Il nuovo “Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione”.

LETTERA APOSTOLICA in forma di MOTU PROPRIO UBICUMQUE ET SEMPER del Sommo Pontefice BENEDETTO XVI CON LA QUALE SI ISTITUISCE IL PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PROMOZIONE DELLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE La Chiesa ha il dovere di annunciare sempre e dovunque il Vangelo di Gesù Cristo.
Egli, il primo e supremo evangelizzatore, nel giorno della sua ascensione al Padre comandò agli Apostoli: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19-20).
Fedele a questo comando la Chiesa, popolo che Dio si è acquistato affinché proclami le sue ammirevoli opere (cfr 1Pt 2,9), dal giorno di Pentecoste in cui ha ricevuto in dono lo Spirito Santo (cfr At 2,14), non si è mai stancata di far conoscere al mondo intero la bellezza del Vangelo, annunciando Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, lo stesso “ieri, oggi e sempre” (Eb 13,8), che con la sua morte e risurrezione ha attuato la salvezza, portando a compimento la promessa antica.
Pertanto, la missione evangelizzatrice, continuazione dell’opera voluta dal Signore Gesù, è per la Chiesa necessaria ed insostituibile, espressione della sua stessa natura.
Tale missione ha assunto nella storia forme e modalità sempre nuove a seconda dei luoghi, delle situazioni e dei momenti storici.
Nel nostro tempo, uno dei suoi tratti singolari è stato il misurarsi con il fenomeno del distacco dalla fede, che si è progressivamente manifestato presso società e culture che da secoli apparivano impregnate dal Vangelo.
Le trasformazioni sociali alle quali abbiamo assistito negli ultimi decenni hanno cause complesse, che affondano le loro radici lontano nel tempo e hanno profondamente modificato la percezione del nostro mondo.
Si pensi ai giganteschi progressi della scienza e della tecnica, all’ampliarsi delle possibilità di vita e degli spazi di libertà individuale, ai profondi cambiamenti in campo economico, al processo di mescolamento di etnie e culture causato da massicci fenomeni migratori, alla crescente interdipendenza tra i popoli.
Tutto ciò non è stato senza conseguenze anche per la dimensione religiosa della vita dell’uomo.
E se da un lato l’umanità ha conosciuto innegabili benefici da tali trasformazioni e la Chiesa ha ricevuto ulteriori stimoli per rendere ragione della speranza che porta (cfr 1Pt 3,15), dall’altro si è verificata una preoccupante perdita del senso del sacro, giungendo persino a porre in questione quei fondamenti che apparivano indiscutibili, come la fede in un Dio creatore e provvidente, la rivelazione di Gesù Cristo unico salvatore, e la comune comprensione delle esperienze fondamentali dell’uomo quali il nascere, il morire, il vivere in una famiglia, il riferimento ad una legge morale naturale.
Se tutto ciò è stato salutato da alcuni come una liberazione, ben presto ci si è resi conto del deserto interiore che nasce là dove l’uomo, volendosi unico artefice della propria natura e del proprio destino, si trova privo di ciò che costituisce il fondamento di tutte le cose.
Già il Concilio Ecumenico Vaticano II assunse tra le tematiche centrali la questione della relazione tra la Chiesa e questo mondo contemporaneo.
Sulla scia dell’insegnamento conciliare, i miei Predecessori hanno poi ulteriormente riflettuto sulla necessità di trovare adeguate forme per consentire ai nostri contemporanei di udire ancora la Parola viva ed eterna del Signore.
Con lungimiranza il Servo di Dio Paolo VI osservava che l’impegno dell’evangelizzazione “si dimostra ugualmente sempre più necessario, a causa delle situazioni di scristianizzazione frequenti ai nostri giorni, per moltitudini di persone che hanno ricevuto il battesimo ma vivono completamente al di fuori della vita cristiana, per gente semplice che ha una certa fede ma ne conosce male i fondamenti, per intellettuali che sentono il bisogno di conoscere Gesù Cristo in una luce diversa dall’insegnamento ricevuto nella loro infanzia, e per molti altri” (Esort.
ap.
Evangelii nuntiandi, n.
52).
E, con il pensiero rivolto ai lontani dalla fede, aggiungeva che l’azione evangelizzatrice della Chiesa “deve cercare costantemente i mezzi e il linguaggio adeguati per proporre o riproporre loro la rivelazione di Dio e la fede in Gesù Cristo” (Ibid., n.
56).
Il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II fece di questo impegnativo compito uno dei cardini del suo vasto Magistero, sintetizzando nel concetto di “nuova evangelizzazione”, che egli approfondì sistematicamente in numerosi interventi, il compito che attende la Chiesa oggi, in particolare nelle regioni di antica cristianizzazione.
Un compito che, se riguarda direttamente il suo modo di relazionarsi verso l’esterno, presuppone però, prima di tutto, un costante rinnovamento al suo interno, un continuo passare, per così dire, da evangelizzata ad evangelizzatrice.
Basti ricordare ciò che si affermava nell’Esortazione postsinodale Christifideles Laici: “Interi paesi e nazioni, dove la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti e capaci di dar origine a comunità di fede viva e operosa, sono ora messi a dura prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal continuo diffondersi dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo.
Si tratta, in particolare, dei paesi e delle nazioni del cosiddetto Primo Mondo, nel quale il benessere economico e il consumismo, anche se frammisti a paurose situazioni di povertà e di miseria, ispirano e sostengono una vita vissuta «come se Dio non esistesse».
Ora l’indifferenza religiosa e la totale insignificanza pratica di Dio per i problemi anche gravi della vita non sono meno preoccupanti ed eversivi rispetto all’ateismo dichiarato.
E anche la fede cristiana, se pure sopravvive in alcune sue manifestazioni tradizionali e ritualistiche, tende ad essere sradicata dai momenti più significativi dell’esistenza, quali sono i momenti del nascere, del soffrire e del morire.
[…] In altre regioni o nazioni, invece, si conservano tuttora molto vive tradizioni di pietà e di religiosità popolare cristiana; ma questo patrimonio morale e spirituale rischia oggi d’essere disperso sotto l’impatto di molteplici processi, tra i quali emergono la secolarizzazione e la diffusione delle sette.
Solo una nuova evangelizzazione può assicurare la crescita di una fede limpida e profonda, capace di fare di queste tradizioni una forza di autentica libertà.
Certamente urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana.
Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi paesi e in queste nazioni” (n.
34).
Facendomi dunque carico della preoccupazione dei miei venerati Predecessori, ritengo opportuno offrire delle risposte adeguate perché la Chiesa intera, lasciandosi rigenerare dalla forza dello Spirito Santo, si presenti al mondo contemporaneo con uno slancio missionario in grado di promuovere una nuova evangelizzazione.
Essa fa riferimento soprattutto alle Chiese di antica fondazione, che pure vivono realtà assai differenziate, a cui corrispondono bisogni diversi, che attendono impulsi di evangelizzazione diversi: in alcuni territori, infatti, pur nel progredire del fenomeno della secolarizzazione, la pratica cristiana manifesta ancora una buona vitalità e un profondo radicamento nell’animo di intere popolazioni; in altre regioni, invece, si nota una più chiara presa di distanza della società nel suo insieme dalla fede, con un tessuto ecclesiale più debole, anche se non privo di elementi di vivacità, che lo Spirito Santo non manca di suscitare; conosciamo poi, purtroppo, delle zone che appaiono pressoché completamente scristianizzate, in cui la luce della fede è affidata alla testimonianza di piccole comunità: queste terre, che avrebbero bisogno di un rinnovato primo annuncio del Vangelo, appaiono essere particolarmente refrattarie a molti aspetti del messaggio cristiano.
La diversità delle situazioni esige un attento discernimento; parlare di “nuova evangelizzazione” non significa, infatti, dover elaborare un’unica formula uguale per tutte le circostanze.
E, tuttavia, non è difficile scorgere come ciò di cui hanno bisogno tutte le Chiese che vivono in territori tradizionalmente cristiani sia un rinnovato slancio missionario, espressione di una nuova generosa apertura al dono della grazia.
Infatti, non possiamo dimenticare che il primo compito sarà sempre quello di rendersi docili all’opera gratuita dello Spirito del Risorto, che accompagna quanti sono portatori del Vangelo e apre il cuore di coloro che ascoltano.
Per proclamare in modo fecondo la Parola del Vangelo, è richiesto anzitutto che si faccia profonda esperienza di Dio.
Come ho avuto modo di affermare nella mia prima Enciclica Deus caritas est: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (n.
1).
Similmente, alla radice di ogni evangelizzazione non vi è un progetto umano di espansione, bensì il desiderio di condividere l’inestimabile dono che Dio ha voluto farci, partecipandoci la sua stessa vita.
Pertanto, alla luce di queste riflessioni, dopo avere esaminato con cura ogni cosa e aver richiesto il parere di persone esperte, stabilisco e decreto quanto segue: Art.
1.
§ 1.
È costituito il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, quale Dicastero della Curia Romana, ai sensi della Costituzione apostolica Pastor bonus.
§ 2.
Il Consiglio persegue .la propria finalità sia stimolando la riflessione sui temi della nuova evangelizzazione, sia individuando e promuovendo le forme e gli strumenti atti a realizzarla.
Art.
2.
L’azione del Consiglio, che si svolge in collaborazione con gli altri Dicasteri ed Organismi della Curia Romana, nel rispetto delle relative competenze, è al servizio delle Chiese particolari, specialmente in quei territori di tradizione cristiana dove con maggiore evidenza si manifesta il fenomeno della secolarizzazione.
Art.
3.
Tra i compiti specifici del Consiglio si segnalano: 1°.
approfondire il significato teologico e pastorale della nuova evangelizzazione; 2°.
promuovere e favorire, in stretta collaborazione con le Conferenze Episcopali interessate, che potranno avere un organismo ad hoc, lo studio, la diffusione e l’attuazione del Magistero pontificio relativo alle tematiche connesse con la nuova evangelizzazione; 3°.
far conoscere e sostenere iniziative legate alla nuova evangelizzazione già in atto nelle diverse Chiese particolari e promuoverne la realizzazione di nuove, coinvolgendo attivamente anche le risorse presenti negli Istituti di Vita Consacrata e nelle Società di Vita Apostolica, come pure nelle aggregazioni di fedeli e nelle nuove comunità; 4°.
studiare e favorire l’utilizzo delle moderne forme di comunicazione, come strumenti per la nuova evangelizzazione; 5°.
promuovere l’uso del Catechismo della Chiesa Cattolica, quale formulazione essenziale e completa del contenuto della fede per gli uomini del nostro tempo.
Art.4 § 1.
Il Consiglio è retto da un Arcivescovo Presidente, coadiuvato da un Segretario, da un Sotto-Segretario e da un congruo numero di Officiali, secondo le norme stabilite dalla Costituzione apostolica Pastor bonus e dal Regolamento Generale della Curia Romana.
§ 2.
Il Consiglio ha propri Membri e può disporre di propri Consultori.
Tutto ciò che è stato deliberato con il presente Motu proprio, ordino che abbia pieno e stabile valore, nonostante qualsiasi cosa contraria, anche se degna di particolare menzione, e stabilisco che venga promulgato mediante la pubblicazione nel quotidiano “L’Osservatore Romano” e che entri in vigore il giorno della promulgazione.
Dato a Castel Gandolfo, il giorno 21 settembre 2010, Festa di san Matteo, Apostolo ed Evangelista, anno sesto di Pontificato.
BENEDICTUS PP.
XVI Un dicastero per la dottrina Ratzinger di Massimo Faggioli Papa Benedetto XVI ha pubblicato il motu proprio Ubicumque et semper che istituisce il nuovo “Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione”.
Il documento era atteso, e la sorpresa potrebbe riguardare la struttura data dal papa al nuovo organismo della Curia romana, che al momento prevede alla sua guida “un Arcivescovo Presidente” e non (come invece ci si attendeva per mons.
Fisichella) la porpora di un cardinale.
Il linguaggio usato dal motu proprio dice molto dell’impostazione data a questo nuovo strumento di evangelizzazione della Curia romana.
Benedetto XVI parla di “fenomeno del distacco della fede”, di “perdita del senso del sacro”, e coniuga al negativo (come liberazione dalla fede, dalla morale naturale, dalla rivelazione divina) il termine “liberazione” – un termine che nella storia della politica dottrinale di Ratzinger ricopre un ruolo preciso, specialmente negli anni Ottanta della repressione della teologia latinoamericana postconciliare.
Benedetto XVI fa un implicito accenno alla Gaudium et spes del Vaticano II “per la questione della relazione tra la Chiesa e questo mondo contemporaneo”, e ricostruisce la storia dell’idea di una “nuova evangelizzazione” tra i pontificati di Paolo VI e di Giovanni Paolo II.
Quanto all’ambito della missione di questo nuovo Pontificio Consiglio, il motu proprio del papa indica “le chiese di antica fondazione” e “che vivono in territori tradizionalmente cristiani”.
Il nuovo organismo è presieduto da un arcivescovo (e non da un cardinale, diversamente dalle altre Congregazioni e Consigli della Curia romana) e dovrà lavorare “in stretta collaborazione con le Conferenze Episcopali interessate”.
Non molte indicazioni in più sono venute da mons.
Fisichella, che ha presentato il motu proprio del papa rimarcando gli elementi dell’analisi della situazione della chiesa oggi in Occidente: distacco dalla fede, indifferenza religiosa, ateismo di fatto, relativismo, secolarismo, individualismo, soggettivismo.
In risposta a questa situazione, che coinvolge specialmente “soprattutto le chiese di antica tradizione” ma non solo, il nuovo Pontificio Consiglio dovrà “elaborare un pensiero forte in grado di sostenere un’azione pastorale corrispondente”, in particolare facendo ricorso ai “contenuti teologici e pastorali del magistero degli ultimi decenni” e al Catechismo della Chiesa Cattolica, definito “uno dei frutti più maturi delle indicazioni conciliari”.
Alcune domande rimangono per ora senza una chiara risposta.
La prima riguarda le coordinate geografiche di questo “nuovo slancio missionario”: solo le chiese d’Occidente (Europa, Americhe, Australia?), così da creare un contrappeso al ruolo storico della Congregazione di Propaganda Fide creata da Gregorio XV nel 1622? La struttura in dote al nuovo Pontificio Consiglio per ora non sembra paragonabile alla potenza di Propaganda Fide.
Una seconda questione riguarda il rapporto tra il nuovo organismo e le conferenze episcopali nazionali e i vescovi locali, dato che il magistero papale di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ha limitato  drasticamente (specialmente dal motu proprio del 1998 Apostolos Suos in poi) la voce degli episcopati locali: sarà interessante vedere come questo nuovo organismo inciderà su episcopati (come quello degli Stati Uniti) teologicamente in linea con la lettura dell’Occidente data da Benedetto XVI, ma non sempre felici di vedere la  propria autorità ulteriormente limitata da quella di Roma.
Indicativa è la citazione del 2012 non come il cinquantesimo anniversario del Vaticano II, ma il ventennale del Catechismo universale.
La proposta di un nuovo Catechismo era stata ignorata dal concilio, e ripresa da Giovanni Paolo II dopo il Sinodo straordinario del 1985, che contribuì ad elevare la “dottrina Ratzinger” a caposaldo della politica dottrinale della chiesa post-conciliare.
In attesa del nuovo libro-intervista di Benedetto XVI con Peter Seewald, per ora basti rileggere un passaggio di un articolo del teologo Ratzinger del 1975: “La mancanza di chiarezza circa il vero significato del Vaticano II è strettamente legata alla diagnosi del mondo moderno data dalla costituzione Gaudium et spes”.
Il motu proprio papale sottende questa lettura di Gaudium et spes e fa del Catechismo universale (per tramite del nuovo Pontificio Consiglio) la reazione contro “l’ingenuo ottimismo” che Ratzinger ha sempre rimproverato a Gaudium et spes.
Il giovane Karol Wojtyła fu uno dei più importanti autori di quel documento conciliare: da oggi hanno altra materia da romanzo i cultori del dibattito su cattolicesimo ed “ermeneutica della continuità/discontinuità in “Europa” del 13 ottobre 2010

Seguendo Gesù

Sotto il titolo Seguendo Gesù, Manlio Simonetti ed Emanuela Prinzivalli raccolgono con precisione ed intelligenza i testi principali della letteratura cristiana delle origini.
Il primo volume, che esce in libreria in questi giorni, comprende la cosiddetta Didachè, la Prima lettera di Clemente ai Corinzi e le Lettere di Ignazio di Antiochia (Fondazione Valla, Mondadori, pagg.
XXIII-630: euro 30, euro 23 nei mesi di ottobre-dicembre 2010).
Il secondo volume, di prossima pubblicazione a cura degli stessi studiosi, raccoglierà la lettera di Policarpo, il Pastore di Erma e la lettera di Barnaba.
Siamo nei primi decenni del Cristianesimo: tra il 60-70 e il 120.
I cristiani non hanno ancora assunto il loro nome, sebbene Gesù sia il fondamento della loro vita.
Tra gli scrittori e lettori di questi testi, qualcuno ha incontrato i discepoli diretti del Signore: molti hanno appreso le sue parole attraverso una tradizione orale.
Le comunità cristiane sono ancora informi e incipienti, senza strutture radicate, e con tratti fortemente carismatici.
Sia gli apostoli (da non confondere con i dodici) sia i profeti sia i maestri sono missionari itineranti, come secoli dopo accadrà anche tra i Manichei.
Essi non hanno casa né chiesa: possono sostare in un luogo solo due giorni, e se si soffermano più a lungo vengono considerati “falsi profeti”.
I riti sono incerti: non si è ancora stabilito chi debba essere il ministro del battesimo; forse tutti i fedeli possono battezzare.
Questa situazione fluidissima tende a irrigidirsi: negli anni di Ignazio, si forma una gerarchia a tre livelli, più stretta e compatta di quella di Paolo: vescovi, presbiteri, diaconi.
Leggendo questi testi arcaici, la nostra prima sensazione è di percorrere il cristianesimo originario, che respira con lo stesso respiro di Gesù e ne percorre le norme.
In realtà, le cose stanno diversamente.
Spesso ciò che manca, al primo cristianesimo, è in parte proprio il cristianesimo.
I nostri autori non conoscono i Vangeli sinottici, che non erano ancora stati scritti o che venivano scritti negli stessi anni, o che non avevano ancora acquistato autorità.
Essi conoscono passi paralleli, discesi da una raccolta parasinottica orale o scritta; e alcuni comprendono perfettamente le lettere di Paolo.
Clemente possiede la filosofia ebraico-ellenistica, che poi verrà dimenticata o trascurata dalle comunità cristiane.
Nella sua lettera, colpisce sopratutto il ricordo dell’Antico Testamento: testo unico e capitale, sebbene i suoi passi e le sue figure vengano interpretati come anticipi di Gesù.Specialmente nella Didachè, che non ha un aspetto narrativo, manca la figura di Gesù, che predica,  cammina, parla segretamente ai suoi discepoli.
Nello stesso testo c’è una mancanza ancora più grave: non c’è traccia del corpo e del sangue di Cristo, e della sua morte come redenzione, quasi che Paolo non avesse mai predicato.
Gesù non è ancora divenuto Xristos: cioè il Messia, termine essenziale nei Vangeli.
Egli non è la salvezza, ma la via che porta alla salvezza: ci conduce a Dio, ma non è la meta.
«Grazie a lui fissiamo lo sguardo alle altezze dei cieli, grazie a lui osserviamo come in uno specchio il volto immacolato e altissimo di Dio».
Ma, a poco a poco il sangue di Gesù Cristo diventa il centro della salvezza; e nei primi anni del secondo secolo, Ignazio scrive queste parole bellissime: «Aspetta colui che è al di sopra del mondo, senza tempo, invisibile per noi visibile, impalpabile, impassibile per noi passibile, colui che per primo ha sopportato ogni sorta di sofferenza».
Dio cade in ombra, la creazione passa in secondo piano; e Gesù cresce ed avanza sulla scena, con il suo corpo sanguinante e la sua morte, fino a diventare colui che è stato e sarà per sempre: il Cristo di Paolo e di Giovanni.
Chi parla, nella Prima lettera ai Corinzi di Clemente, è la chiesa di Roma: l’intera, vasta comunità dei fedeli, che si rivolge con una sola voce ai cristiani di Corinto: «La chiesa di Dio che vive da straniera a Roma alla chiesa di Dio che vive straniera a Corinto».
Sia l’una sia l’altra chiesa sono doppiamente straniere: rispetto al mondo, perché i cristiani sono estranei nei confronti del mondo, e dinanzi al cielo, perché la nostra vita su questa terra è provvisoria.
Sia la chiesa di Corinto, a cui si rivolge Clemente, sia le chiese dell’Asia Minore, a cui si rivolge Ignazio, sono preda della discordia: le comunità cristiane ripetono la stessa situazione dei gruppi ebraici, che nelle passate generazioni erano state travolte da odi feroci.
La condizione delle chiese sembra terribile: discordia, rivolta, sedizione, gelosia, lite, invidia, persecuzioni, disordini “funesti e sacrileghi”.
Clemente e Ignazio richiamano episodi della Bibbia: il delitto di Caino, la gelosia di Esaù verso Giacobbe, quella dei fratelli verso Giuseppe, di Saul verso Davide.
Non sappiamo esattamente quale sia la ragione di queste discordie.
Nel caso delle lettere di Ignazio, è chiaro che le comunità medioorientali sono in parte dominate da gruppi docetisti, che negano la morte sulla croce di Cristo incarnato.
In generale, le cause sono meno precise: le autorità e le gerarchie tradizionali delle chiese sono discusse da contestatori che provengono dal basso (talvolta donne).
«Sono insorti – proclamava Clemente – quelli senza onore contro gli onorati, gli oscuri contro gli illustri, gli stolti contro gli assennati, i giovani contro gli anziani…
Ciascuno ha abbandonato il timore di Dio».
Contro questa condizione di scisma e di dissidio, Clemente e Ignazio raccomandano, quasi con le stesse parole, l’unità, la concordia, la pace nelle comunità cristiane.
«Dobbiamo fare ordinatamente tutto quanto il Padrone ha concordato di compiere nei tempi stabiliti».
Come la chiesa è unita con Gesù Cristo, e Gesù Cristo col Padre, così tutti i fedeli debbono essere uniti col vescovo.
«Voi non dovete far niente senza il vescovo e i presbiteri.
Tutto sia fatto in comune: una sola preghiera, una sola invocazione, una sola intenzione, una sola speranza nell’amore e nella gioia irreprensibile che è di Gesù Cristo».
Come nella Prima epistola ai Corinzi di Paolo, tutto si compie e si scioglie nell’amore: agape.
«L’amore ci lega a Dio: l’amore tutto sopporta, tutto tollera: l’amore non ha divisione, l’amore non crea discordie, l’amore tutto compie nella concordia…
Vedete, o diletti, come è grande e meraviglioso l’amore, e della sua perfezione non c’è spiegazione».
C’è una differenza con Paolo, nel quale la perfezione dell’amore veniva chiaramente spiegata: esso è più eccelso della speranza e della carità e non ha mai fine.
Qui, in Clemente, l’amore rappresenta il culmine dell’esistenza cristiana proprio perché è una condizione inspiegabile e ineffabile.
Vescovo di Antiochia tra il 110 e il 120, Ignazio venne arrestato dall’autorità romana, messo in viaggio sotto scorta, e condotto a Roma, dove avrebbe dovuto essere gettato alle belve dell’anfiteatro.
Il viaggio fu lento: ad ogni tappa, messi delle comunità cristiane dell’Asia Minore gli facevano omaggio, mentre egli scriveva lettere, nelle quali risuonava la tradizione paolina.
Il tema principale, grandioso e straziante, è quello del martirio.
Ignazio non vuole, a nessun prezzo, per nessuna ragione, essere liberato dalle catene e dalla condanna.
Solo imitando Gesù, solo subendo la morte come Gesù in croce, egli diverrà pienamente cristiano.
La sua morte sarà come il tramonto del sole: ma questo tramonto-morte si capovolge nella resurrezione in Dio.
Con una tremenda autoferocia, Ignazio giunge al punto di dire che se le belve non avessero voluto divorarlo lui «le costringerà a forza».
«Fuoco e croce, scontri con belve, lacerazioni, squarci, dispersione d’ossa, mutilazione di membra, triturazione, – purché io possa raggiungere Gesù Cristo».
Nell’anfiteatro, le zanne crudeli delle belve lo macineranno, trasformandolo in pane puro.
L’altro tema di Ignazio è quello del silenzio di Dio, e della discesa nascosta del Redentore.
Questa discesa conosce tre tappe: la verginità di Maria, il parto di Maria, la morte del Signore; le tre tappe sono la suprema manifestazione di Dio, che parla soprattutto quando tace.
Satana, e i principi di questo mondo, ignorano il silenzio di Dio.
Se vogliamo dirci cristiani, dobbiamo ascoltare sia le parole udibili dei Vangeli sia le parole nascoste e silenziose del Signore, nelle quali egli ci rivela tutti i misteri di Cristo, tutti gli enigmi dell’universo.
di Pietro Citati in “la Repubblica” del 5 ottobre 2010

Le proposte di un vescovo per «riformare la chiesa»

L’intervista «Chi non è contro di noi è con noi», «Probati viri uxorati», «Gay: dall’orgoglio alla consapevolezza», «Eluana ci parla ancora», «Divorziati risposati», «Chiesa povera tra i poveri», ecc.
Basta scorrere l’indice per capire che il nuovo libro di monsignor Giuseppe Casale, vescovo emerito di Foggia-Bovino, esplicitamente intitolato Per riformare la Chiesa.
Appunti per una stagione conciliare (La Meridiana, 2010, pp.
76, € 12), non elude nessuno dei temi più scottanti dell’attuale dibattito ecclesiale.
E lo fa con una semplicità e una parresia forse favorite dagli 87 anni, ma certo non comuni negli ambienti ecclesiastici.
Per approfondire queste proposte, Jesus ha intervistato l’autore.
In questo libretto lei presenta una serie di proposte innovative.
Pensa che altri vescovi le condividano? «Io credo che una buona parte dei vescovi condivida, soffrendo, la necessità di affrontare questi temi.
Dico soffrendo perché essi rimandano a quella collegialità episcopale che oggi viene oscurata dall’enfasi posta sul papato.
Primato del Papa e collegialità episcopale sono due aspetti dell’unica comunione nella Chiesa, ma oggi il primo è amplificato in misura esagerata dall’azione della Curia romana, che dovrebbe svolgere un ruolo puramente esecutivo, mentre ne esercita di fatto uno normativo, sovrapponendosi alle Chiese locali, e il secondo rimane inoperante, non andando oltre la funzione consultiva del Sinodo dei vescovi.
Così del principio “sub Petro et cum Petro” che dovrebbe guidare la Chiesa resta solo il primo termine.
In Italia poi, il fatto che il presidente della Conferenza episcopale sia nominato dal Papa e il modo “forte” con cui il cardinal Camillo Ruini ha governato la Cei per vent’anni hanno diffuso tra i vescovi l’idea, infondata teologicamente, che ci sia un “capo dell’episcopato”, cui si deve obbedire e se un vescovo esprime un’opinione diversa sia un ribelle.
Così si restaura una visione ecclesiologica preconciliare, con il rischio di allontanare la Chiesa dal mondo di oggi e dalle sue esigenze, mentre la fede deve camminare con la storia.
Bisogna quindi aprire una “stagione conciliare” in cui i vescovi si riuniscano con il Papa per affrontare con coraggio questioni come il celibato dei preti, la contraccezione, la procedura per la nomina dei vescovi, ecc.».
Nel libro, lei richiama l’esigenza di un dialogo intraecclesiale.
Che cosa significa in concreto? «Io ho ripreso la grande e un po’ dimenticata enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI.
Essa parla di dialogo intraecclesiale, che è fondamentale, perché l’opinione dei credenti deve formarsi nel confronto delle varie esperienze, di fede, di lavoro, comunitarie, ecc.
Ma negli ultimi anni questo dialogo, soprattutto in Italia, è venuto meno: non c’è tra i vescovi, che quando partecipano all’assemblea della Cei si trovano già preconfezionato il documento finale, non c’è tra i fedeli, perché è prevalsa l’idea che “si guida dal vertice” e la comunità cristiana è diventata conformista.
Basti vedere Avvenire, che non dà spazio alla pluralità di opinioni esistenti nella Chiesa italiana, ma pubblica solo ciò che è in linea con l’orientamento dei vertici della Cei, ignorando o condannando chi la pensa diversamente.
Il dialogo afferma la libertà di confrontarsi con il Vangelo, di porre in pubblico le proprie opinioni, senza che nessuno si ritenga detentore della verità, ma tutti alla sua ricerca».
Lei esprime perplessità sul modo in cui nella Chiesa si affrontano i cosiddetti «valori non negoziabili».
«L’espressione non mi piace, perché se sono valori non si negoziano, non se ne fa mercato.
Il problema è che, di fronte a questioni inedite come le convivenze di fatto, le relazioni omosessuali o il testamento biologico, ci illudiamo di mantenere lo status quo ricorrendo alle leggi, mentre questo è inevitabilmente destinato a cambiare e il futuro dipenderà solo da un’educazione delle coscienze alla fede nel Vangelo, in Gesù.
Purtroppo nella Chiesa prevale una prospettiva metafisica e deduttiva, mentre servirebbe una mentalità storico-induttiva.
Per esempio, la legge naturale non è qualcosa di fissato nei ritmi biologici, che cambiano, come ci mostra la scienza, ma comprende anche la storia e la cultura.
Bisogna “agire dal di dentro”, come Paolo ha fatto con la filosofia greca e il diritto romano, riuscendo a creare un amalgama nuovo, nel nostro caso una società fondata sulla libertà di coscienza, sul rispetto reciproco, sul dialogo e sulle convinzioni profonde.
Quindi la mia è una prospettiva di grande speranza, sia pur attraverso un travaglio, perché dovremo abituarci a farci liberare a opera della storia da tanti attaccamenti».
Nel libro lei parla di una «Chiesa povera tra i poveri»…
«E un tema che mi sta molto a cuore, perché la ricchezza perverte tutto, mentre noi dobbiamo mettere i beni materiali al servizio della comunità nella giustizia e nella solidarietà, sapendo che l’accumulazione ci coinvolge nella logica capitalista, che tiene un miliardo di persone nella fame.
Noi siamo una Chiesa borghese, che tranquillizza i borghesi, i quali possono lavarsi la coscienza se fanno una piccola elemosina e godersi il risultato di piccoli o grandi compromessi tipici di questa società in cui governano gli uomini della finanza.
Invece dovremmo rinunciare alle proprietà ecclesiastiche e affidarci alla generosità della gente.
Altrimenti ci inseriamo nel ginepraio dei meccanismi per farle fruttare sempre di più, mentre ci dobbiamo battere per superare gli attuali assetti capitalistici, trovando una soluzione perché non ci siano più i grandi, scandalosi guadagni e le grandi, scandalose, miserie, anche in Italia.
In questa linea si sono mosse in America latina le Comunità ecclesiali di base e la Teologia della liberazione, e in Europa i preti operai.
Oggi non se ne parla più, ma l’oppressione nel mondo del lavoro esiste ancora e la Chiesa dovrebbe affrontarne con coraggio le nuove forme per evitare il “San Precario”, l’incertezza per cui il lavoro è una merce e il lavoratore è uno che si vende sul mercato» in “Jesus” dell’ottobre 2010

Intervista a René Frydman: “La fecondazione in provetta è il simbolo di una grande trasgressione”

intervista a René Frydman, a cura di Catherine Vincent René Frydman, capo del servizio ostetrico-ginecologico dell’ospedale Antoine-Béclère (AP-HP) è, con il biologo Jacques Testart, il “padre” scientifico di Amandine, primo bebè in provetta francese nato nel 1982.
Come accoglie questo Nobel? Con grande soddisfazione.
Bob Edwards è sempre stato una persona calorosa, direi gioviale, soprattutto aveva uno spirito di apertura abbastanza sorprendente.
Pensare fin dal 1965 alla possibilità delle cellule staminali, non è da tutti! Era molto avanti sul piano scientifico, e ha sempre sostenuto i giovani ricercatori.
Quando sono andato da lui nel 1977, mi ha subito dato dei consigli per cominciare a lavorare.
È quindi tutto un cammino che viene riconosciuto con questo premio Nobel.
Un premio, che, a mio avviso, arriva un po’ tardi.
Perché così tardi? Perché la fecondazione in vitro, e tutte le tecniche che ne sono derivate, ha sempre suscitato molte reticenze.
Ancor oggi, gli sviluppi della procreazione medicalmente assistita, alcuni dei quali non sono del resto sempre giustificati, continuano ad avere odore di zolfo.
Ciò che era invisibile è divenuto visibile, ciò che era intoccabile è divenuto toccabile: in questo, la fecondazione in provetta costituisce il simbolo di una grande trasgressione umana.
Col passare dei decenni, secondo la propria religione o la propria filosofia, questa trasgressione è divenuta più o meno ammessa.
Ma resta tale.
Come spiega la pugnacità di cui Robert Edwards ha dato prova? Credo che fosse animato da una convinzione profonda: aiutare le coppie sterili, era quello che gli importava veramente.
Inoltre era affascinato dai meccanismi che cercava di dominare.
Quando tentava le sue prime fecondazioni in vitro con Patrick Steptoe, il ginecologo della banda, questi faceva i prelievi di ovuli in un ospedale che era a 50 km dal laboratorio.
Ora, all’epoca, le ovulazioni non erano stimolate da trattamento.
Potevano avvenire di giorno o di notte, e bisognava quindi, di giorno e di notte, correre all’ospedale a prelevare un ovulo, poi portarlo d’urgenza a Cambridge…
Era una vera saga! Nel 1978, lei era presente al convegno in cui è stata annunciata la nascita imminente di Louise Brown, primo bebè al mondo ad esser stato concepito in una provetta…
Era un grande convegno di gineco-ostetricia, e quando Bob Edwards ha fatto questa presentazione, nessuno riusciva a crederci! Mentre era l’inizio di una favolosa avventura! Quattro anni dopo, l’ho ritrovato ad un congresso sulla riproduzione umana, con un centinaio di partecipanti.
Ha lanciato allora l’idea di creare un’associazione europea di medici con il suo giornale, Human Reproduction, e l’ultimo congresso equivalente a quello del 1982 ha riunito circa 7000 partecipanti…
Tenuto conto delle legislazioni che inquadrano la ricerca sugli embrioni umani, i lavori che hanno portato alla nascita di Louise Brown e di Amandine sarebbero possibili oggi? Non credo.
All’epoca, ci bastava avere l’accordo del nostro capo-servizio, Emile Papiernik! Certo, lavoravamo contro venti e maree, dovevamo rispondere all’opposizione della Chiesa cattolica e a quella di alcuni scienziati, ma non c’erano divieti.
Oggi, non penso ci sia un sufficiente spirito di apertura e di innovazione perché tale progresso sia possibile.
La filosofia di Bob Edwards non è d’attualità.
in “Le Monde” del 6 ottobre 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

Perché etica e ricerca devono saper dialogare

La sperimentazione scientifica e l’ingegneria tecnologica non possono esercitarsi in contrasto con il rispetto e la promozione della dignità umana.
È questa un’evidenza da tutti condivisa.
Ma la contemporanea situazione di pluralismo rende difficile riempire di un contenuto valoriale unanimemente riconosciuto nozioni come quelle di coscienza, dignità umana, vita, ecc.
Le nuove frontiere rese fruibili dalla biogenetica, soprattutto, riportano al centro la questione antropologica.
La quale, diversamente dal passato, non tende solo a interpretare l’uomo, ma a trasformarlo: e non limitatamente ai rapporti economici e sociali, ma nella sua stessa realtà biologica e psichica.
L’interrogativo cruciale diventa allora quello del significato e dell’originalità dell’essere umano nel concerto della realtà, e quello del riferimento plausibile d’ogni sua impresa al rispetto e alla promozione della sua identità.
Le difficoltà che gli esperti della materia, ma non solo, affrontano nell’approntare una base epistemologica condivisibile alla bioetica derivano dalla vastità degli ambiti d’indagine e dalle diverse modalità di approccio alla questione di cui essa si occupa: la vita umana in tutti i momenti del suo sviluppo.
Di qui l’impegno ineludibile a far interagire con pertinenza l’approccio scientifico e quello umanistico.
Già nel saggio Bioethics, bridge to the future, del 1970, l’oncologo Van Resselaer Potter si concentrava su due aspetti: la dimensione bio-ecologica e il problema della distinzione dei saperi, mettendo in luce come gli attuali squilibri e pericoli per l’ecosistema umano e cosmico sarebbero riconducibili alla spaccatura moderna tra il sapere scientifico e quello umanistico.
Di fatto, i risultati cui le ricerche scientifiche pervengono, e che le tecnologie rendono operativi e incidenti sulla forma della nostra esistenza, suscitano una serie di problemi che esigono un livello esplicativo ulteriore, all’interno del quale le conquiste acquisite possano trovare intelligibilità e senso, evitando di diventare controproducenti, e cioè in fin dei conti di ritorcersi contro l’uomo.
L’apertura a un orizzonte sapienziale diverso, ma non contrastante con quello scientifico, è senza dubbio frutto di un personale atto di libertà e di conoscenza, ma può emergere da una ricerca metodologicamente corretta come possibilità di una dimensione interpretativa che dischiuda prospettive inclusive di comprensione e di senso.
D’altra parte, i risultati e le proposte maturate in ambito scientifico non possono non interpellare i credenti a prendere posizione, aprendosi a un dialogo interdisciplinare che, al di là di obsoleti steccati e di sterili separazioni fra conoscenza e coscienza, fede e scienza, dogma e ricerca, permetta uno sguardo sulla realtà nella sua globalit  e nei suoi diversi livelli di significato.
Non si tratta di sovrapporre una visione metafisica astratta di natura umana all’esperienza umana vissuta e indagata dalla fede e dalla ragione, dalla teologia e dalla scienza, ma piuttosto di cogliere le istanze di senso che si dischiudono in forma positiva da ciascuna di esse, mettendole in dialogo tra loro con reciproco rispetto.
Se la scienza è essenziale nel definire quali sono i fondamenti e le condizioni biologiche dell’esistere fisico dell’essere umano, la riflessione filosofica e la teologia sono chiamate a dischiuderne il senso integrale e trascendente, le coordinate del suo ethos e dunque anche i vincoli morali cui debbono rispondere la sperimentazione scientifica e l’ingegneria genetica.
Il Concilio Vaticano II afferma che «nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male…
obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo».
La coscienza non si trova di fronte a precetti estrinsecamente imposti: ma a un progetto aperto da attuare nella gratuità e nella libertà responsabile.
In ascolto della nostra umanità.
(L’autore è preside dell’Istituto Universitario Sophia e presidente dell’Associazione Teologica Italiana)

Dagli atei ai senza-Dio

Sylvain Maréchal (1750-1803) è ancora conosciuto per il suo Dictionnaire des athées anciens et modernes (1800), che raccoglie anche nomi insospettati: Pascal, Sant’Agostino e perfino Gesù, tutti coloro che sono stati critici con la religione del loro tempo.
Tuttavia, questo discepolo di Lucrezio detestava gli atei del suo tempo, provenienti da un’aristocrazia libertina, dissoluta, pervertita.
Aveva fondato, per reazione, una lega dei senza-Dio e l’aveva dotata di una liturgia che, ogni decade, celebrava il culto della virtù.
Senza dubbio non è la preoccupazione primaria dei nostri contemporanei, ma la distinzione merita di essere conservata e ripresa in un altro senso.
Ateo e ateismo sono delle parole attestate nella lingua francese dalla metà del XVI secolo.
La loro diffusione sarà lenta e a volta singolare (Balzac, La Messe de l’athée).
Anche tra noi, l’ateismo non attira particolarmente: in Francia, l’Unione degli atei non supera probabilmente i 2000 o 3000 aderenti.
Vi si possono aggiungere coloro che preferiscono definirsi liberi pensatori, umanisti, razionalisti, materialisti (termine diventato desueto) o libertari (ni Dieu ni maître).
Tutti esprimono una convinzione forte e chiara, spesso militante.
Si oppongono così a coloro che si affermano decisamente e profondamente religiosi secondo la loro appartenenza: cattolica, protestante, ortodossa, ebraica, mussulmana, buddista nella maggior parte dei casi.
Questo mondo incerto della non credenza è oggi maggioritario in Francia.
I sociologi hanno mostrato la sua diversità e misurato il grado e le forme di attaccamento alle grande denominazioni, nel senso di un allontanamento crescente.
Ciò che domina oggi è ciò che con termini dotti si chiama agnosticismo o indifferentismo, accompagnato da un crollo in una o due generazioni della cultura religiosa tradizionale veicolata dal catechismo, dalla scuola e dall’ambiente.
Ciò che sussiste oscuramente, nascosto ad un’osservazione rapida, è ciò che Serge Bonnet ha definito le “preghiere segrete dei francesi d’oggi” e la loro alchimia: un immenso terreno incolto o qualcosa di simile.
Gli ateggiamenti e le iniziative “missionarie” della Chiesa francese davanti all’ateismo aspettano ancora il loro studio sistematico e ragionato.
Nel 1940, nella piccola collezione “Catholique” di Gallimard, padre Sertillanges, domenicano conosciuto per la sua apertura, pubblicava un opuscoletto, Athées, mes frères.
“Non ci sono atei, ci sono solo persone che credono di esserlo; ci sono solo degli incoscienti”, scriveva.
È il pensiero di Jean-Luc Marion in una recente conferenza in Svezia: l’ateismo è impossibile.
Il cardinal Veuillot, futuro arcivescovo di Parigi, esigeva dai padri Le Sourd e Liégé, autori di un Croyants et incroyants aujourd’hui nel 1962, il richiamo al fatto che l’ateismo era un peccato grave.
Nel 1965, il Vaticano II lo poneva “tra i fatti più gravi del nostro tempo” e creava un Segretariato per i non credenti di cui il cardinal Poupard ha assunto l’incarico per un quarto di secolo.
Siamo così passati dal Dio-Sole (i nostri ostensori), luce del mondo (lux mundi) a ciò che Léon Brunschwig, professore alla Sorbona, definiva nel 1928 La Querelle de l’athéisme, e il suo successore Étienne Souriau nel 1955 L’Ombre de Dieu.
Ed è qui che torna la vecchia distinzione di Sylvain Maréchal, in una nuova accezione.
L’uomo senza Dio è colui che, molto semplicemente, senza farsi problemi, fa a meno di Dio, pensa senza di lui ed esiste senza di lui.
Ciò che è qui decisivo, non è ciò che si agita nel profondo di ognuno, e neppure il movimento di questo mondo che non deve niente se non al proprio sforzo, ma la condizione umana – comune a tutti, credenti e non credenti – modellata da queste due istanze.
“E Dio in tutto ciò?”, chiedeva Jacques Chancel ai suoi invitati al termine delle sue trasmissioni a “Radioscopie”.
Ad ognuno la propria risposta, ma, qualunque essa sia, essa dovrà tener conto del rullo compressore all’opera “in tutto ciò”.
Dio era onnipresente.
Al di fuori di nicchie a volte anche di una certa importanza, è diventato o diventa onniassente nella vita sociale pubblica o privata.
È la pressione crescente di questa quotidianità che fabbrica l’uomo contemporaneo.
È un dato essenziale per una riflessione cattolica preoccupata di “apertura al mondo” e sempre minacciata di ripiegamento su se stessa.
in “La Croix” del 28 settembre 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

Catechesi: la frontiera della fede

Nella Chiesa italiana, sia al livello dell’episcopato sia a quello delle comunità cristiane, l’ambito della catechesi è da anni uno tra i più attenti ai cambiamenti che attraversano la società, e di conseguenza alla trasformazione che anche il modo di proporre la fede deve affrontare, per meglio corrispondere ai soggetti che oggi si avvicinano alla comunità credente e alle loro domande.
Gli ultimi dieci anni hanno visto una modificazione piuttosto profonda della catechesi verso un modello d’iniziazione cristiana ispirato al percorso catecumenale, adatto al primo annuncio in un contesto che non può più presupporre la fede; e tale modificazione è stata guidata dai vescovi e insieme portata avanti con molti tentativi e sperimentazioni dalle diverse realtà locali, accompagnate dall’Ufficio catechistico nazionale (cf.
riquadri a p.
491 e 496).
Gli orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il decennio 2010-2020, con a tema la «sfida educativa», saranno d’indirizzo in parte anche per la catechesi, che tuttavia potrebbe essere oggetto, nel prossimo futuro, di un nuovo documento progettuale condiviso e di un ripensamento degli strumenti operativi (i catechismi).
Il testo dell’articolo è disponibile in formato pdf Visualizza il testo dell’articolo Regno-att.
n.14, 2010, p.488

Ecologia e religione

 Il testo è un estratto dall’intervento con cui il cardinal Scola apre oggi I Dialoghi di San Giorgio della Fondazione Giorgio Cini, sul tema Protecting nature or saving creation? Ecological conflicts and religious passions.
Il testo integrale su www.angeloscola.it Sono in grado le religioni, come hanno potuto fare in altri campi in passato, di mobilitare energie che contribuiscano ad una vera e propria conversione ecologica? Questo domanda una sorta di escatologia radicale, come afferma Latour, cioè un lungo e lento cambiamento che investe molti ambiti, riferito ad una enorme quantità di dettagli e, soprattutto, dipendente da un’infinità di gesti che, ecco la cosa più ardua, chiedono un rovesciamento di mentalità a miliardi di persone.
Le passioni religiose possono venire in soccorso alla deboli energie che oggi sembrano caratterizzare i numerosi conflitti ecologici? La domanda contiene un invito, neppure troppo implicito, a porre in modo radicalmente nuovo il rapporto eco-logia e teo-logia, per affrontare scopertamente i conflitti interni ai due mondi.
Mi limito ad un suggerimento di carattere generale.
Non voglio entrare nel dibattito sulla nozione di natura, che quasi tutti, sia in campo scientifico che in campo teologico, danno ormai come spacciata e considerano responsabile di quasi tutti i mali che affliggono l’umanità.
Personalmente sono dell’idea che, dal momento che sempre qualcosa si dà a qualcuno, un quid ultimo sia ineliminabile.
E, fin da Aristotele, cos’era la fysis se non questa molteplice, dinamica datità? Tuttavia è vero, e lo è in modo particolare per il cristianesimo, che in nessun modo si può parlare di natura se non in termini di creatura.
Ed è proprio una adeguata riflessione sulla creazione ad aprire la via per ripensare il rapporto tra ecologia e teologia.
La creazione infatti mette in campo la relazione.
E l’uomo postmoderno si trova posto di fronte ad una bruciante alternativa.
Passata l’epoca delle utopie, con il fitto buio che ha gettato sul secolo scorso, l’antropologia postmoderna assume un marcato carattere pascaliano.
Ha l’andamento della pregnante scommessa intorno ad un’alternativa radicale: l’uomo del terzo millennio vuole essere solo l’esperimento di se stesso o vuole essere un io-in-relazione? L’antropologia per essere adeguata deve essere drammatica.
Deve accettare che l’uno insuperabile in cui l’io consiste si dia sempre in modo duale.
Sono uno, per questo posso dire io, ma sono sempre uno di due: uno di anima-corpo; uno di uomo-donna; uno di individuo-comunità, uno di uomo-cosmo.
Pertanto l’alterità mi costituisce come dimensione interna all’io, che per questo non può esistere se non in relazione.
È lo stesso carattere drammatico o polare dell’io a mostrarlo apertamente.
Per questo il modo giusto di nominare l’io è io-in-relazione.
L’intrecciarsi delle polarità costitutive rivela l’autentico rapporto di creazione, come la permanente amorosa relazione di Colui che chiama all’essere tutta la realtà e continua ad accompagnarla.
Secondo la tradizione giudaica e quella cristiana Dio ha fatto della relazione d’amore la ragione del suo compromettersi con la famiglia umana lungo tutta la storia.
Egli, per il popolo ebraico e per i cristiani è il Dio con noi, dove il noi mette in campo tutte le polarità-relazioni costitutive cui abbiamo fatto cenno.
La relazione, sempre polare, dell’io con se stesso, con gli altri, con il cosmo con Dio è la strada inevitabile per poter dire io in maniera umanamente soddisfacente.
Come non vedere in questa prospettiva l’improcrastinabile compito di inscrivere la buona relazione con il creato nei cerchi intersecantesi delle altre relazioni costitutive? Questo suggerimento, me ne rendo conto, è troppo generale per non rischiare di essere ovvio.
Tuttavia mi sembra in grado di mostrare il ponte che esiste tra ecologia e teologia.
Ponte che anche le scienze più avvedute oggi stanno costruendo, avendo abbandonato una vulgata ecologista fondata su un mitico ritorno alla natura buona ed innocente.
È vano il grido di Baudelaire: Pan è tornato!.
Tanto meno si può dar credito ad Assmann quando parla di Mosè come l’egiziano.
La via dell’incontro urgente e collaborativo tra ecologia e teologia è quella di continuare, con amore, la logica della creazione.
Una logica ad un tempo scientifica, religiosa e politica.
Per questo è logica di giustizia e di sviluppo integrale dell’umanità.
Le religioni possono dire la loro in merito alle questioni ambientali quando si esprimono in soggetti, personali e comunitari, disponibili alla narrazione e impegnati a mostrare le ragioni valide di un’adeguata esperienza umana.
Le religioni infatti aprono all’universale concreto perché consentono ad ogni singolo di fare spazio al desiderio infinito che lo abita a cui nessuna natura potrà mai bastare.
Angelo Scola, Patriarca di Venezia, in “La Stampa” del 13 settembre 2010

I geni non spiegano il genio

Determinismo o libero arbitrio? Questo antico dibattito torna oggi d’attualità nella ricerca genetica e in quella sui neuroni.
Veniamo generati nei nostri geni? I geni esistono nella loro peculiarità prima che sorga la nostra coscienza? Pilotano il nostro io nei suoi comportamenti? Determinano quindi il corso delle nostre vite e spiegano perché diventiamo come siamo?  Il noto giornalista americano David Brooks ha scritto nel 2007 ( Herald Tribune ): «Dal contenuto dei nostri geni, dalla natura dei nostri neuroni e dalla lezione della biologia evoluzionista è diventato chiaro che la natura è costituita da competizione e conflitti di interessi.
L’umanità non è venuta prima delle lotte per la propria affermazione, le lotte per l’affermazione sono profondamente radicate nelle relazioni umane».
Ne traeva come conseguenza la naturale disposizione alla competitività del capitalismo e una ‘visione del mondo tragica’: «Siccome la natura umana è predisposta così aggressivamente alla lotta per il potere abbiamo bisogno di uno Stato forte, di un’educazione dura e di una visione del  mondo tragica».
Si tratta del risultato di una ricerca o dell’interesse di un’ideologia? Io credo si tratti di pura ideologia naturalistica, perché si fonda sulla riduzione dell’imprevedibile sistema ‘uomo’ ai suoi geni e neuroni prevedibili.
Così sorge la fatale impressione di vivere in un mondo chiuso nella sua causalità, come se la nostra libertà, che pure percepiamo nel «tormento della scelta», fosse un’illusione.
Se così fosse qualsiasi criminale davanti a un tribunale dovrebbe appellarsi all’incapacità di intendere e di volere, per poi  essere assolto in quanto non imputabile.
Craig Venter è stato il primo a decifrare il genoma umano.
Ha decodificato anche il proprio genoma, che è stato pubblicato su tutti i maggiori quotidiani.
Se lo potessimo leggere sapremmo poi chi è Craig Venter? Se egli stesso può leggerlo viene poi a conoscere se stesso? Quando l’ho incontrato di persona a Taiwan due anni fa mi ha raccontato quanto la guerra in Vietnam, combattuta da giovane, lo avesse cambiato.
Il suo genoma non esprime nulla di tutto ciò, naturalmente, ma allora perché la tesi deterministica secondo la quale saremmo pilotati dai nostri geni e non avremmo alcuna libertà di reagire alle esperienze di guerra in questo o quell’altro modo? Facciamo ancora un esempio: nella rivista scientifica Nature Genetics è uscito di recente un articolo nel quale veniva dimostrato da ricerche svolte in tutto il mondo che sono i geni a determinare se i giovani diventino o meno fumatori.
Lo studio documentava per la prima volta i fattori genetici a causa dei quali nei recettori cerebrali della nicotina si determina in quale modo si sviluppi la dipendenza e il comportamento rispetto al fumo.
Io ho fumato molto dal 1956 al 1976, poi ho smesso da un giorno all’altro.
Come ho potuto farlo? La ricerca genetica, per quanto ho potuto seguirla, ha da tempo oltrepassato, nei suoi seri esponenti, questo riduzionismo ideologico.
L’immagine della competitività del gene egoista, delineata da Richard Dawkins nel 1978, è influenzata dal darwinismo sociale.
I geni sono di fatto più flessibili dei corpi solidi, si «attivano e disattivano» e reagiscono essi stessi agli influssi ambientali.
Le nostre esperienze e le nostre relazioni con altre persone, in cui facciamo esperienza di accoglienza o di rifiuto, influenzano anche il funzionamento dei nostri geni.
Il medico tedesco Joachim Bauer, che si occupa di psicosomatica, afferma quindi: «I geni non pilotano soltanto, sono anche pilotati» ( Principio Umanità, 2006).
Anche nelle ricerche sull’intelligenza vengono considerate oggi più le condizioni di vita che le predisposizioni genetiche.
Giungo al risultato secondo cui il determinismo genetico e neurologico non è in grado di abolire la nostra libertà, la nostra responsabilità né la nostra imputabilità.
Lo si può approvare o rincrescersi, ma le ideologie non spiegano solo i risultati di alcune ricerche, rappresentano anche sempre gli interessi di una parte.
Chi ha oggi interesse ad abolire la nostra libertà e a rendere manipolabili gli uomini? (traduzione dal tedesco di Daria Dibitonto) in “Avvenire” del 12 settembre 2010