei vescovi è chiaro: esso non deve accentuare le distanze tra le diverse parti d’Italia ma saper essere «solidale, realistico e unitario» (n.
8), senza che lo Stato rinunci a proteggere i diritti fondamentali di tutti gli italiani.
Il male più oscuro del Mezzogiorno continua a essere la criminalità organizzata: le «mafie – viene detto in modo chiaro e perentorio – sono strutture di peccato»; esprimono «una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione»; rappresentano «la configurazione più drammatica del “male” e del “peccato”» (n.
9).
La condanna è netta, senza ombre né esitazioni: riecheggiano le parole forti di Giovanni Paolo II ad Agrigento e a Napoli.
Oltre che nei giovani, la speranza dei vescovi è riposta nelle comunità ecclesiali e nella loro capacità di essere luogo e laboratorio di idee e fatti concreti, come dimostrano le cooperative e le aziende promosse grazie al Progetto Policoro.
Da tempo la parte migliore delle Chiese del Sud si è allineata con la parte migliore della società civile per combattere ogni forma di illegalità, per promuovere una mobilitazione morale, dimostrando quanto le strutture ecclesiali siano profondamente calate nella realtà meridionale e di quale potenziale di cambiamento esse dispongano.
All’orizzonte del Mezzogiorno non c’è solo l’esigenza di un’economia sana.
È necessario dare spazio anche alla cultura del bene comune, della cittadinanza, del diritto, della buona amministrazione e dell’impresa nel rifiuto dell’illegalità.
Sono valori etici, culturali e antropologici non da porre in alternativa alle regole dell’economia, ma da intendere piuttosto come motori per lo sviluppo integrale del Sud: davvero ci vuole «coraggio e speranza» (n.
20).
La Chiesa, in questa emergenza educativa, rivendicando «un ruolo nella crescita del Mezzogiorno» (n.
16), mette in campo il suo patrimonio religioso, morale e culturale, puntando sull’associazionismo laicale, sui movimenti e soprattutto sulle parrocchie.
Molto dipenderà dal livello di ricezione di questo documento nelle Chiese del Sud come in quelle del Nord, cioè dalla capacità delle comunità ecclesiali di farne non solo oggetto di studio, discussione e confronto nel breve periodo, ma di considerarlo come mappa orientativa del decennio che si sta aprendo.
Decisivo, in questo senso, sarà il grado di coinvolgimento di tutte le diocesi e la loro disponibilità a confrontarsi e collaborare in prospettiva nazionale.
«Ogni Chiesa custodisce una ricchezza spirituale da condividere con le altre Chiese del Paese» (n.
15): non è una sfida di poco conto.
Vittorio De Marco Chiesa e Mezzogiorno: «Sviluppo nella coesione» Il «cancro» delle mafie.
L’inadeguatezza delle classi dirigenti.
Il dissesto ambientale.
La disoccupazione, il lavoro nero, la povertà delle famiglie, l’emigrazione dei giovani.
Ma anche il mix fra modernizzazione acritica e gli «antichi germi» del familismo e dell’omertà: quante ferite, nella carne viva del Sud.
Problemi drammatici – denunciano i vescovi italiani – aggravati dalla crisi economica e dall’«egoismo individuale e corporativo» cresciuto in tutto il Paese, che rischiano «di tagliare fuori il Mezzogiorno dai canali della ridistribuzione delle risorse trasformandolo in un collettore di voti per disegni politico-economici estranei al suo sviluppo».
Ma non è del male l’ultima parola.
Nella Chiesa e nella società del Sud ci sono risorse di socialità, cultura, spiritualità, che alimentano la speranza del riscatto oltre «ogni forma di rassegnazione e fatalismo».
Un riscatto che prenda forza dall’«umanesimo cristiano», riconosca la «sfida educativa» quale «priorità ineludibile» e abbia nel federalismo solidale uno strumento efficace.
Fra magistero e «testimoni».
Proprio con un invito «al coraggio e alla speranza» si conclude il documento della Cei Per un Paese solidale.
Chiesa italiana e Mezzogiorno, diffuso ieri (testo integrale al centro del giornale), che riprende «la riflessione sul cammino della solidarietà nel nostro Paese» a vent’anni dalla pubblicazione del documento Sviluppo nella solidarietà (1989) e alla luce del convegno Chiesa nel Sud, Chiese del Sud (Napoli, 12-13 febbraio 2009).
Il documento si apre passando in rassegna le emergenze «vecchie e nuove» del Mezzogiorno; nella seconda sezione, Per coltivare la speranza, i vescovi additano risorse ed espressioni del «nuovo protagonismo della società civile e della comunità ecclesiale» (come il Progetto Policoro); la terza sezione, Le risorse della reciprocità e la cura per l’educazione, mette a fuoco missione e ruolo della comunità ecclesiale.
Pagine ricche di citazioni e riferimenti.
Alla dottrina sociale della Chiesa, anzitutto, ma anche a quei testimoni e maestri che con la parola e la vita hanno aperto spazi di profezia e di liberazione: figli del Sud come Pino Puglisi, Giuseppe Diana, Rosario Livatino, Luigi Sturzo, Aldo Moro.
E “padri” venuti da lontano come il Giovanni Paolo II che il 9 maggio 1993, nella Valle dei Templi, ad Agrigento, disse parole definitive sulla mafia.
La nuova questione meridionale.
A muovere la riflessione dei vescovi è la «constatazione del perdurare del problema meridionale» che oggi, come vent’anni fa, chiama la Chiesa italiana agli «ineludibili doveri della solidarietà sociale e della comunione ecclesiale».
Le «genti del Sud» siano «le protagoniste del proprio riscatto, ma questo non dispensa dal dovere della solidarietà l’intera nazione», disse Wojtyla nel 1995 al Convegno ecclesiale di Palermo.
Che cos’è cambiato in questi vent’anni? La geografia politica, il sistema di rappresentanza nel governo degli enti locali, l’avvio della privatizzazione delle imprese pubbliche, il venir meno del sistema delle partecipazioni statali, la fine dell’intervento straordinario della Cassa del Mezzogiorno («di cui non vogliamo dimenticare gli aspetti positivi», sottolineano i vescovi).
Inoltre: tanti migranti giunti dall’Africa, dall’Asia, dall’Est Europa hanno trovato nel Sud «il primo approdo della speranza»; e il Sud è «laboratorio ecclesiale in cui si tenta», dopo aver dato soccorso e accoglienza, «un percorso di giustizia e promozione umana e un incontro con le religioni professate dagli immigrati e dai profughi».
La sfida del federalismo solidale.
La realtà del Sud, scrivono i vescovi, è quella di uno «sviluppo bloccato» dove gli aiuti che arrivano non sempre “aiutano” davvero; dove l’elezione diretta degli amministratori locali «non ha scardinato meccanismi perversi o semplicemente malsani nell’amministrazione della cosa pubblica»; dove la condizione femminile soffre ancora emarginazione e discriminazioni, mentre ci sono donne salite ai vertici delle mafie; dove ecomafie, crisi dell’agricoltura, fragilità del territorio e dell’economia pongono ulteriori ipoteche sulla via del riscatto e impediscono al Sud di assumere il ruolo che gli compete nel cuore del Mediterraneo e in Europa.
Queste emergenze invocano un «federalismo solidale, realistico e unitario» capace di responsabilizzare il Sud rafforzando l’unità del Paese: un orizzonte cruciale, nell’imminenza «del 150° anniversario dell’unità nazionale».
Mafia, struttura di peccato.
La criminalità organizzata, ormai ramificata in tutto il Paese, «non può e non deve dettare i tempi e i ritmi dell’economia e della politica meridionali, diventando il luogo privilegiato di ogni tipo di intermediazione e mettendo in crisi il sistema democratico del Paese».
«Le mafie sono la configurazione più drammatica del male e del peccato», scrivono i vescovi: non mera «espressione di una religiosità distorta» bensì «strutture di peccato», «forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione».
«Solo la decisione di convertirsi e di rifiutare una mentalità mafiosa permette di uscirne veramente», a costo di «subire violenza e immolarsi.
Si deve riconoscere – ammettono i vescovi – che le Chiese debbono ancora recepire sino in fondo la lezione profetica di Giovanni Paolo II e l’esempio dei testimoni morti per la giustizia».
Educazione e riscatto.
Nella società e nella Chiesa ci sono risorse culturali e spirituali per il cammino del riscatto.
La Chiesa, in particolare, sta con «quanti combattono in prima linea per la giustizia sulle orme del Vangelo e operano per far sorgere», come chiese Benedetto XVI il 7 settembre 2008 a Cagliari, «una nuova generazione di laici cristiani» al servizio del bene comune.
Consapevole di essere «fattore di sviluppo e di coesione» sociale, la Chiesa si sente chiamata alla sfida educativa e alla trasformazione delle coscienze, testimoniando lo stile della condivisione e della comunione anzitutto al proprio interno.
Il problema della sviluppo non è solo economico: è «etico, culturale, antropologico».
Perciò la Chiesa si impegna ad «alimentare costantemente le risorse umane e spirituali» da investire nella «cultura del bene comune, della cittadinanza, del diritto, della buona amministrazione e della sana impresa nel rifiuto dell’illegalità».
Dunque: «L’esigenza di investire in legalità e fiducia sollecita un’azione pastorale che miri a cancellare la divaricazione tra pratica religiosa e vita civile e spinga a una conoscenza più approfondita dell’insegnamento sociale della Chiesa, che aiuti a coniugare l’annuncio del Vangelo con la testimonianza delle opere di giustizia e di solidarietà».
Lorenzo Rosoli  «Il Paese non crescerà se non insieme».
A ribadirlo sono i vescovi italiani, nel documento dal titolo Per un Paese solidale.
Chiesa italiana e Mezzogiorno, diffuso dalla Cei.
«È indispensabile che l’intera nazione conservi e accresca ciò che ha costruito nel tempo», a partire dalla consapevolezza che «il bene comune è molto più della somma del bene delle singole parti».
IL TESTO INTEGRALE DEL DOCUMENTO