Determinismo o libero arbitrio? Questo antico dibattito torna oggi d’attualità nella ricerca genetica e in quella sui neuroni.
Veniamo generati nei nostri geni? I geni esistono nella loro peculiarità prima che sorga la nostra coscienza? Pilotano il nostro io nei suoi comportamenti? Determinano quindi il corso delle nostre vite e spiegano perché diventiamo come siamo? Il noto giornalista americano David Brooks ha scritto nel 2007 ( Herald Tribune ): «Dal contenuto dei nostri geni, dalla natura dei nostri neuroni e dalla lezione della biologia evoluzionista è diventato chiaro che la natura è costituita da competizione e conflitti di interessi.
L’umanità non è venuta prima delle lotte per la propria affermazione, le lotte per l’affermazione sono profondamente radicate nelle relazioni umane».
Ne traeva come conseguenza la naturale disposizione alla competitività del capitalismo e una ‘visione del mondo tragica’: «Siccome la natura umana è predisposta così aggressivamente alla lotta per il potere abbiamo bisogno di uno Stato forte, di un’educazione dura e di una visione del mondo tragica».
Si tratta del risultato di una ricerca o dell’interesse di un’ideologia? Io credo si tratti di pura ideologia naturalistica, perché si fonda sulla riduzione dell’imprevedibile sistema ‘uomo’ ai suoi geni e neuroni prevedibili.
Così sorge la fatale impressione di vivere in un mondo chiuso nella sua causalità, come se la nostra libertà, che pure percepiamo nel «tormento della scelta», fosse un’illusione.
Se così fosse qualsiasi criminale davanti a un tribunale dovrebbe appellarsi all’incapacità di intendere e di volere, per poi essere assolto in quanto non imputabile.
Craig Venter è stato il primo a decifrare il genoma umano.
Ha decodificato anche il proprio genoma, che è stato pubblicato su tutti i maggiori quotidiani.
Se lo potessimo leggere sapremmo poi chi è Craig Venter? Se egli stesso può leggerlo viene poi a conoscere se stesso? Quando l’ho incontrato di persona a Taiwan due anni fa mi ha raccontato quanto la guerra in Vietnam, combattuta da giovane, lo avesse cambiato.
Il suo genoma non esprime nulla di tutto ciò, naturalmente, ma allora perché la tesi deterministica secondo la quale saremmo pilotati dai nostri geni e non avremmo alcuna libertà di reagire alle esperienze di guerra in questo o quell’altro modo? Facciamo ancora un esempio: nella rivista scientifica Nature Genetics è uscito di recente un articolo nel quale veniva dimostrato da ricerche svolte in tutto il mondo che sono i geni a determinare se i giovani diventino o meno fumatori.
Lo studio documentava per la prima volta i fattori genetici a causa dei quali nei recettori cerebrali della nicotina si determina in quale modo si sviluppi la dipendenza e il comportamento rispetto al fumo.
Io ho fumato molto dal 1956 al 1976, poi ho smesso da un giorno all’altro.
Come ho potuto farlo? La ricerca genetica, per quanto ho potuto seguirla, ha da tempo oltrepassato, nei suoi seri esponenti, questo riduzionismo ideologico.
L’immagine della competitività del gene egoista, delineata da Richard Dawkins nel 1978, è influenzata dal darwinismo sociale.
I geni sono di fatto più flessibili dei corpi solidi, si «attivano e disattivano» e reagiscono essi stessi agli influssi ambientali.
Le nostre esperienze e le nostre relazioni con altre persone, in cui facciamo esperienza di accoglienza o di rifiuto, influenzano anche il funzionamento dei nostri geni.
Il medico tedesco Joachim Bauer, che si occupa di psicosomatica, afferma quindi: «I geni non pilotano soltanto, sono anche pilotati» ( Principio Umanità, 2006).
Anche nelle ricerche sull’intelligenza vengono considerate oggi più le condizioni di vita che le predisposizioni genetiche.
Giungo al risultato secondo cui il determinismo genetico e neurologico non è in grado di abolire la nostra libertà, la nostra responsabilità né la nostra imputabilità.
Lo si può approvare o rincrescersi, ma le ideologie non spiegano solo i risultati di alcune ricerche, rappresentano anche sempre gli interessi di una parte.
Chi ha oggi interesse ad abolire la nostra libertà e a rendere manipolabili gli uomini? (traduzione dal tedesco di Daria Dibitonto) in “Avvenire” del 12 settembre 2010
Categoria: Temi
Non solo benedizioni
Non è stato solo il Sinodo «delle benedizioni alle unioni gay».Certo, il pubblico ha gremito l’Aula sinodale (troppo piccola, ormai, per un’assemblea di queste proporzioni: si è parlato anche di questo) soprattutto in occasione dei dibattiti su questo tema.
Come ogni anno, tuttavia, i lavori hanno spaziato lungo tutto lo spettro della vita delle nostre chiese.
Le difficoltà sono numerose e le note preoccupate abbondano.
Quello che certamente non manca è la voglia di discutere: troppo spesso, pare di poter dire, ciò accade in modo abbastanza confuso e, come pudicamente osservava, in privato, un ospite tedesco, «non del tutto strutturato», ma sempre con grande passione per un modello di chiesa non gerarchico né clericale.
Siamo orgogliosi di questo nostro modo di essere.
Quando però tale orgoglio tende ad andare sopra le righe, c’è chi sa rimettere le cose a posto: lo ha fatto, a esempio, la Moderatora, ricordando che la lettura comunitaria e personale della Bibbia, oggi, non è affatto un monopolio protestante: anzi, siamo noi a dover imparare da altri, anche a questo riguardo.
Un altro lampo ecumenico è stato l’intervento, di alto profilo, del vescovo di Pinerolo, mons.
De Bernardi, autocritico, teso all’ascolto, esplicito e al tempo stesso molto discreto.
In tempi ecumenicamente deprimenti, ciò è, semplicemente, edificante.
Ma il dialogo deve andare oltre.
Solo un esempio.
Il Sinodo ha accolto un documento sulle questioni etiche legate alla ricerca sulle cellule staminali, preparato da una commissione che da molti anni lavora su queste tematiche.
In quel testo, non si lanciano proclami, bensì si argomenta.
Sarà possibile discuterne, tra chiese diverse, nel merito, e non a colpi di slogan (vita contro morte, Adamo contro Frankenstein ecc.)? Un Sinodo multicolore Il Sinodo, ormai, è multicolore, nelle presenze, nei culti, forse un po’ meno negli interventi (a parte,come diremo, alcune occasioni…).
«Essere chiesa insieme» è ben più di uno slogan o dell’ennesima sigla (Eci, appunto): si tratta invece, con ogni probabilità, della sfida decisiva dei prossimi decenni.
Sembra farsi largo la convinzione che il confronto tra le sensibilità e le culture debba articolarsi intorno alla lettura comune della Scrittura.
Che vi siano tradizioni, sensibilità e metodi diversi è chiaro; e che questo determini difficoltà di rilievo non può né deve stupire.
Un intenso lavoro, tuttavia, è già in corso (si pensi soltanto al programma interculturale per la formazione dei predicatori, coordinato da Corinne Lanoir e Yann Redalié), Tavola valdese e Opcemi sono, con ogni evidenza, strenuamente impegnate su questo fronte, così come la Federazione giovanile evangelica italiana (Fgei).
In questo, le nostre chiese possono contare sul patrimonio di esperienza accumulato dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei).
Certo, i fatti corrono più velocemente delle strategie ecclesiastiche e siamo tutti, sempre, impreparati.
Un motivo di più per sostenere nella preghiera quanti, dai dirigenti ecclesiastici ai giovani candidati al ministero, sono in prima linea su questo fronte.
Pochi membri e pochi soldi L’emorragia di membri di chiesa continua: 243 in meno nell’ultimo anno, l’equivalente di una chiesa di medie proporzioni.
Parallelamente, aumentano le difficoltà finanziarie: non solo non si raggiungono gli obiettivi, ma le contribuzioni del 2009 sono state inferiori a quelle dell’anno precedente e c’è il rischio che il tonfo si ripeta.
Solo pochi anni fa, nell’aula sinodale risuonavano spesso banalità del tipo: «il problema non sono i numeri».
Oggi, se non altro, siamo più realisti.
I numeri sono, come minimo, la spia di un problema drammatico.
C’è ancora chi si sforza di minimizzarlo, compiacendosi per altri segnali («diminuiscono i membri, ma cresce il numero di coloro che destinano a noi 1’8 per mille»; le nostre prese di posizione su temi etici suscitano interesse; e simili), ma la consapevolezza dell’emergenza è in crescita.
Certo, la chiesa esiste per predicare l’evangelo e non per autoriprodursi; che, però, senza membri non ci sia nemmeno l’annuncio, non è una sofisticheria teologica particolarmente oscura.
Il Sinodo l’ha capito.
E ha anche capito che la faccenda ha a che vedere con una difficoltà di tipo spirituale, legata alla disponibilità ad accogliere l’evangelo come elemento che trasforma la vita, raccoglie la comunità, induce a pregare, a cantare, a impegnare il tempo e il denaro.
Qui c’è molto da lavorare.
Le benedizioni delle unioni «omoaffettive» Si ha un bel dire che la faccenda non può essere ridotta all’alternativa sì/no.
La verità è che il semplicismo non è monopolio dei giornali.
L’alto tasso di emotività investito in questo dibattito non ha sempre favorito il rigore dell’argomentazione, né la capacità di comprendere fino in fondo il punto di vista contrario al proprio.
Fortunatamente la Commissione d’esame ha presentato un ordine del giorno articolato ma chiaro.
Le chiese in ricerca su questo tema sono invitate a procedere secondo quanto la responsabilità pastorale consiglia loro.
Verosimilmente, dunque, accadrà che nelle nostre chiese si celebrino benedizioni di unioni tra persone dello stesso sesso.
La votazione è stata assai chiara, il Sinodo non si è affatto «spaccato».
È vero invece che gli interventi contrari alla decisione poi assunta sono stati molto forti e, in gran parte, provenienti da fratelli africani.
Il dibattito non è affatto chiuso.
A tutte e a tutti è chiesto un notevole senso di responsabilità: lasciar cadere le provocazioni, ascoltare l’altro prima di parlare (più di quanto sia accaduto in Sinodo, questo mi sentirei di dirlo), non contrapporre slogan a slogan, soprattutto pregare, «favorevoli» e «contrari» insieme, ricordando che, in questa ricerca non siamo soli.
Ci sono quanti tra noi, italiani e immigrati, temono derive pericolose, ci sono cattolici, ortodossi, evangelicali che appaiono anch’essi preoccupati e a tratti non particolarmente amichevoli; ma ci sono anche le chiese sorelle che da tempo si sono mosse in direzioni analoghe.
Poi c’è il Signore, che magari strilla poco, ma ascolta molto.
E giudica, sia .i «favorevoli» sia i «contrari».
Se ce ne ricordassimo, il più sarebbe già fatto.
Agostino Marchetto: “Respingono gli innocenti impossibile stare zitti”
Monsignor Agostino Marchetto, dispiaciuto per queste sue improvvise dimissioni? «Quando si lascia un lavoro svolto per tanti anni c’è sempre una certa amarezza.
Capita a tutti.
Era dal 2001 che ero segretario del Pontificio Consiglio dei migranti, un incarico che ho svolto con passione e dedizione.
Più che un lavoro è stata una missione che mi ha portato a condividere uno dei più grandi drammi dei nostri tempi, i movimenti migratori delle popolazioni in difficoltà troppe volte vittime di ingiustizia, sfruttamento, violenze.
Peccati gravissimi che ogni uomo, specialmente se è un uomo di Chiesa, non deve mai tollerare».
E lei, in effetti, ha sempre denunciato ad alta voce questi peccati.
Ma molti politici, e persino qualcuno in Segreteria di Stato, a volte l’hanno criticata con durezza.
Ci è rimasto male? «Solo il silenzio di fronte alle ingiustizie fa male.
Le critiche non mi hanno mai toccato e, tantomeno, non mi hanno mai condizionato.
Ma come è possibile stare zitti di fronte a migliaia di innocenti che vengono respinti sulle altre sponde del Mediterraneo, come succede ad esempio con la cosiddetta politica dei respingimenti inaugurata, purtroppo, dai governanti italiani? Come è possibile girarsi dall’altra parte quando dalla Francia una intera etnia rom viene espulsa indiscriminatamente perché così ha deciso il presidente Sarkozy in nome di una discutibile politica della sicurezza che colpisce donne, bambini ed innocenti, contravvenendo alle più elementari norme di accoglienza decise dagli organismi europei?».
Tematiche portate alla ribalta da Gheddafi che a Roma ha chiesto alla Ue 5 miliardi di euro l’anno per bloccare i flussi migratori e ha lanciato una campagna di islamizzazione dell’Europa.
Preoccupato? «Di fronte a quello che abbiamo visto e sentito durante questa visita non ci sono parole.
E certamente è giusto così, perché non vale proprio la pena commentare quanto detto e preconizzato da Gheddafi.
Anzi più se ne parla, anche con appunti critici, e più ci si dà rilievo.
I problemi di poveri ed immigrati si affrontano e si risolvono con ben altri approcci».
Malgrado il suo impegno accanto agli ultimi, spesso le gerarchie vaticane sono intervenute per puntualizzare che lei parlava a titolo personale.
«Io ho sempre parlato liberamente, senza censure e sempre in difesa dei sofferenti, rifacendomi ogni volta alla dottrina sociale della Chiesa.
Altra cosa è parlare a nome di tutta la Chiesa.
E qualche volta ha fatto bene la Segreteria di Stato a farlo sapere, perché a nome di tutta la Chiesa può parlare solo il Santo Padre e, su sua delega, la stessa Segreteria di Stato».
Ora però non potrà più parlare per difendere gli immigrati.
O no? «Nella Chiesa c’è sempre libertà di parola.
Ma sono stato io a chiedere al Papa di essere sollevato dall’incarico.
Lo ringrazio per aver accettato la mia richiesta.
Ed ora potrò dedicarmi allo studio della storia del Concilio Vaticano II.
Ma, se necessario, la mia voce non tacerà mai di fronte alle ingiustizie».
intervista ad Agostino Marchetto, a cura di Orazio La Rocca in “la Repubblica” del 2 settembre 2010
Un metodo infalllibile per rinnovare la teologia
Se alla genesi della teologia sta il mistero cristiano, ed essa si può definire come “intelletto della fede”, non è pensabile che in una determinata epoca la si possa completamente rifare da capo.
Nella diversità dei tempi essa viene alimentata da una tradizione ininterrotta di contenuti e anche di linguaggio, che non ammette discontinuità drastiche e rivoluzionarie, pena la perdita dell’identità.
È lecito almeno nutrire qualche perplessità di fronte a un teologo che sia persuaso di proporre dottrine teologiche inusitate e singolari, mai insegnate prima di lui.
Non per questo, tuttavia, la teologia è destinata a una pura ripetizione.
La storia stessa della teologia mostra quanto, senza spezzare la continuità, essa si sia variamente e anche profondamente rinnovata: ma non per aver in certo modo occultato o disatteso il mistero; al contrario, per averlo lasciato emergere con più forza e coerenza.
La teologia non si lascia impressionare e condizionare dal mito del divenire e del progresso, consapevole com’è che essa è nata e di continuo rinasce dalle risorse inesauste e immodificabili della rivelazione divina che si è compiuta e non si logora, dalla comunione con la Parola di Dio, antica e sempre nuova.
È anche vero che al rinnovamento della teologia può concorrere una nuova filosofia, ma a condizione che essa offra, per così dire, uno spazio più aperto alla prevalenza e all’intelligenza del mistero e che venga esercitata all’interno dell'”intelletto della fede”.
È significativo che il geniale storico della teologia medievale, Marie-Dominique Chenu, affermi che “non è l’ingresso di Aristotele a determinare il pensiero di san Tommaso, così come non è la rinascita dell’Antichità a costituire la teologia del secolo XIII”.
Questa rinascita ne rappresenta soltanto una componente di rinnovamento: il suo impulso e il suo incremento sono assegnati all'”evangelismo”, come egli lo chiama.
Senza dire che non potrà mai essere la filosofia a giudicare la validità di una teologia: questo giudizio spetta solo alla Parola di Dio, mentre la stessa teologia potrà giudicare la pertinenza o meno di una filosofia a concorrere all’intelligenza della fede.
* Qui, però, non ci interessa illustrare la relazione tra filosofia e teologia cristiana, ma indicare la scelta grazie alla quale la teologia potrebbe e dovrebbe ricevere un profondo rinnovamento o nuovo assestamento: una scelta del resto imprescindibile, perché fondata sull’evento da cui nasce la fede e quindi l'”intelletto della fede”.
Questa via è il cristocentrismo.
Veramente, non si tratta affatto di una novità.
La teologia cristiana ha sempre avuto al suo centro Gesù Cristo; è nata e si è sviluppata dal suo evento.
Ma forse questa originaria centralità richiede una traduzione più rigorosa, più coerente e più completa.
Anzitutto a partire dalla stessa definizione di cristocentrismo.
Esso non significa soltanto l’eccellenza di Cristo rispetto a tutto il resto, ma la sua predestinazione a essere la ragione incondizionata di tutto quello che Dio ha chiamato e chiama all’esistenza.
Ma occorrono altre imprescindibili e essenziali precisazioni.
Quando si parla di cristocentrismo, non si intende solo affermare il primato del Verbo, ma il primato o la “precedenza” nel disegno di Dio del Verbo incarnato, morto e risuscitato, mediante il quale, nel quale e in vista del quale, “furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili” (Colossesi 1, 15-17).
Ovviamente, non in alternativa ma come a compimento della prospettiva giovannea, secondo la quale non v’è nulla che non sia stato fatto per mezzo del Verbo (Giovanni 1, 3).
Il “Primeggiante su tutte le cose” (Colossesi 1, 18) è, esattamente, il Crocifisso glorificato, che tutto antecede, e da cui tutto diparte.
È come dire che Gesù redentore, con la grazia del suo perdono, è il fondamento ontologico e il movente storico di ogni cosa (cfr.
Colossesi 1, 17), l’Oggetto dell’eterno “proposito” di Dio.
La prima lettera di Pietro parla del “sangue prezioso di Cristo, agnello senza macchia”, “predestinato già prima della fondazione del mondo”, “manifestato negli ultimi tempi” (1, 19-20).
E quanto ai profeti afferma che “cercavano di sapere quale momento e quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che sarebbero seguite” (1, 11).
Ma se Gesù risorto da morte è il Predestinato, vuol dire che la figura di umanità originariamente ideata e “preferita” da Dio è l’umanità glorificata del Figlio, al cui successo è orientata tutta la storia.
In essa ogni umanità trova la sua ragione e il suo modello: tutti gli uomini sono predestinati, creati “in grazia”, ossia “predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio, perché egli sia il primogenito di molti fratelli” (Romani 8, 29).
Noi possiamo definire tutto quanto abbiamo descritto coi termini di Paolo: “Mistero di Dio che è Cristo” (Colossesi 2, 2), o più precisamente: “Sapiente mistero di Dio” che è “Cristo crocifisso” (cfr.
1 Corinzi 1, 21.23).
* Ebbene, il compito della teologia è l’esplorazione di questo mistero.
Chi vi si dedica ha la missione di “parlare della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli” (1 Corinzi 2, 7).
È su questo “realismo” che si edifica la teologia cristiana, a cui non interessa stemperarsi nel mondo dei piani o dei disegni divini ipotetici.
Quello che avrebbe potuto fare Dio lo sa soltanto lui.
Tutto è stato creato nella grazia di Gesù crocifisso e risorto.
In particolare, è stata motivata su quella grazia la natura dell’uomo.
Una “natura pura”, per un “puro” fine “naturale”, non è mai esistita e di essa noi non possiamo sapere nulla.
Di fatto, l'”Originale” che alla sacra dottrina importa anzitutto conoscere e, quindi, il primo oggetto dell’interesse teologico, è il Crocifisso glorioso da sempre predestinato, e, quindi, la sua vita con i suoi avvenimenti, nei quali avviene la manifestazione particolareggiata dell’eterno disegno generato e motivato dalla divina misericordia.
In questo senso la teologia cristiana è originariamente cristica: il Cristo risorto da morte descrive e offre esaurientemente tutto il suo oggetto.
Egli è l’Oggetto che si tratta di capire, in quanto concreta e storica “narrazione” del disegno (cfr.
Giovanni 1, 18).
È la dimensione che la cristologia deve assumere.
Ma Cristo non ferma a sé: egli è il Figlio e, perciò, è il rimando al Padre, che nessuno ha veduto e del quale è l’epifania, ed è l’attestazione dello Spirito.
In lui si ritrova la Trinità, che si rivela come Trinità creatrice e misericordiosa, che sta al principio di un ordine voluto come una iniziativa di misericordia.
È l’ordine che il teologo è chiamato a studiare, che riguarda particolarmente l’uomo, che appare però preceduto, prima della sua creazione, da un mondo angelico già segnato da Cristo e dalle decisioni relative a lui: di accoglienza, ma anche di rigetto, ossia di peccato.
In particolare, Cristo ci disvela un Dio che, nel suo amore misericordioso, dona il Figlio, predisposto come perdono del peccato dell’uomo, il quale trova, così, il suo vantaggio non nel venire al mondo, ma nell’essere redento.
Come scrive sant’Ambrogio: “Non prodesset nasci, nisi redimi profuisset” (Expositio evangelii secundum Lucam, II, 41-42).
La sacra dottrina tratta allora dell’antropologia, cioè dell’uomo esistente unicamente come disposto nella grazia e nella gloria della Croce: una grazia e una gloria in atto nei sacramenti, che Tommaso d’Aquino vede tutta quanta sospesa all'”energia della passione di Cristo” (Summa Theologiae, III, 62, 5, c).
È facile allora avvertire di che cosa tratti l’ecclesiologia: esattamente dell’umanità che sale dalla Pasqua di Cristo e si trova configurata e intimamente associata al Signore risorto da morte.
Quanto all’escatologia, essa è l’esplorazione della gloria e quindi del successo del Crocifisso: una gloria che trascende e attrae la storia ed è il fine per cui l’uomo e con lui tutte le cose sono state create e volute dall’eternità.
Se è vero che la teologia cristiana ha sempre fatto questo, riterrei tuttavia che sia possibile, anzi necessario, ricentrarla in modo ancora più coerente e approfondito sul cristocentrismo.
Solo da qui ne verrebbe un forte, mirabile impulso di rinnovamento, che vanamente si ricercherebbe altrove.
Inos Biffi
Perché il potere ha perso sacralità
Il teologo interviene sulla laicità alle “Parole della politica” Qual è l’esperienza concreta da cui è sorto il concetto di laicità? Io credo che sia la consapevolezza della complessità del rapporto tra il proprio mondo mentale e quello di altri.
Intendo quindi per laicità il metodo che governa il rapporto tra dimensione interiore e dimensione esteriore della vita: la laicità è un metodo che si applica alla relazione tra il foro interiore delle convinzioni ideali e il foro esteriore della convivenza con chi è diverso da noi.
Questa precisazione è essenziale per capire come agire rispetto ai cosiddetti “principi non negoziabili” di cui parla spesso Benedetto XVI.
A mio avviso la non negoziabilità dei principi si dà a livello di foro interiore, nel senso che non si devono tradire i propri ideali, soprattutto quando si agisce in prima persona.
Ma la realtà di un mondo sempre più plurale fa sì che il foro interiore della prima persona singolare non sia mai perfettamente traducibile nel foro esteriore della prima persona plurale.
Perché si possa pronunciare un armonioso noi, ogni singolo io deve modulare la sua musica interiore con quella degli altri.
Solo a questa condizione si avrà una sinfonia e non la cacofonia del conflitto sociale.
Ne viene che a livello di foro esteriore non c’è nulla che non sia negoziabile, perché la negoziazione è l’anima del diritto e della politica nella misura in cui essi sono elaborati all’insegna della democrazia.
Quindi riassumo: nessuna negoziazione a livello interiore dove è in gioco l’anima e l’adesione alla verità; ma concrete negoziazioni a livello di foro esteriore dove è in gioco la relazione armoniosa della convivenza tra uomini sempre più diversi.
Riuscire a mediare queste due dimensioni significa praticare la laicità.
Quanto detto finora però non è sufficiente.
La modernità è stata l’epoca delle distinzioni: la spiritualità dalla religione, la religione dall’etica, l’etica dal diritto, il diritto dalla politica.
Occorreva farlo per fondare su basi razionali la convivenza sociale.
Alla fine però ne è risultata una politica separata dalla spiritualità, dall’etica e ora sempre più anche dal diritto.
Per questo io penso che occorra qualcosa di diverso.
Guardando alla nostra società, a me pare infatti che più laica di così, più priva di sacralità di così, la politica non potrebbe essere.
Separata dalla spiritualità e dall’etica, la politica oggi si ritrova del tutto priva di sacralità, completamente profana, anzi così profana da essere ormai profanata.
Aristotele scriveva che «il vero uomo politico è colui che vuole rendere i cittadini persone dabbene e sottomessi alle leggi» (EN, 135).
Quanti sono i politici così? È stato messo in piedi un meccanismo che esclude quasi automaticamente chi si vorrebbe avvicinare alla politica con questi ideali, una specie di selezione naturale al ribasso.
A mio parere il nostro tempo ha bisogno di un ritorno alla dimensione sacrale della politica.
Non sto certo auspicando il ritorno alle teocrazie, meno che mai collateralismi neoguelfi di sorta e presenze di cardinali a cene di uomini di potere.
So solo che le grandi civiltà del passato non conoscevano la rigida separazione tra Cesare e Dio e l’avrebbero trovata innaturale.
Sono certo che neppure Gesù l’avrebbe praticata se sulla moneta ci fosse stata l’effigie del re Davide e non quella di un re straniero.
E quando Roma perse la sua sacralità e si laicizzò al punto da risultare del tutto profana agli occhi dei cittadini, perse anche la sua forza politica e militare.
Scriveva Hegel due secoli fa: «Ci potrebbe venire l’idea di istituire un paragone con il tempo dell’Impero romano quando il razionale e necessario si rifugiava solo nella forma del diritto e del benessere privato, perché era scomparsa l’unità generale della religione e altrettanto era annullata la vita politica generale, e l’individuo, perplesso, inattivo e sfiduciato, si preoccupava solamente di se stesso…
Come Pilato domandò: “che cos’è la verità?”, così al giorno d’oggi si ricerca il benessere e il godimento privato.
È oggi corrente un punto di vista morale, un agire, opinioni e convinzioni assolutamente particolari, senza veridicità, senza verità oggettiva.
Ha valore il contrario: io riconosco solo ciò che è una mia opinione soggettiva».
Nella stessa prospettiva oggi Eugenio Scalfari parla dei contemporanei come di barbari: «I contemporanei sono i nostri barbari».
Al cospetto di una politica ormai priva di sacralità, io avverto il bisogno di un movimento contrario rispetto alla laicità come separazione: c’è bisogno di reciproca fecondazione tra dimensione spirituale e politica.
Se la politica vuol tornare a essere capace di toccare la mente e il cuore degli uomini (e non solo le loro tasche) deve ricollegarsi organicamente al diritto, all’etica, alla religione, alla spiritualità.
Come debba fare non so perché non sono un politico, ma credo che il vero problema da affrontare non siano le piccole rivendicazioni del neoguelfismo all’italiana.
Queste sono manovre di poco conto, a loro volta segno di decadenza.
Il vero problema è il nichilismo che dilaga nelle anime, il bisogno dell’uomo di sacralità e la politica che non sa più neppure cosa sia la sacralità.
L’anima della nostra civiltà è malata, intendendo con anima della civiltà ciò che tiene unite le persone al di là degli interessi immediati, quel senso ideale per cui il singolo percepisce di essere al cospetto di una realtà più importante di lui nella quale però si identifica e quindi serve con onestà.
Di fronte a questa situazione penso che ogni persona responsabile debba cercare di capire in che modo la propria area di appartenenza possa servire il paese con equità.
E al riguardo mi permetto di ritenere inadeguata l’impostazione della Chiesa cattolica.
Essa infatti pensa i cattolici come interessati solo ad alcuni aspetti della vita quali bioetica, scuole cattoliche, famiglia, e non invece all’insieme della società.
Che le questioni ricordate siano importanti è ovvio, ma esse non possono rappresentare l’unico punto di vista in base al quale giudicare la politica perché il cristiano deve essere fedele al mondo nella sua integralità e non crearsi un mondo a parte.
Dietro l’impostazione del Magistero c’è invece l’idea che i cattolici siano una realtà estranea rispetto al mondo e vi si rapportino solo per trarne più benefici possibili per il loro piccolo mondo particolare.
Questo però è teologicamente sbagliato perché significa trasformare i cattolici in una delle tante lobby del mondo e far perdere sapore al sale: «ma se il sale perde il sapore, a null’altro serve che a essere gettato via» (Mt 5,13).
in “la Repubblica”del 14 luglio 2010
“Il catecumenato è un luogo di rinnovamento delle pratiche di trasmissione della fede”
Dal 6 al 9 luglio si svolgono le Assises internationales du cathécumenat.
Il loro lavoro sarà proseguito attraverso un Osservatorio internazionale delle pratiche catecumenali.
L’Istituto che lei dirige (l’Institut supérieur de pastorale catéchétique) ha come missione la catechesi.
Perché ha organizzato le prime Assises internationales du cathécumenat? Perché in una Chiesa colpita dalla crisi della trasmissione, il catecumenato si presenta sotto certi aspetti come un esempio in controtendenza.
Il numero di bambini catechizzati continua a diminuire, ed anche quello dei catechisti, ma aumenta il numero dei catecumeni.
Il catecumenato sembra proprio essere un luogo di rinnovamento delle pratiche di trasmissione.
Del resto, con l’aumento dell’individualismo, si constata che i processi di costruzione dell’identità credente siano stati sconvolti.
Non si diventa credenti come trent’anni fa! Da qui l’interesse a costituire una rete di ricerca per sapere come si scopre o si riscopre la fede nelle nostre società attuali.
Da questo punto di vista, la Francia è un passo più avanti…
La Chiesa francese è stata pioniera in materia di catecumenato: i primi battesimi di adulti, con tappe liturgiche, sono iniziati nel 1952 a Parigi.
Tutti conoscono l’importante riflessione teologica di Henri Bourgeois a Lione.
Questo dipende dalla storia del nostro paese e dalla nostra secolarizzazione avanzata.
Tuttavia bisogna che queste ricerche vengano continuate.
Che cosa possiamo imparare dalle esperienze dei paesi stranieri? Nel catecumenato, il rapporto con la cultura è fondamentale.
Ad esempio, un adulto che si presenta al battesimo in Francia lo fa in una relativa indifferenza sociale.
Non è la stessa cosa per un catecumeno in Senegal, dove più dell’80% della popolazione è musulmana…
E questa esperienza è senza dubbio interessante per delle diocesi in cui la religione maggioritaria non è più la religione cattolica…
Si dice spesso che i nuovi battezzati non restano a lungo nella Chiesa…
Il progetto di ricerca ha anche la missione chiarire anche certe idee preconcette diffuse.
Come quella secondo la quale i battezzati adulti lascino la Chiesa nel giro di due anni! Quello che già sappiamo, è che un terzo dei nuovi battezzati traslocano nei due anni successivi al battesimo.
E andando in un’altra parrocchia, per definizione, non sono più considerati catecumeni.
Bisogna quindi tener conto della mobilità dei giovani adulti.
Da qui l’importanza di riunire tutti i dati e favorire la costituzione di una rete internet.
Chi sono oggi i catecumeni? Il Servizio nazionale della catechesi e del catecumenato pubblica ogni anno le statistiche dei battezzati adulti.
Ma si sa comunque che l’immensa maggioranza dei catecumeni sono dei giovani che crescono nelle cappellanie della scuola pubblica (AEP) e della scuola cattolica.
Ora, non sono contabilizzati.
Si valuta oggi a 20 000 il numero di adolescenti che fanno una richiesta di tipo catecumenale, che richiedono cioè il battesimo o la cresima, solo nelle AEP.
Per quanto riguarda gli adulti, il numero è di circa 2 900.
È questa dinamica che vogliamo studiare perché crediamo che lì si giochi una parte del futuro della Chiesa in Francia.
Credere al mistero pasquale
Sembra che certi cristiani non credano alla Resurrezione! Questa incredulità non è forse dovuta al fatto che, nello spirito di molti, la parola resurrezione, per quanto riguarda Gesù, è interscambiabile con la parola apparizione? Focalizzare Pasqua sulle apparizioni e vedervi soltanto la rivivificazione di un cadavere non solo è cristologicamente assurdo, ma anche logica fonte di scetticismo.
Com’è possibile arrivare a questo? Senza dubbio perché Pasqua, con le sue apparizioni, giunge come ultima parte del triduo pasquale – Giovedì santo, Venerdì santo, Pasqua – e viene percepita come il suo culmine.
Dimenticando che il mistero pasquale si struttura anche in un secondo trittico altrettanto essenziale – Pasqua, Ascensione, Pentecoste –.
Secondo trittico senza il quale la Resurrezione e le apparizioni di Gesù sarebbero solo un bel discorso.
È vero che la densità liturgica e l’emozione sono in questo caso meno forti, i simboli meno palpabili.
Ma se Pasqua non è credibile senza la Cena, la Passione e la Resurrezione, non è credibile neppure senza la Resurrezione, l’Ascensione e la Pentecoste.
Il mistero pasquale non si esprime solo nel registro del passaggio attraverso la morte verso la vita.
Credere alla Resurrezione è una cosa più ampia, più esigente ma anche più vera.
Vuol dire credere alla piena realizzazione di Gesù in Cristo, nella sua esaltazione e glorificazione.
La fede nella Resurrezione non si limita a credere alle apparizioni, ma soprattutto in ciò che questa parola si sforza di far valere, che riguarda anche la nostra pienezza umana.
Gesù non appare per dire: “Sono risorto, questa è adesso una verità rivelata, bisogna trasmetterla se volete salvare le vostre anime.” Dio non si limita a comunicare un messaggio agli uomini, si comunica lui stesso come piena realizzazione dell’uomo.
Prima di essere un qualcosa fatto di avvenimenti oggettivabili, storicamente sensibili (colui che era morto si fa vedere vivo), la Resurrezione è, per i discepoli, un’esperienza tangibile, vitale.
Sono introdotti nella veracità di Cristo uomoDio, rivelazione della loro filiazione divina: è l’Ascensione.
Sono introdotti in una presenza reale, che, attraverso lo Spirito effuso, rivoluziona il loro quotidiano: è la Pentecoste.
Il senso eccezionale della vita iniziato con l’avvenimento Resurrezione è troppo spesso ridotto alla descrizione delle apparizioni e alla fattualità di immagini mentali o artistiche che ne perturbano la percezione.
Ma non lasciamoci ingannare.
Il Vangelo non pretende affatto, ad esempio, che Gesù resuscitato sia stato visto da testimoni diversi dai discepoli, dai fratelli, e che qualcuno lo abbia toccato per verificare, nemmeno Tommaso! Allora, con quali occhi lo hanno visto vivo in persona poiché, innanzitutto, non lo riconobbero? Esattezza o veridicità della visione? Lo Spirito confermatore non stava già operando per aprire gli occhi della mente? Ci si accontenta troppo spesso di un approccio esclusivamente liturgico dei testi, li si dà ad intendere solo al primo livello, quello letterale.
Il rischio è di ritrovarsi in un vicolo cieco, con delle apparizioni di cui ci si servirà come di miracoli evidenti per polemizzare con i denigratori della fede! Non è perché si fa vedere, che Gesù è resuscitato, ma perché è stato risollevato di tra i morti, perché la sua vita è una con il Padre e perché il loro Spirito comunicato apre gli occhi dell’intelligenza.
Le apparizioni punteggiano l’avvenimento di Pasqua ma non lo definiscono da sole.
È necessaria l’esperienza del mistero cristico, sia per i testimoni di allora che per noi.
Alla fine non c’è altra prova della Resurrezione che la prodigiosa, imprevista comunità degli Atti degli Apostoli, nuova creazione.
A quale Resurrezione crediamo? Credere al mistero pasquale non vuol dire accontentarsi di confessare la storicità delle apparizioni fino alla fine dei tempi, come la morte di Socrate o la nascita di Napoleone.
È essenzialmente capire che ognuno è in grado di gustare della triplice e simultanea pienezza di Resurrezione, Ascensione, Pentecoste, a titolo individuale, come soggetto unico, ma anche comunitariamente.
Se una di queste tre parti venisse a mancare, le altre due svanirebbero e, per noi, tutto il mistero pasquale.
Non possiamo bloccarci ad una comprensione iniziale della fede nella Resurrezione, alle apparizioni, ad una affermazione oggettiva lontana dall’uomo, ad una verità da credere senza implicazioni.
Se Gesù è diventato Cristo, è affinché noi diventassimo Cristo con lui, anche noi testimoni della sua Resurrezioneùù in “La Croix” del 3 luglio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il prevosto e il dottore alla sfida degli ex voto
Il dottor Mario Alfani, cardiologo e presidente dell´Ordine dei medici, prende in mano una tavoletta.
«Questo ex voto del 1898, sigla Br 16657, è quello che più mi colpisce.
Il malato a letto guarda alla sua sinistra, verso l´alto.
Lì c´è una Madonna circondata da angioletti.
Prega e invoca un miracolo.
A destra del letto c´è invece il medico, in abito nero – i medici allora erano sempre vestiti di scuro – che non guarda il malato ma appoggia le mani su un tavolino e abbassa la testa, sconsolato.
Non sa più che fare.
Tutti noi medici abbiamo vissuto momenti come questo, quando senti dentro l´angoscia perché hai capito che per il paziente non puoi più fare nulla.
Per fortuna questo è un ex voto: se la tavoletta è stata portata in un santuario, vuol dire che il malato è guarito».
In terra astigiana è nata una strana alleanza: medici e sacerdoti (che per centinaia d´anni sono andati d´accordo come ghibellini e guelfi) si sono messi assieme per studiare gli ex voto portati nei santuari negli ultimi sette secoli.
«Siamo stati spinti dalla curiosità.
Come ci hanno visto, e giudicato, i nostri pazienti? Le tavole sono una microstoria che parte dal Medioevo e dentro ci siamo anche noi.
Per questo abbiamo chiesto al progetto culturale della diocesi di collaborare a questo studio.
Le tavole sono state raccolte e osservate una a una.
Presto apriremo una mostra ma già ci siamo riuniti a convegno: come medici, storici e teologi abbiamo guardato il nostro passato come in uno specchio».
Settecento tavole, quasi tutte su legno.
Camici bianche e tonache nere sono partiti da qui per studiare il rapporto fra «fede e salute» e riflettere sulla «religiosità popolare nella cura della malattia e nella professione medica».
«Nelle tavole – dice il dottor Alfani – c´è il racconto della medicina che piano piano riesce a dare risposte sempre più precise.
All´inizio non era così.
Questo paziente con la testa rotta, ad esempio, è solo fasciato.
Invoca i santi, non ha altra speranza, anche perché nella stanza non c´è nemmeno il medico.
Ma in tante tavole anche noi siamo presenti perché chi sta male invoca un doppio aiuto, il nostro e quello del cielo.
Ma quasi tutte le immagini sembrano spaccate in due.
Il paziente guarda verso l´alto, dove fra nuvolette e angeli appaiono i protettori, e anche i parenti, quasi sempre inginocchiati, guardano nella stessa direzione.
Il medico è invece accanto al letto e volta le spalle all´immagine sacra.
Nessuno lo guarda, nemmeno il paziente.
Ma resta comunque lì, a portare il suo aiuto terreno».
Non è mai stato facile il rapporto fra medicina e religione.
«Nella sacra scrittura – dice don Vittorio Croce, docente di teologia – c´è un certo rispetto per i medici ma non manca una vena di pessimismo.
Nel Siracide, II secolo avanti Cristo, si parla bene di questa professione ma si ricorda che la guarigione è sempre dono del Signore.
E si aggiunge: “Chi pecca contro il proprio creatore cada nelle mani del medico”.
Ancor più pesante, nel Vangelo, la notazione di Marco sulla donna colpita da perdite di sangue da ormai dodici anni: “Aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi peggiorando”».
«Le icone sono davvero anche la storia della malattia e della medicina», dice il presidente dei medici.
«Nei primi secoli, quasi tutti i malati sono nei loro letti, a casa loro.
Andare all´ospedale, per chi era abbiente, era un affronto.
Voleva dire che si era messi molto male e anche che non c ´erano più i mezzi per essere curati a casa propria.
Ci sono anche le stanze delle case dei poveri, con letti stretti e nessun mobile.
Poi appaiono le prime “camerate” da ospedale, e alcune sono quelle del nostro nosocomio astigiano, che trovò posto in un ex convento.
Quando i letti affiancati sono tre o quattro, e tutti i degenti appaiono nelle stesse condizioni, significa che la grazia chiesta era quella di guarire da un´epidemia, come colera, peste o vaiolo.
Si nota, in queste tavole, anche la cronologia dei rimedi trovati dalla scienza medica: si passa dall´impiastro allo sciroppo, dalla pillola all ´iniezione, e in un ultimo “Deo Gratias” di pochi decenni fa, appare anche la flebo.
I medici un tempo vestiti di nero, nel secolo scorso cominciano ad usare il camice bianco e accanto a loro appaiono prima le suore e poi le infermiere».
Le icone raccontano anche l´infortunistica, soprattutto quella del lavoro.
«Ci sono il barocciaio travolto dal cavallo, il contadino incornato dal toro, il muratore che cade dall´impalcatura.
Ci sono gli incidenti strani: questo bambino, ad esempio, è stato beccato a un occhio da un pavone.
Questa bambina è stata scottata dall´acqua bollente.
Buoi e cavalli lasciano il posto alle macchine a vapore, poi alle automobili e ai trattori.
Guardando le date, si scopre quando nelle nostre campagne è apparsa la prima trebbiatrice.
Ma ci sono quadri in cui non sono raccontati nessuna malattia evidente e nessun incidente: questa tavoletta numero 6661 mostra una persona semplicemente seduta su una seggiola accanto al letto, testa bassa, volto triste.
Credo che questa sia la prima rappresentazione di un problema oggi tanto diffuso: la depressione».
La rassegna degli ex voto alla fine consola il dottor Alfani.
«In fondo si capisce che chi invoca la guarigione si affida alla Madonna e ai santi ma anche a noi.
Il medico è sempre stato indispensabile.
Cambiano le terapie ma il rapporto medico-paziente è sempre fondamentale.
Io penso che la fede possa aiutare e integrare il nostro lavoro.
Non credo a un effetto placebo della fede ma in certi casi – quando il malessere non è solo fisico ma psicologico o psichico – il rapporto con il medico e la fiducia che si ripone in lui diventano fondamentali.
E per recuperare tranquillità ed equilibrio anche la preghiera a un santo può dare un aiuto.
Una preghiera non ripara una frattura e non elimina una cirrosi, ma sappiamo che la personalità umana è complessa e noi camici bianchi non abbiamo nessun monopolio».
«In molte tavolette – racconta Renato Bordone, ordinario di Storia medioevale all´Università di Torino – la figura del medico compare fra i protagonisti della scena, occupando una parte dello “spazio terreno” insieme al malato e ai suoi familiari.
Lo “spazio celeste” è riservato invece al protettore (Madonna o santo), per lo più avvolto da un nimbo sacro o da nuvole.
Sebbene in qualche caso medico e familiari compaiano schiena contro schiena – l´uno pensoso, rivolto al malato, gli altri rivolti al santo, quasi ignorando il medico – è chiaro che la presenza del medico nel quadro rientra anch´essa nell´ottenimento della grazia: in un certo senso è riconosciuta la sua collaborazione al “miracolo”».
Gli ex voto hanno iniziato ad apparire nella seconda metà del secolo Tredicesimo.
Prima si portavano nelle chiese oggetti di cera simbolici, un contro-dono alla grazia ricevuta.
«Gli ex voto – dice il docente – sono un documento culturale, un messaggio codificato per testimoniare credenze, paure, speranze.
Se ne ricavano informazioni interessanti.
Per esempio nella diocesi di Brescia – e secondo i primi esami anche qui ad Asti – si è scoperto che gli ex voto per malattia coprono la metà del materiale fino al principio del secolo Ventesimo, poi decrescono forse per i progressi della medicina, mentre aumentano quelli per incidenti sul lavoro, collegati con lo sviluppo dell´industria e della meccanizzazione delle campagne».
Nei santuari gli ex voto recenti sono ormai mosche bianche.
«Questo succede – dice don Alessandro Quaglia, architetto che cura i beni culturali della curia vescovile – perché la pietà si è affievolita nel nostro popolo.
Un tempo c´era il Padreterno a pensare a tutto, ora ci sono i medici».
Il presidente dell´ordine dei camici bianchi non è d´accordo.
«Gli ex voto sono soltanto cambiati.
Un tempo si andava dall´artista del paese per fare dipingere una tavoletta di ringraziamento per il santuario, adesso si fanno donazioni alla Lega antitumori o ad altri enti di ricerca».
Erano specialisti anche i santi, in questa terra.
«Il santo al quale qui da noi sono titolate più chiese – ricorda il teologo don Vittorio Croce – è San Rocco, invocato contro la peste di uomini e di animali.
Segue San Sebastiano, ucciso a colpi di freccia, protettore contro tutte le malattie del corpo e dello spirito.
Sant ´Antonio abate o del porcello viene invocato a protezione delle stalle ma anche dei cristiani, contro il fuoco detto appunto di Sant´Antonio.
Sempre San Sebastiano e San Grato difendono dalla grandine, Santa Lucia protegge gli occhi, San Defendente contro tutti i mali, Sant´Apollonia contro il mal di denti, San Biagio contro il mal di gola, Santa Libera è invocata per la fecondità e la protezione dei neonati…
Nel Vangelo Gesù guarisce molte malattie: lebbra, sordità, mutolezza, cecità, zoppìa (da poliomelite?), paralisi, idropisia, emorragia, febbre, pazzia.
Di lui la gente dice: “Ha fatto tutto bene: ha fatto udire i sordi e parlare i muti”.
Gesù “guarisce”.
Stranamente, non conforta i malati con quelle che noi chiamiamo “consolazioni di fede”, elevando la loro mente nella speranza del premio eterno, invitando a considerare il significato positivo della sofferenza come stimolo al pentimento dei peccati.
Noi, per lunga tradizione ascetica, per secoli abbiamo poi considerato la malattia e la sofferenza come una grazia in se stessa.
Io credo che il Concilio Vaticano II abbia trovato la giusta sintesi: “L´uomo gravemente infermo ha bisogno, nello stato di ansia e di pena in cui si trova, di una grazia speciale di Dio per non lasciarsi abbattere, con il pericolo che la tentazione faccia vacillare la sua fede”».
in “la Repubblica” del 13 giugno 2010
Il papa a Cipro porta la sua croce con letizia
Cari fratelli e sorelle in Cristo, il Figlio dell’Uomo deve essere innalzato, affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (cfr.
Giovanni 3, 14-15).
In questa messa adoriamo e lodiamo il nostro Signore Gesù Cristo, poiché con la sua santa croce ha redento il mondo.
Con la sua morte e risurrezione ha spalancato le porte del cielo e ci ha preparato un posto, affinché a noi, suoi seguaci, venga donato di partecipare alla sua gloria.
Nella gioia della vittoria redentrice di Cristo, saluto tutti voi riuniti nella chiesa della Santa Croce e vi ringrazio per la vostra presenza.
[…] Qui a Cipro, terra che fu il primo porto di approdo dei viaggi missionari di san Paolo attraverso il Mediterraneo, giungo oggi fra voi, sulle orme di quel grande apostolo, per rinsaldarvi nella vostra fede cristiana e per predicare il Vangelo che offre vita e speranza al mondo.
Il centro della celebrazione odierna è la croce di Cristo.
Molti potrebbero essere tentati di chiedere perché noi cristiani celebriamo uno strumento di tortura, un segno di sofferenza, di sconfitta e di fallimento.
È vero che la croce esprime tutti questi significati.
E tuttavia a causa di colui che è stato innalzato sulla croce per la nostra salvezza, rappresenta anche il definitivo trionfo dell’amore di Dio su tutti i mali del mondo.
Vi è un’antica tradizione che il legno della croce sia stato preso da un albero piantato da Seth, figlio di Adamo, nel luogo dove Adamo fu sepolto.
In quello stesso luogo, conosciuto come il Golgota, il luogo del cranio, Seth piantò un seme dall’albero della conoscenza del bene e del male, l’albero che si trovava al centro del giardino dell’Eden.
Attraverso la provvidenza di Dio, l’opera del Maligno sarebbe stata sconfitta ritorcendo le sue stesse armi contro di lui.
Ingannato dal serpente, Adamo ha abbandonato la filiale fiducia in Dio ed ha peccato mangiando i frutti dell’unico albero del giardino che gli era stato proibito.
Come conseguenza di quel peccato entrarono nel mondo la sofferenza e la morte.
I tragici effetti del peccato, e cioè la sofferenza e la morte, divennero del tutto evidenti nella storia dei discendenti di Adamo.
Lo vediamo dalla prima lettura di oggi (Numeri 21, 4-9), che fa eco alla caduta e prefigura la redenzione di Cristo.
Come punizione dei propri peccati, il popolo di Israele, mentre languiva nel deserto, venne morso dai serpenti ed avrebbe potuto salvarsi dalla morte solo volgendo lo sguardo al simbolo che Mosè aveva innalzato, prefigurando la croce che avrebbe posto fine al peccato e alla morte una volta per tutte.
Vediamo chiaramente che l’uomo non può salvare se stesso dalle conseguenze del proprio peccato.
Non può salvare se stesso dalla morte.
Soltanto Dio può liberarlo dalla sua schiavitù morale e fisica.
E poiché Dio ha amato così tanto il mondo, ha inviato il suo Figlio unigenito non per condannare il mondo – come avrebbe richiesto la giustizia – ma affinché attraverso di lui il mondo potesse essere salvato.
L’unigenito Figlio di Dio avrebbe dovuto essere innalzato come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così che quanti avrebbero rivolto lo sguardo a lui con fede potessero avere la vita.
Il legno della croce divenne lo strumento per la nostra redenzione, proprio come l’albero dal quale era stato tratto aveva originato la caduta dei nostri progenitori.
La sofferenza e la morte, che erano conseguenze del peccato, divennero il mezzo stesso attraverso il quale il peccato fu sconfitto.
L’agnello innocente fu sacrificato sull’altare della croce, e tuttavia dall’immolazione della vittima scaturì una vita nuova: il potere del maligno fu distrutto dalla potenza dell’amore che sacrifica se stesso.
La croce, pertanto, è qualcosa di più grande e misterioso di quanto a prima vista possa apparire.
Indubbiamente è uno strumento di tortura, di sofferenza e di sconfitta, ma allo stesso tempo esprime la completa trasformazione, la definitiva rivincita su questi mali, e questo lo rende il simbolo più eloquente della speranza che il mondo abbia mai visto.
Parla a tutti coloro che soffrono – gli oppressi, i malati, i poveri, gli emarginati, le vittime della violenza – ed offre loro la speranza che Dio può trasformare la loro sofferenza in gioia, il loro isolamento in comunione, la loro morte in vita.
Offre speranza senza limiti al nostro mondo decaduto.
Ecco perché il mondo ha bisogno della croce.
Essa non è semplicemente un simbolo privato di devozione, non è un distintivo di appartenenza a qualche gruppo all’interno della società, ed il suo significato più profondo non ha nulla a che fare con l’imposizione forzata di un credo o di una filosofia.
Parla di speranza, parla di amore, parla della vittoria della non violenza sull’oppressione, parla di Dio che innalza gli umili, dà forza ai deboli, fa superare le divisioni, e vincere l’odio con l’amore.
Un mondo senza croce sarebbe un mondo senza speranza, un mondo in cui la tortura e la brutalità rimarrebbero sfrenati, il debole sarebbe sfruttato e l’avidità avrebbe la parola ultima.
L’inumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo si manifesterebbe in modi ancor più orrendi, e non ci sarebbe la parola fine al cerchio malefico della violenza.
Solo la croce vi pone fine.
Mentre nessun potere terreno può salvarci dalle conseguenze del nostro peccato, e nessuna potenza terrena può sconfiggere l’ingiustizia sin dalla sua sorgente, tuttavia l’intervento salvifico del nostro Dio misericordioso ha trasformato la realtà del peccato e della morte nel suo opposto.
Questo è quanto celebriamo quando diamo gloria alla croce del Redentore.
Giustamente sant’Andrea di Creta descrive la croce come “più nobile e preziosa di qualsiasi cosa sulla terra […], poiché in essa e mediante di essa e per essa tutta la ricchezza della nostra salvezza è stata accumulata e a noi restituita” (Oratio X, PG 97, 1018-1019).
Cari fratelli sacerdoti, cari religiosi, cari catechisti, il messaggio della croce è stato affidato a noi, così che possiamo offrire speranza al mondo.
Quando proclamiamo Cristo crocifisso, non proclamiamo noi stessi, ma lui.
Non offriamo la nostra sapienza al mondo, non parliamo dei nostri propri meriti, ma fungiamo da canali della sua sapienza, del suo amore, dei suoi meriti salvifici.
Sappiamo di essere semplicemente dei vasi fatti di creta e, tuttavia, sorprendentemente siamo stati scelti per essere araldi della verità salvifica che il mondo ha bisogno di udire.
Non stanchiamoci mai di meravigliarci di fronte alla grazia straordinaria che ci è stata data, non cessiamo mai di riconoscere la nostra indegnità, ma allo stesso tempo sforziamoci sempre di diventare meno indegni della nostra nobile chiamata, in modo da non indebolire mediante i nostri errori e le nostre cadute la credibilità della nostra testimonianza.
In questo Anno Sacerdotale permettetemi di rivolgere una parola speciale ai sacerdoti oggi qui presenti e a quanti si preparano all’ordinazione.
Riflettete sulle parole pronunciate al novello sacerdote dal Vescovo, mentre gli presenta il calice e la patena: “Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore”.
Mentre proclamiamo la croce di Cristo, cerchiamo sempre di imitare l’amore disinteressato di colui che offrì se stesso per noi sull’altare della croce, di colui che è allo stesso tempo sacerdote e vittima, di colui nella cui persona parliamo ed agiamo quando esercitiamo il ministero ricevuto.
Nel riflettere sulle nostre mancanze, sia individualmente sia collettivamente, riconosciamo umilmente di aver meritato il castigo che lui, l’Agnello innocente, ha patito in nostra vece.
E se, in accordo con quanto abbiamo meritato, avessimo qualche parte nelle sofferenze di Cristo, rallegriamoci, perché ne avremo una felicità ben più grande quando sarà rivelata la sua gloria.
Nei miei pensieri e nelle mie preghiere mi ricordo in modo speciale dei molti sacerdoti e religiosi del Medio Oriente che stanno sperimentando in questi momenti una particolare chiamata a conformare le proprie vite al mistero della croce del Signore.
Dove i cristiani sono in minoranza, dove soffrono privazioni a causa delle tensioni etniche e religiose, molte famiglie prendono la decisione di andare via, e anche i pastori sono tentati di fare lo stesso.
In situazioni come queste, tuttavia, un sacerdote, una comunità religiosa, una parrocchia che rimane salda e continua a dar testimonianza a Cristo è un segno straordinario di speranza non solo per i cristiani, ma anche per quanti vivono nella Regione.
La loro sola presenza è un’espressione eloquente del Vangelo della pace, della decisione del Buon Pastore di prendersi cura di tutte le pecore, dell’incrollabile impegno della Chiesa al dialogo, alla riconciliazione e all’amorevole accettazione dell’altro.
Abbracciando la croce loro offerta, i sacerdoti e i religiosi del Medio Oriente possono realmente irradiare la speranza che è al cuore del mistero che celebriamo nella liturgia odierna.
Rinfranchiamoci con le parole della seconda lettura di oggi (Filippesi 2, 5-11), che parla così bene del trionfo riservato a Cristo dopo la morte in croce, un trionfo che siamo invitati a condividere.
“Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra”.
Sì, amati fratelli e sorelle in Cristo, lungi da noi la gloria che non sia quella nella croce di Nostro Signore Gesù Cristo (cfr.
Galati 6, 14).
Lui è la nostra vita, la nostra salvezza e la nostra risurrezione.
Per lui noi siamo stati salvati e resi liberi.
__________ Il programma e i testi della visita di Benedetto XVI a Cipro, nel sito del Vaticano: > Viaggio apostolico a Cipro, 4-6 giugno 2010