Catechesi: la frontiera della fede

Nella Chiesa italiana, sia al livello dell’episcopato sia a quello delle comunità cristiane, l’ambito della catechesi è da anni uno tra i più attenti ai cambiamenti che attraversano la società, e di conseguenza alla trasformazione che anche il modo di proporre la fede deve affrontare, per meglio corrispondere ai soggetti che oggi si avvicinano alla comunità credente e alle loro domande.
Gli ultimi dieci anni hanno visto una modificazione piuttosto profonda della catechesi verso un modello d’iniziazione cristiana ispirato al percorso catecumenale, adatto al primo annuncio in un contesto che non può più presupporre la fede; e tale modificazione è stata guidata dai vescovi e insieme portata avanti con molti tentativi e sperimentazioni dalle diverse realtà locali, accompagnate dall’Ufficio catechistico nazionale (cf.
riquadri a p.
491 e 496).
Gli orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il decennio 2010-2020, con a tema la «sfida educativa», saranno d’indirizzo in parte anche per la catechesi, che tuttavia potrebbe essere oggetto, nel prossimo futuro, di un nuovo documento progettuale condiviso e di un ripensamento degli strumenti operativi (i catechismi).
Il testo dell’articolo è disponibile in formato pdf Visualizza il testo dell’articolo Regno-att.
n.14, 2010, p.488

Ecologia e religione

 Il testo è un estratto dall’intervento con cui il cardinal Scola apre oggi I Dialoghi di San Giorgio della Fondazione Giorgio Cini, sul tema Protecting nature or saving creation? Ecological conflicts and religious passions.
Il testo integrale su www.angeloscola.it Sono in grado le religioni, come hanno potuto fare in altri campi in passato, di mobilitare energie che contribuiscano ad una vera e propria conversione ecologica? Questo domanda una sorta di escatologia radicale, come afferma Latour, cioè un lungo e lento cambiamento che investe molti ambiti, riferito ad una enorme quantità di dettagli e, soprattutto, dipendente da un’infinità di gesti che, ecco la cosa più ardua, chiedono un rovesciamento di mentalità a miliardi di persone.
Le passioni religiose possono venire in soccorso alla deboli energie che oggi sembrano caratterizzare i numerosi conflitti ecologici? La domanda contiene un invito, neppure troppo implicito, a porre in modo radicalmente nuovo il rapporto eco-logia e teo-logia, per affrontare scopertamente i conflitti interni ai due mondi.
Mi limito ad un suggerimento di carattere generale.
Non voglio entrare nel dibattito sulla nozione di natura, che quasi tutti, sia in campo scientifico che in campo teologico, danno ormai come spacciata e considerano responsabile di quasi tutti i mali che affliggono l’umanità.
Personalmente sono dell’idea che, dal momento che sempre qualcosa si dà a qualcuno, un quid ultimo sia ineliminabile.
E, fin da Aristotele, cos’era la fysis se non questa molteplice, dinamica datità? Tuttavia è vero, e lo è in modo particolare per il cristianesimo, che in nessun modo si può parlare di natura se non in termini di creatura.
Ed è proprio una adeguata riflessione sulla creazione ad aprire la via per ripensare il rapporto tra ecologia e teologia.
La creazione infatti mette in campo la relazione.
E l’uomo postmoderno si trova posto di fronte ad una bruciante alternativa.
Passata l’epoca delle utopie, con il fitto buio che ha gettato sul secolo scorso, l’antropologia postmoderna assume un marcato carattere pascaliano.
Ha l’andamento della pregnante scommessa intorno ad un’alternativa radicale: l’uomo del terzo millennio vuole essere solo l’esperimento di se stesso o vuole essere un io-in-relazione? L’antropologia per essere adeguata deve essere drammatica.
Deve accettare che l’uno insuperabile in cui l’io consiste si dia sempre in modo duale.
Sono uno, per questo posso dire io, ma sono sempre uno di due: uno di anima-corpo; uno di uomo-donna; uno di individuo-comunità, uno di uomo-cosmo.
Pertanto l’alterità mi costituisce come dimensione interna all’io, che per questo non può esistere se non in relazione.
È lo stesso carattere drammatico o polare dell’io a mostrarlo apertamente.
Per questo il modo giusto di nominare l’io è io-in-relazione.
L’intrecciarsi delle polarità costitutive rivela l’autentico rapporto di creazione, come la permanente amorosa relazione di Colui che chiama all’essere tutta la realtà e continua ad accompagnarla.
Secondo la tradizione giudaica e quella cristiana Dio ha fatto della relazione d’amore la ragione del suo compromettersi con la famiglia umana lungo tutta la storia.
Egli, per il popolo ebraico e per i cristiani è il Dio con noi, dove il noi mette in campo tutte le polarità-relazioni costitutive cui abbiamo fatto cenno.
La relazione, sempre polare, dell’io con se stesso, con gli altri, con il cosmo con Dio è la strada inevitabile per poter dire io in maniera umanamente soddisfacente.
Come non vedere in questa prospettiva l’improcrastinabile compito di inscrivere la buona relazione con il creato nei cerchi intersecantesi delle altre relazioni costitutive? Questo suggerimento, me ne rendo conto, è troppo generale per non rischiare di essere ovvio.
Tuttavia mi sembra in grado di mostrare il ponte che esiste tra ecologia e teologia.
Ponte che anche le scienze più avvedute oggi stanno costruendo, avendo abbandonato una vulgata ecologista fondata su un mitico ritorno alla natura buona ed innocente.
È vano il grido di Baudelaire: Pan è tornato!.
Tanto meno si può dar credito ad Assmann quando parla di Mosè come l’egiziano.
La via dell’incontro urgente e collaborativo tra ecologia e teologia è quella di continuare, con amore, la logica della creazione.
Una logica ad un tempo scientifica, religiosa e politica.
Per questo è logica di giustizia e di sviluppo integrale dell’umanità.
Le religioni possono dire la loro in merito alle questioni ambientali quando si esprimono in soggetti, personali e comunitari, disponibili alla narrazione e impegnati a mostrare le ragioni valide di un’adeguata esperienza umana.
Le religioni infatti aprono all’universale concreto perché consentono ad ogni singolo di fare spazio al desiderio infinito che lo abita a cui nessuna natura potrà mai bastare.
Angelo Scola, Patriarca di Venezia, in “La Stampa” del 13 settembre 2010

I geni non spiegano il genio

Determinismo o libero arbitrio? Questo antico dibattito torna oggi d’attualità nella ricerca genetica e in quella sui neuroni.
Veniamo generati nei nostri geni? I geni esistono nella loro peculiarità prima che sorga la nostra coscienza? Pilotano il nostro io nei suoi comportamenti? Determinano quindi il corso delle nostre vite e spiegano perché diventiamo come siamo?  Il noto giornalista americano David Brooks ha scritto nel 2007 ( Herald Tribune ): «Dal contenuto dei nostri geni, dalla natura dei nostri neuroni e dalla lezione della biologia evoluzionista è diventato chiaro che la natura è costituita da competizione e conflitti di interessi.
L’umanità non è venuta prima delle lotte per la propria affermazione, le lotte per l’affermazione sono profondamente radicate nelle relazioni umane».
Ne traeva come conseguenza la naturale disposizione alla competitività del capitalismo e una ‘visione del mondo tragica’: «Siccome la natura umana è predisposta così aggressivamente alla lotta per il potere abbiamo bisogno di uno Stato forte, di un’educazione dura e di una visione del  mondo tragica».
Si tratta del risultato di una ricerca o dell’interesse di un’ideologia? Io credo si tratti di pura ideologia naturalistica, perché si fonda sulla riduzione dell’imprevedibile sistema ‘uomo’ ai suoi geni e neuroni prevedibili.
Così sorge la fatale impressione di vivere in un mondo chiuso nella sua causalità, come se la nostra libertà, che pure percepiamo nel «tormento della scelta», fosse un’illusione.
Se così fosse qualsiasi criminale davanti a un tribunale dovrebbe appellarsi all’incapacità di intendere e di volere, per poi  essere assolto in quanto non imputabile.
Craig Venter è stato il primo a decifrare il genoma umano.
Ha decodificato anche il proprio genoma, che è stato pubblicato su tutti i maggiori quotidiani.
Se lo potessimo leggere sapremmo poi chi è Craig Venter? Se egli stesso può leggerlo viene poi a conoscere se stesso? Quando l’ho incontrato di persona a Taiwan due anni fa mi ha raccontato quanto la guerra in Vietnam, combattuta da giovane, lo avesse cambiato.
Il suo genoma non esprime nulla di tutto ciò, naturalmente, ma allora perché la tesi deterministica secondo la quale saremmo pilotati dai nostri geni e non avremmo alcuna libertà di reagire alle esperienze di guerra in questo o quell’altro modo? Facciamo ancora un esempio: nella rivista scientifica Nature Genetics è uscito di recente un articolo nel quale veniva dimostrato da ricerche svolte in tutto il mondo che sono i geni a determinare se i giovani diventino o meno fumatori.
Lo studio documentava per la prima volta i fattori genetici a causa dei quali nei recettori cerebrali della nicotina si determina in quale modo si sviluppi la dipendenza e il comportamento rispetto al fumo.
Io ho fumato molto dal 1956 al 1976, poi ho smesso da un giorno all’altro.
Come ho potuto farlo? La ricerca genetica, per quanto ho potuto seguirla, ha da tempo oltrepassato, nei suoi seri esponenti, questo riduzionismo ideologico.
L’immagine della competitività del gene egoista, delineata da Richard Dawkins nel 1978, è influenzata dal darwinismo sociale.
I geni sono di fatto più flessibili dei corpi solidi, si «attivano e disattivano» e reagiscono essi stessi agli influssi ambientali.
Le nostre esperienze e le nostre relazioni con altre persone, in cui facciamo esperienza di accoglienza o di rifiuto, influenzano anche il funzionamento dei nostri geni.
Il medico tedesco Joachim Bauer, che si occupa di psicosomatica, afferma quindi: «I geni non pilotano soltanto, sono anche pilotati» ( Principio Umanità, 2006).
Anche nelle ricerche sull’intelligenza vengono considerate oggi più le condizioni di vita che le predisposizioni genetiche.
Giungo al risultato secondo cui il determinismo genetico e neurologico non è in grado di abolire la nostra libertà, la nostra responsabilità né la nostra imputabilità.
Lo si può approvare o rincrescersi, ma le ideologie non spiegano solo i risultati di alcune ricerche, rappresentano anche sempre gli interessi di una parte.
Chi ha oggi interesse ad abolire la nostra libertà e a rendere manipolabili gli uomini? (traduzione dal tedesco di Daria Dibitonto) in “Avvenire” del 12 settembre 2010

Non solo benedizioni

Non è stato solo il Sinodo «delle benedizioni alle unioni gay».Certo, il pubblico ha gremito l’Aula sinodale (troppo piccola, ormai, per un’assemblea di queste proporzioni: si è parlato anche di questo) soprattutto in occasione dei dibattiti su questo tema.
Come ogni anno, tuttavia, i lavori hanno spaziato lungo tutto lo spettro della vita delle nostre chiese.
Le difficoltà sono numerose e le note preoccupate abbondano.
Quello che certamente non manca è la voglia di discutere: troppo spesso, pare di poter dire, ciò accade in modo abbastanza confuso e, come pudicamente osservava, in privato, un ospite tedesco, «non del tutto strutturato», ma sempre con grande passione per un modello di chiesa non gerarchico né clericale.
Siamo orgogliosi di questo nostro modo di essere.
Quando però tale orgoglio tende ad andare sopra le righe, c’è chi sa rimettere le cose a posto: lo ha fatto, a esempio, la Moderatora, ricordando che la lettura comunitaria e personale della Bibbia, oggi, non è affatto un monopolio protestante: anzi, siamo noi a dover imparare da altri, anche a questo riguardo.
Un altro lampo ecumenico è stato l’intervento, di alto profilo, del vescovo di Pinerolo, mons.
De Bernardi, autocritico, teso all’ascolto, esplicito e al tempo stesso molto discreto.
In tempi ecumenicamente deprimenti, ciò è, semplicemente, edificante.
Ma il dialogo deve andare oltre.
Solo un esempio.
Il Sinodo ha accolto un documento sulle questioni etiche legate alla ricerca sulle cellule staminali, preparato da una commissione che da molti anni lavora su queste tematiche.
In quel testo, non si lanciano proclami, bensì si argomenta.
Sarà possibile discuterne, tra chiese diverse, nel merito, e non a colpi di slogan (vita contro morte, Adamo contro Frankenstein ecc.)? Un Sinodo multicolore Il Sinodo, ormai, è multicolore, nelle presenze, nei culti, forse un po’ meno negli interventi (a parte,come diremo, alcune occasioni…).
«Essere chiesa insieme» è ben più di uno slogan o dell’ennesima sigla (Eci, appunto): si tratta invece, con ogni probabilità, della sfida decisiva dei prossimi decenni.
Sembra farsi largo la convinzione che il confronto tra le sensibilità e le culture debba articolarsi intorno alla lettura comune della Scrittura.
Che vi siano tradizioni, sensibilità e metodi diversi è chiaro; e che questo determini difficoltà di rilievo non può né deve stupire.
Un intenso lavoro, tuttavia, è già in corso (si pensi soltanto al programma interculturale per la formazione dei predicatori, coordinato da Corinne Lanoir e Yann Redalié), Tavola valdese e Opcemi sono, con ogni evidenza, strenuamente impegnate su questo fronte, così come la Federazione giovanile evangelica italiana (Fgei).
In questo, le nostre chiese possono contare sul patrimonio di esperienza accumulato dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei).
Certo, i fatti corrono più velocemente delle strategie ecclesiastiche e siamo tutti, sempre, impreparati.
Un motivo di più per sostenere nella preghiera quanti, dai dirigenti ecclesiastici ai giovani candidati al ministero, sono in prima linea su questo fronte.
Pochi membri e pochi soldi L’emorragia di membri di chiesa continua: 243 in meno nell’ultimo anno, l’equivalente di una chiesa di medie proporzioni.
Parallelamente, aumentano le difficoltà finanziarie: non solo non si raggiungono gli obiettivi, ma le contribuzioni del 2009 sono state inferiori a quelle dell’anno precedente e c’è il rischio che il tonfo si ripeta.
Solo pochi anni fa, nell’aula sinodale risuonavano spesso banalità del tipo: «il problema non sono i numeri».
Oggi, se non altro, siamo più realisti.
I numeri sono, come minimo, la spia di un problema drammatico.
C’è ancora chi si sforza di minimizzarlo, compiacendosi per altri segnali («diminuiscono i membri, ma cresce il numero di coloro che destinano a noi 1’8 per mille»; le nostre prese di posizione su temi etici suscitano interesse; e simili), ma la consapevolezza dell’emergenza è in crescita.
Certo, la chiesa esiste per predicare l’evangelo e non per autoriprodursi; che, però, senza membri non ci sia nemmeno l’annuncio, non è una sofisticheria teologica particolarmente oscura.
Il Sinodo l’ha capito.
E ha anche capito che la faccenda ha a che vedere con una difficoltà di tipo spirituale, legata alla disponibilità ad accogliere l’evangelo come elemento che trasforma la vita, raccoglie la comunità, induce a pregare, a cantare, a impegnare il tempo e il denaro.
 Qui c’è molto da lavorare.
Le benedizioni delle unioni «omoaffettive» Si ha un bel dire che la faccenda non può essere ridotta all’alternativa sì/no.
La verità è che il semplicismo non è monopolio dei giornali.
L’alto tasso di emotività investito in questo dibattito non ha sempre favorito il rigore dell’argomentazione, né la capacità di comprendere fino in fondo il punto di vista contrario al proprio.
Fortunatamente la Commissione d’esame ha presentato un ordine del giorno articolato ma chiaro.
Le chiese in ricerca su questo tema sono invitate a procedere secondo quanto la responsabilità pastorale consiglia loro.
Verosimilmente, dunque, accadrà che nelle nostre chiese si celebrino benedizioni di unioni tra persone dello stesso sesso.
La votazione è stata assai chiara, il Sinodo non si è affatto «spaccato».
È vero invece che gli interventi contrari alla decisione poi assunta sono stati molto forti e, in gran parte, provenienti da fratelli africani.
Il dibattito non è affatto chiuso.
A tutte e a tutti è chiesto un notevole senso di responsabilità: lasciar cadere le provocazioni, ascoltare l’altro prima di parlare (più di quanto sia accaduto in Sinodo, questo mi sentirei di dirlo), non contrapporre slogan a slogan, soprattutto pregare, «favorevoli» e «contrari» insieme, ricordando che, in questa ricerca non siamo soli.
Ci sono quanti tra noi, italiani e immigrati, temono derive pericolose, ci sono cattolici, ortodossi, evangelicali che appaiono anch’essi preoccupati e a tratti non particolarmente amichevoli; ma ci sono anche le chiese sorelle che da tempo si sono mosse in direzioni analoghe.
Poi c’è il Signore, che magari strilla poco, ma ascolta molto.
E giudica, sia .i «favorevoli» sia i «contrari».
Se ce ne ricordassimo, il più sarebbe già fatto.

Agostino Marchetto: “Respingono gli innocenti impossibile stare zitti”

Monsignor Agostino Marchetto, dispiaciuto per queste sue improvvise dimissioni? «Quando si lascia un lavoro svolto per tanti anni c’è sempre una certa amarezza.
Capita a tutti.
Era dal 2001 che ero segretario del Pontificio Consiglio dei migranti, un incarico che ho svolto con passione e dedizione.
Più che un lavoro è stata una missione che mi ha portato a condividere uno dei più grandi drammi dei nostri tempi, i movimenti migratori delle popolazioni in difficoltà troppe volte vittime di ingiustizia, sfruttamento, violenze.
Peccati gravissimi che ogni uomo, specialmente se è un uomo di Chiesa, non deve mai tollerare».
E lei, in effetti, ha sempre denunciato ad alta voce questi peccati.
Ma molti politici, e persino qualcuno in Segreteria di Stato, a volte l’hanno criticata con durezza.
Ci è rimasto male? «Solo il silenzio di fronte alle ingiustizie fa male.
Le critiche non mi hanno mai toccato e, tantomeno, non mi hanno mai condizionato.
Ma come è possibile stare zitti di fronte a migliaia di innocenti che vengono respinti sulle altre sponde del Mediterraneo, come succede ad esempio con la cosiddetta politica dei respingimenti inaugurata, purtroppo, dai governanti italiani? Come è possibile girarsi dall’altra parte quando dalla Francia una intera etnia rom viene espulsa indiscriminatamente perché così ha deciso il presidente Sarkozy in nome di una discutibile politica della sicurezza che colpisce donne, bambini ed innocenti, contravvenendo alle più elementari norme di accoglienza decise dagli organismi europei?».
Tematiche portate alla ribalta da Gheddafi che a Roma ha chiesto alla Ue 5 miliardi di euro l’anno per bloccare i flussi migratori e ha lanciato una campagna di islamizzazione dell’Europa.
Preoccupato? «Di fronte a quello che abbiamo visto e sentito durante questa visita non ci sono parole.
E certamente è giusto così, perché non vale proprio la pena commentare quanto detto e preconizzato da Gheddafi.
Anzi più se ne parla, anche con appunti critici, e più ci si dà rilievo.
I problemi di poveri ed immigrati si affrontano e si risolvono con ben altri approcci».
Malgrado il suo impegno accanto agli ultimi, spesso le gerarchie vaticane sono intervenute per puntualizzare che lei parlava a titolo personale.
«Io ho sempre parlato liberamente, senza censure e sempre in difesa dei sofferenti, rifacendomi ogni volta alla dottrina sociale della Chiesa.
Altra cosa è parlare a nome di tutta la Chiesa.
E qualche volta ha fatto bene la Segreteria di Stato a farlo sapere, perché a nome di tutta la Chiesa può parlare solo il Santo Padre e, su sua delega, la stessa Segreteria di Stato».
Ora però non potrà più parlare per difendere gli immigrati.
O no? «Nella Chiesa c’è sempre libertà di parola.
Ma sono stato io a chiedere al Papa di essere sollevato dall’incarico.
Lo ringrazio per aver accettato la mia richiesta.
Ed ora potrò dedicarmi allo studio della storia del Concilio Vaticano II.
Ma, se necessario, la mia voce non tacerà mai di fronte alle ingiustizie».
intervista ad Agostino Marchetto, a cura di Orazio La Rocca in “la Repubblica” del 2 settembre 2010

Un metodo infalllibile per rinnovare la teologia

Se alla genesi della teologia sta il mistero cristiano, ed essa si può definire come “intelletto della fede”, non è pensabile che in una determinata epoca la si possa completamente rifare da capo.
Nella diversità dei tempi essa viene alimentata da una tradizione ininterrotta di contenuti e anche di linguaggio, che non ammette discontinuità drastiche e rivoluzionarie, pena la perdita dell’identità.
È lecito almeno nutrire qualche perplessità di fronte a un teologo che sia persuaso di proporre dottrine teologiche inusitate e singolari, mai insegnate prima di lui.
Non per questo, tuttavia, la teologia è destinata a una pura ripetizione.
La storia stessa della teologia mostra quanto, senza spezzare la continuità, essa si sia variamente e anche profondamente rinnovata: ma non per aver in certo modo occultato o disatteso il mistero; al contrario, per averlo lasciato emergere con più forza e coerenza.
La teologia non si lascia impressionare e condizionare dal mito del divenire e del progresso, consapevole com’è che essa è nata e di continuo rinasce dalle risorse inesauste e immodificabili della rivelazione divina che si è compiuta e non si logora, dalla comunione con la Parola di Dio, antica e sempre nuova.
È anche vero che al rinnovamento della teologia può concorrere una nuova filosofia, ma a condizione che essa offra, per così dire, uno spazio più aperto alla prevalenza e all’intelligenza del mistero e che venga esercitata all’interno dell'”intelletto della fede”.
È significativo che il geniale storico della teologia medievale, Marie-Dominique Chenu, affermi che “non è l’ingresso di Aristotele a determinare il pensiero di san Tommaso, così come non è la rinascita dell’Antichità a costituire la teologia del secolo XIII”.
Questa rinascita ne rappresenta soltanto una componente di rinnovamento: il suo impulso e il suo incremento sono assegnati all'”evangelismo”, come egli lo chiama.
Senza dire che non potrà mai essere la filosofia a giudicare la validità di una teologia: questo giudizio spetta solo alla Parola di Dio, mentre la stessa teologia potrà giudicare la pertinenza o meno di una filosofia a concorrere all’intelligenza della fede.
* Qui, però, non ci interessa illustrare la relazione tra filosofia e teologia cristiana, ma indicare la scelta grazie alla quale la teologia potrebbe e dovrebbe ricevere un profondo rinnovamento o nuovo assestamento: una scelta del resto imprescindibile, perché fondata sull’evento da cui nasce la fede e quindi l'”intelletto della fede”.
Questa via è il cristocentrismo.
Veramente, non si tratta affatto di una novità.
La teologia cristiana ha sempre avuto al suo centro Gesù Cristo; è nata e si è sviluppata dal suo evento.
Ma forse questa originaria centralità richiede una traduzione più rigorosa, più coerente e più completa.
Anzitutto a partire dalla stessa definizione di cristocentrismo.
Esso non significa soltanto l’eccellenza di Cristo rispetto a tutto il resto, ma la sua predestinazione a essere la ragione incondizionata di tutto quello che Dio ha chiamato e chiama all’esistenza.
Ma occorrono altre imprescindibili e essenziali precisazioni.
Quando si parla di cristocentrismo, non si intende solo affermare il primato del Verbo, ma il primato o la “precedenza” nel disegno di Dio del Verbo incarnato, morto e risuscitato, mediante il quale, nel quale e in vista del quale, “furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili” (Colossesi 1, 15-17).
Ovviamente, non in alternativa ma come a compimento della prospettiva giovannea, secondo la quale non v’è nulla che non sia stato fatto per mezzo del Verbo (Giovanni 1, 3).
Il “Primeggiante su tutte le cose” (Colossesi 1, 18) è, esattamente, il Crocifisso glorificato, che tutto antecede, e da cui tutto diparte.
È come dire che Gesù redentore, con la grazia del suo perdono, è il fondamento ontologico e il movente storico di ogni cosa (cfr.
Colossesi 1, 17), l’Oggetto dell’eterno “proposito” di Dio.
La prima lettera di Pietro parla del “sangue prezioso di Cristo, agnello senza macchia”, “predestinato già prima della fondazione del mondo”, “manifestato negli ultimi tempi” (1, 19-20).
E quanto ai profeti afferma che “cercavano di sapere quale momento e quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che sarebbero seguite” (1, 11).
Ma se Gesù risorto da morte è il Predestinato, vuol dire che la figura di umanità originariamente ideata e “preferita” da Dio è l’umanità glorificata del Figlio, al cui successo è orientata tutta la storia.
In essa ogni umanità trova la sua ragione e il suo modello: tutti gli uomini sono predestinati, creati “in grazia”, ossia “predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio, perché egli sia il primogenito di molti fratelli” (Romani 8, 29).
Noi possiamo definire tutto quanto abbiamo descritto coi termini di Paolo: “Mistero di Dio che è Cristo” (Colossesi 2, 2), o più precisamente: “Sapiente mistero di Dio” che è “Cristo crocifisso” (cfr.
1 Corinzi 1, 21.23).
* Ebbene, il compito della teologia è l’esplorazione di questo mistero.
Chi vi si dedica ha la missione di “parlare della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli” (1 Corinzi 2, 7).
È su questo “realismo” che si edifica la teologia cristiana, a cui non interessa stemperarsi nel mondo dei piani o dei disegni divini ipotetici.
Quello che avrebbe potuto fare Dio lo sa soltanto lui.
Tutto è stato creato nella grazia di Gesù crocifisso e risorto.
In particolare, è stata motivata su quella grazia la natura dell’uomo.
Una “natura pura”, per un “puro” fine “naturale”, non è mai esistita e di essa noi non possiamo sapere nulla.
Di fatto, l'”Originale” che alla sacra dottrina importa anzitutto conoscere e, quindi, il primo oggetto dell’interesse teologico, è il Crocifisso glorioso da sempre predestinato, e, quindi, la sua vita con i suoi avvenimenti, nei quali avviene la manifestazione particolareggiata dell’eterno disegno generato e motivato dalla divina misericordia.
In questo senso la teologia cristiana è originariamente cristica: il Cristo risorto da morte descrive e offre esaurientemente tutto il suo oggetto.
Egli è l’Oggetto che si tratta di capire, in quanto concreta e storica “narrazione” del disegno (cfr.
Giovanni 1, 18).
È la dimensione che la cristologia deve assumere.
Ma Cristo non ferma a sé: egli è il Figlio e, perciò, è il rimando al Padre, che nessuno ha veduto e del quale è l’epifania, ed è l’attestazione dello Spirito.
In lui si ritrova la Trinità, che si rivela come Trinità creatrice e misericordiosa, che sta al principio di un ordine voluto come una iniziativa di misericordia.
È l’ordine che il teologo è chiamato a studiare, che riguarda particolarmente l’uomo, che appare però preceduto, prima della sua creazione, da un mondo angelico già segnato da Cristo e dalle decisioni relative a lui: di accoglienza, ma anche di rigetto, ossia di peccato.
In particolare, Cristo ci disvela un Dio che, nel suo amore misericordioso, dona il Figlio, predisposto come perdono del peccato dell’uomo, il quale trova, così, il suo vantaggio non nel venire al mondo, ma nell’essere redento.
Come scrive sant’Ambrogio: “Non prodesset nasci, nisi redimi profuisset” (Expositio evangelii secundum Lucam, II, 41-42).
La sacra dottrina tratta allora dell’antropologia, cioè dell’uomo esistente unicamente come disposto nella grazia e nella gloria della Croce: una grazia e una gloria in atto nei sacramenti, che Tommaso d’Aquino vede tutta quanta sospesa all'”energia della passione di Cristo” (Summa Theologiae, III, 62, 5, c).
È facile allora avvertire di che cosa tratti l’ecclesiologia: esattamente dell’umanità che sale dalla Pasqua di Cristo e si trova configurata  e intimamente associata al Signore risorto da morte.
Quanto all’escatologia, essa è l’esplorazione della gloria e quindi del successo del Crocifisso: una gloria che trascende e attrae la storia ed è il fine per cui l’uomo e con lui tutte le cose sono state create e volute dall’eternità.
Se è vero che la teologia cristiana ha sempre fatto questo, riterrei tuttavia che sia possibile, anzi necessario, ricentrarla in modo ancora più coerente e approfondito sul cristocentrismo.
Solo da qui ne verrebbe un forte, mirabile impulso di rinnovamento, che vanamente si ricercherebbe altrove.
Inos Biffi

Perché il potere ha perso sacralità

Il teologo interviene sulla laicità alle “Parole della politica” Qual è l’esperienza concreta da cui è sorto il concetto di laicità? Io credo che sia la consapevolezza della complessità del rapporto tra il proprio mondo mentale e quello di altri.
Intendo quindi per laicità il metodo che governa il rapporto tra dimensione interiore e dimensione esteriore della vita: la laicità è un metodo che si applica alla relazione tra il foro interiore delle convinzioni ideali e il foro esteriore della convivenza con chi è diverso da noi.
Questa precisazione è essenziale per capire come agire rispetto ai cosiddetti “principi non negoziabili” di cui parla spesso Benedetto XVI.
A mio avviso la non negoziabilità dei principi si dà a livello di foro interiore, nel senso che non si devono tradire i propri ideali, soprattutto quando si agisce in prima persona.
Ma la realtà di un mondo sempre più plurale fa sì che il foro interiore della prima persona singolare non sia mai perfettamente traducibile nel foro esteriore della prima persona plurale.
Perché si possa pronunciare un armonioso noi, ogni singolo io deve modulare la sua musica interiore con quella degli altri.
Solo a questa condizione si avrà una sinfonia e non la cacofonia del conflitto sociale.
Ne viene che a livello di foro esteriore non c’è nulla che non sia negoziabile, perché la negoziazione è l’anima del diritto e della politica nella misura in cui essi sono elaborati all’insegna della democrazia.
Quindi riassumo: nessuna negoziazione a livello interiore dove è in gioco l’anima e l’adesione alla verità; ma concrete negoziazioni a livello di foro esteriore dove è in gioco la relazione armoniosa della convivenza tra uomini sempre più diversi.
Riuscire a mediare queste due dimensioni significa praticare la laicità.
Quanto detto finora però non è sufficiente.
La modernità è stata l’epoca delle distinzioni: la spiritualità dalla religione, la religione dall’etica, l’etica dal diritto, il diritto dalla politica.
Occorreva farlo per fondare su basi razionali la convivenza sociale.
Alla fine però ne è risultata una politica separata dalla spiritualità, dall’etica e ora sempre più anche dal diritto.
Per questo io penso che occorra qualcosa di diverso.
Guardando alla nostra società, a me pare infatti che più laica di così, più priva di sacralità di così, la politica non potrebbe essere.
Separata dalla spiritualità e dall’etica, la politica oggi si ritrova del tutto priva di sacralità, completamente profana, anzi così profana da essere ormai profanata.
Aristotele scriveva che «il vero uomo politico è colui che vuole rendere i cittadini persone dabbene e sottomessi alle leggi» (EN, 135).
Quanti sono i politici così? È stato messo in piedi un meccanismo che esclude quasi automaticamente chi si vorrebbe avvicinare alla politica con questi ideali, una specie di selezione naturale al ribasso.
A mio parere il nostro tempo ha bisogno di un ritorno alla dimensione sacrale della politica.
Non sto certo auspicando il ritorno alle teocrazie, meno che mai collateralismi neoguelfi di sorta e presenze di cardinali a cene di uomini di potere.
So solo che le grandi civiltà del passato non conoscevano la rigida separazione tra Cesare e Dio e l’avrebbero trovata innaturale.
Sono certo che neppure Gesù l’avrebbe praticata se sulla moneta ci fosse stata l’effigie del re Davide e non quella di un re straniero.
E quando Roma perse la sua sacralità e si laicizzò al punto da risultare del tutto profana agli occhi dei cittadini, perse anche la sua forza politica e militare.
Scriveva Hegel due secoli fa: «Ci potrebbe venire l’idea di istituire un paragone con il tempo dell’Impero romano quando il razionale e necessario si rifugiava solo nella forma del diritto e del benessere privato, perché era scomparsa l’unità generale della religione e altrettanto era annullata la vita politica generale, e l’individuo, perplesso, inattivo e sfiduciato, si preoccupava solamente di se stesso…
Come Pilato domandò: “che cos’è la verità?”, così al giorno d’oggi si ricerca il benessere e il godimento privato.
È oggi corrente un punto di vista morale, un agire, opinioni e convinzioni assolutamente particolari, senza veridicità, senza verità oggettiva.
Ha valore il contrario: io riconosco solo ciò che è una mia opinione soggettiva».
Nella stessa prospettiva oggi Eugenio Scalfari parla dei contemporanei come di barbari: «I contemporanei sono i nostri barbari».
Al cospetto di una politica ormai priva di sacralità, io avverto il bisogno di un movimento contrario rispetto alla laicità come separazione: c’è bisogno di reciproca fecondazione tra dimensione spirituale e politica.
Se la politica vuol tornare a essere capace di toccare la mente e il cuore degli uomini (e non solo le loro tasche) deve ricollegarsi organicamente al diritto, all’etica, alla religione, alla spiritualità.
Come debba fare non so perché non sono un politico, ma credo che il vero problema da affrontare non siano le piccole rivendicazioni del neoguelfismo all’italiana.
Queste sono manovre di poco conto, a loro volta segno di decadenza.
Il vero problema è il nichilismo che dilaga nelle anime, il bisogno dell’uomo di sacralità e la politica che non sa più neppure cosa sia la sacralità.
L’anima della nostra civiltà è malata, intendendo con anima della civiltà ciò che tiene unite le persone al di là degli interessi immediati, quel senso ideale per cui il singolo percepisce di essere al cospetto di una realtà più importante di lui nella quale però si identifica e quindi serve con onestà.
Di fronte a questa situazione penso che ogni persona responsabile debba cercare di capire in che modo la propria area di appartenenza possa servire il paese con equità.
E al riguardo mi permetto di ritenere inadeguata l’impostazione della Chiesa cattolica.
Essa infatti pensa i cattolici come interessati solo ad alcuni aspetti della vita quali bioetica, scuole cattoliche, famiglia, e non invece all’insieme della società.
Che le questioni ricordate siano importanti è ovvio, ma esse non possono rappresentare l’unico punto di vista in base al quale giudicare la politica perché il cristiano deve essere fedele al mondo nella sua integralità e non crearsi un mondo a parte.
Dietro l’impostazione del Magistero c’è invece l’idea che i cattolici siano una realtà estranea rispetto al mondo e vi si rapportino solo per trarne più benefici possibili per il loro piccolo mondo particolare.
Questo però è teologicamente sbagliato perché significa trasformare i cattolici in una delle tante lobby del mondo e far perdere sapore al sale: «ma se il sale perde il sapore, a null’altro serve che a essere gettato via» (Mt 5,13).
in “la Repubblica”del 14 luglio 2010

“Il catecumenato è un luogo di rinnovamento delle pratiche di trasmissione della fede”

Dal 6 al 9 luglio si svolgono le Assises internationales du cathécumenat.
Il loro lavoro sarà proseguito attraverso un Osservatorio internazionale delle pratiche catecumenali.
L’Istituto che lei dirige (l’Institut supérieur de pastorale catéchétique) ha come missione la catechesi.
Perché ha organizzato le prime Assises internationales du cathécumenat? Perché in una Chiesa colpita dalla crisi della trasmissione, il catecumenato si presenta sotto certi aspetti come un esempio in controtendenza.
Il numero di bambini catechizzati continua a diminuire, ed anche quello dei catechisti, ma aumenta il numero dei catecumeni.
Il catecumenato sembra proprio essere un luogo di rinnovamento delle pratiche di trasmissione.
Del resto, con l’aumento dell’individualismo, si constata che i processi di costruzione dell’identità credente siano stati sconvolti.
Non si diventa credenti come trent’anni fa! Da qui l’interesse a costituire una rete di ricerca per sapere come si scopre o si riscopre la fede nelle nostre società attuali.
Da questo punto di vista, la Francia è un passo più avanti…
La Chiesa francese è stata pioniera in materia di catecumenato: i primi battesimi di adulti, con tappe liturgiche, sono iniziati nel 1952 a Parigi.
Tutti conoscono l’importante riflessione teologica di Henri Bourgeois a Lione.
Questo dipende dalla storia del nostro paese e dalla nostra secolarizzazione avanzata.
Tuttavia bisogna che queste ricerche vengano continuate.
Che cosa possiamo imparare dalle esperienze dei paesi stranieri? Nel catecumenato, il rapporto con la cultura è fondamentale.
Ad esempio, un adulto che si presenta al battesimo in Francia lo fa in una relativa indifferenza sociale.
Non è la stessa cosa per un catecumeno in Senegal, dove più dell’80% della popolazione è musulmana…
E questa esperienza è senza dubbio interessante per delle diocesi in cui la religione maggioritaria non è più la religione cattolica…
Si dice spesso che i nuovi battezzati non restano a lungo nella Chiesa…
Il progetto di ricerca ha anche la missione chiarire anche certe idee preconcette diffuse.
Come quella secondo la quale i battezzati adulti lascino la Chiesa nel giro di due anni! Quello che già sappiamo, è che un terzo dei nuovi battezzati traslocano nei due anni successivi al battesimo.
E andando in un’altra parrocchia, per definizione, non sono più considerati catecumeni.
Bisogna quindi tener conto della mobilità dei giovani adulti.
Da qui l’importanza di riunire tutti i dati e favorire la costituzione di una rete internet.
Chi sono oggi i catecumeni? Il Servizio nazionale della catechesi e del catecumenato pubblica ogni anno le statistiche dei battezzati adulti.
Ma si sa comunque che l’immensa maggioranza dei catecumeni sono dei giovani che crescono nelle cappellanie della scuola pubblica (AEP) e della scuola cattolica.
Ora, non sono contabilizzati.
Si valuta oggi a 20 000 il numero di adolescenti che fanno una richiesta di tipo catecumenale, che richiedono cioè il battesimo o la cresima, solo nelle AEP.
Per quanto riguarda gli adulti, il numero è di circa 2 900.
È questa dinamica che vogliamo studiare perché crediamo che lì si giochi una parte del futuro della Chiesa in Francia.