Nascita e infanzia di Gesù secondo i vangeli apocrifi

Il 7 novembre di cent’anni fa si spegneva nella stazioncina di Astàpovo, sperduta nell’immensa Russia, il grande romanziere Tolstoj, in fuga dalla sua famiglia e da sé stesso.
Pochi sanno che due anni prima, e precisamente il 12 giugno 1908, egli scriveva la premessa a un libretto diviso in 52 paragrafi, nato dai corsi di religione che aveva tenuto l’anno prima ai figli dei contadini della sua tenuta di Jasnaja Poljana e che aveva intitolato Il Vangelo spiegato ai giovani.
Aveva scelto i passi evangelici “più accessibili ai bambini”, nella convinzione che essi “come disse Cristo, sono in particolar modo recettivi della dottrina del regno di Dio”.
Ebbene, spesso si ritiene che una delle parti più adatte ai piccoli sia quella che raccoglie i 180 versetti dei cosiddetti “Vangeli dell’infanzia” di Gesù, presenti nei primi due capitoli di Matteo e di Luca.
Sicuramente, al centro c’è un Bambino, ma quelle pagine sono tutt’altro che bei raccontini destinati a menti ancora in formazione; ciò che generano non è uno stupore infantile a bocca aperta e occhioni sgranati; è, invece, lo stupore della fede adulta che comprende e contempla.
A creare la sensazione che quei “Vangeli” siano rivolti più a un pubblico ingenuo che a coloro che cercano un annunzio di salvezza, ha contribuito molto un genere letterario sbocciato nei primi secoli cristiani su imitazione dei Vangeli canonici.
Si tratta dei ben noti “Vangeli apocrifi”, laddove questa specificazione – che rimanda in greco a qualcosa di “nascosto, segreto” – aveva gettato su quegli scritti una luce misteriosa di esoterismo e di proibito.
E gli stessi testi favorivano tale interpretazione.
L’importante (anche storicamente) Vangelo di Tommaso, che offre un prezioso campionario di 114 lóghia o “detti” di Cristo, si apriva così:  “Queste sono le parole segrete che Gesù, il Vivente, ha detto.
Didimo Giuda Tommaso le ha scritte e ha detto:  Chi troverà l’interpretazione di queste parole non gusterà la morte”.
Tale accezione iniziatica del termine “apocrifo” si trasformerà negativamente in quella di “falso”, in contrapposizione a ciò che era “canonico”, ossia la Scrittura ufficialmente accolta dalla Chiesa, trasformazione dotata, però, di qualche fondamento:  queste pagine, infatti, soprattutto nelle loro narrazioni sull’infanzia di Gesù, accanto a dati storicamente attendibili anche se ignoti ai quattro Vangeli canonici, seminavano a piene mani eventi e parole intrise della spezia della fantasia, fino ad accogliere anche degenerazioni ideologiche, nel tentativo di avallare teorie teologiche di gruppi cristiani locali.
Ecco, noi ora vorremmo presentare ai nostri lettori le principali fonti “natalizie” apocrife a cui per secoli hanno attinto non solo le arti, ma anche la devozione popolare, il folclore, i racconti per l’infanzia e persino la liturgia (è noto che le memorie sia della natività sia della presentazione al tempio di Maria, come quella dei nomi dei genitori della Vergine, Anna e Gioacchino, sono da cercare nel primo degli apocrifi che subito evocheremo).
Naturalmente, chi vuol leggere quei testi in edizioni corrette e rigorose non ha che l’imbarazzo della scelta.
Accontentiamoci di segnalare soltanto la più recente, quella curata dall’esegeta catalano Armand Puig i Tàrrech, I vangeli apocrifi (Cinisello Balsamo, San Paolo, 2010, pagine 414, euro 32:  è solo il primo volume ed è quello che tocca il nostro tema).
I Vangeli apocrifi dell’infanzia di Gesù si possono proporre secondo un trittico eterogeneo.
La prima tavola è occupata dallo scritto più celebre, variamente intitolato dai manoscritti che ce l’hanno conservato, ma comunemente noto come il Protovangelo di Giacomo, probabilmente “il fratello del Signore” (Galati, 1, 19; Marco, 6, 3), primo capo della Chiesa di Gerusalemme, che si autopresenta nell’epilogo così:  “Io, Giacomo, che ho scritto questa storia”.
Le Chiese d’Oriente, invece, hanno preferito identificarlo in un ipotetico figlio maggiore avuto da san Giuseppe in un precedente matrimonio, mentre il Decreto Gelasiano del vi secolo optava per il Giacomo detto il minore del collegio apostolico.
Ma al di là del patronato e delle stesse molteplici versioni a noi giunte, spesso divergenti tra loro, ciò che interessa è il contenuto che ha reso questo testo uno degli apocrifi di maggior successo.
Come scriveva quel grande studioso e teologo che fu Oscar Cullmann, il Protovangelo di Giacomo brilla per “discrezione, intimità e poesia” e merita attenzione anche per la sua antichità:  è, infatti, da collocare tra il 150 e il 200.
La trama è semplice e potrebbe essere classificata come una biografia di Maria, dal suo concepimento miracoloso fino alla nascita di suo figlio Gesù.
È qui che apparentemente sembra registrarsi una caduta di stile con la scena dell’ispezione ginecologica sulla verginità di Maria.
Tuttavia, questa e tutte le altre sottolineature della sua purezza e verginità fin dalla sua concezione sono probabilmente segnate da una finalità apologetica antignostica e, soprattutto, antipagana.
Origene, infatti, ci informa, nella sua polemica col retore e filosofo pagano Celso, che era diffusa tra i pagani la convinzione che “la madre di Gesù era stata ripudiata dal falegname a cui era unita in matrimonio perché trovata colpevole di adulterio, avendo concepito Gesù da un soldato romano di nome Panthera” (Contro Celso, 1, 32).
È curioso notare che questo nome strano sembra essere una deformazione del titolo parthénos, “vergine”, che i cristiani attribuivano a Maria.
Attingendo ai Vangeli canonici di Matteo e Luca – sui quali vengono innestati dati nuovi e liberi, come l’assassinio di Zaccaria, il padre del Battista, da parte di Erode – rimandando all’Antico Testamento (ad esempio, per il nome e la vicenda di Anna sterile, come era accaduto all’omonima madre del profeta Samuele) riferendosi anche alla letteratura popolare dedicata agli eroi e alle loro origini, l’autore del Protovangelo forse echeggia notizie e informazioni dall’antica tradizione orale cristiana la quale, certamente, aveva fatto da base anche al racconto canonico.
Sta di fatto che il successo di questo apocrifo nella storia dell’arte, del culto e della devozione mariana fu folgorante pure in Occidente, ove fu mediato attraverso quell’opera capitale che fu la Legenda aurea di Jacopo da Varazze (xiii sec.).
È a questo punto che dobbiamo introdurre la seconda tavola del nostro ideale trittico apocrifo natalizio.
È il cosiddetto Vangelo dell’infanzia di Tommaso, da non confondere col già citato e rilevante Vangelo di Tommaso, trovato in Egitto.
Si tratta di un testo greco, giunto a noi anche in varie traduzioni antiche (siriaco, latino, georgiano, slavo, etiopico) dalla trama semplice ma sconcertante.
Semplice, perché racconta atti e detti del piccolo Gesù tra i cinque e i dodici anni, nel silenzio assoluto dei Vangeli canonici che si accontentano di dirci soltanto che “il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui” (Luca, 2, 40), al massimo informandoci con Giuseppe che “andò ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti:  Sarà chiamato Nazareno” (Matteo, 2, 23).
Dicevamo, però, che lo scritto è anche sconcertante in quanto ci offre un ritratto di Gesù come quello di un enfant terribile, capriccioso, arrogante persino coi suoi genitori.
Il catalogo di queste divine malefatte, che sono miracoli al contrario, è impressionante:  una paralisi, due morti e una cecità! Paralitico diventa il compagno che aveva aperto un canale di uscita nella pozza d’acqua che Gesù aveva costruito, come fanno i bambini nei loro giochi; muore un altro ragazzo che l’aveva spintonato, ma si spegne anche il maestro che aveva bacchettato sulla testa questo scolaro inquieto; ciechi si ritrovano i compagni o gli adulti che non stanno dalla sua parte e lo accusano.
È pur vero che il piccolo Gesù sfodera poi i suoi poteri divini risuscitando e guarendo, e vivificando anche dodici uccellini da lui plasmati col fango, rendendo potabile l’acqua di un torrente, aggiustando un asse per il lavoro del padre falegname Giuseppe, rendendo impermeabile il manto di sua madre Maria per il trasporto dell’acqua, curando un morso di vipera del fratellastro Giacomo, moltiplicando il grano per i poveri, decifrando il segreto simbolismo della lettera greca alfa e così via elencando per un totale di ben tredici prodigi.
È lecita a questo punto una domanda:  qual è il significato ultimo di questa parata taumaturgica un po’ istrionica e bizzarra?  Difficile è una risposta univoca e convincente, tra le tante che sono state escogitate, cercando di pescare anche in qualche fluido retroterra gnostico.
Si possono, certo, isolare in filigrana alcune iridescenze simboliche, come quella del giudizio su coloro che rifiutano Cristo, secondo quel contrasto tra mondo e parola divina, tra luce e tenebre, tra fede e rifiuto che domina nel Vangelo di Giovanni.
Il citato Puig i Tàrrech, con qualche contorcimento interpretativo, arriva al punto di affermare che l’autore di questo Vangelo “con un’intelligenza narrativa decisamente singolare, procederebbe a una riduzione ad absurdum della questione della divinità di Gesù e presenterebbe un Gesù in-credibile, per mostrare come tale divinità debba essere creduta e riconosciuta nella sua autenticità”.
Detto altrimenti, sarebbe un racconto paradossale, “al limite”, del quale bisogna cogliere la cifra nascosta per decrittarne il senso profondo.
Sarà pure così, ma sta di fatto che il risultato più evidente è che “Tommaso” riesce a far brillare di luce irraggiungibile la sobrietà e la limpida serietà teologica dei Vangeli canonici dell’infanzia di Gesù.
Siamo, allora, giunti al terzo quadro della nostra trilogia, il Vangelo dello Pseudo-Matteo, così denominato dal famoso studioso ottocentesco Constantin von Tischendorf, lo scopritore del celebre codice Sinaitico della Bibbia, nel monastero di Santa Caterina al Sinai.
In realtà, la sostanza di questo apocrifo è solamente la ripresa libera proprio delle altre due tavole narrative del nostro trittico, arricchendole di particolari inediti.
Perché, allora, evochiamo anche questo scritto, sorto tra il 600 e il 625 in qualche monastero latino occidentale? Lo facciamo proprio per questa sua funzione di mediazione tra Oriente e Occidente della tradizione apocrifa di Giacomo e Tommaso e per lo straordinario successo che l’opera registrò nella devozione delle nostre Chiese, anche attraverso il filtro già citato della Legenda aurea.
Se cerchiamo notizie storicamente attendibili sulle origini di Gesù, la messe di dati che troviamo leggendo le pagine del nostro trittico è forse modesta anche se non inesistente.
Se, invece, desideriamo interpretare l’iconografia dell’arte e della fede cristiana dei secoli successivi, dobbiamo certamente tenere sul tavolo, accanto a Matteo e Luca, anche gli apocrifi che vanno sotto il nome di Giacomo, di Tommaso e dello Pseudo-Matteo.
Una piccola nota in appendice e un po’ fuori tema.
Pochi sanno che alla conservazione di ágrapha, ossia di parole ed eventi “non scritti” (nei Vangeli canonici) di o su Gesù ha contribuito anche l’islam:  lo scorso anno Sabino Chialà ha pubblicato appunto I detti islamici di Gesù (Milano, Fondazione Valla-Mondadori, 2009, pagine 520, euro 30).
Ne vorrei citare uno di grande suggestione.
Se da Agra, l’indimenticabile capitale moghul dell’India, sede del Taj Mahal (“una lacrima di marmo ferma sulla guancia del tempo”, come lo definiva Tagore), il turista scende per una quarantina di chilometri a sud-ovest, scopre la città fantasma di Fatehpur Sikri, edificata nel Cinquecento dall’imperatore Akbar come un crocevia utopico delle religioni, fuse nella sua din-i-llahi, “la religione di Dio”, un arcobaleno sincretistico di fedi diverse.
Per questo sulla moschea della città egli aveva apposto questa iscrizione:  “Gesù – che la pace sia con lui – disse:  Il mondo è un ponte.
Attraversalo, ma non fermarti lì”.
Ora, anche nel citato Vangelo di Tommaso, all’interno dei suoi 114 detti di Gesù ci si imbatte nell’appello:  “Siate gente di passaggio!”.
Sia nella scritta di Fatehpur Sikri sia in quest’altra frase si può sentire l’eco delle parole evangeliche di Cristo sul vero tesoro, che non è nella passeggera ricchezza terrena (Matteo, 6, 19-34), e sul vano affannarsi nell’accumulo dei beni transitori (Luca, 12, 16-31).
(©L’Osservatore Romano – 25 dicembre 2010)

Per eremi silenziosi

I percorsi di Rozanov tra i monasteri russi di Stefano Garzonio Eremo silenzioso è il titolo di un celebre dipinto di Isaak Levitan del 1890, oggi conservato alla Galleria Tret’jakov di Mosca.
Vi si raffigura un paesaggio idealizzato, ispirato, pare, al monastero di Jur’evec sulla Volga, che fa tuttavia solo da spunto per una composizione fortemente interiorizzata, quasi impalpabile.
Fin dalla sua prima esposizione, alla mostra degli Ambulanti del 1891, quando provocò tra le altre la reazione entusiastica di Anton Cechov, l’opera acquistò un carattere per così dire paradigmatico nella raffigurazione della spiritualità russa.
Più di un decennio più tardi lo scrittore e filosofo Vasilij Rozanov dedicò un lungo saggio alla visita dei monasteri legati alla vita del Santo Serafim di Sarov (1754-1833) e lo intitolò Per eremi silenziosi, quasi volesse riportare su carta nella sua articolazione il complesso intreccio raffigurativo della spiritualità russa simbolicamente tracciato da Levitan nel suo quadro.
Il testo di Vasilij Rozanov è ora proposto in italiana dall’editore Lindau nella cura e traduzione di Gian Luigi Giacone, cui si deve anche una informatissima postfazione e una breve nota sul grande scrittore russo.
Il pellegrinaggio nei monasteri di Ponetaevka, Sarov e Digeev, fu compiuto da Rozanov insieme ai famigliari nella speranza di ottenere un miglioramento della salute della figlia Tat’jana.
Vicino in gioventù alle idee slavofile e poi pensatore inquieto, critico acerbo del cristianesimo e dell’ortodossia, assertore della «santità del sesso» in chiave veterotestamentaria e in opposizione al cristianesimo «lunare» e ascetico, Rozanov fornisce qui un’analisi partecipe, ma non univoca dei principi spirituali del cristianesimo.
Si tratta infatti di una descrizione appassionata dei luoghi, dei monumenti artistici e del mondo umano dei pellegrini, percorsa da riflessioni, ora pacate, ora anticonformiste, sulla fede cristiana dei russi e, più concretamente, sulla specificità dell’ascetismo nella spiritualità russa.
Per il lettore italiano si tratta di un documento di particolare interesse informativo, perché offre un’immagine a tutto tondo della figura di San Serafino la cui venerazione, legata all’epoca di Nicola II che partecipò personalmente al rito della canonizzazione, è tornata oggi al centro della vita spirituale della chiesa ortodossa russa nell’epoca post-comunista.
Al tempo stesso è da rilevare la pregnanza letteraria del testo, sia per gli aspetti formali che testimoniano la grandezza di Rozanov scrittore, come risulterà evidente nella prosa frammentaria delle Foglie cadute, sia per i rimandi propriamente letterari, come nel parallelo tra la descrizione del monachesimo proposta da Rozanov e la figura dello starec Zosima nei Karamazov di Dostoevskij.
In questa prospettiva è curiosa l’annotazione secondo cui «la letteratura russa vanta quattro scrittori – Lermontov, Gogol’, Dostoevskij e, in misura minore, Tolstoj – che possiamo immaginare senza difficoltà come monaci».
Al contrario, prosegue Rozanov: «Con Puskin…
questo sarebbe impossibile.
Un uomo nella cui anima alberghi la varietà e la mutevolezza non è adatto a indossare la veste monacale…».
Lo scritto di Rozanov tende in ogni caso a sostenere un atteggiamento critico nei confronti dei concetti di «società cristiana» e «famiglia cristiana», individuando nell’ascetismo monastico l’idea centrale e rivoluzionaria del cristianesimo e sottolineando il carattere «pagano» di istituzioni come famiglia, stato e società.
In una accesa diatriba contro l’umanesimo, nella convinzione che «a Cristo appartiene la cella, il mondo non appartiene a Cristo!», Rozanov giunge a riferire il complesso dell’anima umana, dai culti precristiani alle arti e alle filosofie, al paganesimo e ai concetti di bellezza dell’antichità.
Nota lo scrittore: «Non è un caso che i templi antichi fossero pieni di vitelli, agnelli, colombi, pieni cioè di una salute ancora pre-umana, mentre le nuove chiese sono piene di storpi, ciechi e paralitici».
Non pochi sono i riferimenti alla specificità dell’ortodossia, cui lo scrittore dedicherà poi il celebre saggio La chiesa russa.
Nel contempo Rozanov sottolinea il carattere rigido, severo, del cristianesimo, dal quale «ogni gioia terrena viene vista …
attraverso il prisma della tristezza».
L’immagine del cristianesimo come «guarigione», ma non «salute», ha in nuce tutto il complesso polemico del Rozanov teista naturalista che di lì a poco nei celebri Il volto oscuro (nel quale peraltro sarà inserito il saggio Per eremi silenziosi) e Gli uomini del chiarore lunare (i due libri erano parte del volume Negli oscuri raggi religiosi bloccato nel 1910 dalla  censura) leverà un grido di sfida allo spirito consolatorio del cristianesimo.
Conclude nel suo scritto Rozanov che «coloro che si ribellano al monastero non vogliono capire che la loro è al tempo stesso una ribellione al cristianesimo o, detto francamente, al Cristo stesso…».
Pare quasi un accenno alla propria evoluzione di pensiero che negli anni seguenti lo porterà, anche attraverso un contraddittorio atteggiamento verso l’ebraismo (fino alla velenosa campagna contro gli ebrei negli anni dell’affare Bejlis), alla sofferta revisione catartica di Apocalisse del nostro tempo, ultima tragica testimonianza dello scrittore prossimo alla morte negli anni della guerra civile.
Nella chiusa di Per eremi silenziosi Rozanov riporta la tragica storia di una donna morente, sfigurata dalle fiamme di un incendio, la cui unica preoccupazione prima di spirare è che non la vedano il marito e i figli.
Si tratta di un’altissima testimonianza di amore: «Questa è etica, non estetica!», esclama lo scrittore, individuando quel principio evangelico iniziale che sta alla base della vita monastica, il principio che, secondo Rozanov, è all’origine di «quelle tante piccole isole primordiali, i monasteri, che immerse nell’antico oceano del paganesimo, iniziarono a saldarsi tra loro fino a formare il continente della Chiesa».
in “il manifesto” del 14 dicembre 2010 ROZANOV VASILIJ, Per eremi silenziosi, Lindau 2010, pp.
91,  € 12,50 Vasilij Rozanov intraprese il viaggio ai tre monasteri legati alla figura del beato Serafini di Sarov (uno dei più famosi asceti del XIX secolo) nella speranza che in quei luoghi benedetti potesse migliorare la salute della figlia Tanja, di nove anni.
Accompagnato dalla moglie Varvara Dmitrievna, dalla stessa Tanja e dal figlio Vasja, di cinque anni, Rozanov ebbe modo di osservare la folla di pellegrini di ogni ceto sociale e di ammalati in attesa di una guarigione miracolosa, di godere della quiete irreale che circonda i monasteri ortodossi, di visitare le celle dei monaci e di seguire con stupore le monache impegnate nei lavori della semina e del raccolto, nella cura dell’eremo, nelle preghiere estatiche.
Il viaggio gli offrì l’occasione per rappresentare (oltre alla difficile condizione dei connazionali) la realtà del monachesimo ortodosso, mettendola a confronto con la sua problematica interpretazione del cristianesimo inteso come religione della sofferenza e, soprattutto, della tristezza: “Ogni gioia terrena viene vista nel cristianesimo attraverso il prisma della tristezza: dove non c’è tristezza, non c’è cristianesimo!”, e portandolo a riflettere sulla centralità della figura di Cristo.
Pur nella sua brevità, Per eremi silenziosi racchiude, almeno in nuce, molti dei grandi temi filosofico-religiosi di Rozanov, e riflette i fermenti, i dubbi, le contraddizioni e le attese che caratterizzavano l’atmosfera culturale russa d’inizio ‘900.

La centralità della questione morale

La questione morale è la questione, argomenta Roberta De Monticelli, filosofa di statura europea con anni di insegnamento a Ginevra e ora a Milano al San Raffaele, nel suo nuovo libro (La questione morale, Raffaello Cortina).
Sostenendo che la morale non è un´applicazione secondaria ma il punto da cui tutto dipende, l´autrice si pone in pieno contrasto col pensiero dominante in Italia, che concepisce la morale come traduzione pratica di un primato assegnato ad altro, a una dimensione vuoi politica, religiosa, economica, scientifica, teoretica.
Chi assegna il primato alla morale può stare sicuro oggi in Italia di ricevere l´antipatica etichetta di «moralista», sinonimo nel linguaggio comune di persona noiosa e pedante, incapace di fare i conti con la vita concreta.
Contro questo cinismo che conosce solo la logica del potere, De Monticelli scrive pagine di vera passione intellettuale attaccando il potere politico («l´interesse affaristico che si fa partito e prostituisce il nome di libertà»), mediatico («facce patibolari»), ecclesiastico («nichilismo morale»), intellettuale («disprezzo ardente per tutto ciò che è comune»).
Arriva anche alla piaga più dolorosa: «Una sorprendente maggioranza degli italiani che approva, sostiene e nutre» tale logica del potere.
Alla denuncia segue però una proposta costruttiva («tornare a respirare»), dove lo scetticismo pratico viene confutato proprio in base al suo punto forte, cioè il freddo utilizzo della ragione, perché esercizio della ragione ed esperienza dei valori sono strettamente legati: «Alla base della logica c´è l´etica… alla base dell´etica c´è la logica».
Ritrovandomi pienamente d´accordo con la mia illustre collega, intendo onorare il suo pensiero approfondendo il nodo radicale del nostro Paese, cioè la «sorprendente maggioranza di italiani che approva, sostiene e nutre» lo scollamento tra etica e politica.
Il problema è politico nel senso radicale del termine, riguarda cioè la raccolta del consenso.
Come si raccoglie il consenso? Giocando sulle passioni e sugli interessi, quasi per nulla sul senso di giustizia (a meno di farlo diventare a sua volta una passione e un interesse, trasformando così però la giustizia in iniquo giustizialismo).
Da qui una sorta di primordiale conflitto di interessi: da un lato la morale che vive della solitudine della coscienza perché la vita ci mostra che sollevare problemi morali nel nome della coscienza significa spesso rimanere soli; dall´altro la politica che non può permettersi la solitudine.
Da un lato la morale che si gioca in una impolitica solitudine, dall´altro la politica che si gioca nella capacità di raccogliere il consenso, operazione  eminentemente sociale e quindi basata di necessità sugli interessi e le passioni (rimando d´obbligo il grosso animale della Repubblica di Platone e le indimenticabili pagine di Simone Weil al riguardo).
La coscienza impone di essere giusti, ma l´essere giusti non paga in termini di fascino sociale e di raccolta del consenso.
In particolare non paga in Italia, dove gli elettori da anni premiano un uomo che sanno bene non essere lo specchio della morale (ma è ricco, fortunato, abile, “tanto simpatico”).
La questione morale quindi, politicamente intesa, è altamente drammatica.
Il problema che essa pone si chiama traducibilità dell´etica a livello politico, o meglio non-traducibilità.
Fate una campagna elettorale all´insegna della giustizia e del rispetto e sarete ricompensati con il minimo dei voti.
È innegabile quanto scrive De Monticelli: «L´imbarbarimento morale e civile si combatte risvegliando le coscienze alla serietà dell´esperienza morale».
Ma purtroppo è altrettanto innegabile che una raccolta del consenso politico oggi in Italia sulla base della serietà dell´esperienza morale è destinata a non oltrepassare la soglia di sbarramento: con quel programma lì si entra in monastero, non nel Parlamento italiano.
Il problema non è etico, è fisico, di quella fisica della politica che Simone Weil attribuiva a Machiavelli.
Ovvero: perché l´aggregazione sociale non avviene nel nome della giustizia e della morale, ma degli interessi e delle passioni, e quindi molto spesso a scapito della giustizia e della morale? Di fronte a questo immenso problema, qui mi limito a dire che a mio avviso lo si può affrontare solo mediante i partiti e i professionisti della politica (la cui importanza vitale appare in particolare oggi, con le nostre classi dirigenti quasi del tutto prive di veri professionisti della politica).
Il partito politico, nella misura in cui è veramente tale e non un semplice cartello elettorale, media gli interessi e le passioni della moltitudine attraverso un progetto più ampio, rivolto al bene comune.
Il partito politico è il luogo in cui gli interessi e le passioni dei singoli vengono veicolati al servizio di un progetto più ampio, lo stato.
Senza la mediazione dei partiti si ha il corto circuito tra leader e interessi e passioni della moltitudine, ovvero il populismo.
Oppure l´altro estremo, il moralismo, che non vede l´inspiegabile ma reale distanza tra la morale e la politica e crea tra le due un impossibile passaggio diretto, finendo per generare costrizioni e violenza, il contrario della morale.
Occorre coltivare insieme il primato della morale e il richiamo della dura realtà.
Una società (e prima ancora una persona) è matura quando ospita dentro di sé il gioco di queste due forze, quando sa porre il primato dell´etica e quando sa mediarlo con l´opacità del reale.
E al riguardo il ruolo dei partiti e dei veri politici è insostituibile.
in “la Repubblica” dell’11 dicembre 2010

Riflessioni sulle considerazioni di Benedetto XVI su AIDS e preservativo

Perché papa Benedetto ha improvvisamente deciso di toccare il tema dell’AIDS e del condom? E perché lo ha fatto nel modo in cui l’ha fatto? Stando a ciò che dice a Peter Seewald in “Luce del mondo”, il papa era rimasto deluso dalle reazioni alle sue considerazioni su questo tema durante il suo viaggio in Africa nel marzo del 2009.
La tempesta che ne seguì nei media mostrò che nella società occidentale erano diffuse tre credenze: che i profilattici erano la soluzione all’AIDS in Africa; che l’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione implicava una proibizione dell’uso del preservativo da parte di persone dedite a stili di vita immorali e ad alto rischio; e che quando papa Benedetto aveva detto che le campagne di promozione dei profilattici per combattere l’AIDS in Africa erano “inefficaci”, era sembrato riferirsi alle affermazioni fatte nel 2004 dal cardinale Alfonso López Trujillo, all’epoca capo del pontificio consiglio per la famiglia, secondo cui i profilattici erano troppo permeabili per opporre un’effettiva barriera alla trasmissione del virus dell’HIV.
Papa Benedetto era desideroso di dissipare questi miti, e nel suo libro-intervista lo fa in pochi brevi paragrafi.
Ha messo in chiaro che le campagne di promozione dei preservativi “banalizzano” la sessualità, consentendo al virus di diffondersi ancor di più, e che solo “umanizzando” la sessualità la diffusione del virus può essere frenata.
Ma ha anche aggiunto che l’uso di un profilattico da parte di un prostituto [o di una prostituta], quando usato per prevenire l’infezione, sarebbe almeno “una prima assunzione di responsabilità”; e dicendo questo ha implicitamente smontato gli altri due miti: poiché se i profilattici fossero inefficaci nel frenare la trasmissione del virus tra gruppi ad alto rischio, farne uso non sarebbe un atto responsabile.
E se, come alcuni avevano detto, la Chiesa ha insegnato che i preservativi sono “intrinsecamente un male”, allora il papa difficilmente potrebbe riconoscere il loro uso come un “primo passo” sulla via verso un progresso morale.
Personalmente, mi ha confortato che egli abbia fatto chiarezza sull’ultimo punto, poiché quando, alcuni anni fa, ho sviluppato il tema in un articolo su “The Tablet” di Londra (“The truth about condoms”, 10 luglio 2004), fui accusato da numerosi buoni e fedeli cattolici di difendere la distribuzione dei profilattici per fermare l’epidemia dell’AIDS e, quindi, di minare gli sforzi della Chiesa in difesa dei valori del matrimonio, della fedeltà e della castità.
Ma mentre l’articolo era fatto oggetto di pubbliche critiche, prevalentemente da parte di colleghi nella teologia morale, fui informato che la congregazione per la dottrina della fede, allora guidata dal cardinale Ratzinger, non aveva trovato nulla da eccepire in esso o nelle sue argomentazioni.
Ciò che mi indusse a scrivere quell’articolo fu che nel numero precedente di “The Tablet”, l’allora suo vicedirettore, Austen Ivereigh, in un articolo di commento a un programma della BBC, “Panorama”, che analizzava le affermazioni del cardinale López Trujillo, metteva tra loro in contrasto due posizioni nella Chiesa sulla questione dell’uso del profilattico contro l’AIDS.
La prima era quella del cardinale Godfried Danneels, all’epoca arcivescovo di Bruxelles, del quale fu riportata questa citazione: “Se una persona infetta da HIV ha deciso di non rispettare l’astinenza, allora deve proteggere il suo partner e può farlo in questo caso usando un preservativo”.
Fare diversamente, disse il cardinale, sarebbe “infrangere il quinto comandamento”, non ammazzare.
La seconda era una citazione dell’allora responsabile per l’istruzione del cattolico Linacre Centre di Londra, Hugh Henry, il quale, in disaccordo con le posizioni del cardinale Danneels, disse a Ivereigh che l’uso di un profilattico era un peccato contro il sesto comandamento, in quanto “mancando di onorare la struttura fertile che ogni atto coniugale deve avere, non può costituire una mutua e completa personale donazione di sé, e quindi viola il sesto comandamento”.
Ciò ha fatto pensare che, come Ivereigh ha scritto, un “lavoratore emigrato che va in un bordello in Sudafrica non dovrebbe, naturalmente, fare sesso; ma se lo fa, sembra suggerire Henry, non dovrebbe usare un preservativo per evitare di trasmettere l’AIDS alla donna, poiché il suo uso mancherebbe di onorare la struttura fertile che gli atti coniugali devono avere”.
E ha concluso: “I lettori devono decidere se sia il cardinale Danneels o il Linacre Centre a offrire l’indicazione più strana”.
Il mio punto di vista, leggendo questo articolo, era che entrambe le indicazioni citate avevano punti vulnerabili essenziali, e che la scelta tra le due era ingannevole.
Il problema era che sia l’uno che l’altro esprimevano le loro posizioni in termini di norme od obblighi morali – usare o non usare un preservativo – laddove un approccio normativo era inadeguato per affrontare la questione.
Ciò che il Linacre Centre proponeva come l’autentica posizione cattolica era che esiste un obbligo morale, per persone non caste dedite ad atti sessuali peccaminosi, almeno di astenersi dall’usare preservativi, al fine di evitare un ulteriore peccato contro il sesto comandamento e quindi di rendere meno peccaminosi i loro atti peccaminosi, anche se da ciò derivasse di infettare altre persone o loro stessi con una malattia mortale.
Un simile argomento fa credere erroneamente che sia l’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione a portare a simili conseguenze controintuitive; ma questo insegnamento riguarda essenzialmente l’amore coniugale e la sua espressione nel rapporto sessuale, e non si applica a simili circostanze.
Viceversa, la posizione del cardinale Danneels ha sì una certa plausibilità, ma semplicemente rovescia il sofisma di Henry convertendo in una norma morale per quelle persone l’obbligo di almeno usare un preservativo, al fine di non peccare addizionalmente contro il quinto comandamento.
Come Henry, il cardinale Danneels stabilisce una norma morale al fine di rendere meno immorale un comportamento intrinsecamente immorale.
Per tornare alla tesi del Linacre Centre: l’insegnamento della “Humanae vitae” non include la fissazione di una norma morale su come compiere atti intrinsecamente cattivi; la Chiesa non ha mai prodotto un simile insegnamento, né lo farà mai, poiché un simile insegnamento sarebbe semplicemente contro il senso comune.
La sola cosa che la Chiesa può eventualmente insegnare circa, ad esempio, a uno stupro, è l’obbligo morale di astenersi da esso del tutto, non di portarlo a termine in una modalità meno immorale.
Ci sono contesti nei quali le indicazioni morali perdono completamente il loro significato normativo poiché esse possono al massimo diminuire un male, non essere dirette al bene; ciò che deve essere vinto, ed è normativo sconfiggere, è l’intrinseco disordine morale in quanto tale.
Come scrissi nel 2004, “sarebbe semplicemente privo di senso stabilire norme morali per tipi di comportamento intrinsecamente immorali”.
L’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione non è un insegnamento sui “condom”, ma sul vero senso e significato della sessualità e dell’amore coniugale.
La questione della contraccezione è differente dalla questione dell’uso del condom.
La contraccezione in quanto intrinsecamente cattiva è descritta dalla “Humanae vitae” al n.
14 (ripresa nel Catechismo della Chiesa Cattolica al n.
2370) quando “o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga [in latino “intendat”], come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione”.
La contraccezione non è semplicemente un’azione che di fatto impedisce la procreazione, ma un’azione di impedimento della procreazione che è precisamente compiuta con un intento contraccettivo.
(L’impedimento di fatto della concezione non è sufficiente perché un atto sia, in un senso morale, un atto di contraccezione; questo è il motivo per cui l’uso di pillole antiovulatorie per regolare il ciclo di una donna per ragioni mediche non è contraccezione nel senso morale).
Ma da ciò consegue che uno dovrebbe positivamente consigliare di usare i condom per motivi strettamente profilattici? Le persone che non vogliono cambiare il loro modo di vita e che usano i condom per prevenire l’infezione di se stesse o di altri, a me sembra che abbiano almeno conservato un certo senso di responsabilità, come lo stesso papa Benedetto ha detto in “Luce del mondo”.
Ma noi non possiamo dire che essi “dovrebbero fare così” oppure sono “moralmente obbligati” a farlo, come il cardinale Danneels sembrava suggerire.
Papa Benedetto sottolinea questo quando mette in chiaro che [il profilattico] non è una “soluzione morale”.
Questo è il motivo per cui è anche sbagliato sostenere in questo caso principi come il “male minore”, il quale stabilisce che al fine di evitare un male più grande può essere scelto un male minore se c’è una ragione proporzionata.
Questa metodologia morale, nota come “proporzionalismo”, non è un insegnamento della Chiesa, ed è stata rigettata da papa Giovanni Paolo II nella sua enciclica del 1993 “Veritatis splendor”, con la quale papa Benedetto XVI è pienamente concorde.
Dicendo, come egli fa, che uno agisce con “un certo senso di responsabilità” nel cercare di evitare l’infezione, il papa non sostiene che usare il preservativo per prevenire le infezioni di HIV significa agire responsabilmente.
Una reale responsabilità, per delle prostitute, significherebbe astenersi completamente da contatti sessuali rischiosi e immorali e cambiare completamente il loro stile di vita.
Se non lo fanno (perché non possono, o non vogliono), esse agiscono almeno soggettivamente in un modo responsabile quando cercano di prevenire l’infezione, o almeno agiscono meno irresponsabilmente di quelle che non lo fanno, che è un’affermazione alquanto diversa.
Questa è una posizione di senso comune, espressa in termini personalistici; non è una norma morale positiva che permette un “male minore”.
la Chiesa deve sempre  proporre alla gente di fare il bene, non il male minore; e la cosa buona da fare – e quindi da consigliare – non è di agire immoralmente e nello stesso tempo di diminuire l’immoralità minimizzando i possibili danni causati da essa, ma di astenersi dal comportamento immorale in tutto.
Ecco perché una giustificazione dell’uso profilattico del condom come “male minore” è sbagliata e pericolosa, poiché apre la strada a giustificare qualsiasi tipo di scelta morale di un “male minore”: fa il male che il bene verrà.
È anche una questione mal posta.
I condom di per sé, considerati come “cose”, non sono un “male”; nell’insegnamento della Chiesa il loro uso negli atti contraccettivi quali definiti dalla “Humanae vitae” è male, ma come abbiamo mostrato, questa enciclica non si applica alla profilassi.
Ciò che le parole di papa Benedetto non toccano è il caso di una coppia sposata nella quale uno dei coniugi sia infetto, e nella quale un profilattico sia usato per proteggere l’altro dall’infezione.
Nel mio articolo del 2004 mi sono riferito a simili casi piuttosto incidentalmente, parlando di “ragioni pastorali o semplicemente prudenziali” che sarebbero contro l’uso dei condom in queste circostanze.
Questo caso è diverso da quello precedente, e più complesso, poiché qui è in gioco ciò che propriamente costituisce un atto coniugale.
È importante sottolineare che la questione della contraccezione nel matrimonio e quella della prevenzione dall’infezione con l’uso del condom si riferiscono a due differenti problemi morali.
Senza dubbio la questione continuerà a essere dibattuta; ma qualsiasi cosa la Chiesa dichiari alla fine su questo tema, ci saranno sempre per i pastori buone ragioni per esortare all’astinenza in queste situazioni, poiché l’uso di un condom esclusivamente per finalità mediche è in realtà qualcosa di teorico.
È probabile che – almeno per coppie fertili – l’intenzione di prevenire l’infezione si mescoli con l’intento propriamente contraccettivo di evitare la concezione di un neonato infetto.
Personalmente, io non incoraggerei mai una coppia a usare un preservativo, ma ad astenersi.
Se essi non sono d’accordo, io non penserei che il loro rapporto sessuale sia ciò che i teologi morali chiamano un peccato “contro natura” al pari della masturbazione o della sodomia, come alcuni teologi morali sostengono.
Ma la completa astinenza sarebbe la scelta moralmente migliore, non solo per ragioni prudenziali (i condom non sono completamente sicuri nemmeno quando sono usati con attenzione e correttamente), ma perché corrisponde meglio alla perfezione morale – a una vita virtuosa – astenersi del tutto da atti pericolosi, piuttosto che prevenire i loro pericoli usando uno strumento che aiuta ad aggirare l’esigenza di sacrificio.
Nel difendere l’insegnamento della Chiesa e la via da essa indicata per prevenire la trasmissione dell’HIV si dovrebbe evitare di ricorrere ad argomentazioni autodistruttive e prive di senso che deformano lo stesso insegnamento della Chiesa.
Mentre esortiamo all’astinenza, alla fedeltà e alla monogamia come la vera soluzione per fermare l’epidemia dell’AIDS, non dobbiamo negare che l’uso del preservativo da parte di gruppi ad alto rischio causa il calo dei tassi di infezione, mentre contiene la diffusione dell’epidemia in altre parti della popolazione.
Ma questo compito è principalmente di pertinenza delle autorità civili.
Il ruolo della Chiesa nella battaglia contro l’AIDS non è quello del vigile del fuoco che cerca di contenere la devastazione, ma quello di insegnare e aiutare la gente a costruire case a prova di fuoco e ad evitare di fare ciò che può far scoppiare l’incendio, oltre naturalmente a curare quelli che hanno riportato ustioni.
La Chiesa fa così, soprattutto, per offrire la riconciliazione con Dio e la guarigione delle anime di coloro che sono stati feriti nella loro umana dignità dai loro stessi comportamenti immorali o dalle terribili scelte e circostanze imposte dall’AIDS.

Martin Rhonheimer: il papa discute in campo aperto

Intervista con Martin Rhonheimer D.
– Alcuni commentatori cattolici considerano le osservazioni del papa un cambiamento totale; altri dicono che non è cambiato assolutamente nulla.
Qual è la posizione giusta? R.
– Né l’una né l’altra.
Comincerei con la seconda: “Niente è cambiato”.
Non è vero.
Papa Benedetto, immagino dopo un’attenta ponderazione, ha fatto affermazioni pubbliche che hanno cambiato la riflessione su queste materie, sia dentro che fuori la Chiesa.
Per la prima volta è stato detto da parte del papa in persona, sia pure non in un formale atto di insegnamento del magistero della Chiesa, che la Chiesa non “proibisce” incondizionatamente l’uso profilattico del condom.
Al contrario, il Santo Padre ha detto che in certi casi (nel commercio del sesso, ad esempio), il loro uso può essere un segno di un primo passo verso la responsabilità (nello stesso tempo chiarendo che questa non è né una soluzione per vincere l’epidemia dell’AIDS né una soluzione morale; la sola soluzione morale è abbandonare uno stile di vita moralmente disordinato, e vivere la sessualità in un modo realmente umanizzato).
Queste considerazioni accendono molte sensibilità su entrambi i versanti, e questo è il motivo per cui spero che il passo compiuto da papa Benedetto possa cambiare il modo con cui discutiamo questi temi, verso un modo meno teso e più aperto.
Ma l’altra posizione, secondo cui ciò che ha detto il papa è un cambiamento totale, è ugualmente inesatta.
Primo, ciò che egli ha detto non cambia in nessun modo la dottrina della Chiesa sulla contraccezione; semmai conferma questa dottrina, come insegnata dalla “Humanae vitae”.
Secondo, le sue affermazioni non dichiarano che l’uso del condom sia privo di problemi morali o sia in genere permesso, anche per finalità profilattiche.
Papa Benedetto parla di “begründete Einzelfälle”, che tradotto letteralmente significa “giustificati singoli casi” – come il caso di una prostituta – nei quali l’uso del condom “può essere un primo passo nella direzione di una moralizzazione, una prima assunzione di responsabilità”.
Ciò che è “giustificato” non è l’uso del condom come tale: non, almeno, nel senso di una “giustificazione morale” da cui consegua una norma permissiva tipo “è moralmente permesso e buono usare in condom in questo e quel caso”.
Ciò che è giustificato, piuttosto, è il giudizio che ciò può essere considerato un “primo passo” e “una prima assunzione di responsabilità”.
Papa Benedetto certamente non ha voluto stabilire una norma morale che giustifichi eccezioni.
Terzo, ciò che papa Benedetto dice non si riferisce a persone sposate.
Parla solo di situazioni che sono in se stesse intrinsecamente disordinate.
Quarto, come ben mette in chiaro, il papa non difende la distribuzione dei condom, che egli crede portino a una “banalizzazione” della sessualità che è la causa primaria della diffusione dell’AIDS.
Egli semplicemente menziona il metodo “ABC”, insistendo sull’importanza di A e B (astinenza e fedeltà, “be faithful”), considerando C (“condom”) un ultimo ripiego (in tedesco “Ausweichpunkt”) nell’eventualità che delle persone rifiutino di seguire A e B.
Inoltre, molto più importante, egli dichiara che quest’ultima soluzione appartiene propriamente alla sfera secolare, cioè a programmi di governo per combattere l’AIDS.
Ciò che il papa ha detto, quindi, non riguarda come le istituzioni sanitarie guidate dalla Chiesa debbano trattare i condom.
Ha dato una valutazione su che cosa pensare riguardo a una prostituta che abitualmente fa uso di condom, non riguardo a coloro che sistematicamente li distribuiscono al fine di contenere l’epidemia, cosa che è nella responsabilità delle autorità di uno stato.
Da parte sua, la Chiesa continuerà a presentare la verità riguardo all’ esercizio pienamente umano della sessualità.
D.
– Nelle sue osservazioni, papa Benedetto non definisce l’uso del condom da parte di persone infette di HIV un “male minore”, eppure è così che alcuni teologi e leader cattolici spiegano ciò che ha detto.
Sono i preservativi in qualche caso un “male minore”? R.
– Descrivere l’uso del preservativo per prevenire il contagio come un male minore è molto ambiguo e può produrre confusione.
Certo, possiamo dire che quando una prostituta usa un condom, ciò diminuisce il male della prostituzione o del turismo sessuale, dato che diminuisce il rischio di trasmettere il virus HIV a più larghi strati della popolazione.
Ma ciò non significa che sia bene scegliere atti cattivi per conseguire una finalità buona.
Fermo restando che un comportamento sessuale immorale dovrebbe essere evitato in tutto, a mio giudizio il punto giustamente messo in luce dal Santo Padre è che quando una persona che già sta compiendo atti immorali usa un preservativo, egli o ella non scelgono propriamente un male minore, ma semplicemente cercano di prevenire un male, il male del contagio.
Dal punto di vista del peccatore questo ovviamente significa scegliere un bene: la salute.
D.
– Se il papa dice che l’uso del preservativo in alcuni casi può essere un segno di risveglio morale, non è che egli dice che la pratica della contraccezione è talvolta accettabile? O che la pratica della contraccezione è preferibile alla trasmissione dell’HIV? R.
– Un condom è fatto per essere un mezzo per impedire ai fluidi maschili di penetrare nel grembo della donna.
Il suo uso corrente è per la contraccezione.
Nel caso di cui parla il papa, invece, la ragione del loro utilizzo non è di impedire il concepimento, ma di prevenire il contagio.
Non dobbiamo confondere gli atti umani, che possono essere intrinsecamente buoni o intrinsecamente cattivi, con delle “cose”.
Non è il condom come tale, ma il suo uso che presenta problemi morali.
Quindi, ciò che il papa dice non si riferisce anche alla questione della contraccezione.
Sappiamo che alcuni teologi morali sostengono che poiché – eccetto nel caso di partner sessuali sterili – l’effetto dei condom è sempre fisicamente contraccettivo e per questa ragione intrinsecamente cattivo, coloro che li usano necessariamente commettono il peccato della contraccezione, anche se non ne fanno uso per questo scopo.
Questo è il motivo per cui essi argomentano che il loro utilizzo rende un atto già immorale ancora peggiore.
Ma ciò che papa Benedetto ha detto ora – tenuto conto che non ha voluto restringere il caso alla sola prostituzione omosessuale maschile, nella quale la questione della contraccezione ovviamente non si pone – indebolisce in modo decisivo questa argomentazione.
Io penso che la sola via per sfuggire dal bizzarro vicolo cieco a cui portano tali argomentazioni – la tesi, ad esempio, che anche da un punto di vista morale sarebbe meglio per una prostituta essere infettata che utilizzare un condom – è avere ben chiaro che i preservativi, considerati come tali, non sono “intrinsecamente contraccettivi” nel senso di un giudizio morale.
È il loro uso, e l’intenzione implicata in questo uso, che determina se l’uso di un condom equivale a un atto di contraccezione.
D.
– Si può presumere che il papa fosse consapevole della confusione che certe parole possono produrre tra i cattolici.
Non le chiedo di fare congetture indebite sulle sue intenzioni, ma che cosa di buono può venir fuori da questo? R.
– È evidente che il Santo Padre ha voluto portare questa materia in campo aperto.
Sicuramente ha previsto il trambusto, i fraintendimenti, la confusione e anche lo scandalo che avrebbe potuto causare.
E credo che egli abbia giudicato che sia necessario, nonostante tutte queste reazioni, parlare di queste cose, nello stesso spirito di apertura e di trasparenza con il quale, da quando era a capo della congregazione per la dottrina della fede, ha trattato i casi di abuso sessuale tra il clero.
Penso che papa Benedetto creda nella forza della ragione, e che dopo un certo tempo le cose diverranno più chiare.
Egli ha cambiato la riflessione pubblica su questi temi e ha preparato il terreno per una più vigorosa e appropriata comprensione e difesa dell’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione, come parte di una dottrina dell’amore coniugale e del vero significato della sessualità umana.
__________ Il settimanale cattolico degli Stati Uniti su cui è uscita l’intervista col professor Rhonheimer, raccolta dal suo direttore, John Nort

Cercare Gesù nella Storia

Secondo un calcolo per difetto, nel Novecento sono usciti centomila libri su Gesù, con una media quindi di un migliaio ogni anno.
Di lui ci si interessa persino in Giappone, come ha dimostrato in un suo saggio – pubblicato però in tedesco nel 2006 -lo studioso Takashi Onuki.
Lo scorso anno a Montréal in Canada è uscita un’indagine sulla figura del «Gesù storico» negli ultimi 25 anni e le rassegne bibliografiche elencate erano ben 23 distribuite per aree geografiche (4 nelle Americhe, 8 in Europa, 3 in Africa, 6 in Oriente, 2 nel Pacifico).
E che dire poi della galassia internet? Non cliccate Jesus o Christ perché perdereste subito il conto dei milioni di occorrenze: c’è persino un Jesus Project che riunisce 50 esperti internazionali che si sono programmati sul tema fino al 2012 (dal 2007) per rispondere fondatamente a una sola domanda, quella sull’esistenza di Gesù.
Sì, perché il soggetto che più conquista studiosi e ciarlatani è il cosiddetto «Gesù storico»: esiste addirittura un quadrimestrale intitolato «Journal for the Study of the Historical Jesus» che esce dal 2003.
I manuali al riguardo si sprecano, tant’è vero che una prestigiosa editrice come la Brill di Leida ha pensato di metterne in cantiere uno di taglio sintetico che, però, avrà bisogno di ben quattro volumi attualmente in preparazione sotto il titolo generale The Handbook for the Historical Jesus.
In questa foresta bibliografica ben pochi riescono a inoltrarsi senza smarrirsi.
Uno di questi è un italiano, il padovano Giuseppe Segalla, docente emerito della facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, e dobbiamo essergli grati per il fatto che – accanto alla buona dose di pagine “tecniche” da lui dedicate al tema – ha voluto ora approntare una mappa che ci guidi almeno lungo i sentieri più ampi di questa selva lussureggiante ove alligna ogni tipo di vegetazione, rara e comune, eccezionale e banale, sofisticata e insulsa.
Si deve, comunque, già in partenza badare a un «circolo ermeneutico» a duplice traiettoria: il Gesù della storia ci costringe a un movimento centripeto, di risalita alle fonti genetiche storiche; il Gesù nella storia (così s’intitolava anche un notissimo testo del 1985 di Jaroslav Pelikan) ci invita, invece, a un moto centrifugo inverso che procede dal passato inseguendo il Gesù “ricostruito” e “ricreato” nel successivo flusso dei secoli che recano il suo nome.
Così, per fare il primo percorso – tanto per esemplificare – la studioso americano John P.
Meier ha avuto bisogno finora di quattro tomi che nella traduzione italiana totalizzano qualcosa come 3.282 pagine, dedicate a un personaggio che merita solo il titolo di Un ebreo marginale (edizioni Queriniana)…! Ma ritorniamo alla nostra metafora “silvestre”.
Tre sono i percorsi disboscati da Segalla in questa densa foresta bibliografica.
Il primo reca il tradizionale cartello con la scritta Old Quest, è la «Prima Ricerca» che si aprì in Germania con la pubblicazione nel 1778 del celebre «settimo frammento» dello studioso tedesco Hermann S.
Reimarus.
È l’ingresso del sospetto e della critica razionalistica, tant’è vero che Segalla classifica questa ricerca come «il paradigma illuministico»: apostoli ed evangelisti «con astuta invenzione», come dirà Reimarus, dopo aver trafugato la salma di Gesù lo fecero «risorgere», così da fondare un nuovo movimento nel suo nome, distanziandosi dal Gesù storico, che aveva predicato solo una dottrina morale elevata, sognando di essere il Messia definitivo, ma che di definitivo ebbe solo la sua tragica condanna a morte.
Elaborata in forme ben più raffinate e sofisticate dal protestantesimo liberale, dalle teorie “mitiche” di Strauss, dal famoso Renan, dalla teoria del Gesù apocalittico di Weiss e Schweitzer, questa «Prima Ricerca» fu surclassata ai primi del Novecento da una nuova strada, denominata appunto New Quest, e da Segalla rubricata come «paradigma kerygmatico» proprio perché al centro si poneva il kérygma, ossia l’«annunzio» del Cristo Salvatore.
Secondo questa impostazione, i Vangeli non sono documenti storici informativi sul Gesù della storia, sono invece testimonianze performative di fede che provocano il lettore alla conversione esistenziale.
Brilla su questo viale l’astro del famoso teologo tedesco Rudolf Bultmann (1884-1976).
Detto in altri termini, più che offrirci una figura storica e una vicenda, i Vangeli dipingono il ritratto di una persona spirituale e un messaggio.
Anche su questo percorso si registrarono molte variazioni, rettifiche e deviazioni: un esempio è quello espresso dal saggio The Real Jesus dell’americano Luke T.
Johnson che preparava la transizione a un nuovo itinerario.
Egli criticava soprattutto l’ultima e radicale formulazione dell’impianto antistorico incarnata dal cosiddetto “Jesus Seminar”, un curioso sistema di tabulazione di 1.500 detti e di 176 atti del Gesù evangelico, sottoposto a votazione da parte di un’équipe di studiosi, con esiti sconcertanti per quanto riguarda la loro autenticità storica.
Siamo giunti, così, alla Third Quest, il terzo sentiero aperto nel 1985 e ancora in cantiere: è «il paradigma giudaico postmoderno», come lo definisce Segalla, inaugurato da Ed Parish col suo Gesù e il giudaismo, tradotto da Marietti nel 1992.
Alla base c’era la fiducia di conoscere il Gesù storico collocandolo all’interno dell’alveo del giudaismo in cui egli era sorto e vissuto, ma col quale aveva anche segnato discontinuità e originalità.
Questo nuovo modello storiografico e teologico, accuratamente presentato da Segalla, ha subito alcune ramificazioni interessanti attraverso il «Gesù ricordato» nella tradizione orale (James D.
G.
Dunn) e il «Gesù testimoniato» (Richard Bauckham).
Ma fermiamoci qui per non disperdere i nostri lettori che comunque rimangono avvertiti della complessità attuale della ricerca, dell’alto livello degli studi storico-critici condotti dagli esegeti, della conseguente volgarità di chi pensa che “cristiano” sia sinonimo di “cretino”, ma anche dei rischi di offuscamento che una simile galassia di analisi può generare.
Il modo più trasparente per guidare il lettore non “tecnico” in questa selva rimane forse quello narrativo adottato in Spagna da due studiosi, Armand Puig i Tàrrech (Gesù.
Risposta agli enigmi, San Paolo) e José Antonio Pagola (Gesù.
Un approccio storico, Boria).
Certo è che rimane sempre viva quella domanda che Cristo aveva lasciato serpeggiare nel suo uditorio e che Mario Pomilio aveva posto al centro del suo Quinto Evangelio (1975): «Cristo ci ha collocati di fronte al mistero, ci ha posti definitivamente nella situazione dei suoi discepoli di fronte alla domanda: Ma voi, chi dite che io sia?».
in “Il Sole 24 Ore” del 5 dicembre 2010

Protestanti in Francia: famiglia ricomposta.

Protestanti sono tra il 2,5% e il 2,8% dei francesi.
Vent’anni fa erano circa il 2%.
Questa crescita si spiega con l’esplosione delle Chiese evangeliche.
È vero che gli evangelici fanno più discepoli dei luterano-riformati, ma questi ultimi restano ancora nettamente la maggioranza (56%).
Come succede per molti giovani cattolici, i luterano-riformati si ispirano sempre più ai modi di  espressione degli evangelici, al loro senso della comunità e si impegnano in campagne di evangelizzazione.
Il che potrebbe delineare un futuro molto diverso dagli scenari tratteggiati negli anni ’80 sotto il regno assoluto del paradigma della secolarizzazione e dell’ineluttabile scomparsa del religioso.
Questi sono in poche parole i principali insegnamenti del convegno “I protestanti in Francia, una famiglia ricomposta.
Analisi e punti di riferimento”, che si è svolto a Parigi dal 18 al 20 novembre.
Era organizzato dal Groupe Sociétés Religions Laïcités (Ecole pratique des hautes études et CNRS) con il sostegno dell’Institut européen en Sciences des religions e sotto il patrocinio della Fédération protestante de France.
Un convegno particolarmente vivace, con decine di interventi limitati a venti minuti, dibattiti con la sala e talvolta tra relatori.
Tra questi ultimi: Claude Baty, presidente della Federazione protestante, Etienne Lhermeneault, presidente del Consiglio nazionale degli evangelici francesi e Laurent Schlumberger, presidente del Consiglio nazionale della Chiesa riformata.
La “religione come memoria in una discendenze di credenti”, caratteristica di una certa cultura luterano-riformata, sembra lasciare il posto alla “religione per la speranza con pellegrini e convertiti”.
Sembra anche che si vada verso una nuova situazione ecumenica, poiché gli incontri tra i cristiani di Chiese diverse, ad esempio attraverso il parcours Alpha, si moltiplicano.
In altri termini,: la tesi del “blocco dell’ecumenismo” non sta proprio più in piedi.
Ora, questo nuovo “cristianesimo di convinzione” e assertivo che corrisponderebbe all’individualizzazione si sviluppa in una società in cui il numero di atei e di non cristiani tende ad aumentare in questi ultimi trent’anni.
La ricomposizione del protestantesimo si inscriverebbe quindi nella ricomposizione della società.
Queste sono alcune delle formule utilizzate dai due responsabili scientifici del convegno: Sébastien Fath, ricercatore al CNRS al Groupe Sociétés Religions Laïcités, et Jean-Paul Willaime, direttore di studi alla sezione delle Sciences religieuses de l’école pratique des hautes études.
Numeri Per avere un quadro generale delle nuove tendenze, la cosa migliore è consultare un sondaggio effettuato dall’Ifop per Réforme e La Croix: “I protestanti fotografati dalle inchieste IFOP del 2010”.
Il documento è particolarmente ricco, tanto per i risultati grezzi, che per l’originalità del metodo.
I sondaggisti hanno interrogato per telefono negli scorsi mesi di maggio e di giugno 702 persone selezionate dall’Ifop.
Quest’ultimo, guidato dal gruppo GSRL, ha preso in considerazione le persone che si sono dichiarate “protestanti” e quelle che si sono dichiarate “cristiani evangelici”.
A molti evangelici – in questo caso il 18% degli intervistati – non piace presentarsi come “protestanti”.
Un fatto che gli istituti di sondaggio ignoravano fino a quel momento.
E che cambia notevolmente i risultati.
Inoltre, non si parla più qui di “persone vicine al protestantesimo”, un’espressione simpatica ma inadatta.
Secondo Sébastien Fath permette a molti cattolici liberali di esprimere la loro prossimità a ciò che percepiscono del protestantesimo (che raramente corrisponde alla realtà).
Ma queste persone sono cattoliche, non protestanti.
I risultati del sondaggio sono dunque, ai nostri occhi, molto sorprendenti.
Citiamo ad esempio il fatto che il 39% dei protestanti è “praticante regolare” (si reca al culto almeno una volta al mese).
Confrontiamo questa cifra con il 7% dei cattolici praticanti regolari (cioè che vanno a messa almeno una volta al mese).
Citiamo un altro indicatore, molto protestante: il 46% dei protestanti francesi legge la Bibbia almeno una volta al mese.
Quasi la metà! Ma i numeri più spettacolari, a nostro avviso, sono quelli che si ottengono confrontando il profilo dei luterano-riformati e quello degli evangelici.
Il 60% degli evangelici si reca al culto una volta alla settimana, contro…
il 9% dei luterano-riformati.
Il 74% degli evangelici legge la Bibbia almeno una volta alla settimana, contro il 17% dei luterano-riformati.
Una differenza che si ritrova in ambito teologico.
Il 70% degli evangelici dice di contare su guarigioni miracolose contro il 13% dei luterano-riformati.
Si può anche citare il profilo demografico dell’evangelico tipo: è più giovane e più cittadino del riformato tipo.
Il suo statuto sociale è generalmente meno elevato di quello del riformato.
In materia di etica sessuale (e bioetica), le differenze sono importanti (non è necessariamente una sorpresa), ma meno caratterizzanti di quanto si pensava.
Il 46% dei luterano-riformati è a favore della benedizione delle coppie omosessuali da parte delle Chiese, ma una maggioranza – il 54% – è contraria.
Questa opinione è condivisa per il 14% degli evangelici, mentre l’85% è contrario.
Quanto alle convergenze, evidentemente numerose, e sottolineate in particolare dai responsabili della Federazione protestante, si possono citare le preferenze in materia di etica sociale e di politica.
Il 61% dei luterano-riformati è contrario all’affermazione: “Ci sono troppi immigrati in Francia”.
Esattamente come il 62% degli evangelici.
Ci sarebbe anche una correlazione positiva tra atteggiamento favorevole all’accoglienza degli immigrati e lettura della Bibbia.
A rifiutare l’affermazione che ci sono troppi immigrati in Francia è il 71% dei lettori settimanali della Bibbia.
Ecumenismo Destra o sinistra? Alla pari.
Il 53% dei luterano-riformati sono di sinistra (PS e Verdi) e di sinistra si dice anche il 46% degli evangelici.
Il 34% dei luterano-riformati sono di destra (UMP e FN), tale opinione è condivisa “solo” dal 32% degli evangelici.
Si può pensare (e altri sondaggi lo confermano) che i partiti centristi siano molto popolari tra i protestanti.
In ogni caso, come precisa Jean-Paul Willaime nel documento consegnato ai giornalisti, bisogna abbandonare un preconcetto: “Gli orientamenti politici dei luterano-riformati e degli evangelici non differiscono molto.
La contrapposizione corrente tra riformati di sinistra ed evangelici di destra non corrisponde alla realtà.” Altro preconcetto che occorrerebbe rivedere: “l’ecumenismo” attira ancora un numero di luteranoriformati un po’ più alto rispetto agli evangelici.
Ma quando si osservano gli scambi concreti tra cristiani, si scopre che gli evangelici partecipano a incontri ecumenici proporzionalmente più dei luterano-riformati! La differenza è marginale, e si può invece notare la convergenza.
Gli evangelici sono “aperti” al dialogo con gli altri cristiani quasi quanto i luterano-riformati.
Al termine del convegno che aveva lui stesso aperto, Claude Baty ci ha manifestato la sua reazione rispetto ai numeri e alle analisi presentate.
Ha refutato sicuramente la tesi della polarizzazione tra evangelici e luterano-riformati e insistito al contrario su tutto ciò che unisce i protestanti.
“A mio avviso è sbagliato spiegare il protestantesimo diviso in fratture e in blocchi contrapposti.
E in queste condizioni, credo che la mia responsabilità sia di non voler fratturare per esistere, ma al contrario gestire la diversità per dare all’esterno una testimonianza che sia coerente”, ci dice.
Una cosa è certa: durante questi tre giorni di convegno, ci sono stati dibattiti, ma non aprioristicamente tra evangelici e luterano-riformati.
O tra carismatici e tradizionalisti.
Ci sono stati degli scambi tra scienziati, pastori e teologi su fatti osservabili, non dibattiti sterili.
“Non ci si è accontentati di commemorare Calvino”, si rallegra Claude Baty.
E manifesta un punto di vista che sembra nettamente condiviso dagli altri attori del protestantesimo contemporaneo: “Bisogna uscire da una identità storica che ha come finalità solo la commemorazione.
Bisogna uscire da una storia ideale, per entrare in un ritratto realistico”.
in “www.temoignagechretien.fr” del 22 novembre 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

Giovanni Maria Vian: «Il suo è realismo La dottrina resta contraria»

L’intervista «Se si rappresenta la Chiesa come chiusa, retrograda, spietata, sorda e insomma nemica dell’uomo allora sì, c’è una svolta clamorosa.
Solo che così non si rappresenta la realtà…».
E qual è la realtà, professor Vian? «C’è una bella parola greca che descrive due realtà importanti: oikonomia.
Alla lettera sta per la “legge” che governa l’oikos, la casa.
Ma in senso teologico indica il piano di salvezza di Dio per l’uomo e quindi l’atteggiamento della Chiesa nei confronti dell’umanità: come Dio ama l’uomo, la Chiesa che ama Dio ama ed è amica dell’uomo».
Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore romano, non si scompone.
In fondo, dopo le polemiche su preservativi e Aids nate durante il viaggio in Africa per una frase del Papa («Non si può superare questo dramma con la distribuzione dei preservativi, che al contrario aumentano il problema»), fu proprio il quotidiano della Santa Sede a parlare dei «buoni» risultati ottenuti in Uganda con il metodo «Abc»: «abstinence», «be faithful» e «condom», ovvero astinenza, fedeltà e solo da ultimo il preservativo.
Ciò che il Papa dice nel libro aiuta anche a capire quella frase che scatenò polemiche planetarie? «Certo.
Direi piuttosto che va vista alla luce dello stravolgimento che fu fatto delle parole di Benedetto XVI.
Il Papa spiegava come fosse illusorio e pericoloso pensare che si potesse debellare l’Aids con i preservativi, quanto si rischiasse di peggiorare la situazione diffondendo una mentalità irresponsabile e inefficace mentre invece erano necessarie prevenzione e ricerca e assistenza.
Non a caso, gli africani per primi si rivoltarono contro una mistificazione che oscurava il senso del viaggio e la volontà di mettere in primo piano il loro Continente».
Però un’apertura c’è, no? «La dottrina in sé non cambia, la morale cattolica resta contraria all’uso del preservativo: nel libro, teniamolo presente, il Papa ribadisce che “le prospettive della Humanae Vitae restano valide”…».
E quindi il divieto dei metodi contraccettivi contenuto nell’enciclica di Paolo VI…
«Sì, ma aggiunge che “altra cosa è trovare le strade umanamente percorribili”».
Il realismo della Chiesa? «È il realismo del pastore.
Resta l’obiettivo morale alto, il discorso più ampio sui rischi di una sessualità banalizzata e non a misura umana.
E insieme c’è la consapevolezza che siamo peccatori,  anche se questo fatto non dovrebbe essere assunto come un’istanza contro la verità».
Ma «i casi singoli giustificati» come un possibile «primo passo»? «Appunto: il Papa non è certo un pelagiano, conosce e ama troppo Sant’Agostino per esserlo! E la natura umana è ferita dal peccato originale.
Ma attenzione, nel testo ci sono analisi impressionanti: la condanna del turismo sessuale, della droga, la denuncia di un Occidente che ha oscurato Dio…».
L’Osservatore, comunque, aveva scritto: molti resteranno sorpresi.
«Sono innumerevoli i temi che colpiranno.
Viene confermato il rapporto specialissimo con l’ebraismo, e tra l’altro il Papa spiega perché preferisce usare l’espressione “padri nella fede” piuttosto che “fratelli maggiori”, una definizione che in Giovanni Paolo II si spiegava all’interno della mistica slava ma che al mondo ebraico può non piacere, visto che i fratelli maggiori nella Bibbia non fanno una bella figura.
E poi, ancora, l’importanza dei simboli religiosi, che spiega le considerazioni sul burqa, e insieme il porre la questione della libertà di culto e di religione nel mondo islamico.
Ma la sorpresa dipenderà forse da altro».
E cioè? «La Chiesa e Joseph Ratzinger soffrono pregiudizi tenaci.
Questo libro, come i suoi precedenti,serve a scardinarli, e del resto basterebbe seguire il suo magistero.
Benedetto XVI, proseguendo e innovando una strada già tracciata da Paolo VI e da Giovanni Paolo II, non si sottrae a nessuna domanda e lo fa con un linguaggio molto semplice e chiaro, senza strategie comunicative.
Difatti nel libro si legge che è stato provvidenziale sia stato eletto Papa un professore».
E perché? «Perché al centro c’è la necessità di porre al mondo la questione di Dio, quella che può disinnescare lo scontro di civiltà: le altre culture del mondo sono e restano scandalizzate e impaurite dal comportamento dell’Occidente, che prima ha diffuso il materialismo teorico attraverso il marxismo e ora esporta un materialismo pratico.
Per questo è decisivo riuscire a dare ragione della propria fede, che pure è un dono di Dio, e saperla spiegare razionalmente».
in “Corriere della Sera” del 21 novembre 2010

I Domenica di Avvento anno A

Preghiere e racconti L’avvento Con l’odierna prima domenica di Avvento, entriamo in quel tempo di quattro settimane con cui inizia un nuovo anno liturgico e che immediatamente ci prepara alla festa del Natale, memoria dell’incarnazione di Cristo nella storia.
Il messaggio spirituale dell’Avvento è però più profondo e ci proietta già verso il ritorno glorioso del Signore, alla fine della storia.
Adventus è parola latina, che potrebbe tradursi con ‘arrivo’, ‘venuta’, ‘presenza’.
Nel linguaggio del mondo antico era un termine tecnico che indicava l’arrivo di un funzionario, in particolare la visita di re o di imperatori nelle province, ma poteva anche essere utilizzato per l’apparire di una divinità, che usciva dalla sua nascosta dimora e manifestava così la sua potenza divina: la sua presenza veniva solennemente celebrata nel culto.
Adottando il termine Avvento, i cristiani intesero esprimere la speciale relazione che li univa a Cristo crocifisso e risorto.
Egli è il Re, che, entrato in questa povera provincia denominata terra, ci ha fatto dono della sua visita e, dopo la sua risurrezione ed ascensione al Cielo, ha voluto comunque rimanere con noi: percepiamo questa sua misteriosa presenza nell’assemblea liturgica.
Celebrando l’Eucaristia, proclamiamo infatti che Egli non si è ritirato dal mondo e non ci ha lasciati soli, e, se pure non lo possiamo vedere e toccare come avviene con le realtà materiali e sensibili, Egli è comunque con noi e tra noi; anzi è in noi, perché può attrarre a sé e comunicare la propria vita ad ogni credente che gli apre il cuore.
Avvento significa dunque far memoria della prima venuta del Signore nella carne, pensando già al suo definitivo ritorno e, al tempo stesso, significa riconoscere che Cristo presente tra noi si fa nostro compagno di viaggio nella vita della Chiesa che ne celebra il mistero.
Questa consapevolezza, cari fratelli e sorelle, alimentata nell’ascolto della Parola di Dio, dovrebbe aiutarci a vedere il mondo con occhi diversi, ad interpretare i singoli eventi della vita e della storia come parole che Iddio ci rivolge, come segni del suo amore che ci assicurano la sua vicinanza in ogni situazione; questa consapevolezza, in particolare, dovrebbe prepararci ad accoglierlo quando “di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà mai fine”, come ripeteremo tra poco nel Credo.
In questa prospettiva l’Avvento diviene per tutti i cristiani un tempo di attesa e di speranza, un tempo privilegiato di ascolto e di riflessione, purché ci si lasci guidare dalla liturgia che invita ad andare incontro al Signore che viene.
(Discorso di Benedetto XVI a San Lorenzo fuori le Mura, Per il 1750° anniversario del martirio di San Lorenzo, 30 novembre 2008).
L’attesa, una maniera di vivere «La nascita è un’attesa ma, contrariamente a ciò che si vorrebbe credere, l’attesa non è una parentesi: è una maniera di vivere…».
(Jean DEBRUYNE, Nascere).
  Svegliatevi! Avvento significa svegliarsi dai sogni di tutti i giorni, svegliarsi alla realtà.
Chi è desto vive con consapevolezza ogni momento della sua vita, è presente a se stesso, vivace, vigile.
È sveglio chi non si stordisce.
La frenesia intontisce.
Non siamo obbligati a lasciarci travolgere dal vortice consumistico.
Non dobbiamo a tutti i costi lasciarci inghiottire dalla smania di esaudire ogni desiderio.
La vigilanza non è soltanto l’atteggiamento fondamentale richiesto dall’Avvento.
Il racconto del Natale menziona i pastori che vegliavano durante la notte.
E proprio perché stavano vegliando viene loro annunciata la lieta novella della nascita del Messia.
Chi è sveglio è aperto e disponibile ad accogliere il mistero che vorrebbe afferrarci.
(Anselm GRÜN, Il piccolo libro della gioia del Natale, Milano, Gribaudi, 2006, 20)   Attendere Non amo attendere nelle file.
Non amo attendere il mio turno.
Non amo attendere il treno.
Non amo attendere prima di giudicare.
Non amo attendere il momento opportuno.
Non amo attendere un giorno ancora.
Non amo attendere perché non ho tempo e non vivo che nell’istante.
D’altronde tu lo sai bene, tutto è fatto per evitarmi l’attesa: gli abbonamenti ai mezzi di trasporto e i self-service, le vendite a credito e i distributori automatici, le foto a sviluppo istantaneo, i telex e i terminali dei computer, la televisione e i radiogiornali.
Non ho bisogno di attendere le notizie: sono loro a precedermi.
Ma tu Dio tu hai scelto di farti attendere il tempo di tutto un Avvento.
Perché tu hai fatto dell’attesa lo spazio della conversione, il faccia a faccia con ciò che è nascosto, l’usura che non si usura.
L’attesa, soltanto l’attesa,  l’attesa dell’attesa, l’intimità con l’attesa che è in noi, perché solo l’attesa desta l’attenzione e solo l’attenzione è capace di amare.
(J.
Debruyrnne, Ecoute, Seigneur, ma prière, Collectif, Paris).
  L’ “ora di Dio” Il Signore ci chiede di essere vigilanti e pronti perché non possiamo conoscere in anticipo l’ora di Dio, l’ora in cui Dio viene a visitarci con un intervento speciale.
Sono ormai abbastanza anziano e saggio da pensare che non posso forzare quest’ora di Dio.
Dio verrà da me e da te, a modo suo e quando vorrà.
A volte siamo tentati di comportarci come coloro che addestrano gli animali con i cerchi.
Chiediamo a Dio di venire e di saltare attraverso i nostri cerchi proprio come vogliamo noi! Ma, alla fine, scopriamo che Dio non è un animale ammaestrato.
Dio sceglie i suoi momenti e suoi mezzi.
La nostra parte è solo di essere pronti per questi momenti speciali.
A volte, l’ora di Dio sembra giungere proprio nel momento in cui non ce la facciamo più.
Ad ogni modo, la nostra fiducia in Dio ci dice che Dio verrà, al momento migliore e nel modo migliore.
Io devo permettere a te di essere te stesso, e tu devi permettere a me di essere me stesso.
E noi dobbiamo permettere a Dio di essere Dio.
(J.
POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 70).
  Il buffone e il re Un re aveva al suo servizio un buffone di corte che gli riempiva le giornate di battute e scherzi.
Un giorno, il re affidò al buffone il suo scettro dicendogli: «Tienilo tu, finché non troverai qualcuno più stupido di te: allora potrai regalarlo a lui».
Qualche anno dopo, il re si ammalò gravemente.
Sentendo avvicinarsi la morte, chiamò il buffone, a cui in fondo si era affezionato, e gli disse: «Parto per un lungo viaggio».
«Quando tornerai? Fra un mese?», «No», rispose il re, «non tornerò mai più».
«E quali preparativi hai fatto per questa spedizione?», chiese il buffone.
«Nessuno!» fu la triste risposta.
«Tu parti per sempre», disse il buffone, «e non ti sei preparato per niente? To’, prendi lo scettro: ho trovato uno più stupido di me!».
  Vigilanza nella solitudine  Poco tempo fa un prete mi ha detto di avere annullato l’abbonamento al New York Time perché si era accorto che le continue cronache di guerre, di delitti, di giuochi di potere e di manipolazioni politiche non facevano altro che disturbargli la mente ed il cuore, impedendogli di meditare e di pregare.
 È una storia triste, perché fa nascere il sospetto che solo cancellando il mondo vi si possa vivere, che soltanto circondandosi di una calma spirituale, da noi stessi creata, si possa condurre una vita spirituale.
Una vera vita spirituale, invece, fa esattamente il contrario: ci rende tanto vigili e consapevoli del mondo che ci circonda, che tutto ciò che esiste e che accade entra a far parte della nostra contemplazione e della nostra meditazione, invitandoci a rispondere liberamente e senza timore.
È questa vigilanza nella solitudine che muta la nostra esistenza.
La differenza sta tutta nel modo in cui guardiamo e ci rapportiamo alla nostra storia personale, attraverso la quale il mondo ci parla.
(Henri J.M.
NOUWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia, 1980, 44-45).
Amare la prima venuta, desiderare la seconda Fratelli carissimi, dovete sapere che questo tempo beato che noi chiamiamo «Avvento del Signore» evoca due realtà e, dunque, duplice deve essere la nostra gioia, poiché duplice è anche il guadagno che ci deve portare.
Questo tempo evoca le due venute del nostro Signore: quella dolcissima venuta in cui il più bello dei figli dell’uomo (Sal 44 [45], 3), il desiderato da tutte le genti (Ag 2,7 Vg), vale a dire il Figlio di Dio, si manifestò visibilmente nella carne a questo mondo, lui a lungo atteso e desiderato ardentemente da tutti i padri; ciò avvenne quando egli venne in questo mondo a salvare i peccatori.
Ma questo tempo evoca anche l’altra venuta che dobbiamo aspettare con una solida speranza e che dobbiamo ricordare spesso tra le lacrime, il momento, cioè, in cui il nostro Signore, che dapprima era venuto nascosto nella carne, verrà manifestamente nella sua gloria, come canta il salmo: Dio verrà manifestamente (Sal 49 [50], 3), cioè il giorno del giudizio, quando verrà manifestamente per giudicare […].
Giustamente la chiesa ha voluto che in questo tempo si leggessero le parole dei santi padri e si ricordasse il desiderio di quelli che vissero prima della venuta del Signore.
Non celebriamo questo loro desiderio per un solo giorno, ma per un tempo abbastanza lungo, poiché di solito quando desideriamo e amiamo molto qualcosa, se accade che essa viene differita per un qualche tempo, ci sembra più dolce ancora quando giunge.
Seguiamo, dunque, fratelli carissimi, gli esempi dei santi padri, proviamo il loro stesso desiderio, e infiammiamo i nostri cuori con l’amore e il desiderio di Cristo.
Dovete sapere che è stata stabilita la celebrazione di questo tempo per rinnovare in noi il desiderio che gli antichi santi padri avevano riguardo alla prima venuta del Signore nostro e dal loro esempio impariamo a nutrire un grande desiderio della sua seconda venuta.
Dobbiamo pensare a quante cose buone ha fatto il Signore nostro nella sua prima venuta e a quelle ancor più grandi che farà nella seconda e con tale pensiero dobbiamo amare molto la sua prima venuta e desiderare molto la seconda.
(AELREDO DI RIEVAULX, Discorsi 1, PL 195,209A-210B).
Preghiera Signore Gesù, che ci hai affidato la tua casa, la Chiesa e tutti i nostri fratelli, perché ci prendiamo cura gli uni degli altri in attesa del tuo ritorno, non lasciarci cadere le braccia per la stanchezza e per il sonno.
«State attenti, vigilate», è il tuo comando: come chi passa la notte in campagna è attento a tutti i rumori della notte perché possono essere forieri di qualcosa di inatteso, così fa’ che noi teniamo l’occhio attento e l’orecchio teso per scorgere dove tu sei all’opera e dove ci chiami a collaborare con te.
      * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
   I DOMENICA DI AVVENTO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Isaia 2,1-5           Messaggio che Isaia, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme.
Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri». Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.  Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore.      v Questo profeta dell’A.T è capace di contemplare l’Altissimo e di far comprendere al popolo dell’alleanza che il Signore e la sua santa legge devono essere accolti nella fede.
Il profeta Isaia nasce a Gerusalemme nel 760 a.C., vive il tempo difficile del Regno del Sud sotto la minaccia degli Assiri, finisce il suo ministero sotto Manasse (690 a.C.).                                                        Il testo proposto dalla Chiesa all’interno della Liturgia di questa prima domenica di Avvento è inserito nei primi cinque capitoli che raccolgono l’oracolo sul destino di Gerusalemme e di Giuda pronunziati nei primi anni del suo ministero.
La lettura del testo porta a ricordare l’episodio della Torre di Babele: tentativo umano di arrivare a Dio, un segno della superbia umana, ed ecco che il profeta oppone a questo avvenimento la visione del «monte del Signore» che radunerà i popoli nella pace.
Siamo di fronte ad un oracolo escatologico che annunzia la diffusione nel mondo del nome di YHWH e Gerusalemme diventerà il centro della religione jahvistica e della pace.
Nel v.
2 è molto importante sottolineare quel «sarà saldo…», esso è riferito a Gerusalemme, la nota della Versione dai testi originali così commenta: «Secondo la concezione mitologica dell’Antico oriente, il monte del tempio si identificava col monte altissimo in cui dimoravano gli dei.
Qui il mondo terrestre si univa con quello celeste.
Nel nostro testo questa mitologia viene utilizzata per descrivere la speranza escatologica di Israele» (cf.
p.
1046).
Il monte meraviglioso, attraverso la legge e la parola, impone un ordine umano secondo il progetto di Dio; il profeta nella sua visione ricorda che è volontà divina la giustizia sulla terra e che quest’ultima è il fondamento della pace; è nei piani dell’Altissimo un governo giusto, la pace internazionale, il disarmo, gli strumenti di guerra trasformati in mezzi di pace.
Il popolo d’Israele è in atteggiamento di cammino, apre il pellegrinaggio verso la luce del Signore, in questo grande movimento verso YHWH devono essere coinvolte tutte le genti.
  Seconda lettura: Romani 13,11-14a           Fratelli, questo voi farete,  consapevoli del momento:  è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino.
Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.
Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e  gelosie.
Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo.      v Il testo paolino che la liturgia propone è inserito nella Lettera ai Romani.
Scritta, questa lettera, da Paolo nel 58 d.C., fu inviata per preparare un suo viaggio in Spagna.
Nella lettera Paolo espone il suo pensiero teologico, anche se non sono affrontati tutti i temi della sua teologia.
Questa lettera la potremmo definire come “la grande presentazione teologica” della fede cristiana.
Il nostro brano è inserito nella sezione 12,1-15,13 considerata la parte delle Attuazioni: come il credente deve affrontare la vita quotidiana.
Dal testo, usato dalla liturgia, emerge come Paolo valuti il suo “tempo” come “occasione di grazia”, invita i credenti a vivere nell’apertura al futuro; ormai la notte sta per terminare e Cristo sta per arrivare con tutta la sua gloria, la sua venuta coincide con il giorno.
La fede prepara la comunità cristiana a ricevere definitivamente Cristo nella sua infinita gloria.
Tutto ciò esige da parte del credente di sviluppare una coscienza che realizza opere di vita e non di morte; l’attesa del Vivente porta il credente ad avere sempre una condotta onesta, una coscienza in ricerca «per rivestirsi delle armi della luce» cioè le opere buone che allontanano l’uomo da ogni forma di male.
Dietro all’affermazione del v.
72 certamente Paolo vuole ricordare che le opere buone sono possibili solo se si è nuovi nel cuore, non si deve mai dimenticare che «la proposta morale cristiana non potrà mai perdere di vista questa priorità antropologica e salvifica.
Il valore morale non sta prima di tutto nel gesto che si compie, ma nel cuore che lo ispira e lo determina» (S.
MAJORANO, Coscienza e virtualità del Sangue di Cristo, «Sangue e vita», Roma, 1995, 154).
Nel v.
13 Paolo ricorda un elenco di vizi dal quale l’uomo dev’essere lontano che sono praticati normalmente di notte.
Ma ciò che potrebbe essere considerato centro del brano è il v.
14: «Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo…»: ciò che è avvenuto nel sacramento del battesimo come “evento” qui è presentato come esigenza nella vita morale.
È sempre il v.
14 che dev’essere considerato eco di un inno battesimale della Chiesa primitiva, ad ogni modo è certo che Paolo qui realizza una missione: presenta il piano di Dio in maniera cristologica ed orienta tutte le iniziative etiche dei credenti nell’obbedienza al Signore, (cf.
G.
BARBAGLIO, Le lettere di Paolo, vol.
2, Borla, Roma 1990, 491).
Mediante il verbo “rivestitevi” Paolo usa una metafora che indica sempre appropriazione, unione; rivestirsi del mistero di Cristo significa fare di esso il punto fondamentale della propria esistenza, la persona del Risorto datore di Spirito Santo diventa “fonte” della vita quotidiana dalla quale l’uomo attinge energia per vivere nella storia umana e fare la volontà del Padre Celeste.
  Vangelo:  Matteo 24,37-44     In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo.
Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo.
Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato.  Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa.
Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».
    Esegesi      Il brano del Vangelo odierno ci immette nel capitolo 24 del Vangelo di Matteo che è definito comunemente “discorso escatologico”, il contesto è il seguente: Gesù è uscito dal tempio (cf.
v.
7) e sedutosi sul monte degli ulivi (cf.
v.
3) pronunzia queste parole sulle ultime realtà.
La pericope è preceduta dal tema dell’avvento del Figlio dell’uomo (cf.
vv.
26-23), dalla dimensione cosmica di questo avvento (cf.
vv.
29-37), dalla parabola del fico (cf.
vv.
32-36).
     Nel discorso in questione Gesù usa il linguaggio apocalittico, molto difficile, ma sappiamo bene che l’intenzione del Cristo non è quella di portare terrore ma di affermare delle verità teologiche: verrà la fine del mondo, è necessario assumere un atteggiamento di vigilanza, la storia diventa il luogo per realizzare già il regno di Dio.
È da annotare il v.
36 che molte volte fa difficoltà ricordando Mt 11,27 dove si afferma che quello che appartiene al Padre è anche del Figlio; ma nel v.
36 — che precede la nostra pericope — il senso profondo è che non rientra nella missione di Gesù rivelare il momento preciso della fine del mondo, ciò appartiene alla conoscenza del cuore di Cristo che è sempre in comunione eterna con il cuore del Padre che svela ogni cosa, nello Spirito santo, al suo Figlio prediletto.
Ma entriamo, aiutati dallo Spirito Santo, unico esegeta della Parola, nelle profondità del testo proposto dalla liturgia: vv.
37- 39: Gesù fa un paragone con la situazione storico, sociale e religiosa degli uomini contemporanei a Noè, si viveva nell’assoluto relativismo morale, la legge scritta nel cuore umano non era seguita, la libertà era intesa come libertinaggio.
Gesù ricorda tutto questo, evidenziando che vivendo nella dissolutezza, furono travolti dalla catastrofe.
Dobbiamo soffermarci sull’espressione «così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo»: la venuta del Cristo glorioso che si presenterà come vero ed unico giudice della storia e delle coscienze personali incombe sugli uomini come “avvenimento” di giudizio; la seconda venuta del Cristo dev’essere intesa come “momento di sintesi” della storia umana e della nostra coscienza che si presenterà davanti al Cristo con la sua scelta fondamentale con il quale ha costruito il proprio vissuto morale.
vv.
40-41: la fine dei tempi avverrà nel “quotidiano” che diventerà improvvisamente “eternità” nel quale il Cristo glorioso giudicherà con misericordia e verità.
Il testo evangelico ricorda delle occupazioni abituali: il lavoro dei campi fatto dagli uomini ed i lavori domestici realizzati dalle donne, è qui che si svolgerà l’ultima chiamata di Cristo.
v.
42: l’esistenza umana che è un cammino verso l’eterno non può essere vissuta nella distrazione, l’incontro con il Cristo glorioso dev’essere preparato dal discepolo, per questo Gesù invita alla vigilanza e quindi alla preghiera.
Il momento orante della vita personale prepara il cuore umano ad accogliere la parola definitiva del Redentore nel proprio vissuto quotidiano.
Ma questo “vegliare” al quale il Cristo stesso ci chiama non è un’attesa di paura e di angoscia ma dev’essere un momento nel quale il credente deve immergersi in una preghiera fiduciosa verso l’Altissimo.
Il discepolo di Cristo che attende la sua venuta confida nel suo Signore, in quanto sa bene che Dio avrà sempre una «parola di misericordia» nei suoi confronti; dovranno essere questi i pensieri del «vegliare» in attesa della parusia.
Ma tutto ciò non esclude l’impegno concreto per la realizzazione del regno di Dio nella storia umana, il cristiano non può disprezzare la vita presente; il futuro, l’escatologia inizia nella nostra storia; il regno di Dio è già in mezzo a noi e avrà nel «domani di Dio» la sua piena attuazione.
Questo logion è presente in Mc 13,35, inserito in un’altra parabola che l’evangelista Matteo omette.
È da annotare il commento che fa in nota la Bibbia di Gerusalemme: «La vigilanza, in questo stato di allarme, suppone una solida speranza ed esige una costante presenza di spirito che prende il nome di sobrietà» (cf.
p.
21-43).
vv.
43-44: qui abbiamo la piccola parabola dello scassinatore notturno, è riferita alla venuta gloriosa del Cristo che sarà improvvisa, questi versetti potrebbero acquistare luce leggendo il brano dell’Apocalisse 3,3: «Se non sarai vigilante, io verrò come un ladro, senza che tu sappia l’ora della mia venuta a te».
Gesù si pone in netto contrasto con l’apocalittica giudaica che cercava di calcolare in anticipo la parusia, Gesù Cristo invece, vuole affermare il carattere sconosciuto ed inaspettato e perciò invita caldamente all’attesa, alla vigilanza, a stare in piedi ed attendere il Redentore.
  Meditazione   L’evento finale e decisivo della storia di salvezza profetizzato da Isaia e annunciato dal vangelo come «venuta del Figlio dell’Uomo» viene colto nelle letture odierne nella sua portata giudiziale: esso giudica le violenze e le guerre che gli uomini scatenano (I lettura); le immoralità in cui si perdono (II lettura); l’incoscienza e l’ignoranza colpevoli con cui si anestetizzano (vangelo).
L’annuncio escatologico non è un messaggio spiritualistico, ma ha un impatto forte sulla storia dei popoli (I lettura), sulla quotidianità delle esistenze dei credenti (vangelo) e sul loro comportamento (II lettura).
La simbolica della polarità notte-giorno, tenebre e luce, attraversa le tre letture e consegna un messaggio che intende svegliare il credente e guidarlo a conversione.
È la tenebra delle genti che non conoscono il cammino da percorrere e che vengono illuminate dalla parola di Dio («camminiamo nella luce del Signore»: Is 2,5); è la tenebra della generazione di Noè che non capisce nulla, non discerne il tempo e i suoi segni e così perisce; è la notte che chiede al padrone di casa di vegliare per impedire al ladro di svaligiargli la casa (vangelo); è la notte simbolo del peccato, da cui il credente è chiamato a risvegliarsi gettando via le opere delle tenebre e indossando le armi della luce (II lettura).
La prima domenica di Avvento, che segna l’inizio di un nuovo anno liturgico, contiene un invito a ricominciare, si tratta di ricominciare il cammino di fede ascoltando di nuovo la parola di Dio (I lettura); facendo memoria degli inizi della fede, dunque del battesimo (II lettura); assumendo la storia quotidiana come luogo di vigilanza e discernimento (vangelo).
In questa prospettiva di inizio o re-inizio, è significativo che il passo di Paolo sia stato decisivo per la conversione di Agostino (Confessioni VIII,12,29).
Ascoltata la voce che dice «Prendi e leggi», Agostino apre la Scrittura e trova il passo che dice: «Non nelle gozzoviglie e nelle ubriachezze, non nelle orge e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non assecondate la carne nelle sue concupiscenze».
Afferma Agostino: «Non volli leggere oltre, né mi occorreva.
Infatti, appena terminata la lettura di questa frase, una luce, quasi di certezza, penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono».
Anche Agostino vive il suo risveglio, il suo passaggio dalle tenebre alla luce.
Il vangelo, istituendo un parallelo tra il diluvio, che sconvolse la quotidianità ripetitiva della vita della generazione di Noè, e la venuta del Figlio dell’Uomo, ammonisce a non annegare nella banalità dei giorni.
La generazione di Noè non è dipinta da Gesù come malvagia o empia, ma semplicemente come incosciente: «Non si accorsero di nulla» (Mt 24,39).
La generazione di Noè perì per mancanza di discernimento.
E così perì due volte: nel diluvio e senza sapere perché.
Noè, invece, seppe discernere e così salvò se stesso e il futuro: il discernimento dell’oggi salva il futuro.
E questa è la responsabilità.
La colpa, se di colpa si deve parlare, intravista nel nostro testo, è dunque l’irresponsabilità, l’assenza di discernimento.
Vigilare significa esercitare l’intelligenza, la riflessione, il pensiero sui tempi che si vivono, per non essere sorpresi dalle catastrofi che si preparano nascostamente nell’oggi della storia, nella chiesa, nelle relazioni famigliari e personali.
Il credente è chiamato a pensare e conoscere l’oggi a partire dalla venuta del Signore e dalle sue dimensioni di impensato e di ignoto (Mt 24,36.44).
La venuta del Signore non impegna solo a vigilare sui tempi, ma anche sulla verità del proprio cuore.
Il riferimento alle due persone impegnate nello stesso lavoro, che nulla sembra distinguere, e di cui però una viene presa e l’altra lasciata, indica che ciò che nella quotidianità dei giorni può rimanere nascosto, sarà manifestato alla venuta del Signore.
La differenza si gioca nell’invisibile interiorità.
«In interiore homine habitat veritas» (Agostino); «Il cammino della conoscenza porta verso l’interiorità» (Novalis).
 

“Luce del mondo”: Il buon pastore e la pecora smarrita

In sei ore di colloquio col giornalista bavarese Peter Seewald nella quiete estiva di Castel Gandolfo, distribuite in sei giorni come quelli della creazione e trascritte tali e quali in un libro fresco di stampa, Benedetto XVI ha consegnato al mondo la propria immagine più veritiera.
Quella di un uomo incantato dalle meraviglie del creato, gioioso, incapace di sopportare una vita vissuta sempre e soltanto “contro”, felicemente convinto che nella Chiesa “molti che sembrano stare dentro, sono fuori; e molti che sembrano stare fuori, sono dentro”.
“Siamo peccatori”, dice papa Benedetto quando l’intervistatore lo mette all’angolo sull’enciclica “Humanae vitae”, quella che condanna tutti gli atti contraccettivi non naturali.
Paolo VI la scrisse e pubblicò nel 1968, e da quell’anno fatidico essa è diventata l’emblema dell’incompatibilità tra la Chiesa e la cultura moderna.
Joseph Ratzinger non smentisce una virgola, della “Humanae vitae”.
La “verità” è quella e tale rimane.
“Affascinante”, dice, per le minoranze che ne sono intimamente persuase.
Ma subito il papa sposta il suo sguardo sulle masse sterminate di uomini e donne che quella “morale alta” non vivono.
Per dire che “dovremmo cercare di fare tutti il bene possibile, e sorreggerci e sopportarci a vicenda”.
È questo il papa che emerge dal libro-intervista “Luce del mondo”.
È lo stesso che si era rivelato così nella sua prima messa celebrata dopo la nomina a successore di Pietro.
Un pastore che va alla ricerca della pecora smarrita, e la prende sulle spalle come la lana d’agnello del pallio che indossa, e prova molta più gioia per la pecora ritrovata che per le novantanove nell’ovile.
Solo che allora pochi l’avevano capito.
Il Ratzinger delle figurine è rimasto a lungo il professore gelido, l’inquisitore ferrigno, il giudice spietato.
C’è voluta, cinque anni dopo, la tempesta perfetta dei preti pedofili per stracciare definitivamente questa falsa immagine.
A differenza di tanti altri personaggi di Chiesa, Benedetto XVI non lamenta complotti, non ritorce le accuse contro gli accusatori.
Anzi, nel libro dice che “sin tanto che si tratta di portare alla luce la verità, dobbiamo essere con loro riconoscenti”.
E spiega: “La verità, unita all’amore inteso correttamente, è il valore numero uno.
E poi i media non avrebbero potuto dare quei resoconti se nella Chiesa stessa il male non ci fosse stato.
Solo perché il male era dentro la Chiesa, gli altri hanno potuto rivolgerlo contro di lei”.
Dette dall’uomo che al vertice della Chiesa cattolica è stato il primo a diagnosticare e combattere questa “sporcizia”, e poi da papa a portare il peso maggiore di colpe e omissioni non sue, sono parole che fanno impressione.
Ma questo è lo stile con cui Benedetto XVI tratta altre questioni scottanti, nel libro.
Va direttamente al cuore dei punti più controversi.
Il sacerdozio femminile? Pio XII e gli ebrei? L’omosessualità? Il burka? Il preservativo? L’intervistatore lo incalza e il papa non si sottrae.
A proposito del burka dice di non vedere le ragioni di una proibizione generalizzata.
Se imposto alle donne con la violenza, “è chiaro che non si può essere d’accordo”.
Ma se è indossato volontariamente, “non vedo perché glielo si debba impedire”.
Al papa si potrà obiettare che un velo che ricopra completamente il volto ponga problemi di sicurezza in campo civile.
Obiezione legittima, perché l’intervista lui l’ha data anche per aprire discussioni, non per chiuderle.
Nella prefazione a un altro suo libro, quello su Gesù uscito nel 2007, Ratzinger scrisse che “ognuno è libero di contraddirmi”.
E tenne a precisare che non si trattava di un “atto magisteriale” ma “unicamente di un’espressione della mia ricerca personale”.
Dove il magistero della Chiesa sembra tremare, nell’intervista, è quando il papa parla del preservativo, giustificandone l’uso in casi particolari.
Nessuna “svolta rivoluzionaria”, ha prontamente chiosato padre Federico Lombardi, voce ufficiale della sede di Pietro.
Infatti, già molti cardinali e vescovi e teologi, ma soprattutto schiere di parroci e missionari ammettono pacificamente da tempo l’uso del preservativo, per tante persone concrete incontrate nella “cura d’anime”.
Ma un conto è che lo facciano loro, un conto che lo dica a voce alta un papa.
Benedetto XVI è il primo pontefice nella storia a varcare questo Rubicone, con disarmante tranquillità: lui che solo due primavere fa aveva aveva scatenato nel mondo un fragoroso coro di proteste per aver detto, in volo verso l’Africa, che “non si può risolvere il flagello dell’AIDS con la distribuzione di preservativi: ma al contrario, il rischio è di aumentare il problema”.
Era il marzo del 2009.
Si accusò Benedetto XVI di condannare a morte miriadi di africani in nome della cieca condanna del protettivo di lattice.
Quando in realtà il papa voleva richiamare l’attenzione sul pericolo – in Africa comprovato dai fatti – che a un più largo uso del preservativo si accompagni non un calo ma un aumento del sesso occasionale e promiscuo e dei tassi di infezione.
Nell’intervista, Ratzinger riprende il filo di quel suo ragionamento, all’epoca largamente frainteso, e osserva che anche fuori della Chiesa, tra i maggiori esperti mondiali della lotta contro l’AIDS, è sempre più condivisa la maggiore efficacia di una campagna centrata sulla continenza sessuale e sulla fedeltà coniugale, rispetto alla indiscriminata distribuzione del preservativo.
“Concentrarsi solo sul profilattico – prosegue il papa – vuol dire banalizzare la sessualità, e questa banalizzazione rappresenta proprio la pericolosa ragione per cui tante e tante persone nella sessualità non vedono più l’espressione del loro amore, ma soltanto una sorta di droga, che si somministrano da sé”.
A questo punto uno si aspetterebbe che Benedetto XVI ribadisca la condanna assoluta del preservativo.
E invece no.
Prendendo il lettore di sorpresa, egli dice che in vari casi il suo uso può essere ammesso, per ragioni diverse da quelle contraccettive.
E porta l’esempio di “un prostituto” che utilizza il profilattico per evitare il contagio: l’esempio, cioè, di un’azione che resta comunque peccaminosa, nella quale però il peccatore ha un sussulto di responsabilità, che il papa giudica “un primo passo verso un modo diverso, più umano, di vivere la sessualità”.
Se questa comprensione amorevole vale per un peccatore, a maggior ragione deve quindi valere per il caso classico incontrato in Africa e altrove da parroci e missionari: quello di due coniugi uno dei quali è malato di AIDS e usa il profilattico per non mettere in pericolo la vita dell’altro.
Tra i cardinali che hanno sinora prospettato, più o meno velatamente, la liceità di questo e di altri comportamenti analoghi vi sono gli italiani Carlo Maria Martini e Dionigi Tettamanzi, il messicano Javier Lozano Barragán, lo svizzero Georges Cottier.
Quando però nel 2006 “La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti di Roma stampata con il previo controllo della segreteria di stato vaticana, affidò l’argomento a un grande esperto sul campo, padre Michael F.
Czerny, direttore dell’African Jesuit AIDS Network con sede a Nairobi, l’articolo uscì purgato dei passaggi che ammettevano l’uso del preservativo per frenare il contagio.
C’è voluto papa Benedetto per dire quello che nessuno aveva fin qui osato, al vertice della Chiesa.
E basta questo per fare di lui un umile, mite rivoluzionario.
(Da “L’espresso” n.
48 del 2010).