La verità sul preservativo

Profilattico Perché è diventato un simbolo del rapporto tra morale e sessualità di Vito Mancuso Il mondo intero si è interrogato incuriosito sulle parole di apertura di Benedetto XVI all’uso dei preservativi contenute nel libro-intervista Luce del mondo con il giornalista tedesco Peter Seewald.
L’agenzia dell’Onu per la lotta all’Aids ha applaudito, la Sala stampa vaticana ha precisato, i giornali di tutti gli orientamenti hanno lungamente commentato.
Persino a me sono arrivate telefonate dall’Italia e dalla Svizzera per prendere posizione e partecipare a pensosi dibattiti.
Ma che cosa è successo per giustificare tutto questo polverone? Siamo in presenza di una svolta reale, o di una delle tante montature mediatiche? Tanto rumore per nulla, o c’è qualcosa che invece giustifica il clamore? Qualcosa in effetti c’è, e non è di poco conto: consiste nel fatto che Benedetto XVI ha affermato che per l’uso del preservativo “vi possono essere singoli casi giustificati”.
Anzi, è arrivato a connotare il ricorso al preservativo come “il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità”.
Parole inaudite, nel senso letterale del termine perché nessuno mai le aveva udite, non solo da una mente poco incline alle aperture progressiste come quella dell’attuale papa, ma da tutti i papi precedenti.
Mai un papa, prima di queste dichiarazioni di papa Ratzinger, era arrivato a tanto.
Il che comporta anzitutto il mutamento di un principio dottrinale: d’ora in poi nei documenti del magistero e nei manuali di teologia morale non si potrà più affermare che i preservativi sono un mezzo “intrinsecamente cattivo” (vedi Humanae vitae 14 e Catechismo 2370) e quindi sempre da evitare a prescindere dai fini che si intendono perseguire.
Da oggi, chiunque tra i vescovi e i teologi sosterrà che i preservativi sono sempre e comunque cattivi, verrà per ciò stesso ad attribuire a Benedetto XVI, che in alcuni casi li ha ammessi, la morale di sapore machiavellico secondo cui i fini giustificano i mezzi.
In realtà, se ci sono casi in cui si possono  lecitamente usare, i preservativi non possono non essere leciti.
La dottrina morale della Chiesa ha registrato una piccola, timida, imbarazzata, ma al contempo chiara e significativa svolta.
Nulla di epocale, certo, il direttore della Sala stampa vaticana padre Lombardi ha ragione nel dire che le parole del papa “non sono una svolta rivoluzionaria”.
Ci vuole ben altro per compiere la salutare “rivoluzione” di cui ha urgente bisogno la morale sessuale cattolica al fine di giungere a parlare concretamente alla vita degli uomini e liberarsi dall’ipocrisia di precetti proclamati dal pulpito ma oramai largamente ignorati nelle coscienze.
La strada è ancora lunga, e chissà quanto aspra, per far sì che anche a livello di morale sessuale si introduca il rinnovamento operato nella morale sociale dal Vaticano II, e che Paolo VI impedì che avvenisse scrivendo nel 1968 l’enciclica Humanae vitae in aperto contrasto con la commissione pontificia da lui insediata espressasi a favore della liceità morale dei preservativi.
Quella decisione di Paolo VI soppresse, nel metodo prima ancora che nel merito, lo spirito del Concilio, causando la rivincita della componente conservatrice oggi perfettamente compiuta.
Tuttavia il cambiamento di direzione implicato nelle parole di Benedetto XVI è netto, e la dottrina, a meno di equilibrismi imbarazzanti, dovrà necessariamente riformularsi.
Se è vero infatti che il papa scrive che “le prospettive della Humanae vitae restano valide”, è altrettanto vero che ora ha avuto la saggezza di aggiungere che “altra cosa è trovare strade umanamente percorribili”.
Proprio così: una cosa sono i principi, un’altra cosa le strade veramente percorribili dagli uomini e dalle donne concrete alle prese con la vita  concreta.
E la morale consiste proprio in questo: nella coniugazione tra l’altezza dei principi e le strade concretamente percorribili.
È quanto insegna da sempre la dottrina del cattolicesimo, anzi secondo Tommaso d’Aquino “quanto più si scende nei particolari tanto più aumenta l’indeterminazione” (vedi Summa Theologiae I-II, q.94, a.4 co.), passo così commentato da un recente documento della Commissione Teologica Internazionale: “In morale la pura deduzione per sillogismo non è adeguata.
Quanto più il moralista affronta situazioni concrete, tanto più deve ricorrere alla sapienza dell’esperienza, un’esperienza che integra i contributi delle altre scienze e cresce al contatto con le donne e gli uomini impegnati nell’azione.
Soltanto questa saggezza dell’esperienza consente di considerare la molteplicità delle circostanze e di giungere a un orientamento sul modo di compiere ciò che è bene hic et nunc” (“Alla ricerca di un’etica universale”, paragrafo 54).
San Tommaso giunge persino a specificare che tra le due conoscenze che formano il giudizio morale, cioè i principi dottrinali da un lato e la situazione reale dall’altro, se proprio si deve privilegiare qualcosa “è  preferibile che questa sia la conoscenza dellerealtà particolari che riguardano più da vicino l’operare” (Sententia libri Ethicorum, Lib.
VI, 6).
Vale a dire: sono molto più vicini alla verità i missionari e le missionarie che incoraggiano l’uso dei preservativi, che non i teologi moralisti dei palazzi vaticani che tengono fermi i principi dottrinali ignorando la vita reale.
Ora, finalmente, anche Benedetto XVI è giunto a toccare la realtà della vita reale, ben diversamente da quando aveva affermato durante il viaggio in Africa che nella lotta all’Aids il preservativo non solo non aiuta ma peggiora la situazione.
È sperabile che da queste sue più sagge parole possa avere origine ciò che il teologo Ambrogio Valsecchi auspicava vanamente già nel lontano 1972, cioè “nuove vie dell’etica sessuale”? Anche perché, a pensarci bene, quello che è veramente clamoroso è il clamore suscitato mondialmente da queste semplici parole di buon senso del papa che rimandano all’abc del comportamento prudenziale, paragonabili a “ricordati di allacciare le cinture in macchina”, “sta attento agli scogli quando ti tuffi”, “non accettare caramelle dagli estranei”.
Ma anche questo, forse, è un segno del profondo rinnovamento di cui c’è urgente bisogno nella Chiesa cattolica e di cui la direzione era già stata indicata dal Concilio Vaticano II, ormai quasi mezzo secolo fa: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria… Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali” (Gaudium et spes 16) in “la Repubblica” del 25 novembre 2010 La maggior parte della gente è convinta che una persona infetta da HIV e che abbia rapporti sessuali debba fare uso del preservativo per proteggere il partner dall’infezione.
Indipendentemente dalle opinioni che si possono avere sulla promiscuità come stile di vita, sull’omosessualità o sulla prostituzione, quella persona almeno agisce con un certo senso di responsabilità nel cercare di evitare di trasmettere ad altri la sua infezione.
Si ritiene comunemente che la Chiesa cattolica non appoggi una tale opinione.
[…] Si crede che la Chiesa insegni che gli omosessuali sessualmente attivi e le prostitute dovrebbero evitare l’uso del preservativo, in quanto quest’ultimo sarebbe “intrinsecamente cattivo”.
Anche molti cattolici sono persuasi […] che l’uso del preservativo, anche esclusivamente diretto a prevenire l’infezione del partner, non rispetta la struttura fertile che gli atti coniugali debbono avere, non può costituire il reciproco e completo dono personale di sé e pertanto viola il sesto comandamento.
Ma questo non è un insegnamento della Chiesa cattolica.
Non c’è alcun magistero ufficiale sul preservativo, sulla pillola anti-ovulazione o sul diaframma.
Il preservativo non può essere intrinsecamente cattivo, solo le azioni umane possono esserlo.
Il preservativo non è un’azione umana, ma una cosa.
Ciò che il magistero della Chiesa cattolica designa chiaramente come “intrinsecamente cattivo” è un tipo specifico di azione umana, definito da Paolo VI nella sua enciclica “Humanae vitae” (e successivamente nel n.
2370 del Catechismo della Chiesa cattolica) come una “azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo, o come mezzo, di impedire la procreazione”.
La contraccezione è un tipo specifico di azione umana che, come tale, comprende due elementi: la volontà di prendere parte ad atti sessuali e l’intenzione di impedire la procreazione.
Un’azione contraccettiva, quindi, incorpora una scelta contraccettiva.
Come ho affermato in un articolo uscito su “Linacre Quarterly” nel 1989, “una scelta contraccettiva è la scelta di un’azione intesa ad impedire le conseguenze procreative previste di rapporti sessuali liberamente consenzienti, ed è una scelta operata proprio per questa ragione”.
Ecco perché la contraccezione, intesa come un’azione umana qualificata come “intrinsecamente cattiva” o disordinata, non è determinata da ciò che accade sul piano fisico.
Non fa alcuna differenza se una persona previene la fertilità del rapporto sessuale prendendo la pillola o interrompendo onanisticamente il rapporto.  Inoltre, la definizione appena data non differenzia tra “fare” e “astenersi dal fare”, in quanto il coito interrotto è un tipo di astensione, almeno parziale.
La definizione di atto contraccettivo non comprende quindi, ad esempio, l’uso di contraccettivi inteso a prevenire le conseguenze procreative di una violenza carnale prevista.
In una circostanza del genere, la persona violentata non sceglie di partecipare al rapporto sessuale né di prevenire una possibile conseguenza del proprio comportamento sessuale, ma si sta semplicemente difendendo da un’aggressione sul proprio corpo e dalle sue conseguenze indesiderabili.
Anche una atleta che partecipi ai Giochi Olimpici e che prenda la pillola anti-ovulazione per prevenire il ciclo mestruale non sta facendo un atto “contraccettivo”, se non ha alcuna intenzione simultanea di avere rapporti sessuali.
L’insegnamento della Chiesa non concerne il preservativo o simili strumenti fisici o chimici, ma l’amore sponsale e il significato essenzialmente sponsale della sessualità umana.
Il magistero ecclesiale afferma che, se due coniugi hanno una ragione seria per non fare figli, essi dovrebbero modificare il loro comportamento sessuale tramite l’astinenza, almeno periodica, dall’atto sessuale.
Per evitare di distruggere sia il significato unitivo sia quello procreativo dell’atto sessuale e quindi la pienezza del dono reciproco di sé, i coniugi non devono prevenire la fertilità dei rapporti sessuali, qualora ne abbiano.
Ma che dire delle persone promiscue, degli omosessuali sessualmente attivi e delle prostitute? Ciò che la Chiesa cattolica insegna loro è semplicemente che le persone non dovrebbero essere promiscue, ma fedeli a un solo partner sessuale; che la prostituzione è un comportamento gravemente lesivo della dignità dell’uomo, soprattutto della dignità della donna, e che quindi non dovrebbe essere praticata; e che gli omosessuali, come tutte le altre persone, sono figli di Dio e sono amati da lui come ogni altro, ma dovrebbero vivere in continenza come qualsiasi altra persona non sposata.
Ma se queste persone ignorano questo insegnamento, e sono a rischio di HIV, dovrebbero usare il preservativo per prevenire l’infezione? La norma morale che condanna la contraccezione come atto intrinsecamente cattivo non comprende questi casi.
Né può esservi insegnamento della Chiesa su di ciò; sarebbe semplicemente privo di senso stabilire delle norme morali per dei comportamenti intrinsecamente immorali.
Dovrebbe forse la Chiesa insegnare che uno stupratore non deve mai fare uso del preservativo, poiché altrimenti, oltre a commettere il peccato della violenza carnale, verrebbe anche meno al rispetto del dono personale di sé reciproco e completo e così violerebbe il sesto comandamento? Certo che no.
Cosa dico io, come sacerdote cattolico, a persone promiscue, o ad omosessuali, infetti da AIDS i quali usano il preservativo? Cercherò di aiutare costoro a vivere una vita sessuale morale e ben ordinata.
Ma non dirò loro di non usare il preservativo.
Semplicemente, non parlerò loro di ciò e presumerò che, qualora scelgano di avere rapporti sessuali, manterranno almeno un certo senso di responsabilità.
Con un atteggiamento del genere, rispetto in pieno l’insegnamento della Chiesa cattolica sulla contraccezione.
Questo non è un appello a favore di “eccezioni” alla norma che proibisce la contraccezione.
La norma sulla contraccezione vale senza eccezioni: la scelta contraccettiva è intrinsecamente cattiva.
Ma, com’è ovvio, la norma vale solo per gli atti contraccettivi, come questi sono definiti nella “Humanae vitae”, i quali incorporano una scelta contraccettiva.
Non tutte le azioni in cui viene usato un dispositivo il quale, da un punto di vista puramente fisico, è “contraccettivo”, sono da un punto di vista morale atti contraccettivi che cadono sotto la norma insegnata dalla “Humanae vitae”.
Ugualmente, un uomo sposato che è infetto da HIV e usa il preservativo per proteggere sua moglie dall’infezione non agisce per impedire la procreazione, ma per prevenire l’infezione.
Se il concepimento è prevenuto, questo sarà un effetto collaterale (non intenzionale), e quindi non determinerà il significato morale dell’azione come un atto contraccettivo.
Possono esservi altre ragioni per ammonire contro l’uso del preservativo in un caso del genere, o per raccomandare la continenza totale, ma queste non dipenderanno dall’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione, ma da ragioni pastorali o semplicemente prudenziali (il rischio, ad esempio, che il preservativo non funzioni).
Ovviamente, quest’ultimo ragionamento non si applica alle persone promiscue, perché, anche se i preservativi non sempre funzionano, il loro uso aiuterà comunque a ridurre le conseguenze negative di comportamenti moralmente cattivi.
Fermare l’epidemia mondiale di AIDS non è una questione concernente la moralità dell’uso del preservativo, ma piuttosto la maniera di prevenire efficacemente una situazione in cui le persone provocano conseguenze disastrose con il loro comportamento sessuale immorale.
Papa Giovanni Paolo II ha ripetutamente insistito che la promozione dell’uso del preservativo non è una soluzione a questo problema in quanto ritiene che non risolva il problema morale della promiscuità.
Se, in generale, le campagne che promuovono l’uso del preservativo incoraggino comportamenti rischiosi e peggiorino l’epidemia mondiale di Aids è una questione decidibile sulla base di evidenze statistiche non sempre facilmente accessibili.
Che riducano, a breve termine, i tassi di trasmissione entro gruppi altamente infettivi come prostitute ed omosessuali, è impossibile negare.
Se possano diminuire i tassi di infezione fra popolazioni promiscue “sessualmente liberate” o, al contrario, incoraggiare comportamenti a rischio, dipende da molti fattori.
Nei paesi africani le campagne anti-AIDS basate sull’uso del preservativo sono generalmente inefficaci, in parte perché per l’uomo africano la mascolinità è tradizionalmente espressa dalla procreazione del massimo numero di figli possibile.
Per il maschio africano tradizionale il preservativo trasforma il sesso in un’attività priva di significato.
Questa è la ragione per cui – e ciò costituisce una prova notevole a favore dell’argomento del papa – fra i pochi programmi efficaci in Africa c’è quello dell’Uganda.
Benché non escluda il preservativo, questo programma incoraggia un cambiamento positivo nel comportamento sessuale (fedeltà ed astinenza), differenziandosi così dalle campagne per il preservativo, le quali contribuiscono ad oscurare o anche a distruggere il significato dell’amore umano.
Le campagne che promuovono l’astinenza e la fedeltà sono in definitiva l’unico mezzo efficace per combattere l’AIDS a lungo termine.
Non c’è quindi alcuna ragione per cui la Chiesa debba considerare le campagne che promuovono il preservativo come utili per il futuro della società umana.
Ma la Chiesa non può neanche insegnare che chi partecipa a stili di vita immorali dovrebbe astenersi dall’uso del preservativo.
(Da “The Tablet”, 10 luglio 2004, traduzione di Paolo Baracchi).
__________  25 novembre 2010 Sulle parole di Benedetto XVI sull’omosessualità .
Quando l’esercizio della legge manca del cuore
di Nuova Proposta del 23 novembre 2010 “Come definire “moralmente ingiusta” la vita e l’orientamento sessuale di un essere vivente? E come non leggere tra le parole “L’omosessualità non è conciliabile con il ministero sacerdotale, perché altrimenti anche il celibato come rinuncia non ha alcun senso” una demarcazione netta tra condizione omosessuale e eterosessuale, come se il celibato nel primo caso non possa essere serenamente scelto e agito?” Profilattico Perché è diventato un simbolo del rapporto tra morale e sessualità di Vito Mancuso in la Repubblica del 25 novembre 2010 “quello che è veramente clamoroso è il clamore suscitato mondialmente da queste semplici parole di buon senso del papa che rimandano all’abc del comportamento prudenziale…
Ma anche questo, forse, è un segno del profondo rinnovamento di cui c’è urgente bisogno nella Chiesa cattolica e di cui la direzione era già stata indicata dal Concilio Vaticano II, ormai quasi mezzo secolo fa: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria…
Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali” (Gaudium et spes 16)” 23 novembre 2010 Benedetto XVI e il preservativo: una rivoluzione? di Jérôme Anciberro in www.temoignagechretien.fr del 22 novembre 2010 (nostra traduzione) “Non è la prima volta che un’autorità cattolica romana sostiene l’idea secondo la quale il preservativo sarebbe il male minore in certe circostanze ben precise…
Allora, niente di nuovo sotto il sole? Nei contenuti, senza dubbio.
Nella forma, le cose sono più complesse.
Perché è vero che il magistero cattolico fino ad oggi teneva conto dei famosi casi eccezionali che giustificavano l’uso del preservativo, ma evitava di parlarne” 22 novembre 2010 Evoluzione storica di Benedetto XVI sul preservativo di Stéphanie Le Bars in Le Monde del 23 novembre 2010 (nostra traduzione) “il papa ricorda anche tutto il bene che pensa dell’Humanae vitae e della visione “profetica” del suo autore, papa Paolo VI.
“Le prospettive delineate in ‘Humanae vitae’ restano valide”.
“Ma, riconosce tuttavia Benedetto XVI con lucidità, altra cosa è trovare strade umanamente percorribili.” I fedeli cattolici ne sanno qualcosa, da quarantadue anni.” Il papa, la sessualità e le leggi della Chiesa di Editoriale in Le Monde del 23 novembre 2010 (nostra traduzione) “Se le dichiarazioni fatte da Benedetto XVI nel suo libro fossero il segno precursore di una evoluzione in profondità, servirebbero la causa della Chiesa, oggi e domani.” Il profilattico e i preti obiettori se la salute vince sulla dottrina di Rosalba Castelletti in la Repubblica del 22 novembre 2010 “Nell’attesa di un’apertura più netta, molti prelati e missionari continuano a richiamare la posizione espressa anche da vari autorevoli teologi, da Georges Cottier, teologo emerito di Papa Wojtyla, a Paul Cordes e al cardinale Carlo Maria Martini: qualora in una coppia un partner sia sieropositivo e rischi di contagiare la moglie e di trasmettere il virus ai figli, l’uso del preservativo è il “male minore”” 21 novembre 2010 «Il suo è realismo La dottrina resta contraria» intervista a Giovanni Maria Vian a cura di Gian Guido Vecchi in Corriere della Sera del 21 novembre 2010 «La Chiesa e Joseph Ratzinger soffrono pregiudizi tenaci.
Questo libro, come i suoi precedenti, serve a scardinarli, e del resto basterebbe seguire il suo magistero” (ndr.:quest’oggi la stampa italiana dedica, con grande evidenza, molto spazio al libro intervista dell’attuale papa, e in particolare alla liceità dell’uso del profilattico in certi casi.
E’ davvero siderale la distanza esistente tra ciò che sostiene il magistero su alcuni temi e quanto recepisce la coscienza di molti credenti.
Si rischia di confondere la radicalità evangelica con la proibizione della contraccezione artificiale.
Saremo giudicati non sulle tecniche ma sull’amore, unico valore davvero non negoziabile) «Ora è più pastore Ha affrontato un grande male» di Andrea Galli in Corriere della Sera del 21 novembre 2010 “vicino a Cristo ci sono state straordinarie figure femminili, con le quali egli stesso ha avuto anche legami profondi; ma come apostoli si è scelto degli uomini..” (ndr.: Adriana Zarri avrebbe aggiunto: Gesù come apostoli si è scelto uomini ebrei…
quindi i preti devono essere ebrei?) “E’ un atto di carità La dottrina resta intatta” intervista a Vittorio Messori a cura di Giacomo Galeazzi in La Stampa del 21 novembre 2010 “Il celibato, il no alla contraccezione, la povertà, la castità e l’obbedienza degli ordini religiosi sono da denuncia all’Onu o da Amnesty International se non le si inquadra in una prospettiva cristiana.” (ndr.: ed io che pensavo che la povertà, intesa come condivisione, la castità, come purezza di intenzioni, l’obbedienza come adesione alla voce dello spirito che risuona nella coscienza fossero profondamente umanizzanti e liberanti per tutti…) Il significato di un passo di Luigi Accattoli in Corriere della Sera del 21 novembre 2010 “Si potrà inquadrare meglio la sua «apertura» quando si potrà leggere tutto il volume, del quale martedì sarò uno dei presentatori nella Sala stampa Vaticana.” Un principio in discussione di Franco Garelli in La Stampa del 21 novembre 2010 “…con il venir meno del principio dell’ «intrinsecamente cattivo» potrebbe affermarsi l’idea che sia legittimo utilizzare il profilattico anche in casi diversi.
In altri termini, l’ammissione di un’eccezione pare mettere in discussione la radicalità del principio e prefigurare che anche in altre situazioni si possa derogare dalle indicazioni dell’Humanae Vitae.” Il pastore tedesco e la modernità di Giancarlo Zizola in la Repubblica del 21 novembre 2010 “Il Papa prosegue dunque a servire il ruolo umanistico delle grandi figure papali del Novecento, la premura per le sorti della Terra, e non solo del Cielo, svolta da Roncalli, Montini, Wojtyla.
E ridefinisce il suo antico contenzioso con la modernità assumendolo nello stesso paradigma della costituzione conciliare sulla Chiesa e il mondo: il paradigma della compagna di viaggio di uomini e donne in ricerca dell´Assoluto, ne siano o meno coscienti.” Papa Ratzinger tra burqa e presevativo di Marco Politi in il Fatto Quotidiano del 21 novembre 2010 “Il libro di Seewald tocca tantissimi temi, anche perché è stato volutamente pensato come modo per riparare ai danni delle crisi mediatiche, succedutesi nei cinque anni di pontificato ratzingeriano” “è la prima volta che un pontefice fa marcia indietro sulla sistematica demonizzazione del preservativo”

“Cultura della comunicazione e nuovi linguaggi”.

La Chiesa e il Vangelo ai tempi di Internet Giacomo Dotta «Ascoltando le voci del mondo globalizzato, ci accorgiamo che è in atto una profonda trasformazione culturale, con nuovi linguaggi e nuove forme di comunicazione, che favoriscono anche nuovi e problematici modelli antropologici».
Con queste parole Papa Benedetto XVI ha ribadito l’apertura della Chiesa nei confronti dei nuovi strumenti della comunicazione.
L’evoluzione del Vaticano in tal senso è in auge ormai da tempo, con una apertura sempre più ampia ed una comprensione sempre più approfondita sulle dinamiche che il Web sta maturando.
Ancora un volta, in particolare, il Papa ha voluto sottolineare l’importanza di una comprensione a tutto tondo della Rete, tanto nelle sue opportunità quanto nei suoi pericoli.
I due lati della stessa medaglia sono stati approfonditi in occasione dell’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura sul tema “Cultura della comunicazione e nuovi linguaggi“: la Chiesa intende aprirsi al Web in modo sempre più radicale, sente di doverlo fare in virtù della propria vocazione all’evangelizzazione, ma intende altresì muovere i propri passi con tutta la consapevolezza necessaria.
L’impegno parte da una presa di coscienza circa le difficoltà comunicative che la comunità cristiana sperimenta tanto verso l’esterno, quanto al suo stesso interno: «i Pastori e i fedeli avvertono con preoccupazione alcune difficoltà nella comunicazione del messaggio evangelico e nella trasmissione della fede, all’interno della stessa comunità ecclesiale.
[…] tanti cristiani hanno bisogno che sia loro riannunciata in modo persuasivo la Parola di Dio, così da poter sperimentare concretamente la forza del Vangelo” .
I problemi sembrano talora aumentare quando la Chiesa si rivolge agli uomini e alle donne lontani o indifferenti ad una esperienza di fede, ai quali il messaggio evangelico giunge in maniera poco efficace e coinvolgente.
In un mondo che fa della comunicazione la strategia vincente, la Chiesa, depositaria della missione di comunicare a tutte le genti il Vangelo di salvezza, non rimane indifferente ed estranea; cerca, al contrario, di avvalersi con rinnovato impegno creativo, ma anche con senso critico e attento discernimento, dei nuovi linguaggi e delle nuove modalità comunicative».
In questa difficoltà è identificato uno dei maggiori problemi odierni della Chiesa: «L’incapacità del linguaggio di comunicare il senso profondo e la bellezza dell’esperienza di fede può contribuire all’indifferenza di tanti, soprattutto giovani; può diventare motivo di allontanamento[…], rilevando che una presentazione inadeguata del messaggio nasconde più che manifestare il genuino volto di Dio e della religione».
Il Santo Padre ha parlato di una necessaria “sincronizzazione” con il mondo dei giovani: oggi i codici linguistici sono differenti e ciò rende la comunicazione tra le parti non solo inefficace, ma di per sé dannosa poichè implica un errato passaggio dei messaggi, dei concetti e dell’immagine della Chiesa stessa.
Al tempo stesso, la Santa Sede pone l’accento sui problemi che la nuova realtà impone su una generazione che potrebbe non ancora avere la necessaria consapevolezza per affrontare in modo sano i nuovi strumenti comunicativi: «Oggi non pochi giovani, storditi dalle infinite possibilità offerte dalle reti informatiche o da altre tecnologie, stabiliscono forme di comunicazione che non contribuiscono alla crescita in umanità, ma rischiano anzi di aumentare il senso di solitudine e di spaesamento.
Dinanzi a tali fenomeni, ho parlato più volte di emergenza educativa, una sfida a cui si può e si deve rispondere con intelligenza creativa, impegnandosi a promuovere una comunicazione umanizzante, che stimoli il senso critico e la capacità di valutazione e di discernimento».
La Chiesa vede nel Vangelo una chiave interpretativa valida sempre e comunque, anche ai tempi dell’odierna cultura tecnologica: il paradigma rimane intatto, il dogma si conferma valido.
Cambia però in contesto e, quindi, la Chiesa dovrà sapervisi adattare per non trovasi a predicare il Vangelo in un linguaggio arcaico, inefficace ed inascoltato.
14/11/2010 http://www.webnews.it  Nella ricerca della verità e della bellezza la Chiesa vuole dialogare con tutti.
Per questo deve avvalersi, con impegno creativo ma anche con senso critico e con attento discernimento, dei nuovi linguaggi e delle nuove modalità comunicative.
È il senso del discorso rivolto dal Papa ai partecipanti all’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, ricevuti in udienza sabato mattina, 13 novembre, nella Sala Clementina.
 Signori Cardinali, Venerati Fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio, Cari fratelli e sorelle! Sono lieto di incontrarvi al termine dell’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, nel corso della quale avete approfondito il tema:  “Cultura della comunicazione e nuovi linguaggi”.
Ringrazio il Presidente, Mons.
Gianfranco Ravasi, per le belle parole, e saluto tutti i partecipanti, grato per il contributo offerto allo studio di tale tematica, assai rilevante per la missione della Chiesa.
Parlare di comunicazione e di linguaggio significa, infatti, non solo toccare uno dei nodi cruciali del nostro mondo e delle sue culture, ma, per noi credenti, significa avvicinarsi al mistero stesso di Dio che, nella sua bontà e sapienza, ha voluto rivelarsi e manifestare la sua volontà agli uomini (Concilio Vaticano ii, Cost.
dogm.
Dei Verbum, 2).
In Cristo, infatti, Dio si è rivelato a noi come Logos, che si comunica e ci interpella, allacciando la relazione che fonda la nostra identità e dignità di persone umane, amate come figli dall’unico Padre (cfr.
Es.
ap.
postsinodale Verbum Domini, 6.22.23).
Comunicazione e linguaggio sono anche dimensioni essenziali della cultura umana, costituita da informazioni e nozioni, da credenze e stili di vita, ma anche da regole, senza le quali difficilmente le persone potrebbero progredire nell’umanità e nella socialità.
Ho apprezzato l’originale scelta di inaugurare la Plenaria nella Sala della Protomoteca al Campidoglio, cuore civile e istituzionale di Roma, con una tavola-rotonda sul tema:  “Nella Città in ascolto dei linguaggi dell’anima”.
In tale modo, il Dicastero ha inteso esprimere uno dei suoi compiti essenziali:  mettersi in ascolto degli uomini e delle donne del nostro tempo, per promuovere nuove occasioni di annuncio del Vangelo.
Ascoltando, dunque, le voci del mondo globalizzato, ci accorgiamo che è in atto una profonda trasformazione culturale, con nuovi linguaggi e nuove forme di comunicazione, che favoriscono anche nuovi e problematici modelli antropologici.
In questo contesto, i Pastori e i fedeli avvertono con preoccupazione alcune difficoltà nella comunicazione del messaggio evangelico e nella trasmissione della fede, all’interno della stessa comunità ecclesiale.
Come ho scritto nell’Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini:  “tanti cristiani hanno bisogno che sia loro riannunciata in modo persuasivo la Parola di Dio, così da poter sperimentare concretamente la forza del Vangelo” (n.
96).
I problemi sembrano talora aumentare quando la Chiesa si rivolge agli uomini e alle donne lontani o indifferenti ad una esperienza di fede, ai quali il messaggio evangelico giunge in maniera poco efficace e coinvolgente.
In un mondo che fa della comunicazione la strategia vincente, la Chiesa, depositaria della missione di comunicare a tutte le genti il Vangelo di salvezza, non rimane indifferente ed estranea; cerca, al contrario, di avvalersi con rinnovato impegno creativo, ma anche con senso critico e attento discernimento, dei nuovi linguaggi e delle nuove modalità comunicative.
L’incapacità del linguaggio di comunicare il senso profondo e la bellezza dell’esperienza di fede può contribuire all’indifferenza di tanti, soprattutto giovani; può diventare motivo di allontanamento, come affermava già la Costituzione Gaudium et spes, rilevando che una presentazione inadeguata del messaggio nasconde più che manifestare il genuino volto di Dio e della religione (cfr.
n.
19).
La Chiesa vuole dialogare con tutti, nella ricerca della verità; ma perché il dialogo e la comunicazione siano efficaci e fecondi è necessario sintonizzarsi su una medesima frequenza, in ambiti di incontro amichevole e sincero, in quell’ideale “Cortile dei Gentili” che ho proposto parlando alla Curia Romana un anno fa e che il Dicastero sta realizzando in diversi luoghi emblematici della cultura europea.
Oggi non pochi giovani, storditi dalle infinite possibilità offerte dalle reti informatiche o da altre tecnologie, stabiliscono forme di comunicazione che non contribuiscono alla crescita in umanità, ma rischiano anzi di aumentare il senso di solitudine e di spaesamento.
Dinanzi a tali fenomeni, ho parlato più volte di emergenza educativa, una sfida a cui si può e si deve rispondere con intelligenza creativa, impegnandosi a promuovere una comunicazione umanizzante, che stimoli il senso critico e la capacità di valutazione e di discernimento.
Anche nell’odierna cultura tecnologica, è il paradigma permanente dell’inculturazione del Vangelo a fare da guida, purificando, sanando ed elevando gli elementi migliori dei nuovi linguaggi e delle nuove forme di comunicazione.
Per questo compito, difficile e affascinante, la Chiesa può attingere allo straordinario patrimonio di simboli, immagini, riti e gesti della sua tradizione.
In particolare il ricco e denso simbolismo della liturgia deve splendere in tutta la sua forza come elemento comunicativo, fino a toccare profondamente la coscienza umana, il cuore e l’intelletto.
La tradizione cristiana, poi, ha sempre strettamente collegato alla liturgia il linguaggio dell’arte, la cui bellezza ha una sua particolare forza comunicativa.
Lo abbiamo sperimentato anche domenica scorsa, a Barcellona, nella Basilica della Sagrada Familia, opera di Antoni Gaudí, che ha coniugato genialmente il senso del sacro e della liturgia con forme artistiche tanto moderne quanto in sintonia con le migliori tradizioni architettoniche.
Tuttavia, più incisiva ancora dell’arte e dell’immagine nella comunicazione del messaggio evangelico è la bellezza della vita cristiana.
Alla fine, solo l’amore è degno di fede e risulta credibile.
La vita dei santi, dei martiri, mostra una singolare bellezza che affascina e attira, perché una vita cristiana vissuta in pienezza parla senza parole.
Abbiamo bisogno di uomini e donne che parlino con la loro vita, che sappiano comunicare il Vangelo, con chiarezza e coraggio, con la trasparenza delle azioni, con la passione gioiosa della carità.
Dopo essere stato pellegrino a Santiago de Compostela ed aver ammirato in migliaia di persone, soprattutto giovani, la forza coinvolgente della testimonianza, la gioia di mettersi in cammino verso la verità e la bellezza, auspico che tanti nostri contemporanei possano dire, riascoltando la voce del Signore, come i discepoli di Emmaus:  “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via?” (Lc 24, 32).
Cari amici, vi ringrazio per quanto quotidianamente fate con competenza e dedizione e, mentre vi affido alla materna protezione di Maria Santissima, di cuore imparto a tutti la Benedizione Apostolica.
(©L’Osservatore Romano – 14 novembre 2010) La plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura è stata aperta ieri pomeriggio con una seduta pubblica in Campidoglio, con la partecipazione del sindaco di Roma Gianni Alemanno.
I lavori si svolgono da oggi fino a sabato prossimo in Vaticano sul tema “Cultura della comunicazione e nuovi linguaggi”.
Luca Collodi ha chiesto a mons.
Gianfranco Ravasi, presidente del dicastero per la Cultura e prossimo cardinale, perché la plenaria per la sua apertura abbia scelto di uscire dal Vaticano: R.
– E’ stata quasi una scelta obbligatoria, perché siamo in presenza di un tema che di sua natura suppone la “polis”, cioè la città; suppone il gioco delle strade che si incrociano; delle persone che comunicano tra di loro, che urlano e che qualche volta – invece – sussurrano soltanto.
Per questo motivo abbiamo scelto il Campidoglio che è una sorta di simbolo e dove la comunicazione dovrebbe diramarsi in tutta la città.
D.
– La Chiesa fa della Parola la sua testimonianza, però fatica a parlare il linguaggio dei tempi moderni.
Perché? R.
– Esiste un problema quasi preliminare: da un lato, noi dobbiamo riconoscere che la comunicazione e il linguaggio sono delle espressioni fondamentali dell’essere umano e della stessa religione.
Non dimentichiamo che la Bibbia comincia – nell’Antico e nel Nuovo Testamento – con la frase: “Dio disse” e “In principio c’era la Parola”.
Quindi come tale, la parola celebra i suoi trionfi, nella cultura, nella religione, nella comunicazione, come avviene ora tra di noi.
Dall’altra parte, però, si è riconosciuto che ormai la comunicazione e il linguaggio sono malati: hanno tante diverse malattie degenerative e al capezzale di questo malato ci sono tanti specialisti.
Tra questi ci deve essere, indubbiamente, anche la comunità ecclesiale, anche perché tante volte la comunità ecclesiale, forse, questo linguaggio non sa più usarlo.
D.
– Mons.
Ravasi è la Chiesa che non sa più usare il linguaggio o sono i contenuti ecclesiali che non interessano più l’opinione pubblica? R.
– Noi sappiamo il famoso detto, che viene sempre citato, “il mezzo è il messaggio”: contenuto e mezzo di comunicazione si intrecciano ininterrottamente tra di loro e costituiscono quasi come una sorta di realtà inestricabile.
Per questo motivo il contenuto è primario.
Noi abbiamo un messaggio da comunicare, che è tante volte alternativo rispetto a quello della società contemporanea, ma che riteniamo fondamentale per i valori che custodisce, per la ricchezza che contiene.
Dall’altra parte, però, c’è il mezzo e il mezzo purtroppo molte volte è stato perso: si è usato un linguaggio e un modo espressivo, da parte della società contemporanea, che non è stato raccolto dalla Chiesa e che ha continuato con un suo linguaggio.
Ecco allora la necessità di entrare non soltanto con in contenuto, ma anche con il mezzo, con la comunicazione.
D.
– C’è la necessità anche di una formazione dei pastori della Chiesa ai nuovi linguaggi… R.
– E’ questa una delle necessità, forse, fondamentali.
E non soltanto per evitare quella critica ironica che faceva Voltaire ai predicatori, dicendo che “l’eloquenza è come la spada di Carlo Magno: lunga e piatta, perché i predicatori quello che non sanno darti in profondità te lo danno in lunghezza!”.
La necessità di trovare un linguaggio certamente più capace di entrare in sintonia con la cultura e con l’uomo di oggi è indispensabile.
Non dimenticando, però, che esiste un linguaggio fondamentale di riferimento e dal quale non si può prescindere.
Ci sono delle parole che devono essere conservate! D.
– L’apertura della plenaria è avvenuta fuori dal Vaticano: ci dobbiamo aspettare nuove conclusioni dal lavoro dell’assemblea? R.
– Sicuramente l’originalità dell’apertura fuori dal Vaticano, come sempre si è fatto, è già significativa in sé.
L’altra novità è che la plenaria coinvolgerà persone diversissime: ci saranno registi cinematografici, ci saranno artisti ed architetti che interverranno, studiosi di linguaggio e specialisti di Internet ….
Questo è già un modo per parlare ad un areopago molto più esteso, ad una piazza molto più espansa.
Io penso che, d’altra parte – e qui ritorniamo alle parole di Cristo – non dobbiamo annunciare soltanto nell’interno della penombra aureolata – forse – di incensi, della comunità ecclesiale, delle chiese, ma dobbiamo parlare – come diceva Gesù – anche dalle terrazze e dai tetti: e noi siamo saliti, appunto, sulla terrazza del Campidoglio o – se si vuole – di tutta la società contemporanea.
(mg)

Il pellegrinaggio dei musulmani a La Mecca

I musulmani di tutto il mondo si apprestano a celebrare l’hajj, quinto pilastro dell’islam, ovvero l’annuale pellegrinaggio a La Mecca, in Arabia Saudita.
Per domani, primo dei cinque giorni del rito, è atteso l’arrivo di circa due milioni e mezzo di pellegrini.
Le autorità di Riyadh, custodi dei principali luoghi santi dell’islam (La Mecca e Medina), hanno schierato un impressionante apparato di sicurezza e di soccorso per evitare attentati ma soprattutto la serie di incidenti mortali avvenuti negli ultimi anni per le situazioni di panico createsi a causa del grande affollamento.
Una delle grandi novità di quest’anno è l’Al Mashaar al-Muqadassah, o “metropolitana dei luoghi santi”, che entrerà in funzione domenica e grazie alla quale i fedeli potranno spostarsi con maggiore facilità e rapidità.
Alleggerirà il traffico intorno ai principali siti di almeno trentamila veicoli, stima il Governo saudita, ed è considerata uno dei progetti più significativi del regno nel settore dei trasporti pubblici.
Quest’anno correrà al 35 per cento delle sue capacità, con dieci treni che viaggeranno coprendo il tragitto con corse di circa sette minuti, trasportando a pieno carico 72.000 pellegrini.
L’itinerario si snoderà da Mina, valle dove i musulmani si raccolgono in preghiera, al monte della Misericordia, dove Maometto pronunciò il suo ultimo discorso, fino a Muzdalifah, ultima tappa del pellegrinaggio prima del ritorno a La Mecca.
 L’hajj si svolge tra l’ottavo e il tredicesimo giorno del Dhu l-hijjah, dodicesimo e ultimo mese del calendario islamico, che è un calendario lunare, il che spiega perché la data del pellegrinaggio a La Mecca – che i musulmani devono compiere almeno una volta nella propria vita – varia di anno in anno.
Si tratta di un evento fondamentale, in quanto rappresenta il più grande mezzo di purificazione:  nel viaggio verso e attorno la Ka’aba, la “casa di Dio”, il fedele chiede perdono per i suoi peccati e viene purificato attraverso il suo pentimento e la celebrazione dei riti.
Il pellegrinaggio comincia infatti con la proclamazione delle sue intenzioni di compiere il rito spirituale e, quando giunge in un perimetro fissato attorno a La Mecca, la persona deve purificarsi attraverso un lavacro:  l’uomo deve indossare l’ihram, un indumento bianco privo di cuciture fatto di due pezzi di stoffa, la donna un semplice abito che lascia scoperti il viso e le mani.
Ognuno procede quindi con circonvoluzioni facendo sette volte il giro della Ka’aba, la costruzione a forma di cubo che si trova al centro de La Mecca e che costituisce il luogo più sacro dell’islam, in direzione della quale i musulmani pregano cinque volte al giorno.
Se può, tocca e bacia la pietra nera incrostata in uno degli angoli della Ka’aba, per l’occasione ricoperta dalla tradizionale kiswa.
In seguito i pellegrini si recano, raccolti in preghiera, nella valle di Mina, un piccolo villaggio disabitato a est della città.
Quindi lasciano Mina per ritrovarsi nella piana di Arafat per il wuquf, il rito centrale dell’hajj, il più intenso, caratterizzato da un’immobile meditazione.
In molti si riversano sul vicino monte della Misericordia, dove Maometto pronunciò il suo sermone d’addio.
Poi, tra Mina e Muzdalifah, si celebrano il rito del sacrificio (Aid al-Adha) – un montone, o una pecora, viene immolato a Dio ricordando l’obbedienza di Abramo pronto a uccidere uno dei figli pur di adempiere alla volontà del Creatore – e quello della lapidazione di Satana, attraverso il lancio di sette sassolini.
Il ritorno alla Ka’aba conclude il pellegrinaggio.
(©L’Osservatore Romano – 14 novembre 2010)

62ma Assemblea generale dei vescovi italiani

La 62ª Assemblea Generale della CEI si è aperta nel pomeriggio dell’8 novembre 2010, ad Assisi, con la prolusione del Card.
Angelo Bagnasco, Presidente della CEI.
Subito dopo il Nunzio Apostolico in Italia, S.E.
Mons.
Giuseppe Bertello, ha letto ai Vescovi il saluto del Papa.
Il giorno seguente, dopo la Celebrazione Eucaristica nella Basilica di Santa Maria degli Angeli, si è passati all’esame della prima parte dei materiali della terza edizione italiana del Messale Romano.
Il 10 novembre il Presidente della CEI presiederà la celebrazione eucaristica nella Basilica Inferiore di Assisi.
La riflessione dei Vescovi si porterà poi sul ruolo e i rapporti fra le Chiese e l’Unione Europea.
Sarà presentata una proposta di rilancio delle erogazioni liberali per il sostentamento del clero e il Libro bianco informatico delle opere realizzate grazie all’otto per mille.
Saranno fornite informazioni circa lo stato di avanzamento della rilevazione delle opere sanitarie e sociali ecclesiali in Italia, la XXVI Giornata mondiale della gioventù (Madrid, 16-21 agosto 2011), il XXV Congresso Eucaristico Nazionale (Ancona, 3-11 settembre 2011), il VII Incontro mondiale delle famiglie (Milano, 30 maggio – 3 giugno 2012).
Suddivisi in piccoli gruppi, i Vescovi si confronteranno sulle proposte di attuazione pratica degli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020, recentemente pubblicati.
   Comunicato Stampa 62a Assemblea Generale CEI.doc    Prolusione card.
Bagnasco
   Messaggio Benedetto XVI    Omelia Card.
Bagnasco
 Crociata: «Vescovi vicini al sentire della gente» Crociata: attenzione maggiore per la famiglia I vescovi italiani reclamano «un’attenzione maggiore e una cura più grande» nei confronti delle famiglia in una situazione economica nella quale «rischiano di essere quelle più dimenticate».
E ricordano che le scelte elettorali dei cattolici debbono basarsi su una attenta vautazione «delle prese di posizione e delle iniziative» dei partiti, nella quale il criterio suggerito dalla Chiesa è quello «culturale e valoriale, più e prima che direttamente politico».
Lo afferma il segretario della Cei,mons.
Mariano Crociata,  che nella prima conferenza stampa ad Assisi per fare il punto sui lavoro dell’assemblea della Conferenza episcopale, ha ricordato che la Cei è preoccupata per «i problemi concreti, quelli del lavoro, della disoccupazione, un dramma di cui le famiglie si fanno carico in tanti modi non trovando sostegno altrove».
Crociata ha sottolineato anche che  «chi è più in evidenza, chi sta più in primo piano ha un’incidenza maggiore, sul piano della comunicazione, per lo stile di vita e i valori».
Ma ha tenuto a prendere le distanze dalla ricerca di «capri espiatori» nell’uno o nell’altro dei partiti: «ad avere una rilevanza pubblica, a proiettare un’immagine pubblica siamo in tanti, a diversi livelli.
Anche noi vescovi, voi giornalisti, i vostri direttori».
«Solo così – ha scandito – il nostro discorso non è moralismo ma richiamo alle gravi responsabilità che tutti abbiamo nei confronti della collettività».
No allo scaricabarile delle responsabilità «Potrà apparire troppo generico, spero non qualunquistico – ha aggiunto il vescovo – ma ritengo che il senso della democrazia sia proprio questo sentirci tutti corresponsabili, anche se non nella stessa misura e modo».
«Se tante cose non funzionano – ha aggiunto – è perchè continuiamo a fare questo gioco di scarico delle responsabilità, la ricerca di un solo responsabile, di un capro espiatorio.
La prospettiva di un’antropologia negativa, di un cambiamento costume degli italiani è una cosa che tocca profondamente noi vescovi, una cosa che ci diciamo tra preti.
Ma dobbiamo anche dirci – ha detto ancora Crociata – che tutto questo non è il prodotto di una sola causa, per quanto le cause non sono tutte uguali.
Dobbiamo essere onesti nel guardare a tutte le cause nella loro articolazione, perchè solo così riusciremo ad affrontare i problemi».
Quanto alla nuova leva di politici cattolici richiesta da Benedetto XVI, Crociata ha confermato l’impegno della Chiesa per la formazione dei cattolici impegnati in politica che, ha detto, «deve essere rivisitato e riformulato nel nostro tempo che chiede risposte sempre nuove», mentre fin da subito «ci sono persone che hanno responsabilità pubblica ed hanno bisogno di essere accompagnati come credenti impegnati in politica.
Una presenza che – ha assicurato il presule – non vogliamo trascurare insieme all’accompagnamento di chi va avanti».
Vescovi vicini al sentire della gente I vescovi riuniti ad Assisi per la loro Assemblea straordinaria «si ritrovano – dunque – nell’orizzonte tracciato dal card.
Angelo Bagnasco nella sua prolusione di ieri con varietà e vivacità di voci ma con intento unitario e costante che trova nel magistero del Santo Padre un punto sentito di unità e di accordo».
Anche se è emersa, e non poteva essere altrimenti, una «varietà di sensibilità nell’unitarietà della premura» in quanto come è noto anche all’interno dell’Episcopato italiano oggi «lo spettro di sensibilità è abbastanza variegato».
Tutti i vescovi, comunque, «sono preoccupati di trovare nella radice pastorale del loro ministero la motivazione da cui partire e da tenere sempre presente per guardare ai problemi sociali, economici e culturali che il paese vive e che tutti stiamo attraversando».
Essi, del resto, «vivono un rapporto diretto con il territorio e la gente.
I loro interventi sono il riflesso della riflessione su quanto hanno ascoltato dal cardinale presidente Bagnasco e sui problemi di carattere nazionale, ma, nello stesso tempo, sono espressione di un’esperienza che raccoglie le domande, le attese, i problemi che la gente delle tante diocesi d’Italia si trova a vivere in una sintesi che permette di cogliere una nazione reale, un popolo cristiano molto unitario ma anche con molta complessità e varietà dei mille territori e comuni in cui si articola il Paese».
Ieri la prolusione del cardinale Bagnasco «La politica deve interessare i cattolici, e deve entrare nella loro mentalità un’attitudine a ragionare delle questioni politiche senza spaventarsi dei problemi seri che oggi, non troppo diversamente da ieri, sono sul tappeto».
È questo uno dei passi salienti della prolusione tenuta del card.
Angelo Bagnasco, presidente della Cei, alla 62ma Assemblea generale dei vescovi italiani, che si è aperta ieri, lunedì, ad Assisi, fino all’11 novembre.
Nel testo, il cardinale esorta i cattolici ad adottare in politica «un giudizio morale che non sia esclusivamente declamatorio, ma punti ai processi interni delle varie articolazioni e responsabilità sociali e istituzionali».
«Famiglie in difficoltà, adulti che sono estromessi dal sistema, giovani in cerca di occupazione stabile anche in vista di formare una propria famiglia»: queste, per il card.
Bagnasco, le «situazioni che continuano a farsi sentire», in tempo di crisi.
Di qui la richiesta che «le riforme in agenda siano istruite nelle maniere utili», in modo da assicurare «maggiore stabilità per il Paese intero».
Per quanto riguarda la «scena politica», il presidente della Cei parla di «caduta di qualità, che va soppesata con obiettività, senza sconti e senza strumentalizzazioni, se davvero si hanno a cuore le sorti del Paese, e non solamente quelle della propria parte».
  «Se la gente perde fiducia nella classe politica, fatalmente si ritira in se stessa», l’ammonimento della Cei, che in politica raccomanda una «tensione necessaria tra ideali personali, valori oggettivi e la vita vissuta, tra loro profondamente intrecciati».
Per i vescovi italiani, «non è più tempo di galleggiare», perché il rischio «è che il Paese si divida non tanto per questa o quella iniziativa di partito, quanto per i trend profondi che attraversano l’Italia e che, ancorandone una parte all’Europa, potrebbero lasciare indietro l’altra parte.
Il che sarebbe un esito infausto per l’Italia, proprio nel momento in cui essa vuole ricordare – a 150 anni dalla sua unità – i traguardi e i vantaggi di una matura coscienza nazionale».
Il presidente della Cei chiede quindi un «esame di coscienza» e propone di «convocare ad uno stesso tavolo governo, forze politiche, sindacati e parti sociali e, rispettando ciascuno il proprio ruolo ma lasciando da parte ciò che divide, approntare un piano emergenziale sull’occupazione».
«Grande vicinanza», poi, nei confronti delle «popolazioni che di recente sono state colpite da esondazioni e allagamenti».
«Calamità naturali», ma anche «incuria e imperizia troppo spesso riservate all’habitat umano» dimostrano che l’Italia ha bisogno «di un piano puntuale di messa in sicurezza del territorio», cui va data priorità.
Aspettarci che i cattolici circoscrivano il loro apporto nell’ambito sempre importante della carità – ha ribadito il presidente della Cei – significa scadere in una visione utilitaristica, quando non anche autoritaria.
I cattolici non possono consegnarsi all’afasia, ideologica o tattica: se lo facessero tradirebbero le consegne di Gesù ma anche le attese specifiche di ogni democrazia partecipata.
«Dobbiamo muoverci senza complessi di inferiorità», questa l’esortazione del card.
Bagnasco: «Siamo, e come, interessati alla vita della società; in essa ci si coinvolge con stile congruo, ma a determinarci non solo l’istinto di far da padroni né le logiche di mera contrapposizione».
Di qui l’invito a reagire al «conformismo»: «Se i credenti conoscono solo le parole del mondo, e non dispongono all’occorrenza di parole diverse e coerenti, verranno omologati alla cultura dominante o creduta tale, e finiranno per essere anche culturalmente irrilevanti».
«La mitezza non è scambiabile con la mimetizzazione, l’opportunismo, la facile dimissione dal compito», ha proseguito il cardinale, che ha esortato a salvare «l’autonomia della coscienza credente rispetto alle pressioni pubblicitarie, ai ragionamenti di corto respiro, ai qualunquismi, alle lusinghe».
Cattolici «scomodi»? Talvolta forse sì, ma «non per posa o per pregiudizio, quanto per sofferta, umile, serena coerenza».
Infine Bagnasco chiede un «piano emergenziale sull’occupazione» messo a punto da governo, forze politiche, sindacati e parti sociali in spirito di collaborazione.
«È possibile – chiediamo rispettosi – convocare ad uno stesso tavolo governo, forze politiche, sindacati e parti sociali e, rispettando ciascuno il proprio ruolo ma lasciando da parte ciò che divide, approntare un piano emergenziale sull’occupazione? Sarebbe un segno – osserva Bagnasco – che il Paese non potrebbe non apprezzare».
Il messaggio del Papa: nella famiglia si plasma il volto di un popolo È all’interno della famiglia «che si plasma il volto di un popolo».
Per questo «è quanto mai opportuna» la scelta dei vescovi italiani di «chiamare a raccolta intorno alla responsabilità educativa tutti coloro che hanno a cuore la città degli uomini e il bene delle nuove generazioni».
E di porre questa «alleanza» accanto alla famiglia, al fine di riconoscerne e sostenerne «il primato educativo».
Lo scrive il Papa nel messaggio inviato ieri all’Assemblea dei vescovi italiani riuniti ad Assisi e letto in aula dal nunzio in Italia, monsignor Giuseppe Bertello.

Così la fede rinasce nella notte

Queste parole mi fanno sempre molta impressione, perché non mi è mai capitato di dire: «La mia anima è triste fino alla morte»; ci sono stati momenti di tristezza, ma proprio di essere schiacciato, di essere stritolato non mi è mai successo.
Penso quindi che a Gesù sia accaduto qualcosa di terribile.
Che cosa sarà stato? Probabilmente la previsione imminente della passione; forse Gesù non sapeva tutti i particolari, ma sapeva che gli uomini ce l’avevano con lui, volevano eliminarlo nella maniera più crudele possibile.
Sapeva di essere in mano a uomini cattivi: questo è già un motivo di paura e di angoscia.
Ma poi probabilmente sentiva su di sé tutta l’ingiustizia del mondo e questo è qualcosa che non si può sopportare; l’ingiustizia del mondo che si esprime nelle guerre, nelle carestie, nelle oppressioni, nelle forme di schiavitù, che è immensa e percorre tutta la storia.
E quando noi ci fermiamo a considerare questa ingiustizia, siamo come senza fiato, siamo schiacciati.
Però Gesù ha voluto essere quasi schiacciato da queste cose per poterle prendere su di sé.
Quindi dobbiamo dire che da una parte le ingiustizie del mondo, della storia, della storia della Chiesa ci fanno soffrire, ma che insieme siamo certi che Gesù le ha accolte in sé, e quindi le ha riscattate.
Non sappiamo come, ma questa è una certezza che ci deve accompagnare, e ci deve accompagnare in tutte le notti della sofferenza, del dolore, quando uno si trova di fronte a una notizia che lo riguarda e che è infausta.
Per esempio un tumore, pochi mesi di vita.
Allora succede come una sorta di ribellione, di non accettazione.
C’è una lotta interiore.
Notte della sofferenza, notte della fede in cui non si sente più la presenza di Dio.
Questo è molto duro, soprattutto quando si è impegnati.
Notte della fede per cui sono passati san Giovanni della Croce e, recentemente, Madre Teresa di Calcutta, la quale diceva che fino a verso i cinquant’anni le pareva che Dio le fosse vicino, poi più niente.
Avendola conosciuta, vedevo questo suo rigore, questa sua fedeltà, questa sua tensione, ma non immaginavo che dietro ci fosse il buio completo sull’esistenza di Dio, del Dio rimuneratore.
Anche santa Teresa di Gesù Bambino è passata per questa notte.
Possiamo dire che tutte queste notti sono riassunte nella notte del Getsèmani e in essa Gesù riceve tutte le nostre ingiustizie e le fa sue, le accoglie per poterle offrire e purificarle.
Questa è una prima immagine che vi lascio.
Una seconda immagine è quella della tomba.
Che cosa sia avvenuto il giorno di Pasqua, noi non lo sappiamo.
La liturgia romana dice: «Beata notte, che non hai saputo il giorno e l’ora»; e noi non sappiamo niente, nessuno è stato presente, nessuno ce l’ha raccontato; però possiamo immaginarne le conseguenze.
Lo descriverei così: un grande scoppio di luce, di pace e di gioia nella notte della tomba.
Scoppio di luce, di pace e di gioia che è potenza dello Spirito, che prende prima di tutto il corpo di Gesù e lo vivifica, lo rende capace di essere intercessione per il mondo.
Ma poi continua in ciascuno dei viventi suscitando in lui le disposizioni di Gesù.
Mi pare quindi che sia troppo riduttivo dire: lo Spirito Santo è il segno dell’amore di Dio per me.
Lo Spirito Santo è segno delle scelte di Gesù fatte mie.
È quella forza, quel dinamismo, quella capacità di amare il povero, di amare il sofferente, di amare colui che si trova in situazione di ingiustizia perché così lo Spirito compie la sua opera.
E noi possiamo dire che quest’opera si compie sempre quando Gesù dice: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,26).
Vuol dire la sua presenza anche con il suo Spirito, con la sua capacità di vedere le cose, di reagire alle cose, di giudicare le cose.
Certo, occorre per questo un grande spirito di fede, perché molta gente dirà: «Io non vedo niente, io vedo le cose andare di male in peggio».
Occorre l’occhio della fede per leggere negli eventi miei e intorno a me questa presenza dello Spirito Santo che costruisce il mondo nuovo, la Gerusalemme celeste, che non è una città nel cielo separata da qui, ma una città che viene dal cielo, cioè dalla forza di Dio e trasforma tutti i rapporti di questa terra.
Nessuno meglio di Teilhard de Chardin ha descritto questa Gerusalemme celeste in cui vedeva appunto il termine finale, il punto omega della redenzione nel Cristo, dove tutta l’umanità era riunita e salvata, una e trasparente gli uni agli altri, e tutti noi verso Dio.
Occorre tenere presente questo fine della storia, perché altrimenti siamo banalizzati dalle vicende quotidiane, oppure siamo sofferenti quando ci sono grandi calamità e non abbiamo nessuna chiave per interpretarle.
E questa che vi ho detto non è una chiave logica, è una chiave mistica spirituale data dallo Spirito Santo: cercare di vedere in tutto l’azione dello Spirito che opera incessantemente in “Avvenire” del 6 novembre 2010

Intervista a Mons. Shlemon Warduni: “E ora come facciamo a fermare l’esodo dalla Mesopotamia?”

L’intervista Monsignor Shlemon Warduni è vescovo cattolico di Baghdad, guida spirituale dei Caldei e membro in Vaticano del Consiglio Speciale per il Medio Oriente.
Si sarebbe mai aspettato un bagno di sangue in una chiesa? «Una tragedia del genere era impensabile persino in un Paese senza sicurezza né stabilità come l’Iraq.
Ma ormai purtroppo nessuno può prevedere dove possa arrivare una violenza che non risparmia più niente e nessuno.
Come minoranza siamo un bersaglio costante e conviviamo con un logorante senso di precarietà e di timore costante.
Il sacrificio di questi nostri fratelli dimostra a che punto di follia si è arrivati.
Neppure quando si prega in una chiesa si è al riparo dalla persecuzione del terrorismo.
Questo martirio è rivolto al mondo intero perché è tutta l’umanità a precipitare nell’abisso se si muore per essere andati a una messa.
Ormai uscire equivale già a mettere a repentaglio la propria vita, nessuno è certo di tornare a casa la sera.
In qualche modo mi sento in colpa anch’io per i miei fedeli».
Perché? «Noi vescovi cerchiamo sempre di tranquillizzare i cristiani e di spingerli a rimanere in Iraq.
Li esortiamo di continuo a non emigrare.
Poi succedono fatti come questi, aberrazioni che cancellano ogni argine di civiltà e ciò che diciamo perde attendibilità, anzi sembra controproducente.
I fedeli mi domandano cosa devono fare, sono terrorizzati, mi interrogano su quale sia il disegno di Dio per loro.
Non capiscono perché debbano subire un male così crudele.
La gente è sconcertata e ci chiede come sia possibile rimanere in una situazione del genere.
Il massacro a Nostra Signora del perpetuo soccorso costituisce l’angosciante dimostrazione che in Iraq non c’è più la minima certezza.
Dov’è la coscienza quando si calpesta la religione?».
E lei cosa risponde? «Viene lo sconforto anche a me davanti ai lenzuoli bianchi di persone miti, uccise in chiesa.
C’è anche il corpicino senza vita di una bambina.
Per non cadere nella disperazione quaggiù le persone devono avere una fede talmente forte da essere addirittura pronte come cristiani alla testimonianza estrema, alla morte.
Ma non si può pretendere da tutti una fede eroica, perciò anche in Occidente ci si deve fare carico di questa condizione di terrore costante.
Nessuno ci spiega da dove arrivano le armi delle bande che si muovono indisturbate dentro e fuori i nostri confini».
Nell’anarchia irachena vede la mano dell’Iran o di Bin Laden? «Io non sospetto nessuno, è la corte internazionale a dover stabilire chi ci sta massacrando.
Noi ci aspettiamo l’aiuto di Dio che ci ha creato e fatti vivere qui e delle persone di buona volontà che possono sensibilizzare i governi e l’Onu a non abbandonarci al nostro destino.
Come pastore posso solo pregare per le vittime e per la conversione del cuore indurito dei terroristi» in “La Stampa” del 1° novembre 2010

Reinventare il sacro.

STUART KAUFFMAN, Reinventare il sacro.
Scienza, ragione e religione: un nuovo approccio, Codice, Roma 2010, pp.
334, Euro 28 Per affermarsi, l’Illuminismo deve innanzi tutto aver ragione di se stesso.
Luoghi comuni come l’antitesi storica tra i lumi promossi dalla scienza e le tenebre occultamente protette dalla fede sostituiscono una seria considerazione con un’immagine agonistica molto vieta.
Non solo la scienza classica approfitta spesso dell’insegnamento biblico.
È quanto avvenne per esempio con Newton il quale attinse dalle Scritture l’idea di uno spazio assoluto, da intendersi come un grande contenitore, per proporlo come fondamenta della propria fisica.
La scienza di oggi talora va decisamente oltre.
Può accadere addirittura che scopra entro di sé pensieri e verità che inducono a una meditazione religiosa.
È quanto suggerisce Reinventare il sacro.
Una nuova concezione della scienza, della ragione e della religione, il bellissimo libro recentemente edito da Codice di uno dei grandi biologi teorici contemporanei, Stuart Kauffman.
Secondo Kaufman la complessità del vivente fa pensare al sacro.
L’idea che le forme dell’universo non si spieghino soltanto sulla base degli elementi che le compongono ispira idee religiose.
La molteplicità immane di forme che questo universo è in grado di produrre induce a riflettere sul principio creatore e a proporre una nuova religiosità laica.
Ed è di qui che è necessario riprendere a pensare, secondo quanto Kaufmann ci insegna.
Si tratta di guardare oltre la divisione delle «due culture», quella scientifica e quella umanistica, per creare un quadro nel quale l’arte, la scienza e la vita stessa si ritrovino congiunte.
È questo per altro anche il principio autentico di un nuovo sapere certamente articolato ma uantomeno idealmente globale al quale sempre più spesso ci si richiama come avviene per esempio nei due volumi curati da Giuseppe Cacciatore e Giuseppe D’Anna, e dallo stesso Cacciatore e da Rosario Diana dedicati all’Interculturalità editi rispettivamente da Carocci e da Guida.
Sono libri che intendono cogliere, rispettivamente sotto il profilo etico-politico e teologicopolitico, il significato di una cultura sempre più innervata e percorsa da intersezioni.
Su questa via si annuncia un’unità profonda che induce a pensare eticamente e culturalmente in grande in “La Stampa” del 1° novembre 2010 Il contenuto I progressi della scienza degli ultimi quattro secoli hanno preteso un prezzo elevato: un divario sempre più ampio tra fede e ragione.
Nella sua forma più estrema, il riduzionismo sostiene che tutta la realtà, dagli organismi a una coppia di innamorati a passeggio, sia fatta di sole particelle: le società devono essere spiegate da leggi sulle persone, che sono spiegate da leggi sugli organi, sulle cellule, dalla chimica e infine dalla fisica delle particelle.
Per Kauffman il solo riduzionismo è inadeguato sia a praticare la scienza sia a comprendere la realtà: viviamo infatti in una biosfera e in una cultura che, oltre ad essere emergenti, sono radicalmente creative; un universo di creatività esplosiva di cui spesso non possiamo prevedere gli sviluppi.
La proposta di Kauffman è quindi quella di porci come co-creatori di una biosfera che letteralmente costruisce se stessa e si evolve, e di una cultura nuova e infinita.
Un Dio pienamente naturale identificato con la creatività stessa dell’universo, e una sua concezione che può essere uno spazio spirituale condiviso da tutti, credenti o non credenti.

EDUCARE ALLA VITA BUONA DEL VANGELO

PRESENTAZIONE       Gli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 intendono offrire alcune linee di fondo per una crescita concorde delle Chiese in Italia nell’arte delicata e sublime dell’educazione.
In essa noi Vescovi riconosciamo una sfida culturale e un segno dei tempi, ma prima ancora una dimensione costitutiva e permanente della nostra missione di rendere Dio presente in questo mondo e di far sì che ogni uomo possa incontrarlo, scoprendo la forza trasformante del suo amore e della sua verità, in una vita nuova caratterizzata da tutto ciò che è bello, buono e vero.
È questo un tema a cui più volte ci ha richiamato Papa Benedetto XVI, il cui magistero costituisce il riferimento sicuro per il nostro cammino ecclesiale e una fonte di ispirazione per la nostra proposta pastorale.
La scelta di dedicare un’attenzione specifica al campo educativo affonda le radici nel IV Convegno ecclesiale nazionale, celebrato a Verona nell’ottobre 2006, con il suo messaggio di speranza fondato sul “sì” di Dio all’uomo attraverso suo Figlio, morto e risorto perché noi avessimo la vita.
Educare alla vita buona del Vangelo significa, infatti, in primo luogo farci discepoli del Signore Gesù, il Maestro che non cessa di educare a una umanità nuova e piena.
Egli parla sempre all’intelligenza e scalda il cuore di coloro che si aprono a lui e accolgono la compagnia dei fratelli per fare esperienza della bellezza del Vangelo.
La Chiesa continua nel tempo la sua opera: la sua storia bimillenaria è un intreccio fecondo di evangelizzazione e di educazione.
Annunciare Cristo, vero Dio e vero uomo, significa portare a pienezza l’umanità e quindi seminare cultura e civiltà.
Non c’è nulla, nella nostra azione, che non abbia una significativa valenza educativa.
La scelta dell’Episcopato italiano per questo decennio è segno di una premura che nasce dalla paternità spirituale di cui siamo rivestiti per grazia e che condividiamo in primo luogo con i sacerdoti.
Siamo ben consapevoli, inoltre, delle energie profuse con tanta generosità nel campo dell’educazione da consacrati e laici, che testimoniano la passione educativa di Dio in ogni campo dell’esistenza umana.
A ciascuno consegniamo con fiducia questi orientamenti, con l’auspicio che le nostre comunità, parte viva del tessuto sociale del Paese, divengano sempre più luoghi fecondi di educazione integrale.
Maria, che accompagnò la crescita di Gesù in sapienza, età e grazia, ci aiuti a testimoniare la vicinanza amorosa della Chiesa a ogni persona, grazie al Vangelo, fermento di crescita e seme di felicità vera.
  Roma, 4 ottobre 2010 Festa di San Francesco d’Assisi, Patrono d’Italia                                                                                                      Angelo Card.
Bagnasco                                                                                  Presidente della Conferenza Episcopale Italiana CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA   Orientamenti pastorali 2010.pdf;

Il messaggio del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente,

Il messaggio del Sinodo Pubblichiamo il testo italiano del messaggio del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente, approvato durante la tredicesima congregazione generale di venerdì pomeriggio, 22 ottobre.
“La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola” (At 4, 32) Ai nostri fratelli presbiteri, diaconi, religiosi, religiose, alle persone consacrate e a tutti i nostri amatissimi fedeli laici e a ogni persona di buona volontà.
Introduzione 1.
La grazia di Gesù nostro Signore, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con voi.
Il Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente è stato per noi una novella Pentecoste.
“La Pentecoste è l’avvenimento originario, ma anche un dinamismo permanente.
Il Sinodo dei Vescovi è un momento privilegiato nel quale può rinnovarsi il cammino della Chiesa e la grazia della Pentecoste” (Benedetto XVI, Omelia della Messa d’apertura del Sinodo, 10.10.2010).
Siamo venuti a Roma, noi Patriarchi e vescovi delle Chiese cattoliche in Oriente con tutti i nostri patrimoni spirituali, liturgici, culturali e canonici, portando nei nostri cuori le preoccupazioni dei nostri popoli e le loro attese.
Per la prima volta ci siamo riuniti in Sinodo intorno a Sua Santità il Papa Benedetto XVI con i cardinali e gli arcivescovi responsabili dei Dicasteri romani, i presidenti delle Conferenze episcopali del mondo toccate dalle questioni del Medio Oriente, e con rappresentanti delle Chiese ortodosse e comunità evangeliche, e con invitati ebrei e musulmani.
 A Sua Santità Benedetto XVI esprimiamo la nostra gratitudine per la sollecitudine e per gli insegnamenti che illuminano il cammino della Chiesa in generale e quello delle nostre Chiese orientali in particolare, soprattutto per la questione della giustizia e della pace.
Ringraziamo le Conferenze episcopali per la loro solidarietà, la presenza tra noi durante i pellegrinaggi ai Luoghi santi e la loro visita alle nostre comunità.
Li ringraziamo per l’accompagnamento delle nostre Chiese nei differenti aspetti della nostra vita.
Ringraziamo le organizzazioni ecclesiali che ci sostengono con il loro aiuto efficace.
Abbiamo riflettuto insieme, alla luce della Sacra Scrittura e della viva Tradizione, sul presente e l’avvenire dei cristiani e dei popoli del Medio Oriente.
Abbiamo meditato sulle questioni di questa parte del mondo che Dio, nel mistero del suo amore, ha voluto fosse la culla del suo piano universale di salvezza.
Da là, di fatto, è partita la vocazione di Abramo.
Là, la Parola di Dio si è incarnata nella Vergine Maria per l’azione dello Spirito Santo.
Là, Gesù ha proclamato il Vangelo della vita e del regno.
Là, egli è morto per riscattare il genere umano e liberarlo dal peccato.
Là è risuscitato dai morti per donare la vita nuova a ogni uomo.
Là, è nata la Chiesa che da là è partita per proclamare il Vangelo fino alle estremità della terra.
Il primo scopo del Sinodo è di ordine pastorale.
È per questo che abbiamo portato nei cuori la vita, le sofferenze e le speranze dei nostri popoli e le sfide che si devono affrontare ogni giorno, convinti che “la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5, 5).
È per questo che vi rivolgiamo questo messaggio, amatissimi fratelli e sorelle, e vogliamo che sia un appello alla fermezza della fede, fondata sulla Parola di Dio, alla collaborazione nell’unità e alla comunione nella testimonianza dell’amore in tutti gli ambiti della vita.
i.
La Chiesa nel Medio Oriente:  comunione e testimonianza attraverso la storia Cammino della fede in Oriente 2.
In Oriente è nata la prima comunità cristiana.
Dall’Oriente partirono gli Apostoli dopo la Pentecoste per evangelizzare il mondo intero.
Là è vissuta la prima comunità cristiana in mezzo a tensioni e persecuzioni, “perseverante nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (At 2, 42).
Là i primi martiri hanno irrorato con il loro sangue le fondamenta della Chiesa nascente.
Alla loro sequela gli anacoreti hanno riempito i deserti col profumo della loro santità e della loro fede.
Là vissero i Padri della Chiesa orientale che continuano a nutrire con i loro insegnamenti la Chiesa d’Oriente e d’Occidente.
Dalle nostre Chiese partirono, nei primi secoli e nei secoli seguenti, i missionari verso l’estremo Oriente e verso l’Occidente portando la luce di Cristo.
Noi ne siamo gli eredi e dobbiamo continuare a trasmettere il loro messaggio alle generazioni future.
Le nostre Chiese non hanno smesso di donare santi, preti, consacrati e di servire in maniera efficace in numerose istituzioni che contribuiscono alla costruzione delle nostre società e dei nostri paesi, sacrificandosi per l’uomo creato all’immagine di Dio e portatore della sua immagine.
Alcune delle nostre Chiese non cessano ancora oggi di mandare missionari, portatori della Parola di Cristo nei differenti angoli del mondo.
Il lavoro pastorale, apostolico e missionario ci domanda oggi di pensare una pastorale per promuovere le vocazioni sacerdotali e religiose e assicurare la Chiesa di domani.
Ci troviamo oggi davanti a una svolta storica:  Dio che ci ha donato la fede nel nostro Oriente da 2000 anni, ci chiama a perseverare con coraggio, assiduità e forza, a portare il messaggio di Cristo e la testimonianza al suo Vangelo che è un Vangelo di amore e di pace.
Sfide e attese 3.1.
Oggi siamo di fronte a numerose sfide.
La prima viene da noi stessi e dalle nostre Chiese.
Ciò che Cristo ci domanda è di accettare la nostra fede e di viverla in ogni ambito della vita.
Ciò che egli domanda alle nostre Chiese è di rafforzare la comunione all’interno di ciascuna Chiesa sui iuris e tra le Chiese cattoliche di diversa tradizione, inoltre di fare tutto il possibile nella preghiera e nella carità per raggiungere l’unità di tutti i cristiani e realizzare così la preghiera di Cristo:  “perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 21).
3.2.
La seconda sfida viene dall’esterno, dalle condizioni politiche e dalla sicurezza nei nostri paesi e dal pluralismo religioso.
Abbiamo analizzato quanto concerne la situazione sociale e la sicurezza nei nostri paesi del Medio Oriente.
Abbiamo avuto coscienza dell’impatto del conflitto israelo-palestinese su tutta la regione, soprattutto sul popolo palestinese che soffre le conseguenze dell’occupazione israeliana:  la mancanza di libertà di movimento, il muro di separazione e le barriere militari, i prigionieri politici, la demolizione delle case, la perturbazione della vita economica e sociale e le migliaia di rifugiati.
Abbiamo riflettuto sulla sofferenza e l’insicurezza nelle quali vivono gli Israeliani.
Abbiamo meditato sulla situazione di Gerusalemme, la Città Santa.
Siamo preoccupati delle iniziative unilaterali che rischiano di mutare la sua demografia e il suo statuto.
Di fronte a tutto questo, vediamo che una pace giusta e definitiva è l’unico mezzo di salvezza per tutti, per il bene della regione e dei suoi popoli.
3.3.
Nelle nostre riunioni e nelle nostre preghiere abbiamo riflettuto sulle sofferenze cruente del popolo iracheno.
Abbiamo fatto memoria dei cristiani assassinati in Iraq, delle sofferenze permanenti della Chiesa in Iraq, dei suoi figli espulsi e dispersi per il mondo, portando noi insieme con loro le preoccupazioni della loro terra e della loro patria.
I padri sinodali hanno espresso la loro solidarietà con il popolo e le Chiese in Iraq e hanno espresso il voto che gli emigrati, forzati a lasciare i loro paesi, possano trovare i soccorsi necessari là dove arrivano, affinché possano tornare nei loro paesi e vivervi in sicurezza.
3.4.
Abbiamo riflettuto sulle relazioni tra concittadini, cristiani e musulmani.
Vorremmo qui affermare, nella nostra visione cristiana delle cose, un principio primordiale che dovrebbe governare queste relazioni:  Dio vuole che noi siamo cristiani nel e per le nostre società del Medio Oriente.
Il fatto di vivere insieme cristiani e musulmani è il piano di Dio su di noi ed è la nostra missione e la nostra vocazione.
In questo ambito ci comporteremo con la guida del comandamento dell’amore e con la forza dello Spirito in noi.
Il secondo principio che governa queste relazioni è il fatto che noi siamo parte integrale delle nostre società.
La nostra missione basata sulla nostra fede e il nostro dovere verso le nostre patrie ci obbligano a contribuire alla costruzione dei nostri paesi insieme con tutti i cittadini musulmani, ebrei e cristiani.
ii.
Comunione e testimonianza all’interno delle Chiese cattoliche del Medio Oriente Ai fedeli delle nostre Chiese 4.1.
Gesù ci dice:  “Voi siete il sale della terra, la luce del mondo” (Mt 5, 13.14).
La vostra missione, amatissimi fedeli, è di essere per mezzo della fede, della speranza e dell’amore nelle vostre società, come il “sale” che dona sapore e senso alla vita, come la “luce” che illumina le tenebre e come il “lievito” che trasforma i cuori e le intelligenze.
I primi cristiani a Gerusalemme erano poco numerosi.
Nonostante ciò, essi hanno potuto portare il Vangelo fino alle estremità della terra, con la grazia del “Signore che agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano ” (Mc 16, 20).
4.2.
Vi salutiamo, cristiani del Medio Oriente, e vi ringraziamo per tutto ciò che voi avete realizzato nelle vostre famiglie e nelle vostre società, nelle vostre Chiese e nelle vostre nazioni.
Salutiamo la vostra perseveranza nelle difficoltà, pene e angosce.
4.3.
Cari sacerdoti, nostri collaboratori nella missione catechetica, liturgica e pastorale, vi rinnoviamo la nostra amicizia e la nostra fiducia.
Continuate a trasmettere ai vostri fedeli con zelo e perseveranza il Vangelo della vita e la Tradizione della Chiesa attraverso la predicazione, la catechesi, la direzione spirituale e il buon esempio.
Consolidate la fede del popolo di Dio perché essa si trasformi in una civiltà dell’amore.
Dategli i sacramenti della Chiesa perché aspiri al rinnovamento della vita.
Radunatelo nell’unità e nella carità con il dono dello Spirito Santo.
Cari religiosi, religiose e consacrati nel mondo, vi esprimiamo la nostra gratitudine e ringraziamo Dio insieme con voi per il dono dei consigli evangelici – della castità consacrata, della povertà e dell’obbedienza – con i quali avete fatto dono di voi stessi, al seguito del Cristo cui desiderate testimoniare il vostro amore e predilezione.
Grazie alle vostre iniziative apostoliche diversificate, siete il vero tesoro e la ricchezza delle nostre Chiese e un’oasi spirituale nelle nostre parrocchie, diocesi e missioni.
Ci uniamo in spirito agli eremiti, ai monaci e alle monache che hanno consacrato la loro vita alla preghiera nei monasteri contemplativi, santificando le ore del giorno e della notte, portando nella loro preghiera le preoccupazioni e i bisogni della Chiesa.
Con la testimonianza della vostra vita voi offrite al mondo un segno di speranza.
4.4.
Fedeli laici, noi vi esprimiamo la nostra stima e la nostra amicizia.
Apprezziamo quanto fate per le vostre famiglie e le vostre società, le vostre Chiese e le vostre patrie.
State saldi in mezzo alle prove e alle difficoltà.
Siamo pieni di gratitudine verso il Signore per i carismi e i talenti di cui vi ha colmato e con i quali voi partecipate per la forza del Battesimo e della Cresima al lavoro apostolico e alla missione della Chiesa, impregnando l’ambito delle cose temporali con lo spirito e i valori del Vangelo.
Vi invitiamo alla testimonianza di una vita cristiana autentica, a una pratica religiosa cosciente e ai buoni costumi.
Abbiate il coraggio di dire la verità con obbiettività.
Portiamo nelle nostre preghiere voi, sofferenti nel corpo, nell’anima e nello spirito, voi oppressi, espatriati, perseguitati, prigionieri e detenuti.
Unite le vostre sofferenze a quelle di Cristo Redentore e cercate nella sua croce la pazienza e la forza.
Con il merito delle vostre sofferenze, voi ottenete per il mondo l’amore misericordioso di Dio.
Salutiamo ciascuna delle nostre famiglie cristiane e guardiamo con stima la vocazione e la missione della famiglia, in quanto cellula viva della società, scuola naturale delle virtù e dei valori etici e umani, e chiesa domestica che educa alla preghiera e alla fede di generazione in generazione.
Ringraziamo i genitori e i nonni per l’educazione dei loro figli e dei loro nipoti, sull’esempio del fanciullo Gesù che “cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2, 52).
Ci impegniamo a proteggere la famiglia con una pastorale familiare grazie ai corsi di preparazione al matrimonio e ai centri d’accoglienza e di consultazione aperti a tutti e soprattutto alle coppie in difficoltà e con le nostre rivendicazioni dei diritti fondamentali della famiglia.
Ci rivolgiamo ora in modo speciale alle donne.
Esprimiamo la nostra stima per quanto voi siete nei diversi stati di vita:  come ragazze, educatrici, madri, consacrate e operatrici nella vita pubblica.
Vi elogiamo perché proteggete la vita umana fin dall’inizio, offrendole cura e affetto.
Dio vi ha donato una sensibilità particolare per tutto ciò che riguarda l’educazione, il lavoro umanitario e la vita apostolica.
Rendiamo grazie a Dio per le vostre attività e auspichiamo che voi esercitiate una più grande  responsabilità  nella  vita  pubblica.
Guardiamo a voi con amicizia, ragazzi e ragazze, come ha fatto Cristo con il giovane del Vangelo (cfr.
Mc 10, 21).
Voi siete l’avvenire delle nostre Chiese, delle nostre comunità, dei nostri paesi, il loro potenziale e la loro forza rinnovatrice.
Progettate la vostra vita sotto lo sguardo amorevole di Cristo.
Siate cittadini responsabili e credenti sinceri.
La Chiesa si unisce a voi nelle vostre preoccupazioni di trovare un lavoro in funzione delle vostre competenze; ciò contribuirà a stimolare la vostra creatività e ad assicurare l’avvenire e la formazione di una famiglia credente.
Superate la tentazione del materialismo e del consumismo.
Siate saldi nei vostri valori cristiani.
Salutiamo i capi delle istituzioni educative cattoliche.
Nell’insegnamento e nell’educazione ricercate l’eccellenza e lo spirito cristiano.
Abbiate come scopo il consolidamento della cultura della convivialità, la preoccupazione dei poveri e dei portatori di handicap.
Malgrado le sfide e le difficoltà di cui soffrono le vostre istituzioni, vi invitiamo a mantenerle vive per assicurare la missione educatrice della Chiesa e promuovere lo sviluppo e il bene delle nostre società.
Ci rivolgiamo con grande stima a quanti lavorano nel settore sociale.
Nelle vostre istituzioni siate al servizio della carità.
Noi vi incoraggiamo e sosteniamo in questa missione di sviluppo, che è guidata dal ricco insegnamento sociale della Chiesa.
Attraverso il vostro lavoro, voi rafforzate i legami di fraternità tra gli uomini, servendo senza discriminazione i poveri, i marginalizzati, i malati, i rifugiati e i prigionieri.
Voi siete guidati dalla parola del Signore Gesù:  “tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40).
Guardiamo con speranza i gruppi di preghiera e i movimenti apostolici.
Sono scuole di approfondimento della fede per viverla nella famiglia e nella società.
Apprezziamo le loro attività nelle parrocchie e nelle diocesi e il loro sostegno ai pastori in conformità con le direttive della Chiesa.
Ringraziamo Dio per questi gruppi e questi movimenti, cellule attive della parrocchia e vivai per le vocazioni sacerdotali e religiose.
Apprezziamo il ruolo dei mezzi di comunicazione scritta e audio-visiva.
Ringraziamo voi, giornalisti, per la vostra collaborazione con la Chiesa per la diffusione dei suoi insegnamenti e delle sue attività, e in questi giorni per aver diffuso le notizie dell’Assemblea del Sinodo sul Medio Oriente in tutte le parti del mondo.
Ci felicitiamo del contributo dei media internazionali e cattolici.
Per il Medio Oriente merita una menzione particolare il canale Télé Lumière-Noursat.
Speriamo che possa continuare il suo servizio di informazione e di formazione alla fede, il suo lavoro per l’unità dei cristiani, il consolidamento della presenza cristiana in Oriente, il rafforzamento del dialogo inter-religioso e la comunione tra gli orientali sparsi in tutti i continenti.
Ai nostri fedeli nella diaspora 5.
L’emigrazione è divenuta un fenomeno generale.
Il cristiano, il musulmano e l’ebreo emigrano e per le stesse cause derivate dall’instabilità politica ed economica.
Il cristiano, inoltre, comincia a sentire l’insicurezza, benché a diversi gradi, nei paesi del Medio Oriente.
I cristiani abbiano fiducia nell’avvenire e continuino a vivere nei loro cari paesi.
Vi salutiamo amatissimi fedeli nei vostri differenti paesi della diaspora.
Chiediamo a Dio di benedirvi.
Noi vi domandiamo di conservare vivo nei vostri cuori e nelle vostre preoccupazioni il ricordo delle vostre patrie e delle vostre Chiese.
Voi potete contribuire alla loro evoluzione e alla loro crescita con le vostre preghiere, i vostri pensieri, le vostre visite e con diversi mezzi, anche se ne siete lontani.
Conservate i beni e le terre che avete in patria; non affrettatevi ad abbandonarli e a venderli.
Custodite tali proprietà come un patrimonio per voi e una porzione di quella patria alla quale rimanete attaccati e che voi amate e sostenete.
La terra fa parte dell’identità della persona e della sua missione; essa è uno spazio vitale per quelli che vi restano e per quelli che, un giorno, vi ritorneranno.
La terra è un bene pubblico, un bene della comunità, un patrimonio comune.
Non può essere ridotta a interessi individuali da parte di chi la possiede e che da solo decide a proprio piacimento di tenerla o di abbandonarla.
Vi accompagniamo con le nostre preghiere, voi figli delle nostre Chiese e dei nostri Paesi, forzati a emigrare.
Portate con voi la vostra fede, la vostra cultura e il vostro patrimonio per arricchire le vostre nuove patrie che vi procurano pace, libertà e lavoro.
Guardate all’avvenire con fiducia e gioia, restate sempre attaccati ai vostri valori spirituali, alle vostre tradizioni culturali e al vostro patrimonio nazionale per offrire ai paesi che vi hanno accolto il meglio di voi stessi e il meglio di ciò che avete.
Ringraziamo le Chiese dei paesi della diaspora che hanno accolto i nostri fedeli e che non cessano di collaborare con noi per assicurare loro il servizio pastorale necessario.
Ai migranti nei nostri paesi e nelle nostre Chiese 6.
Salutiamo tutti gli immigrati delle diverse nazionalità, venuti nei nostri paesi per ragioni di lavoro.  Noi vi accogliamo, amatissimi fedeli, e vediamo nella vostra fede un arricchimento e un sostegno per la fede dei nostri fedeli.
È con gioia che vi forniremo ogni aiuto spirituale di cui voi avete bisogno.
Noi domandiamo alle nostre Chiese di prestare un’attenzione speciale a questi fratelli e sorelle e alle loro difficoltà, qualunque sia la loro religione, soprattutto quando sono esposti ad attentati ai loro diritti e alla loro dignità.
Essi vengono da noi non soltanto per trovare mezzi per vivere, ma per procurare dei servizi di cui i nostri paesi hanno bisogno.
Essi ricevono da Dio la loro dignità e, come ogni persona umana, hanno dei diritti che è necessario rispettare.
Non è permesso a nessuno di attentare a tali dignità e diritti.
È per questo che invitiamo i governi dei paesi di accoglienza a rispettare e difendere i loro diritti.
iii.
Comunione e testimonianza con le Chiese ortodosse e le Comunità evangeliche nel Medio Oriente 7.
Salutiamo le Chiese ortodosse e le Comunità evangeliche nei nostri paesi.
Lavoriamo insieme per il bene dei cristiani, perché essi restino, crescano e prosperino.
Siamo sulla stessa strada.
Le nostre sfide sono le stesse e il nostro avvenire è lo stesso.
Vogliamo portare insieme la testimonianza di discepoli di Cristo.
Soltanto con la nostra unità possiamo compiere la missione che Dio ha affidato a tutti, malgrado la diversità delle nostre Chiese.
La preghiera di Cristo è il nostro sostegno, ed è il comandamento dell’amore che ci unisce, anche se la strada verso la piena comunione è ancora lunga davanti a noi.
Abbiamo camminato insieme nel Consiglio delle Chiese del Medio Oriente e vogliamo continuare questo cammino con la grazia di Dio e promuovere la sua azione, avendo come scopo ultimo la testimonianza comune alla nostra fede, il servizio dei nostri fedeli e di tutti i nostri paesi.
Salutiamo e incoraggiamo tutte le istanze di dialogo ecumenico in ciascuno dei nostri paesi.
Esprimiamo la nostra gratitudine al Consiglio Mondiale delle Chiese e alle diverse organizzazioni ecumeniche, che lavorano per l’unità della Chiesa, per il loro sostegno.
iv.
Cooperazione e dialogo con i nostri concittadini ebrei 8.
La stessa Scrittura santa ci unisce, l’Antico Testamento che è la Parola di Dio per voi e per noi.
Noi crediamo in tutto quanto Dio ha rivelato, da quando ha chiamato Abramo, nostro padre comune nella fede, padre degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani.
Crediamo nelle promesse e nell’alleanza che Dio ha affidato a lui.
Noi crediamo che la Parola di Dio è eterna.
Il Concilio Vaticano ii ha pubblicato il documento Nostra aetate, riguardante il dialogo con le religioni, con l’ebraismo, l’islam e le altre religioni.
Altri documenti hanno precisato e sviluppato in seguito le relazioni con l’ebraismo.
C’è inoltre un dialogo continuo tra la Chiesa e i rappresentanti dell’ebraismo.
Noi speriamo che questo dialogo possa condurci ad agire presso i responsabili per mettere fine al conflitto politico che non cessa di separarci e di perturbare la vita dei nostri paesi.
È tempo di impegnarci insieme per una pace sincera, giusta e definitiva.
Tutti noi siamo interpellati dalla Parola di Dio.
Essa ci invita ad ascoltare la voce di Dio “che parla di pace”:  “ascolterò che cosa dice Dio, il Signore:  egli annunzia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli, per chi ritorna a lui con tutto il cuore” (Sal 85, 9).
Non è permesso di ricorrere a posizioni teologiche bibliche per farne uno strumento a giustificazione delle ingiustizie.
Al contrario, il ricorso alla religione deve portare ogni persona a vedere il volto di Dio nell’altro e a trattarlo secondo gli attributi di Dio e i suoi comandamenti, vale a dire secondo la bontà di Dio, la sua giustizia, la sua misericordia e il suo amore per noi.
v.
Cooperazione e dialogo con i nostri concittadini musulmani 9.
Siamo uniti dalla fede in un Dio unico e dal comandamento che dice:  fa’ il bene ed evita il male.
Le parole del Concilio Vaticano ii sul rapporto con le religioni pongono le basi delle relazioni tra la Chiesa Cattolica e i musulmani:  “La Chiesa guarda con stima i musulmani che adorano il Dio uno, vivente […] misericordioso e onnipotente, che ha parlato agli uomini” (Nostra aetate, 3).
Diciamo ai nostri concittadini musulmani:  siamo fratelli e Dio ci vuole insieme, uniti nella fede in Dio e nel duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo.
Insieme noi costruiremo le nostre società civili sulla cittadinanza, sulla libertà religiosa e sulla libertà di coscienza.
Insieme noi lavoreremo per promuovere la giustizia, la pace, i diritti dell’uomo, i valori della vita e della famiglia.
La nostra responsabilità è comune nella costruzione delle nostre patrie.
Noi vogliamo offrire all’Oriente e all’Occidente un modello di convivenza tra le differenti religioni e di collaborazione positiva tra diverse civiltà, per il bene delle nostre patrie e quello di tutta l’umanità.
Dalla comparsa dell’islam nel vii secolo fino ad oggi, abbiamo vissuto insieme e abbiamo collaborato alla creazione della nostra civiltà comune.
È capitato nel passato, come capita ancor’oggi, qualche squilibrio nei nostri rapporti.
Attraverso il dialogo noi dobbiamo eliminare ogni squilibrio o malinteso.
Il Papa Benedetto XVI ci dice che il nostro dialogo non può essere una realtà passeggera.
È piuttosto una necessità vitale da cui dipende il nostro avvenire (cfr.
Discorso ai rappresentanti delle comunità musulmane a Colonia, 20.08.2005).
È nostro dovere, dunque, educare i credenti al dialogo inter-religioso, all’accettazione del pluralismo, al rispetto e alla stima reciproca.
vi.
La nostra partecipazione alla vita pubblica:  appelli ai governi e ai responsabili pubblici dei nostri paesi  10.
Apprezziamo gli sforzi che dispiegate per il bene comune e il servizio delle nostre società.
Vi accompagniamo con le nostre preghiere e domandiamo a Dio di guidare i vostri passi.
Ci rivolgiamo a voi a riguardo dell’importanza dell’uguaglianza tra i cittadini.
I cristiani sono cittadini originali e autentici, leali alla loro patria e fedeli a tutti i loro doveri nazionali.
È naturale che essi possano godere di tutti i diritti di cittadinanza, di libertà di coscienza e di culto, di libertà nel campo dell’insegnamento e dell’educazione e nell’uso dei mezzi di comunicazione.
Vi chiediamo di raddoppiare gli sforzi che dispiegate per stabilire una pace giusta e duratura in tutta la regione e per arrestare la corsa agli armamenti.
È questo che condurrà alla sicurezza e alla prosperità economica, arresterà l’emorragia dell’emigrazione che svuota i nostri paesi delle loro forze vive.
La pace è un dono prezioso che Dio ha affidato agli uomini e sono gli “operatori di pace [che] saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5, 9).
vii.
Appello alla comunità internazionale 11.
I cittadini dei paesi del Medio Oriente interpellano la comunità internazionale, in particolare l’Onu, perché essa lavori sinceramente ad una soluzione di pace giusta e definitiva nella regione, e questo attraverso l’applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e attraverso l’adozione delle misure giuridiche necessarie per mettere fine all’Occupazione dei differenti territori arabi.
Il popolo palestinese potrà così avere una patria indipendente e sovrana e vivervi nella dignità e nella stabilità.
Lo Stato d’Israele potrà godere della pace e della sicurezza all’interno delle frontiere internazionalmente riconosciute.
La Città Santa di Gerusalemme potrà trovare lo statuto giusto che rispetterà il suo carattere particolare, la sua santità, il suo patrimonio religioso per ciascuna delle tre religioni ebraica, cristiana e musulmana.
Noi speriamo che la soluzione dei due Stati diventi realtà e non resti un semplice sogno.
L’Iraq potrà mettere fine alle conseguenze della guerra assassina e ristabilire la sicurezza che proteggerà tutti i suoi cittadini con tutte le loro componenti sociali, religiose e nazionali.
Il Libano potrà godere della sua sovranità su tutto il territorio, fortificare l’unità nazionale e continuare la vocazione a essere il modello della convivenza tra cristiani e musulmani, attraverso il dialogo delle culture e delle religioni e la promozione delle libertà pubbliche.
Noi condanniamo la violenza e il terrorismo, di qualunque origine, e qualsiasi estremismo religioso.
Condanniamo ogni forma di razzismo, l’antisemitismo, l’anticristianesimo e l’islamofobia e chiamiamo le religioni ad assumere le loro responsabilità nella promozione del dialogo delle culture e delle civiltà nella nostra regione e nel mondo intero.
Conclusione:  continuare a testimoniare la vita divina che ci è apparsa nella persona di Gesù 12.
In conclusione, fratelli e sorelle, noi vi diciamo con l’apostolo san Giovanni nella sua prima lettera:  “Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi.
E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo” (1Gv 1, 1-3).
Questa Vita divina che è apparsa agli apostoli 2000 anni fa nella persona del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, della quale la Chiesa è vissuta e alla quale essa ha dato testimonianza in tutto il corso della sua storia, rimarrà sempre la vita delle nostre Chiese nel Medio Oriente e l’oggetto della nostra testimonianza.
Sostenuti dalla promessa del Signore:  “ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20), proseguiamo insieme il nostro cammino nella speranza, e “la speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5, 5).
Confessiamo che non abbiamo fatto fino ad ora tutto ciò che era in nostra possibilità per vivere meglio la comunione tra le nostre comunità.
Non abbiamo operato a sufficienza per confermarvi nella fede e darvi il nutrimento spirituale di cui avete bisogno nelle vostre difficoltà.
Il Signore ci invita ad una conversione personale e collettiva.
Oggi torniamo a voi pieni di speranza, di forza e di risolutezza, portando con noi il messaggio del Sinodo e le sue raccomandazioni per studiarle insieme e metterci ad applicarle nelle nostre Chiese, ciascuno secondo il suo stato.
Speriamo anche che questo sforzo nuovo sia ecumenico.
Noi vi rivolgiamo questo umile e sincero appello perché insieme condividiamo un cammino di conversione per lasciarci rinnovare dalla grazia dello Spirito Santo e ritornare a Dio.
Alla Santissima Vergine Maria, Madre della Chiesa e Regina della pace, sotto la cui protezione abbiamo messo i lavori sinodali, affidiamo il nostro cammino verso nuovi orizzonti cristiani e umani, nella fede in Cristo e con la forza della sua parola:  “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21, 5).
(©L’Osservatore Romano – 24 ottobre 2010)

Il mondo ha ancora bisogno di sacerdoti

Gli uomini avranno sempre bisogno di Dio e Dio di uomini che parlino di lui al mondo, ecco perché ha ancora oggi senso diventare sacerdoti.
Lo scrive Benedetto XVI nella lettera indirizzata ai seminaristi di tutto il mondo nella festa liturgica di san Luca Evangelista.
Il Papa, ricordate le sofferenze legate alle vicende degli abusi, ha ribadito che, sebbene siano da riprovare, tuttavia non possono screditare la missione sacerdotale, che rimane “grande e pura”.
Cari Seminaristi, nel dicembre 1944, quando fui chiamato al servizio militare, il comandante di compagnia domandò a ciascuno di noi a quale professione aspirasse per il futuro.
Risposi di voler diventare sacerdote cattolico.
Il sottotenente replicò:  Allora Lei deve cercarsi qualcos’altro.
Nella nuova Germania non c’è più bisogno di preti.
Sapevo che questa “nuova Germania” era già alla fine, e che dopo le enormi devastazioni portate da quella follia sul Paese, ci sarebbe stato bisogno più che mai di sacerdoti.
Oggi, la situazione è completamente diversa.
In vari modi, però, anche oggi molti pensano che il sacerdozio cattolico non sia una “professione” per il futuro, ma che appartenga piuttosto al passato.
Voi, cari amici, vi siete decisi ad entrare in seminario, e vi siete, quindi, messi in cammino verso il ministero sacerdotale nella Chiesa Cattolica, contro tali obiezioni e opinioni.
Avete fatto bene a farlo.
Perché gli uomini avranno sempre bisogno di Dio, anche nell’epoca del dominio tecnico del mondo e della globalizzazione:  del Dio che ci si è mostrato in Gesù Cristo e che ci raduna nella Chiesa universale, per imparare con Lui e per mezzo di Lui la vera vita e per tenere presenti e rendere efficaci i criteri della vera umanità.
Dove l’uomo non percepisce più Dio, la vita diventa vuota; tutto è insufficiente.
L’uomo cerca poi rifugio nell’ebbrezza o nella violenza, dalla quale proprio la gioventù viene sempre più minacciata.
Dio vive.
Ha creato ognuno di noi e conosce, quindi, tutti.
È così grande che ha tempo per le nostre piccole cose:  “I capelli del vostro capo sono tutti contati”.
Dio vive, e ha bisogno di uomini che esistono per Lui e che Lo portano agli altri.
Sì, ha senso diventare sacerdote:  il mondo ha bisogno di sacerdoti, di pastori, oggi, domani e sempre, fino a quando esisterà.
Il seminario è una comunità in cammino verso il servizio sacerdotale.
Con ciò, ho già detto qualcosa di molto importante:  sacerdoti non si diventa da soli.
Occorre la “comunità dei discepoli”, l’insieme di coloro che vogliono servire la comune Chiesa.
Con questa lettera vorrei evidenziare – anche guardando indietro al mio tempo in seminario – qualche elemento importante per questi anni del vostro essere in cammino.
1. Chi vuole diventare sacerdote, dev’essere soprattutto un “uomo di Dio”, come lo descrive san Paolo (1 Tm 6, 11).
Per noi Dio non è un’ipotesi distante, non è uno sconosciuto che si è ritirato dopo il “big bang”.
Dio si è mostrato in Gesù Cristo.
Nel volto di Gesù Cristo vediamo il volto di Dio.
Nelle sue parole sentiamo Dio stesso parlare con noi.
Perciò la cosa più importante nel cammino verso il sacerdozio e durante tutta la vita sacerdotale è il rapporto personale con Dio in Gesù Cristo.
Il sacerdote non è l’amministratore di una qualsiasi associazione, di cui cerca di mantenere e aumentare il numero dei membri.
È il messaggero di Dio tra gli uomini.
Vuole condurre a Dio e così far crescere anche la vera comunione degli uomini tra di loro.
Per questo, cari amici, è tanto importante che impariate a vivere in contatto costante con Dio.
Quando il Signore dice:  “Pregate in ogni momento”, naturalmente non ci chiede di dire continuamente parole di preghiera, ma di non perdere mai il contatto interiore con Dio.
Esercitarsi in questo contatto è il senso della nostra preghiera.
Perciò è importante che il giorno incominci e si concluda con la preghiera.
Che ascoltiamo Dio nella lettura della Scrittura.
Che gli diciamo i nostri desideri e le nostre speranze, le nostre gioie e sofferenze, i nostri errori e il nostro ringraziamento per ogni cosa bella e buona, e che in questo modo Lo abbiamo sempre davanti ai nostri occhi come punto di riferimento della nostra vita.
Così diventiamo sensibili ai nostri errori e impariamo a lavorare per migliorarci; ma diventiamo sensibili anche a tutto il bello e il bene che riceviamo ogni giorno come cosa ovvia, e così cresce la gratitudine.
Con la gratitudine cresce la gioia per il fatto che Dio ci è vicino e possiamo servirlo  2. Dio non è solo una parola per noi.
Nei Sacramenti Egli si dona a noi in persona, attraverso cose corporali.
Il centro del nostro rapporto con Dio e della configurazione della nostra vita è l’Eucaristia.
Celebrarla con partecipazione interiore e incontrare così Cristo in persona, dev’essere il centro di tutte le nostre giornate.
San Cipriano ha interpretato la domanda del Vangelo:  “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”, dicendo, tra l’altro, che “nostro” pane, il pane che possiamo ricevere da cristiani nella Chiesa, è il Signore eucaristico stesso.
Nella domanda del Padre Nostro preghiamo quindi che Egli ci doni ogni giorno questo “nostro” pane; che esso sia sempre il cibo della nostra vita.
Che il Cristo risorto, che si dona a noi nell’Eucaristia, plasmi davvero tutta la nostra vita con lo splendore del suo amore divino.
Per la retta celebrazione eucaristica è necessario anche che impariamo a conoscere, capire e amare la liturgia della Chiesa nella sua forma concreta.
Nella liturgia preghiamo con i fedeli di tutti i secoli – passato, presente e futuro si congiungono in un unico grande coro di preghiera.
Come posso affermare per il mio cammino personale, è una cosa entusiasmante imparare a capire man mano come tutto ciò sia cresciuto, quanta esperienza di fede ci sia nella struttura della liturgia della Messa, quante generazioni l’abbiano formata pregando.
3. Anche il sacramento della Penitenza è importante.
Mi insegna a guardarmi dal punto di vista di Dio, e mi costringe ad essere onesto nei confronti di me stesso.
Mi conduce all’umiltà.
Il Curato d’Ars ha detto una volta:  Voi pensate che non abbia senso ottenere l’assoluzione oggi, pur sapendo che domani farete di nuovo gli stessi peccati.
Ma – così dice – Dio stesso dimentica al momento i vostri peccati di domani, per donarvi la sua grazia oggi.
Benché abbiamo da combattere continuamente con gli stessi errori, è importante opporsi all’abbrutimento dell’anima, all’indifferenza che si rassegna al fatto di essere fatti così.
È importante restare in cammino, senza scrupolosità, nella consapevolezza riconoscente che Dio mi perdona sempre di nuovo.
Ma anche senza indifferenza, che non farebbe più lottare per la santità e per il miglioramento.
E, nel lasciarmi perdonare, imparo anche a perdonare gli altri.
Riconoscendo la mia miseria, divento anche più tollerante e comprensivo nei confronti delle debolezze del prossimo.
4. Mantenete pure in voi la sensibilità per la pietà popolare, che è diversa in tutte le culture, ma che è pur sempre molto simile, perché il cuore dell’uomo alla fine è lo stesso.
Certo, la pietà popolare tende all’irrazionalità, talvolta forse anche all’esteriorità.
Eppure, escluderla è del tutto sbagliato.
Attraverso di essa, la fede è entrata nel cuore degli uomini, è diventata parte dei loro sentimenti, delle loro abitudini, del loro comune sentire e vivere.
Perciò la pietà popolare è un grande patrimonio della Chiesa.
La fede si è fatta carne e sangue.
Certamente la pietà popolare dev’essere sempre purificata, riferita al centro, ma merita il nostro amore, ed essa rende noi stessi in modo pienamente reale “Popolo di Dio”.
5. Il tempo in seminario è anche e soprattutto tempo di studio.
La fede cristiana ha una dimensione razionale e intellettuale che le è essenziale.
Senza di essa la fede non sarebbe se stessa.
Paolo parla di una “forma di insegnamento”, alla quale siamo stati affidati nel battesimo (Rm 6, 17).
Voi tutti conoscete la parola di San Pietro, considerata dai teologi medioevali la giustificazione per una teologia razionale e scientificamente elaborata:  “Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi “ragione” (logos) della speranza che è in voi” (1 Pt 3, 15).
Imparare la capacità di dare tali risposte, è uno dei principali compiti degli anni di seminario.
Posso solo pregarvi insistentemente:  Studiate con impegno! Sfruttate gli anni dello studio! Non ve ne pentirete.
Certo, spesso le materie di studio sembrano molto lontane dalla pratica della vita cristiana e dal servizio pastorale.
Tuttavia è completamente sbagliato porre sempre subito la domanda pragmatica:  Mi potrà servire questo in futuro? Sarà di utilità pratica, pastorale? Non si tratta appunto soltanto di imparare le cose evidentemente utili, ma di conoscere e comprendere la struttura interna della fede nella sua totalità, così che essa diventi risposta alle domande degli uomini, i quali cambiano, dal punto di vista esteriore, di generazione in generazione, e tuttavia restano in fondo gli stessi.
Perciò è importante andare oltre le mutevoli domande del momento per comprendere le domande vere e proprie e capire così anche le risposte come vere risposte.
È importante conoscere a fondo la Sacra Scrittura interamente, nella sua unità di Antico e Nuovo Testamento:  la formazione dei testi, la loro peculiarità letteraria, la graduale composizione di essi fino a formare il canone dei libri sacri, l’interiore unità dinamica che non si trova in superficie, ma che sola dà a tutti i singoli testi il loro significato pieno.
È importante conoscere i Padri e i grandi Concili, nei quali la Chiesa ha assimilato, riflettendo e credendo, le affermazioni essenziali della Scrittura.
Potrei continuare in questo modo:  ciò che chiamiamo dogmatica è il comprendere i singoli contenuti della fede nella loro unità, anzi, nella loro ultima semplicità:  ogni singolo particolare è alla fine solo dispiegamento della fede nell’unico Dio, che si è manifestato e si manifesta a noi.
Che sia importante conoscere le questioni essenziali della teologia morale e della dottrina sociale cattolica, non ho bisogno di dirlo espressamente.
Quanto importante sia oggi la teologia ecumenica, il conoscere le varie comunità cristiane, è evidente; parimenti la necessità di un orientamento fondamentale sulle grandi religioni, e non da ultima la filosofia:  la comprensione del cercare e domandare umano, al quale la fede vuol dare risposta.
Ma imparate anche a comprendere e – oso dire – ad amare il diritto canonico nella sua necessità intrinseca e nelle forme della sua applicazione pratica:  una società senza diritto sarebbe una società priva di diritti.
Il diritto è condizione dell’amore.
Ora non voglio continuare ad elencare, ma solo dire ancora una volta:  amate lo studio della teologia e seguitelo con attenta sensibilità per ancorare la teologia alla comunità viva della Chiesa, la quale, con la sua autorità, non è un polo opposto alla scienza teologica, ma il suo presupposto.
Senza la Chiesa che crede, la teologia smette di essere se stessa e diventa un insieme di diverse discipline senza unità interiore.
6. Gli anni nel seminario devono essere anche un tempo di maturazione umana.
Per il sacerdote, il quale dovrà accompagnare altri lungo il cammino della vita e fino alla porta della morte, è importante che egli stesso abbia messo in giusto equilibrio cuore e intelletto, ragione e sentimento, corpo e anima, e che sia umanamente “integro”.
La tradizione cristiana, pertanto, ha sempre collegato con le “virtù teologali” anche le “virtù cardinali”, derivate dall’esperienza umana e dalla filosofia, e in genere la sana tradizione etica dell’umanità.
Paolo lo dice ai Filippesi in modo molto chiaro:  “In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri” (4, 8).
Di questo contesto fa parte anche l’integrazione della sessualità nell’insieme della personalità.
La sessualità è un dono del Creatore, ma anche un compito che riguarda lo sviluppo del proprio essere umano.
Quando non è integrata nella persona, la sessualità diventa banale e distruttiva allo stesso tempo.
Oggi vediamo questo in molti esempi nella nostra società.
Di recente abbiamo dovuto constatare con grande dispiacere che sacerdoti hanno sfigurato il loro ministero con l’abuso sessuale di bambini e giovani.
Anziché portare le persone ad un’umanità matura ed esserne l’esempio, hanno provocato, con i loro abusi, distruzioni di cui proviamo profondo dolore e rincrescimento.
A causa di tutto ciò può sorgere la domanda in molti, forse anche in voi stessi, se sia bene farsi prete; se la via del celibato sia sensata come vita umana.
L’abuso, però, che è da riprovare profondamente, non può screditare la missione sacerdotale, la quale rimane grande e pura.
Grazie a Dio, tutti conosciamo sacerdoti convincenti, plasmati dalla loro fede, i quali testimoniano che in questo stato, e proprio nella vita celibataria, si può giungere ad un’umanità autentica, pura e matura.
Ciò che è accaduto, però, deve renderci più vigilanti e attenti, proprio per interrogare accuratamente noi stessi, davanti a Dio, nel cammino verso il sacerdozio, per capire se ciò sia la sua volontà per me.
È compito dei padri confessori e dei vostri superiori accompagnarvi e aiutarvi in questo percorso di discernimento.
È un elemento essenziale del vostro cammino praticare le virtù umane fondamentali, con lo sguardo rivolto al Dio manifestato in Cristo, e lasciarsi, sempre di nuovo, purificare da Lui.
7. Oggi gli inizi della vocazione sacerdotale sono più vari e diversi che in anni passati.
La decisione per il sacerdozio si forma oggi spesso nelle esperienze di una professione secolare già appresa.
Cresce spesso nelle comunità, specialmente nei movimenti, che favoriscono un incontro comunitario con Cristo e la sua Chiesa, un’esperienza spirituale e la gioia nel servizio della fede.
La decisione matura anche in incontri del tutto personali con la grandezza e la miseria dell’essere umano.
Così i candidati al sacerdozio vivono spesso in continenti spirituali completamente diversi.
Potrà essere difficile riconoscere gli elementi comuni del futuro mandato e del suo itinerario spirituale.
Proprio per questo il seminario è importante come comunità in cammino al di sopra delle varie forme di spiritualità.
I movimenti sono una cosa magnifica.
Voi sapete quanto li apprezzo e amo come dono dello Spirito Santo alla Chiesa.
Devono essere valutati, però, secondo il modo in cui tutti sono aperti alla comune realtà cattolica, alla vita dell’unica e comune Chiesa di Cristo che in tutta la sua varietà è comunque solo una.
Il seminario è il periodo nel quale imparate l’uno con l’altro e l’uno dall’altro.
Nella convivenza, forse talvolta difficile, dovete imparare la generosità e la tolleranza non solo nel sopportarvi a vicenda, ma nell’arricchirvi l’un l’altro, in modo che ciascuno possa apportare le sue peculiari doti all’insieme, mentre tutti servono la stessa Chiesa, lo stesso Signore.
Questa scuola della tolleranza, anzi, dell’accettarsi e del comprendersi nell’unità del Corpo di Cristo, fa parte degli elementi importanti degli anni di seminario.
Cari seminaristi! Con queste righe ho voluto mostrarvi quanto penso a voi proprio in questi tempi difficili e quanto vi sono vicino nella preghiera.
E pregate anche per me, perché io possa svolgere bene il mio servizio, finché il Signore lo vuole.
Affido il vostro cammino di preparazione al Sacerdozio alla materna protezione di Maria Santissima, la cui casa fu scuola di bene e di grazia.
Tutti vi benedica Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo.
Dal Vaticano, 18 ottobre 2010, Festa di San Luca, Evangelista.
Vostro nel Signore (©L’Osservatore Romano – 18-19 ottobre 2010)