8 – 9 novembre 2024 in Piazza dell’Ateneo Salesiano, 1 – 00139 Roma (RM) Italia
L’Istituto di Catechetica (ICa), la cui nascita risale all’A.A. 1953/54, festeggia il suo 70° di vita. Nel 2023, tra le tante iniziative ordinarie e straordinarie, la rivista on line “Catechetica ed Educazione” ha pubblicato diversi contributi che nel loro insieme fanno memoria dei settant’anni di vita e di attività dell’ICa, in particolare dell’ultimo ventennio. Richiamando il Convegno in occasione del 60° (15-16 maggio 2015) imperniato sul tema della catechesi come comunicazione nell’era digitale e del conseguente “cambio di paradigma”, il Simposio dell’8-9 novembre 2024 intende soffermare l’attenzione sulla dimensione educativa della catechesi.
Alcune informazioni importanti:
La scadenza delle prenotazioni al Simposio è prorogata fino alla fine del mese corrente
L’eventuale rimborso dei costi avverrà al termine dell’evento
Per ulteriori informazioni chiamare al: 375.6427896
Christoph Theobald, Un concilio in incognito? Il sinodo, via di riconciliazione e creatività, EDB, Bologna 2024, pp. 192.
Christoph Theobald, An Incognito Council? The Synod, a Path to Reconciliation and Creativity, EDB, Bologna 2024, pp. 192.
The Author is a well-known theologian of German origin, resident in Paris, professor at the Centre Sèvres, the Jesuit institute of the French capital. It may be useful to know that many of his works, including this one, have been translated into Italian, in particular by EDB (publisher of the Dehonians) of Bologna.
Theobald is recognized for his thinking on ecumenical dialogue and for an innovative vision of the role of the Catholic Church in the contemporary world. He affirms, deepens and disseminates the need for a “synodal” and fraternal Church, in line with the reforms promoted by Pope Francis.
The book we present is easy to read and understand, written in a calm style, well documented on the reality of the Synod in progress without a feeling of hypercriticism of which the synodal work is often criticized and even more ignored.
We note well that the Author does not want to express personal thoughts, but to report and interpret the path of the Synod so far. It includes two stages: the result, from the beginning of the work (2021-2022), is summarized in the first Synod (October 2023); a second stage follows that concludes in the second Synod (October 2024). Theobald obviously cannot speak about this, since his text was written first, but he foresees the tasks in light of the documents gradually published by the Pope and the General Secretariat. Significant conclusions and new proposals for the continuation of the synodal journey are to be expected.
The A.’s vision is already expressed in the title: An incognito council? The synod, a path of reconciliation and creativity. For Theobald, the current synod is not the expiration of a commitment among many synods, usual in the history of the Church. First of all, it has a close connection, indeed by root, with the Second Vatican Council, of which it wants to be an extension, not only aspiring to be understood as a council not declared as such (incognito), but to be so in fact, notably with two of its distinctive traits defined as “path of reconciliation and creativity”, for which the Synod in progress is called by him a path, made of openness and dialogue at a religious and social level, with a profoundly innovative, creative purpose, in view of a new evangelization under the guidance of the Spirit of Jesus (or Holy Spirit) that does not make a new Church, but the same Church renewed as in the origins, “not a different Church, but a different Church”.
Theobald’s book is placed within this framework of ideas. It is 190 pages well structured in six chapters of which we give here, in brief summary, the contents. Essential inspiration comes from the Scriptures as a “missionary travel report” that wants to continue in the Synod and is its soul (chap. 1); the A. the question is asked: “if synodality is a “constitutive dimension of the Church”, how is it constituted?”. The answer is clear and dominant: it is based on Baptism which creates a fraternal equality of the baptized; it takes its orientation and inspiration from Vatican II; for which the Church must always be understood as “people of God” (chap. 2); a clarification on the Synod itself follows: it is an intercontinental and intercultural journey (some experiences in Africa and Europe are reported, seen as “gifts” of the Holy Spirit) (chap. 3); a solid reflection on the soul of the synodal journey could not be missing: “A journey of spiritual and institutional conversion” (chap. 4); in chaps. 5 and 6 the strong points of the first synodal stage are summarized (until October 2024). The task that engages the Church in profoundly reforming itself remains central. Chap. 5 mentions the basic contents and problems: the renewed and indispensable participation of women in the life of the Church; the real involvement of all Christians and not only the clergy; a regained credibility especially with regard to scandals and institutional crises, underlining the importance of a structural and spiritual reform to regain the trust of the faithful; to this end the Church must renew its way of exercising authority, transforming it into an “authority of fraternity”, capable of promoting dialogue and inclusion; the Church should overcome internal and social conflicts through a spirit of brotherhood, thus contributing to cohesion in secular societies. Last but not least, theological science must give its contribution to the elaboration of emerging thoughts and proposals. In chapter 6 Theobald expresses, so to speak, his synodal dream with a statement that he repeats elsewhere: “synodality must be seen within a messianic vision of the world”.
He concludes by asking whether the breadth, novelty and depth of the synod can be outlined as “a council incognito?”. It is a question that, reading the book, sounds like a challenge: who and how can one say no?
A QUANTI LEGGERANNO QUESTA LETTERA LA SPERANZA RICOLMI IL CUORE
1. «Spes non confundit», «la speranza non delude» (Rm 5,5). Nel segno della speranza l’apostolo Paolo infonde coraggio alla comunità cristiana di Roma. La speranza è anche il messaggio centrale del prossimo Giubileo, che secondo antica tradizione il Papa indice ogni venticinque anni. Penso a tutti i pellegrini di speranza che giungeranno a Roma per vivere l’Anno Santo e a quanti, non potendo raggiungere la città degli apostoli Pietro e Paolo, lo celebreranno nelle Chiese particolari. Per tutti, possa essere un momento di incontro vivo e personale con il Signore Gesù, «porta» di salvezza (cfr. Gv 10,7.9); con Lui, che la Chiesa ha la missione di annunciare sempre, ovunque e a tutti quale «nostra speranza» (1Tm 1,1). Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza. La Parola di Dio ci aiuta a trovarne le ragioni. Lasciamoci condurre da quanto l’apostolo Paolo scrive proprio ai cristiani di Roma.
Una Parola di speranza
2. «Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. […] La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,1-2.5). Sono molteplici gli spunti di riflessione che qui San Paolo propone. Sappiamo che la Lettera ai Romani segna un passaggio decisivo nella sua attività di evangelizzazione. Fino a quel momento l’ha svolta nell’area orientale dell’Impero e ora lo aspetta Roma, con quanto essa rappresenta agli occhi del mondo: una sfida grande, da affrontare in nome dell’annuncio del Vangelo, che non può conoscere barriere né confini. La Chiesa di Roma non è stata fondata da Paolo, e lui sente vivo il desiderio di raggiungerla presto, per portare a tutti il Vangelo di Gesù Cristo, morto e risorto, come annuncio della speranza che compie le promesse, introduce alla gloria e, fondata sull’amore, non delude.
3. La speranza, infatti, nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal Cuore di Gesù trafitto sulla croce: «Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,10). E la sua vita si manifesta nella nostra vita di fede, che inizia con il Battesimo, si sviluppa nella docilità alla grazia di Dio ed è perciò animata dalla speranza, sempre rinnovata e resa incrollabile dall’azione dello Spirito Santo. È infatti lo Spirito Santo, con la sua perenne presenza nel cammino della Chiesa, a irradiare nei credenti la luce della speranza: Egli la tiene accesa come una fiaccola che mai si spegne, per dare sostegno e vigore alla nostra vita. La speranza cristiana, in effetti, non illude e non delude, perché è fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore divino: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? […] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35.37-39). Ecco perché questa speranza non cede nelle difficoltà: essa si fonda sulla fede ed è nutrita dalla carità, e così permette di andare avanti nella vita. Sant’Agostino scrive in proposito: «In qualunque genere di vita, non si vive senza queste tre propensioni dell’anima: credere, sperare, amare».[1]
4. San Paolo è molto realista. Sa che la vita è fatta di gioie e di dolori, che l’amore viene messo alla prova quando aumentano le difficoltà e la speranza sembra crollare davanti alla sofferenza. Eppure scrive: «Ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza» (Rm 5,3-4). Per l’Apostolo, la tribolazione e la sofferenza sono le condizioni tipiche di quanti annunciano il Vangelo in contesti di incomprensione e di persecuzione (cfr. 2Cor 6,3-10). Ma in tali situazioni, attraverso il buio si scorge una luce: si scopre come a sorreggere l’evangelizzazione sia la forza che scaturisce dalla croce e dalla risurrezione di Cristo. E ciò porta a sviluppare una virtù strettamente imparentata con la speranza: la pazienza. Siamo ormai abituati a volere tutto e subito, in un mondo dove la fretta è diventata una costante. Non si ha più il tempo per incontrarsi e spesso anche nelle famiglie diventa difficile trovarsi insieme e parlare con calma. La pazienza è stata messa in fuga dalla fretta, recando un grave danno alle persone. Subentrano infatti l’insofferenza, il nervosismo, a volte la violenza gratuita, che generano insoddisfazione e chiusura. Nell’epoca di internet, inoltre, dove lo spazio e il tempo sono soppiantati dal “qui ed ora”, la pazienza non è di casa. Se fossimo ancora capaci di guardare con stupore al creato, potremmo comprendere quanto decisiva sia la pazienza. Attendere l’alternarsi delle stagioni con i loro frutti; osservare la vita degli animali e i cicli del loro sviluppo; avere gli occhi semplici di San Francesco che nel suo Cantico delle creature, scritto proprio 800 anni fa, percepiva il creato come una grande famiglia e chiamava il sole “fratello” e la luna “sorella”.[2] Riscoprire la pazienza fa tanto bene a sé e agli altri. San Paolo fa spesso ricorso alla pazienza per sottolineare l’importanza della perseveranza e della fiducia in ciò che ci è stato promesso da Dio, ma anzitutto testimonia che Dio è paziente con noi, Lui che è «il Dio della perseveranza e della consolazione» (Rm 15,5). La pazienza, frutto anch’essa dello Spirito Santo, tiene viva la speranza e la consolida come virtù e stile di vita. Pertanto, impariamo a chiedere spesso la grazia della pazienza, che è figlia della speranza e nello stesso tempo la sostiene.
Un cammino di speranza
5. Da questo intreccio di speranza e pazienza appare chiaro come la vita cristiana sia un cammino, che ha bisogno anche di momenti forti per nutrire e irrobustire la speranza, insostituibile compagna che fa intravedere la meta: l’incontro con il Signore Gesù. Mi piace pensare che un percorso di grazia, animato dalla spiritualità popolare, abbia preceduto l’indizione, nel 1300, del primo Giubileo. Non possiamo infatti dimenticare le varie forme attraverso cui la grazia del perdono si è riversata con abbondanza sul santo Popolo fedele di Dio. Ricordiamo, ad esempio, la grande “perdonanza” che San Celestino V volle concedere a quanti si recavano nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, a L’Aquila, nei giorni 28 e 29 agosto 1294, sei anni prima che Papa Bonifacio VIII istituisse l’Anno Santo. La Chiesa già sperimentava, dunque, la grazia giubilare della misericordia. E ancora prima, nel 1216, Papa Onorio III aveva accolto la supplica di San Francesco che chiedeva l’indulgenza per quanti avrebbero visitato la Porziuncola nei primi due giorni di agosto. Lo stesso si può affermare per il pellegrinaggio a Santiago di Compostela: infatti Papa Callisto II, nel 1122, concesse di celebrare il Giubileo in quel Santuario ogni volta che la festa dell’apostolo Giacomo cadeva di domenica. È bene che tale modalità “diffusa” di celebrazioni giubilari continui, così che la forza del perdono di Dio sostenga e accompagni il cammino delle comunità e delle persone. Non a caso il pellegrinaggio esprime un elemento fondamentale di ogni evento giubilare. Mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita. Il pellegrinaggio a piedi favorisce molto la riscoperta del valore del silenzio, della fatica, dell’essenzialità. Anche nel prossimo anno i pellegrini di speranza non mancheranno di percorrere vie antiche e moderne per vivere intensamente l’esperienza giubilare. Nella stessa città di Roma, inoltre, saranno presenti itinerari di fede, in aggiunta a quelli tradizionali delle catacombe e delle Sette Chiese. Transitare da un Paese all’altro, come se i confini fossero superati, passare da una città all’altra nella contemplazione del creato e delle opere d’arte permetterà di fare tesoro di esperienze e culture differenti, per portare dentro di sé la bellezza che, armonizzata dalla preghiera, conduce a ringraziare Dio per le meraviglie da Lui compiute. Le chiese giubilari, lungo i percorsi e nell’Urbe, potranno essere oasi di spiritualità dove ristorare il cammino della fede e abbeverarsi alle sorgenti della speranza, anzitutto accostandosi al Sacramento della Riconciliazione, insostituibile punto di partenza di un reale cammino di conversione. Nelle Chiese particolari si curi in modo speciale la preparazione dei sacerdoti e dei fedeli alle Confessioni e l’accessibilità al sacramento nella forma individuale. A questo pellegrinaggio un invito particolare voglio rivolgere ai fedeli delle Chiese Orientali, in particolare a coloro che sono già in piena comunione con il Successore di Pietro. Essi, che hanno tanto sofferto, spesso fino alla morte, per la loro fedeltà a Cristo e alla Chiesa, si devono sentire particolarmente benvenuti in questa Roma che è Madre anche per loro e che custodisce tante memorie della loro presenza. La Chiesa Cattolica, che è arricchita dalle loro antichissime liturgie, dalla teologia e dalla spiritualità dei Padri, monaci e teologi, vuole esprimere simbolicamente l’accoglienza loro e dei loro fratelli e sorelle ortodossi, in un’epoca in cui già vivono il pellegrinaggio della Via Crucis, con cui sono spesso costretti a lasciare le loro terre d’origine, le loro terre sante, da cui li scacciano verso Paesi più sicuri la violenza e l’instabilità. Per loro la speranza di essere amati dalla Chiesa, che non li abbandonerà, ma li seguirà dovunque andranno, rende ancora più forte il segno del Giubileo.
6. L’Anno Santo 2025 si pone in continuità con i precedenti eventi di grazia. Nell’ultimo Giubileo Ordinario si è varcata la soglia dei duemila anni della nascita di Gesù Cristo. In seguito, il 13 marzo 2015, ho indetto un Giubileo Straordinario con lo scopo di manifestare e permettere di incontrare il “Volto della misericordia” di Dio,[3] annuncio centrale del Vangelo per ogni persona in ogni epoca. Ora è giunto il tempo di un nuovo Giubileo, nel quale spalancare ancora la Porta Santa per offrire l’esperienza viva dell’amore di Dio, che suscita nel cuore la speranza certa della salvezza in Cristo. Nello stesso tempo, questo Anno Santo orienterà il cammino verso un’altra ricorrenza fondamentale per tutti i cristiani: nel 2033, infatti, si celebreranno i duemila anni della Redenzione compiuta attraverso la passione, morte e risurrezione del Signore Gesù. Siamo così dinanzi a un percorso segnato da grandi tappe, nelle quali la grazia di Dio precede e accompagna il popolo che cammina zelante nella fede, operoso nella carità e perseverante nella speranza (cfr. 1Ts 1,3). Sostenuto da una così lunga tradizione e nella certezza che questo Anno giubilare potrà essere per tutta la Chiesa un’intensa esperienza di grazia e di speranza, stabilisco che la Porta Santa della Basilica di San Pietro in Vaticano sia aperta il 24 dicembre del presente anno 2024, dando così inizio al Giubileo Ordinario. La domenica successiva, 29 dicembre 2024, aprirò la Porta Santa della mia cattedrale di San Giovanni in Laterano, che il 9 novembre di quest’anno celebrerà i 1700 anni della dedicazione. A seguire, il 1° gennaio 2025, Solennità di Maria Santissima Madre di Dio, verrà aperta la Porta Santa della Basilica papale di Santa Maria Maggiore. Infine, domenica 5 gennaio sarà aperta la Porta Santa della Basilica papale di San Paolo fuori le Mura. Queste ultime tre Porte Sante saranno chiuse entro domenica 28 dicembre dello stesso anno. Stabilisco inoltre che domenica 29 dicembre 2024, in tutte le cattedrali e concattedrali, i Vescovi diocesani celebrino la santa Eucaristia come solenne apertura dell’Anno giubilare, secondo il Rituale che verrà predisposto per l’occasione. Per la celebrazione nella chiesa concattedrale, il Vescovo potrà essere sostituito da un suo Delegato appositamente designato. Il pellegrinaggio da una chiesa, scelta per la collectio, verso la cattedrale sia il segno del cammino di speranza che, illuminato dalla Parola di Dio, accomuna i credenti. In esso si dia lettura di alcuni brani del presente Documento e si annunci al popolo l’Indulgenza Giubilare, che potrà essere ottenuta secondo le prescrizioni contenute nel medesimo Rituale per la celebrazione del Giubileo nelle Chiese particolari. Durante l’Anno Santo, che nelle Chiese particolari terminerà domenica 28 dicembre 2025, si abbia cura che il Popolo di Dio possa accogliere con piena partecipazione sia l’annuncio di speranza della grazia di Dio sia i segni che ne attestano l’efficacia. Il Giubileo Ordinario terminerà con la chiusura della Porta Santa della Basilica papale di San Pietro in Vaticano il 6 gennaio 2026, Epifania del Signore. Possa la luce della speranza cristiana raggiungere ogni persona, come messaggio dell’amore di Dio rivolto a tutti! E possa la Chiesa essere testimone fedele di questo annuncio in ogni parte del mondo!
Segni di speranza
7. Oltre ad attingere la speranza nella grazia di Dio, siamo chiamati a riscoprirla anche nei segni dei tempi che il Signore ci offre. Come afferma il Concilio Vaticano II, «è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche».[4] È necessario, quindi, porre attenzione al tanto bene che è presente nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza. Ma i segni dei tempi, che racchiudono l’anelito del cuore umano, bisognoso della presenza salvifica di Dio, chiedono di essere trasformati in segni di speranza.
8. Il primo segno di speranza si traduca in pace per il mondo, che ancora una volta si trova immerso nella tragedia della guerra. Immemore dei drammi del passato, l’umanità è sottoposta a una nuova e difficile prova che vede tante popolazioni oppresse dalla brutalità della violenza. Cosa manca ancora a questi popoli che già non abbiano subito? Com’è possibile che il loro grido disperato di aiuto non spinga i responsabili delle Nazioni a voler porre fine ai troppi conflitti regionali, consapevoli delle conseguenze che ne possono derivare a livello mondiale? È troppo sognare che le armi tacciano e smettano di portare distruzione e morte? Il Giubileo ricordi che quanti si fanno «operatori di pace saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). L’esigenza della pace interpella tutti e impone di perseguire progetti concreti. Non venga a mancare l’impegno della diplomazia per costruire con coraggio e creatività spazi di trattativa finalizzati a una pace duratura.
9. Guardare al futuro con speranza equivale anche ad avere una visione della vita carica di entusiasmo da trasmettere. Purtroppo, dobbiamo constatare con tristezza che in tante situazioni tale prospettiva viene a mancare. La prima conseguenza è la perdita del desiderio di trasmettere la vita. A causa dei ritmi di vita frenetici, dei timori riguardo al futuro, della mancanza di garanzie lavorative e tutele sociali adeguate, di modelli sociali in cui a dettare l’agenda è la ricerca del profitto anziché la cura delle relazioni, si assiste in vari Paesi a un preoccupante calo della natalità. Al contrario, in altri contesti, «incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni, è un modo per non affrontare i problemi».[5] L’apertura alla vita con una maternità e paternità responsabile è il progetto che il Creatore ha inscritto nel cuore e nel corpo degli uomini e delle donne, una missione che il Signore affida agli sposi e al loro amore. È urgente che, oltre all’impegno legislativo degli Stati, non venga a mancare il sostegno convinto delle comunità credenti e dell’intera comunità civile in tutte le sue componenti, perché il desiderio dei giovani di generare nuovi figli e figlie, come frutto della fecondità del loro amore, dà futuro ad ogni società ed è questione di speranza: dipende dalla speranza e genera speranza. La comunità cristiana perciò non può essere seconda a nessuno nel sostenere la necessità di un’alleanza sociale per la speranza, che sia inclusiva e non ideologica, e lavori per un avvenire segnato dal sorriso di tanti bambini e bambine che vengano a riempire le ormai troppe culle vuote in molte parti del mondo. Ma tutti, in realtà, hanno bisogno di recuperare la gioia di vivere, perché l’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen 1,26), non può accontentarsi di sopravvivere o vivacchiare, di adeguarsi al presente lasciandosi soddisfare da realtà soltanto materiali. Ciò rinchiude nell’individualismo e corrode la speranza, generando una tristezza che si annida nel cuore, rendendo acidi e insofferenti.
10. Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi. È un richiamo antico, che proviene dalla Parola di Dio e permane con tutto il suo valore sapienziale nell’invocare atti di clemenza e di liberazione che permettano di ricominciare: «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti» (Lv 25,10). Quanto stabilito dalla Legge mosaica è ripreso dal profeta Isaia: «Il Signore mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore» (Is 61,1-2). Sono le parole che Gesù ha fatto proprie all’inizio del suo ministero, dichiarando in sé stesso il compimento dell’“anno di grazia del Signore” (cfr. Lc 4,18-19). In ogni angolo della terra, i credenti, specialmente i Pastori, si facciano interpreti di tali istanze, formando una voce sola che chieda con coraggio condizioni dignitose per chi è recluso, rispetto dei diritti umani e soprattutto l’abolizione della pena di morte, provvedimento contrario alla fede cristiana e che annienta ogni speranza di perdono e di rinnovamento.[6] Per offrire ai detenuti un segno concreto di vicinanza, io stesso desidero aprire una Porta Santa in un carcere, perché sia per loro un simbolo che invita a guardare all’avvenire con speranza e con rinnovato impegno di vita.
11. Segni di speranza andranno offerti agli ammalati, che si trovano a casa o in ospedale. Le loro sofferenze possano trovare sollievo nella vicinanza di persone che li visitano e nell’affetto che ricevono. Le opere di misericordia sono anche opere di speranza, che risvegliano nei cuori sentimenti di gratitudine. E la gratitudine raggiunga tutti gli operatori sanitari che, in condizioni non di rado difficili, esercitano la loro missione con cura premurosa per le persone malate e più fragili. Non manchi l’attenzione inclusiva verso quanti, trovandosi in condizioni di vita particolarmente faticose, sperimentano la propria debolezza, specialmente se affetti da patologie o disabilità che limitano molto l’autonomia personale. La cura per loro è un inno alla dignità umana, un canto di speranza che richiede la coralità della società intera.
12. Di segni di speranza hanno bisogno anche coloro che in sé stessi la rappresentano: i giovani. Essi, purtroppo, vedono spesso crollare i loro sogni. Non possiamo deluderli: sul loro entusiasmo si fonda l’avvenire. È bello vederli sprigionare energie, ad esempio quando si rimboccano le maniche e si impegnano volontariamente nelle situazioni di calamità e di disagio sociale. Ma è triste vedere giovani privi di speranza; d’altronde, quando il futuro è incerto e impermeabile ai sogni, quando lo studio non offre sbocchi e la mancanza di un lavoro o di un’occupazione sufficientemente stabile rischiano di azzerare i desideri, è inevitabile che il presente sia vissuto nella malinconia e nella noia. L’illusione delle droghe, il rischio della trasgressione e la ricerca dell’effimero creano in loro più che in altri confusione e nascondono la bellezza e il senso della vita, facendoli scivolare in baratri oscuri e spingendoli a compiere gesti autodistruttivi. Per questo il Giubileo sia nella Chiesa occasione di slancio nei loro confronti: con una rinnovata passione prendiamoci cura dei ragazzi, degli studenti, dei fidanzati, delle giovani generazioni! Vicinanza ai giovani, gioia e speranza della Chiesa e del mondo!
13. Non potranno mancare segni di speranza nei riguardi dei migranti, che abbandonano la loro terra alla ricerca di una vita migliore per sé stessi e per le loro famiglie. Le loro attese non siano vanificate da pregiudizi e chiusure; l’accoglienza, che spalanca le braccia ad ognuno secondo la sua dignità, si accompagni con la responsabilità, affinché a nessuno sia negato il diritto di costruire un futuro migliore. Ai tanti esuli, profughi e rifugiati, che le controverse vicende internazionali obbligano a fuggire per evitare guerre, violenze e discriminazioni, siano garantiti la sicurezza e l’accesso al lavoro e all’istruzione, strumenti necessari per il loro inserimento nel nuovo contesto sociale. La comunità cristiana sia sempre pronta a difendere il diritto dei più deboli. Spalanchi con generosità le porte dell’accoglienza, perché a nessuno venga mai a mancare la speranza di una vita migliore. Risuoni nei cuori la Parola del Signore che, nella grande parabola del giudizio finale, ha detto: «Ero straniero e mi avete accolto», perché «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me» (Mt 25,35.40).
14. Segni di speranza meritano gli anziani, che spesso sperimentano solitudine e senso di abbandono. Valorizzare il tesoro che sono, la loro esperienza di vita, la sapienza di cui sono portatori e il contributo che sono in grado di offrire, è un impegno per la comunità cristiana e per la società civile, chiamate a lavorare insieme per l’alleanza tra le generazioni. Un pensiero particolare rivolgo ai nonni e alle nonne, che rappresentano la trasmissione della fede e della saggezza di vita alle generazioni più giovani. Siano sostenuti dalla gratitudine dei figli e dall’amore dei nipoti, che trovano in loro radicamento, comprensione e incoraggiamento.
15. Speranza invoco in modo accorato per i miliardi di poveri, che spesso mancano del necessario per vivere. Di fronte al susseguirsi di sempre nuove ondate di impoverimento, c’è il rischio di abituarsi e rassegnarsi. Ma non possiamo distogliere lo sguardo da situazioni tanto drammatiche, che si riscontrano ormai ovunque, non soltanto in determinate aree del mondo. Incontriamo persone povere o impoverite ogni giorno e a volte possono essere nostre vicine di casa. Spesso non hanno un’abitazione, né il cibo adeguato per la giornata. Soffrono l’esclusione e l’indifferenza di tanti. È scandaloso che, in un mondo dotato di enormi risorse, destinate in larga parte agli armamenti, i poveri siano «la maggior parte […], miliardi di persone. Oggi sono menzionati nei dibattiti politici ed economici internazionali, ma per lo più sembra che i loro problemi si pongano come un’appendice, come una questione che si aggiunga quasi per obbligo o in maniera periferica, se non li si considera un mero danno collaterale. Di fatto, al momento dell’attuazione concreta, rimangono frequentemente all’ultimo posto».[7] Non dimentichiamo: i poveri, quasi sempre, sono vittime, non colpevoli.
Appelli per la speranza
16. Facendo eco alla parola antica dei profeti, il Giubileo ricorda che i beni della Terra non sono destinati a pochi privilegiati, ma a tutti. È necessario che quanti possiedono ricchezze si facciano generosi, riconoscendo il volto dei fratelli nel bisogno. Penso in particolare a coloro che mancano di acqua e di cibo: la fame è una piaga scandalosa nel corpo della nostra umanità e invita tutti a un sussulto di coscienza. Rinnovo l’appello affinché «con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa».[8] Un altro invito accorato desidero rivolgere in vista dell’Anno giubilare: è destinato alle Nazioni più benestanti, perché riconoscano la gravità di tante decisioni prese e stabiliscano di condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Prima che di magnanimità, è una questione di giustizia, aggravata oggi da una nuova forma di iniquità di cui ci siamo resi consapevoli: «C’è infatti un vero “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud, connesso a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ecologico, come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto storicamente da alcuni Paesi».[9] Come insegna la Sacra Scrittura, la terra appartiene a Dio e noi tutti vi abitiamo come «forestieri e ospiti» (Lv 25,23). Se veramente vogliamo preparare nel mondo la via della pace, impegniamoci a rimediare alle cause remote delle ingiustizie, ripianiamo i debiti iniqui e insolvibili, saziamo gli affamati.
17. Durante il prossimo Giubileo cadrà una ricorrenza molto significativa per tutti i cristiani. Si compiranno, infatti, 1700 anni dalla celebrazione del primo grande Concilio Ecumenico, quello di Nicea. È bene ricordare che, fin dai tempi apostolici, i Pastori si riunirono in diverse occasioni in assemblee allo scopo di trattare tematiche dottrinali e questioni disciplinari. Nei primi secoli della fede i Sinodi si moltiplicarono sia nell’Oriente sia nell’Occidente cristiano, mostrando quanto fosse importante custodire l’unità del Popolo di Dio e l’annuncio fedele del Vangelo. L’Anno giubilare potrà essere un’opportunità importante per dare concretezza a questa forma sinodale, che la comunità cristiana avverte oggi come espressione sempre più necessaria per meglio corrispondere all’urgenza dell’evangelizzazione: tutti i battezzati, ognuno con il proprio carisma e ministero, corresponsabili affinché molteplici segni di speranza testimonino la presenza di Dio nel mondo. Il Concilio di Nicea ebbe il compito di preservare l’unità, seriamente minacciata dalla negazione della divinità di Gesù Cristo e della sua uguaglianza con il Padre. Erano presenti circa trecento Vescovi, che si riunirono nel palazzo imperiale convocati su impulso dell’imperatore Costantino il 20 maggio 325. Dopo vari dibattimenti, tutti, con la grazia dello Spirito, si riconobbero nel Simbolo di fede che ancora oggi professiamo nella Celebrazione eucaristica domenicale. I Padri conciliari vollero iniziare quel Simbolo utilizzando per la prima volta l’espressione «Noi crediamo»,[10] a testimonianza che in quel “Noi” tutte le Chiese si ritrovavano in comunione, e tutti i cristiani professavano la medesima fede. Il Concilio di Nicea è una pietra miliare nella storia della Chiesa. L’anniversario della sua ricorrenza invita i cristiani a unirsi nella lode e nel ringraziamento alla Santissima Trinità e in particolare a Gesù Cristo, il Figlio di Dio, «della stessa sostanza del Padre»,[11] che ci ha rivelato tale mistero di amore. Ma Nicea rappresenta anche un invito a tutte le Chiese e Comunità ecclesiali a procedere nel cammino verso l’unità visibile, a non stancarsi di cercare forme adeguate per corrispondere pienamente alla preghiera di Gesù: «Perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). Al Concilio di Nicea si trattò anche della datazione della Pasqua. A tale riguardo, vi sono ancora oggi posizioni differenti, che impediscono di celebrare nello stesso giorno l’evento fondante della fede. Per una provvidenziale circostanza, ciò avverrà proprio nell’Anno 2025. Possa essere questo un appello per tutti i cristiani d’Oriente e d’Occidente a compiere un passo deciso verso l’unità intorno a una data comune per la Pasqua. Molti, è bene ricordarlo, non hanno più cognizione delle diatribe del passato e non comprendono come possano sussistere divisioni a tale proposito.
Ancorati alla speranza
18. La speranza, insieme alla fede e alla carità, forma il trittico delle “virtù teologali”, che esprimono l’essenza della vita cristiana (cfr. 1Cor 13,13; 1Ts 1,3). Nel loro dinamismo inscindibile, la speranza è quella che, per così dire, imprime l’orientamento, indica la direzione e la finalità dell’esistenza credente. Perciò l’apostolo Paolo invita ad essere «lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera» (Rm 12,12). Sì, abbiamo bisogno di «abbondare nella speranza» (cfr. Rm 15,13) per testimoniare in modo credibile e attraente la fede e l’amore che portiamo nel cuore; perché la fede sia gioiosa, la carità entusiasta; perché ognuno sia in grado di donare anche solo un sorriso, un gesto di amicizia, uno sguardo fraterno, un ascolto sincero, un servizio gratuito, sapendo che, nello Spirito di Gesù, ciò può diventare per chi lo riceve un seme fecondo di speranza. Ma qual è il fondamento del nostro sperare? Per comprenderlo è bene soffermarci sulle ragioni della nostra speranza (cfr. 1Pt 3,15).
19. «Credo la vita eterna»:[12] così professa la nostra fede e la speranza cristiana trova in queste parole un cardine fondamentale. Essa, infatti, «è la virtù teologale per la quale desideriamo […] la vita eterna come nostra felicità».[13] Il Concilio Ecumenico Vaticano II afferma: «Se manca la base religiosa e la speranza della vita eterna, la dignità umana viene lesa in maniera assai grave, come si constata spesso al giorno d’oggi, e gli enigmi della vita e della morte, della colpa e del dolore rimangono senza soluzione, tanto che non di rado gli uomini sprofondano nella disperazione».[14] Noi, invece, in virtù della speranza nella quale siamo stati salvati, guardando al tempo che scorre, abbiamo la certezza che la storia dell’umanità e quella di ciascuno di noi non corrono verso un punto cieco o un baratro oscuro, ma sono orientate all’incontro con il Signore della gloria. Viviamo dunque nell’attesa del suo ritorno e nella speranza di vivere per sempre in Lui: è con questo spirito che facciamo nostra la commossa invocazione dei primi cristiani, con la quale termina la Sacra Scrittura: «Vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,20).
20. Gesù morto e risorto è il cuore della nostra fede. San Paolo, nell’enunciare in poche parole, utilizzando solo quattro verbi, tale contenuto, ci trasmette il “nucleo” della nostra speranza: «A voi […] ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,3-5). Cristo morì, fu sepolto, è risorto, apparve. Per noi è passato attraverso il dramma della morte. L’amore del Padre lo ha risuscitato nella forza dello Spirito, facendo della sua umanità la primizia dell’eternità per la nostra salvezza. La speranza cristiana consiste proprio in questo: davanti alla morte, dove tutto sembra finire, si riceve la certezza che, grazie a Cristo, alla sua grazia che ci è stata comunicata nel Battesimo, «la vita non è tolta, ma trasformata»,[15] per sempre. Nel Battesimo, infatti, sepolti insieme con Cristo, riceviamo in Lui risorto il dono di una vita nuova, che abbatte il muro della morte, facendo di essa un passaggio verso l’eternità. E se di fronte alla morte, dolorosa separazione che costringe a lasciare gli affetti più cari, non è consentita alcuna retorica, il Giubileo ci offrirà l’opportunità di riscoprire, con immensa gratitudine, il dono di quella vita nuova ricevuta nel Battesimo in grado di trasfigurarne il dramma. È significativo ripensare, nel contesto giubilare, a come tale mistero sia stato compreso fin dai primi secoli della fede. Per lungo tempo, ad esempio, i cristiani hanno costruito la vasca battesimale a forma ottagonale, e ancora oggi possiamo ammirare molti battisteri antichi che conservano tale forma, come a Roma presso San Giovanni in Laterano. Essa indica che nel fonte battesimale viene inaugurato l’ottavo giorno, cioè quello della risurrezione, il giorno che va oltre il ritmo abituale, segnato dalla scadenza settimanale, aprendo così il ciclo del tempo alla dimensione dell’eternità, alla vita che dura per sempre: questo è il traguardo a cui tendiamo nel nostro pellegrinaggio terreno (cfr. Rm 6,22). La testimonianza più convincente di tale speranza ci viene offerta dai martiri, che, saldi nella fede in Cristo risorto, hanno saputo rinunciare alla vita stessa di quaggiù pur di non tradire il loro Signore. Essi sono presenti in tutte le epoche e sono numerosi, forse più che mai, ai nostri giorni, quali confessori della vita che non conosce fine. Abbiamo bisogno di custodire la loro testimonianza per rendere feconda la nostra speranza. Questi martiri, appartenenti alle diverse tradizioni cristiane, sono anche semi di unità perché esprimono l’ecumenismo del sangue. Durante il Giubileo pertanto è mio vivo desiderio che non manchi una celebrazione ecumenica in modo da rendere evidente la ricchezza della testimonianza di questi martiri.
21. Cosa sarà dunque di noi dopo la morte? Con Gesù al di là di questa soglia c’è la vita eterna, che consiste nella comunione piena con Dio, nella contemplazione e partecipazione del suo amore infinito. Quanto adesso viviamo nella speranza, allora lo vedremo nella realtà. Sant’Agostino in proposito scriveva: «Quando mi sarò unito a te con tutto me stesso, non esisterà per me dolore e pena dovunque. Sarà vera vita la mia vita, tutta piena di te».[16] Cosa caratterizzerà dunque tale pienezza di comunione? L’essere felici. La felicità è la vocazione dell’essere umano, un traguardo che riguarda tutti. Ma che cos’è la felicità? Quale felicità attendiamo e desideriamo? Non un’allegria passeggera, una soddisfazione effimera che, una volta raggiunta, chiede ancora e sempre di più, in una spirale di avidità in cui l’animo umano non è mai sazio, ma sempre più vuoto. Abbiamo bisogno di una felicità che si compia definitivamente in quello che ci realizza, ovvero nell’amore, così da poter dire, già ora: «Sono amato, dunque esisto; ed esisterò per sempre nell’Amore che non delude e dal quale niente e nessuno potrà mai separarmi». Ricordiamo ancora le parole dell’Apostolo: «Io sono […] persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39).
22. Un’altra realtà connessa con la vita eterna è il giudizio di Dio, sia al termine della nostra esistenza che alla fine dei tempi. L’arte ha spesso cercato di rappresentarlo – pensiamo al capolavoro di Michelangelo nella Cappella Sistina – accogliendo la concezione teologica del tempo e trasmettendo in chi osserva un senso di timore. Se è giusto disporci con grande consapevolezza e serietà al momento che ricapitola l’esistenza, al tempo stesso è necessario farlo sempre nella dimensione della speranza, virtù teologale che sostiene la vita e permette di non cadere nella paura. Il giudizio di Dio, che è amore (cfr. 1Gv 4,8.16), non potrà che basarsi sull’amore, in special modo su quanto lo avremo o meno praticato nei riguardi dei più bisognosi, nei quali Cristo, il Giudice stesso, è presente (cfr. Mt 25,31-46). Si tratta pertanto di un giudizio diverso da quello degli uomini e dei tribunali terreni; va compreso come una relazione di verità con Dio-amore e con sé stessi all’interno del mistero insondabile della misericordia divina. La Sacra Scrittura afferma in proposito: «Hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento […] e ci aspettiamo misericordia, quando siamo giudicati» (Sap 12,19.22). Come scriveva Benedetto XVI, «nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo e in noi. Il dolore dell’amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia».[17] Il giudizio, quindi, riguarda la salvezza nella quale speriamo e che Gesù ci ha ottenuto con la sua morte e risurrezione. Esso, pertanto, è volto ad aprire all’incontro definitivo con Lui. E poiché in tale contesto non si può pensare che il male compiuto rimanga nascosto, esso ha bisogno di venire purificato, per consentirci il passaggio definitivo nell’amore di Dio. Si comprende in tal senso la necessità di pregare per quanti hanno concluso il cammino terreno, solidarietà nell’intercessione orante che rinviene la propria efficacia nella comunione dei santi, nel comune vincolo che ci unisce in Cristo, primogenito della creazione. Così l’indulgenza giubilare, in forza della preghiera, è destinata in modo particolare a quanti ci hanno preceduto, perché ottengano piena misericordia.
23. L’indulgenza, infatti, permette di scoprire quanto sia illimitata la misericordia di Dio. Non è un caso che nell’antichità il termine “misericordia” fosse interscambiabile con quello di “indulgenza”, proprio perché esso intende esprimere la pienezza del perdono di Dio che non conosce confini. Il Sacramento della Penitenza ci assicura che Dio cancella i nostri peccati. Ritornano con la loro carica di consolazione le parole del Salmo: «Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia. […] Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. […] Non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono; quanto dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe» (Sal 103,3-4.8.10-12). La Riconciliazione sacramentale non è solo una bella opportunità spirituale, ma rappresenta un passo decisivo, essenziale e irrinunciabile per il cammino di fede di ciascuno. Lì permettiamo al Signore di distruggere i nostri peccati, di risanarci il cuore, di rialzarci e di abbracciarci, di farci conoscere il suo volto tenero e compassionevole. Non c’è infatti modo migliore per conoscere Dio che lasciarsi riconciliare da Lui (cfr. 2Cor 5,20), assaporando il suo perdono. Non rinunciamo dunque alla Confessione, ma riscopriamo la bellezza del sacramento della guarigione e della gioia, la bellezza del perdono dei peccati! Tuttavia, come sappiamo per esperienza personale, il peccato “lascia il segno”, porta con sé delle conseguenze: non solo esteriori, in quanto conseguenze del male commesso, ma anche interiori, in quanto «ogni peccato, anche veniale, provoca un attaccamento malsano alle creature, che ha bisogno di purificazione, sia quaggiù, sia dopo la morte, nello stato chiamato purgatorio».[18] Dunque permangono, nella nostra umanità debole e attratta dal male, dei “residui del peccato”. Essi vengono rimossi dall’indulgenza, sempre per la grazia di Cristo, il quale, come scrisse San Paolo VI, è «la nostra “indulgenza”».[19] La Penitenzieria Apostolica provvederà ad emanare le disposizioni per poter ottenere e rendere effettiva la pratica dell’Indulgenza Giubilare. Tale esperienza piena di perdono non può che aprire il cuore e la mente a perdonare. Perdonare non cambia il passato, non può modificare ciò che è già avvenuto; e, tuttavia, il perdono può permettere di cambiare il futuro e di vivere in modo diverso, senza rancore, livore e vendetta. Il futuro rischiarato dal perdono consente di leggere il passato con occhi diversi, più sereni, seppure ancora solcati da lacrime. Nello scorso Giubileo Straordinario ho istituito i Missionari della Misericordia, che continuano a svolgere un’importante missione. Possano anche durante il prossimo Giubileo esercitare il loro ministero, restituendo speranza e perdonando ogni volta che un peccatore si rivolge a loro con cuore aperto e animo pentito. Continuino ad essere strumenti di riconciliazione e aiutino a guardare l’avvenire con la speranza del cuore che proviene dalla misericordia del Padre. Auspico che i Vescovi possano avvalersi del loro prezioso servizio, specialmente inviandoli laddove la speranza è messa a dura prova, come nelle carceri, negli ospedali e nei luoghi in cui la dignità della persona viene calpestata, nelle situazioni più disagiate e nei contesti di maggior degrado, perché nessuno sia privo della possibilità di ricevere il perdono e la consolazione di Dio.
24. La speranza trova nella Madre di Dio la più alta testimone. In lei vediamo come la speranza non sia fatuo ottimismo, ma dono di grazia nel realismo della vita. Come ogni mamma, tutte le volte che guardava al Figlio pensava al suo futuro, e certamente nel cuore restavano scolpite quelle parole che Simeone le aveva rivolto nel tempio: «Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,34-35). E ai piedi della croce, mentre vedeva Gesù innocente soffrire e morire, pur attraversata da un dolore straziante, ripeteva il suo “sì”, senza perdere la speranza e la fiducia nel Signore. In tal modo ella cooperava per noi al compimento di quanto suo Figlio aveva detto, annunciando che avrebbe dovuto «soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (Mc 8,31), e nel travaglio di quel dolore offerto per amore diventava Madre nostra, Madre della speranza. Non è un caso che la pietà popolare continui a invocare la Vergine Santa come Stella maris, un titolo espressivo della speranza certa che nelle burrascose vicende della vita la Madre di Dio viene in nostro aiuto, ci sorregge e ci invita ad avere fiducia e a continuare a sperare. In proposito, mi piace ricordare che il Santuario di Nostra Signora di Guadalupe, a Città del Messico, si sta preparando a celebrare, nel 2031, i 500 anni dalla prima apparizione della Vergine. Attraverso il giovane Juan Diego la Madre di Dio faceva giungere un rivoluzionario messaggio di speranza che anche oggi ripete a tutti i pellegrini e ai fedeli: «Non sto forse qui io, che sono tua madre?».[20] Un messaggio simile viene impresso nei cuori in tanti Santuari mariani sparsi nel mondo, mete di numerosi pellegrini, che affidano alla Madre di Dio preoccupazioni, dolori e attese. In questo Anno giubilare i Santuari siano luoghi santi di accoglienza e spazi privilegiati per generare speranza. Invito i pellegrini che verranno a Roma a fare una sosta di preghiera nei Santuari mariani della città per venerare la Vergine Maria e invocare la sua protezione. Sono fiducioso che tutti, specialmente quanti soffrono e sono tribolati, potranno sperimentare la vicinanza della più affettuosa delle mamme, che mai abbandona i suoi figli, lei che per il santo Popolo di Dio è «segno di sicura speranza e di consolazione».[21]
25. In cammino verso il Giubileo, ritorniamo alla Sacra Scrittura e sentiamo rivolte a noi queste parole: «Noi, che abbiamo cercato rifugio in lui, abbiamo un forte incoraggiamento ad afferrarci saldamente alla speranza che ci è proposta. In essa infatti abbiamo come un’àncora sicura e salda per la nostra vita: essa entra fino al di là del velo del santuario, dove Gesù è entrato come precursore per noi» (Eb 6,18-20). È un invito forte a non perdere mai la speranza che ci è stata donata, a tenerla stretta trovando rifugio in Dio. L’immagine dell’àncora è suggestiva per comprendere la stabilità e la sicurezza che, in mezzo alle acque agitate della vita, possediamo se ci affidiamo al Signore Gesù. Le tempeste non potranno mai avere la meglio, perché siamo ancorati alla speranza della grazia, capace di farci vivere in Cristo superando il peccato, la paura e la morte. Questa speranza, ben più grande delle soddisfazioni di ogni giorno e dei miglioramenti delle condizioni di vita, ci trasporta al di là delle prove e ci esorta a camminare senza perdere di vista la grandezza della meta alla quale siamo chiamati, il Cielo. Il prossimo Giubileo, dunque, sarà un Anno Santo caratterizzato dalla speranza che non tramonta, quella in Dio. Ci aiuti pure a ritrovare la fiducia necessaria, nella Chiesa come nella società, nelle relazioni interpersonali, nei rapporti internazionali, nella promozione della dignità di ogni persona e nel rispetto del creato. La testimonianza credente possa essere nel mondo lievito di genuina speranza, annuncio di cieli nuovi e terra nuova (cfr. 2Pt 3,13), dove abitare nella giustizia e nella concordia tra i popoli, protesi verso il compimento della promessa del Signore. Lasciamoci fin d’ora attrarre dalla speranza e permettiamo che attraverso di noi diventi contagiosa per quanti la desiderano. Possa la nostra vita dire loro: «Spera nel Signore, sii forte, si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore» (Sal 27,14). Possa la forza della speranza riempire il nostro presente, nell’attesa fiduciosa del ritorno del Signore Gesù Cristo, al quale va la lode e la gloria ora e per i secoli futuri.
Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 9 maggio, Solennità dell’Ascensione di Nostro Signore Gesù Cristo, dell’Anno 2024, dodicesimo di Pontificato. FRANCESCO
_______________________ [1] Agostino, Discorsi, 198 augm., 2. [2] Cfr. Fonti Francescane, n. 263,6.10. [3] Cfr. Francesco, Misericordiae Vultus, Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della misericordia, 11 aprile 2015, nn. 1-3. [4] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, 7 dicembre 1965, n. 4. [5] Francesco, Lettera Enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune, 24 maggio 2015, n. 50. [6] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2267. [7] Francesco, Laudato si’, cit., n. 49. [8] Francesco, Lettera Enciclica Fratelli tutti sulla fraternità e l’amicizia sociale, 3 ottobre 2020, n. 262. [9] Francesco, Laudato si’, cit., n. 51. [10] Simbolo niceno: H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, n. 125. [11] Ibid. [12] Simbolo degli Apostoli: H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, n. 30. [13] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1817. [14] Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, cit., n. 21. [15] Messale Romano, Prefazio dei defunti I. [16] Agostino, Confessioni, X, 28. [17] Benedetto XVI, Lettera Enciclica Spe salvi, 30 novembre 2007, n. 47. [18] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1472. [19] Paolo VI, Lettera Apostolica Apostolorum limina, 23 maggio 1974, II. [20] Nican Mopohua, n. 119. [21] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa, 21 novembre 1964, n. 68.
In occasione dell’Anno della Preghiera, il Dicastero per l’Evangelizzazione ha preparato una serie di strumenti e sussidi utili per accompagnare le comunità cristiane e i singoli credenti nel percorso di preparazione al Giubileo 2025. È disponibile il sussidio “Insegnaci a Pregare”, il cui titolo è tratto dal capitolo undicesimo del Vangelo di Luca (Lc 11,1). Il volumetto, ispirato dal magistero di Papa Francesco, vuole essere un invito a intensificare la preghiera come dialogo personale con Dio, per condurre a riflettere sulla propria fede, sull’impegno nel mondo di oggi, nei diversi ambiti in cui si è chiamati a vivere. Si propone di offrire riflessioni, indicazioni e consigli per vivere più pienamente il dialogo con il Signore, nel rapporto con gli altri. Il sussidio si compone di sezioni dedicate alla preghiera nella comunità parrocchiale, in quella familiare, altre dedicate ai giovani, alle comunità claustrali, alla catechesi e ai ritiri spirituali.
Si è svolto a Poprad (Slovacchia) il XXI Forum europeo sull’educazione religiosa nelle scuole (EuFRES) sul tema Resilienza e speranza cristiana. L’educazione religiosa come fonte essenziale di ispirazione in tempi di crisi (3-7 aprile 2024). Hanno partecipato all’evento una quarantina di docenti universitari di pedagogia religiosa e catechetica provenienti da diverse nazioni europee. Il gruppo più nutrito è stato quello polacco; erano poi presenti rappresentanti dell’Austria, Croazia, Germania, Italia, Repubblica Ceca; Slovacchia; Slovenia; Spagna. Per l’Istituto di Catechetica era presente il prof. Ubaldo Montisci. Le giornate erano organizzate intorno a una conferenza mattutina con, a seguire, dei lavori per gruppi linguistici e, nel pomeriggio, la presentazione della situazione dell’insegnamento religioso nelle diverse nazioni e di buone pratiche per quanto riguarda la resilienza. Ampi spazi di dialogo informale, delle uscite in luoghi culturalmente e artisticamente significativi, hanno garantito un clima di fraternità che ha dato ulteriore qualità all’esperienza.
In estrema sintesi, dall’insieme dei lavori si può riassumere il compito dell’IRC intorno ai seguenti principi: controverso; critico; costruttivo; che prende posizione; partecipativo e pratico.
Per gentile concessione dell’EuFRES, possiamo offrire ai lettori di RPR il discorso introduttivo del Presidente EuFRES, Roman Buchta (file 0); la relazione di Zbigniew Formella (file 0); le diapositive della conferenza on line di Claudia Gärtner (file 0 formato PDF); gli interventi che presentano le situazioni dell’insegnamento religioso nelle varie nazioni (file 1-6) e le buone pratiche che riguardano la resilienza ma non solo (file (7-13). Chiude la rassegna un breve contributo con alcune indicazioni storiche sull’EuFRES (file 14).
Le relazioni sono state fatte nella lingua madre dei relatori. Qui presentiamo la versione italiana e inglese. I testi non sono stati rivisti e risentono dei limiti delle traduzioni digitali. Ci scusiamo per le eventuali imprecisioni.
per gli studenti di lingua inglese questo manuale recente (con un contributo su Religious Education), è disponibile gratuitamente(grazie al supporto della Chiesa Evangelica tedesca):
Siamo lieti di comunicare che tutti i mercoledì, a partire dal prossimo mercoledì 24 gennaio 2024, si terrà il Corso online, della durata di dieci incontri, riguardante l’affettività e la sessualità nella persone con disabilità dal titolo: “Anch’io so voler bene: affettività e sessualità nella persona con disabilità”. Soltanto per il primo incontro del 24 gennaio l’orario è dalle 20.15 alle 21.45. Gli incontri successivi invece si terranno tutti dalle ore 20.20 alle ore 21.30. In allegato desideriamo inviarvi la locandina.
L’iniziativa, organizzata da questo Servizio Nazionale per la pastorale delle persone con disabilità e dal Servizio Nazionale per la tutela dei minori della Conferenza Episcopale Italiana, è aperta ai referenti diocesani, genitori, caregiver e coloro che operano nelle strutture residenziali. Di assoluto rilievo è la caratura dei relatori.
Per poter partecipare è necessaria l’iscrizione, entro il 21 gennaio, da effettuare attraverso il Servizio per la pastorale delle persone con disabilità della propria diocesi di appartenenza o in alternativa, in mancanza di questo, attraverso il Servizio per la tutela dei minori sempre della propria diocesi di appartenenza, inviando pertanto una richiesta di iscrizione al corso ai relativi responsabili diocesani di uno dei due Servizi.
La Segreteria di questo Servizio Nazionale, comunque, è a vostra disposizione per ogni eventuale necessità ai seguenti recapiti:
«La dignità intrinseca di ogni persona e la fraternità che ci lega come membri dell’unica famiglia umana devono stare alla base dello sviluppo di nuove tecnologie e servire come criteri indiscutibili per valutarle prima del loro impiego, in modo che il progresso digitale possa avvenire nel rispetto della giustizia e contribuire alla causa della pace. Gli sviluppi tecnologici che non portano a un miglioramento della qualità di vita di tutta l’umanità, ma al contrario aggravano le disuguaglianze e i conflitti, non potranno mai essere considerati vero progresso». Il tema di fondo del messaggio di papa Francesco per la 57a Giornata mondiale della pace (1.1.2024), che è stato pubblicato il 14 dicembre, è quello dell’intelligenza artificiale, che secondo il pontefice fa parte dei «prodotti straordinari» del «potenziale creativo» dell’intelligenza umana, a patto però di essere al servizio della dignità intrinseca dell’uomo e della promozione della giustizia e della fraternità.
Il messaggio è intitolato Intelligenza artificiale e pace, e indica la «necessità di un dialogo interdisciplinare finalizzato a uno sviluppo etico degli algoritmi – l’algor-etica – in cui siano i valori a orientare i percorsi delle nuove tecnologie».
All’inizio del nuovo anno, tempo di grazia che il Signore dona a ciascuno di noi, vorrei rivolgermi al popolo di Dio, alle nazioni, ai capi di stato e di governo, ai rappresentanti delle diverse religioni e della società civile, a tutti gli uomini e le donne del nostro tempo per porgere i miei auguri di pace.
1. Il progresso della scienza e della tecnologia come via verso la pace
La sacra Scrittura attesta che Dio ha donato agli uomini il suo Spirito affinché abbiano «saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro» (Es 35,31). L’intelligenza è espressione della dignità donataci dal Creatore, che ci ha fatti a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26) e ci ha messo in grado di rispondere al suo amore attraverso la libertà e la conoscenza. La scienza e la tecnologia manifestano in modo particolare tale qualità fondamentalmente relazionale dell’intelligenza umana: sono prodotti straordinari del suo potenziale creativo.
Nella costituzione pastorale Gaudium et spes, il concilio Vaticano II ha ribadito questa verità, dichiarando che «col suo lavoro e col suo ingegno l’uomo ha cercato sempre di sviluppare la propria vita». Quando gli esseri umani, «con l’aiuto della tecnica», si sforzano affinché la terra «diventi una dimora degna di tutta la famiglia umana», agiscono secondo il disegno di Dio e cooperano con la sua volontà di portare a compimento la creazione e di diffondere la pace tra i popoli. Anche il progresso della scienza e della tecnica, nella misura in cui contribuisce a un migliore ordine della società umana, ad accrescere la libertà e la comunione fraterna, porta dunque al miglioramento dell’uomo e alla trasformazione del mondo.
Giustamente ci rallegriamo e siamo riconoscenti per le straordinarie conquiste della scienza e della tecnologia, grazie alle quali si è posto rimedio a innumerevoli mali che affliggevano la vita umana e causavano grandi sofferenze. Allo stesso tempo i progressi tecnico-scientifici, rendendo possibile l’esercizio di un controllo finora inedito sulla realtà, stanno mettendo nelle mani dell’uomo una vasta gamma di possibilità, alcune delle quali possono rappresentare un rischio per la sopravvivenza e un pericolo per la casa comune.
I notevoli progressi delle nuove tecnologie dell’informazione, specialmente nella sfera digitale, presentano dunque entusiasmanti opportunità e gravi rischi, con serie implicazioni per il perseguimento della giustizia e dell’armonia tra i popoli. È pertanto necessario porsi alcune domande urgenti. Quali saranno le conseguenze, a medio e a lungo termine, delle nuove tecnologie digitali? E quale impatto avranno sulla vita degli individui e della società, sulla stabilità internazionale e sulla pace?
2. Il futuro dell’intelligenza artificiale tra promesse e rischi
I progressi dell’informatica e lo sviluppo delle tecnologie digitali negli ultimi decenni hanno già iniziato a produrre profonde trasformazioni nella società globale e nelle sue dinamiche. I nuovi strumenti digitali stanno cambiando il volto delle comunicazioni, della pubblica amministrazione, dell’istruzione, dei consumi, delle interazioni personali e di innumerevoli altri aspetti della vita quotidiana.
Inoltre le tecnologie che impiegano una molteplicità di algoritmi possono estrarre, dalle tracce digitali lasciate su Internet, dati che consentono di controllare le abitudini mentali e relazionali delle persone a fini commerciali o politici, spesso a loro insaputa, limitandone il consapevole esercizio della libertà di scelta. Infatti in uno spazio come il web, caratterizzato da un sovraccarico di informazioni, possono strutturare il flusso di dati secondo criteri di selezione non sempre percepiti dall’utente.
Dobbiamo ricordare che la ricerca scientifica e le innovazioni tecnologiche non sono disincarnate dalla realtà e «neutrali», ma soggette alle influenze culturali. In quanto attività pienamente umane, le direzioni che prendono riflettono scelte condizionate dai valori personali, sociali e culturali di ogni epoca. Dicasi lo stesso per i risultati che conseguono: essi, proprio in quanto frutto di approcci specificamente umani al mondo circostante, hanno sempre una dimensione etica, strettamente legata alle decisioni di chi progetta la sperimentazione e indirizza la produzione verso particolari obiettivi.
Questo vale anche per le forme di intelligenza artificiale. Di essa, a oggi, non esiste una definizione univoca nel mondo della scienza e della tecnologia. Il termine stesso, ormai entrato nel linguaggio comune, abbraccia una varietà di scienze, teorie e tecniche volte a far sì che le macchine riproducano o imitino, nel loro funzionamento, le capacità cognitive degli esseri umani. Parlare al plurale di «forme di intelligenza» può aiutare a sottolineare soprattutto il divario incolmabile che esiste tra questi sistemi, per quanto sorprendenti e potenti, e la persona umana: essi sono, in ultima analisi, «frammentari», nel senso che possono solo imitare o riprodurre alcune funzioni dell’intelligenza umana. L’uso del plurale evidenzia inoltre che questi dispositivi, molto diversi tra loro, vanno sempre considerati come «sistemi socio-tecnici». Infatti il loro impatto, al di là della tecnologia di base, dipende non solo dalla progettazione, ma anche dagli obiettivi e dagli interessi di chi li possiede e di chi li sviluppa, nonché dalle situazioni in cui vengono impiegati.
L’intelligenza artificiale, quindi, deve essere intesa come una galassia di realtà diverse e non possiamo presumere a priori che il suo sviluppo apporti un contributo benefico al futuro dell’umanità e alla pace tra i popoli. Tale risultato positivo sarà possibile solo se ci dimostreremo capaci di agire in modo responsabile e di rispettare valori umani fondamentali come «l’inclusione, la trasparenza, la sicurezza, l’equità, la riservatezza e l’affidabilità».
Non è sufficiente nemmeno presumere, da parte di chi progetta algoritmi e tecnologie digitali, un impegno ad agire in modo etico e responsabile. Occorre rafforzare o, se necessario, istituire organismi incaricati di esaminare le questioni eti-che emergenti e di tutelare i diritti di quanti utilizzano forme di intelligenza artificiale o ne sono influenzati.
L’immensa espansione della tecnologia deve quindi essere accompagnata da un’adeguata formazione alla responsabilità per il suo sviluppo. La libertà e la convivenza pacifica sono minacciate quando gli esseri umani cedono alla tentazione dell’egoismo, dell’interesse personale, della brama di profitto e della sete di potere. Abbiamo perciò il dovere di allargare lo sguardo e di orientare la ricerca tecnico-scientifica al perseguimento della pace e del bene comune, al servizio dello sviluppo integrale dell’uomo e della comunità.
La dignità intrinseca di ogni persona e la fraternità che ci lega come membri dell’unica famiglia umana devono stare alla base dello sviluppo di nuove tecnologie e servire come criteri indiscutibili per valutarle prima del loro impiego, in modo che il progresso digitale possa avvenire nel rispetto della giustizia e contribuire alla causa della pace. Gli sviluppi tecnologici che non portano a un miglioramento della qualità di vita di tutta l’umanità, ma al contrario aggravano le disuguaglianze e i conflitti, non potranno mai essere considerati vero progresso.
L’intelligenza artificiale diventerà sempre più importante. Le sfide che pone sono tecniche, ma anche antropologiche, educative, sociali e politiche. Promette, ad esempio, un risparmio di fatiche, una produzione più efficiente, trasporti più agevoli e mercati più dinamici, oltre a una rivoluzione nei processi di raccolta, organizzazione e verifica dei dati. Occorre essere consapevoli delle rapide trasformazioni in atto e gestirle in modo da salvaguardare i diritti umani fondamentali, rispettando le istituzioni e le leggi che promuovono lo sviluppo umano integrale. L’intelligenza artificiale dovrebbe essere al servizio del migliore potenziale umano e delle nostre più alte aspirazioni, non in competizione con essi.
3. La tecnologia del futuro: macchine che imparano da sole
Nelle sue molteplici forme l’intelligenza artificiale, basata su tecniche di apprendimento automatico (machine learning), pur essendo ancora in fase pionieristica, sta già introducendo notevoli cambiamenti nel tessuto delle società, esercitando una profonda influenza sulle culture, sui comportamenti sociali e sulla costruzione della pace.
Sviluppi come il machine learning o come l’apprendimento profondo (deep learning) sollevano questioni che trascendono gli ambiti della tecnologia e dell’ingegneria e hanno a che fare con una comprensione strettamente connessa al significato della vita umana, ai processi basilari della conoscenza e alla capacità della mente di raggiungere la verità.
L’abilità di alcuni dispositivi nel produrre testi sintatticamente e semanticamente coerenti, ad esempio, non è garanzia di affidabilità. Si dice che possano «allucinare», cioè generare affermazioni che a prima vista sembrano plausibili, ma che in realtà sono infondate o tradiscono pregiudizi. Questo pone un serio problema quando l’intelligenza artificiale viene impiegata in campagne di disinformazione che diffondono notizie false e portano a una crescente sfiducia nei confronti dei mezzi di comunicazione. La riservatezza, il possesso dei dati e la proprietà intellettuale sono altri ambiti in cui le tecnologie in questione comportano gravi rischi, a cui si aggiungono ulteriori conseguenze negative legate a un loro uso improprio, come la discriminazione, l’interferenza nei processi elettorali, il prendere piede di una società che sorveglia e controlla le persone, l’esclusione digitale e l’inasprimento di un individualismo semri rischiano di alimentare i conflitti e di ostacolare la pace.
4. Il senso del limite nel paradigma tecnocratico
Il nostro mondo è troppo vasto, vario e complesso per essere completamente conosciuto e classificato. La mente umana non potrà mai esaurirne la ricchezza, nemmeno con l’aiuto degli algoritmi più avanzati. Questi, infatti, non offrono previsioni garantite del futuro, ma solo approssimazioni statistiche. Non tutto può essere pronosticato, non tutto può essere calcolato; alla fine «la realtà è superiore all’idea» e, per quanto prodigiosa possa essere la nostra capacità di calcolo, ci sarà sempre un residuo inaccessibile che sfugge a qualsiasi tentativo di misurazione.
Inoltre la grande quantità di dati analizzati dalle intelligenze artificiali non è di per sé garanzia di imparzialità. Quando gli algoritmi estrapolano informazioni, corrono sempre il rischio di distorcerle, replicando le ingiustizie e i pregiudizi degli ambienti in cui esse hanno origine. Più diventano veloci e complessi, più è difficile comprendere perché abbiano prodotto un determinato risultato.
Le macchine «intelligenti» possono svolgere i compiti loro assegnati con sempre maggiore efficienza, ma lo scopo e il significato delle loro operazioni continueranno a essere determinati o abilitati da esseri umani in possesso di un proprio universo di valori. Il rischio è che i criteri alla base di certe scelte diventino meno chiari, che la responsabilità decisionale venga nascosta e che i produttori possano sottrarsi all’obbligo di agire per il bene della comunità. In un certo senso ciò è favorito dal sistema tecnocratico, che allea l’economia con la tecnologia e privilegia il criterio dell’efficienza, tendendo a ignorare tutto ciò che non è legato ai suoi interessi immediati.
Questo deve farci riflettere su un aspetto tanto spesso trascurato nella mentalità attuale, tecnocratica ed efficientista, quanto decisivo per lo sviluppo personale e sociale: il «senso del limite». L’essere umano, infatti, mortale per definizione, pensando di travalicare ogni limite in virtù della tecnica, rischia, nell’ossessione di voler controllare tutto, di perdere il controllo su se stesso; nella ricerca di una libertà assoluta, di cadere nella spirale di una dittatura tecnologica. Riconoscere e accettare il proprio limite di creatura è per l’uomo condizione indispensabile per conseguire, o meglio, accogliere in dono la pienezza. Invece nel contesto ideologico di un paradigma tecnocratico, animato da una prometeica presunzione di autosufficienza, le disuguaglianze potrebbero crescere a dismisura, e la conoscenza e la ricchezza accumularsi nelle mani di pochi, con gravi rischi per le società democratiche e la coesistenza pacifica.
5. Temi scottanti per l’etica
In futuro l’affidabilità di chi richiede un mutuo, l’idoneità di un individuo a un lavoro, la possibilità di recidiva di un condannato o il diritto a ricevere asilo politico o assistenza sociale potrebbero essere determinati da sistemi di intelligenza artificiale. La mancanza di diversificati livelli di mediazione che questi sistemi introducono è particolarmente esposta a forme di pregiudizio e discriminazione: gli errori sistemici possono facilmente moltiplicarsi, producendo non solo ingiustizie in singoli casi ma anche, per effetto domino, vere e proprie forme di disuguaglianza sociale.
Talvolta, inoltre, le forme di intelligenza artificiale sembrano in grado di influenzare le decisioni degli individui attraverso opzioni predeterminate associate a stimoli e dissuasioni, oppure mediante sistemi di regolazione delle scelte personali basati sull’organizzazione delle informazioni. Queste forme di manipolazione o di controllo sociale richiedono un’attenzione e una supervisione accurate, e implicano una chiara responsabilità legale da parte dei produttori, di chi le impiega e delle autorità governative.
L’affidamento a processi automatici che categorizzano gli individui, ad esempio attraverso l’uso pervasivo della vigilanza o l’adozione di sistemi di credito sociale, potrebbe avere ripercussioni profonde anche sul tessuto civile, stabilendo improprie graduatorie tra i cittadini. E questi processi artificiali di classificazione potrebbero portare anche a conflitti di potere, non riguardando solo destinatari virtuali, ma persone in carne e ossa. Il rispetto fondamentale per la dignità umana postula di rifiutare che l’unicità della persona venga identificata con un insieme di dati. Non si deve permettere agli algoritmi di determinare il modo in cui intendiamo i diritti umani, di mettere da parte i valori essenziali della compassione, della misericordia e del perdono o di eliminare la possibilità che un individuo cambi e si lasci alle spalle il passato.
In questo contesto non possiamo fare a meno di considerare l’impatto delle nuove tecnologie in ambito lavorativo: mansioni che un tempo erano appannaggio esclusivo della manodopera umana vengono rapidamente assorbite dalle applicazioni industriali dell’intelligenza artificiale. Anche in questo caso c’è il rischio sostanziale di un vantaggio sproporzionato per pochi a scapito dell’impoverimento di molti. Il rispetto della dignità dei lavoratori e l’importanza dell’occupazione per il benessere economico delle persone, delle famiglie e delle società, la sicurezza degli impieghi e l’equità dei salari dovrebbero costituire un’alta priorità per la comunità internazionale, mentre queste forme di tecnologia penetrano sempre più profondamente nei luoghi di lavoro.
6. Trasformeremo le spade in vomeri?
In questi giorni, guardando il mondo che ci circonda, non si può sfuggire alle gravi questioni etiche legate al settore degli armamenti. La possibilità di condurre operazioni militari attraverso sistemi di controllo remoto ha portato a una minore percezione della devastazione da essi causata e della responsabilità del loro utilizzo, contribuendo a un approccio ancora più freddo e distaccato all’immensa tragedia della guerra. La ricerca sulle tecnologie emergenti nel settore dei cosiddetti «sistemi d’arma autonomi letali», incluso l’utilizzo bellico dell’intelligenza artificiale, è un grave motivo di preoccupazione etica. I sistemi d’arma autonomi non potranno mai essere soggetti moralmente responsabili: l’esclusiva capacità umana di giudizio morale e di decisione etica è più di un complesso insieme di algoritmi, e tale capacità non può essere ridotta alla programmazione di una macchina che, per quanto «intelligente», rimane pur sempre una macchina. Per questo motivo è imperativo garantire una supervisione umana adeguata, significativa e coerente dei sistemi d’arma.
Non possiamo nemmeno ignorare la possibilità che armi sofisticate finiscano nelle mani sbagliate, facilitando, ad esempio, attacchi terroristici o interventi volti a destabilizzare istituzioni di governo legittime. Il mondo, insomma, non ha proprio bisogno che le nuove tecnologie contribuiscano all’iniquo sviluppo del mercato e del commercio delle armi, promuovendo la follia della guerra. Così facendo non solo l’intelligenza, ma il cuore stesso dell’uomo correrà il rischio di diventare sempre più «artificiale». Le più avanzate applicazioni tecniche non vanno impiegate per agevolare la risoluzione violenta dei conflitti, ma per pavimentare le vie della pace.
In un’ottica più positiva, se l’intelligenza artificiale fosse utilizzata per promuovere lo sviluppo umano integrale, potrebbe introdurre importanti innovazioni nell’agricoltura, nell’istruzione e nella cultura, un miglioramento del livello di vita di intere nazioni e popoli, la crescita della fraternità umana e dell’amicizia sociale. In definitiva, il modo in cui la utilizziamo per includere gli ultimi, cioè i fratelli e le sorelle più deboli e bisognosi, è la misura rivelatrice della nostra umanità.
Uno sguardo umano e il desiderio di un futuro migliore per il nostro mondo portano alla necessità di un dialogo interdisciplinare finalizzato a uno sviluppo etico degli algoritmi – l’algor-etica –, in cui siano i valori a orientare i percorsi delle nuove tecnologie. Le questioni etiche dovrebbero essere tenute in considerazione fin dall’inizio della ricerca, così come nelle fasi di sperimentazione, progettazione, produzione, distribuzione e commercializzazione. Questo è l’approccio dell’etica della progettazione, in cui le istituzioni educative e i responsabili del processo decisionale hanno un ruolo essenziale da svolgere.
7. Sfide per l’educazione
Lo sviluppo di una tecnologia che rispetti e serva la dignità umana ha chiare implicazioni per le istituzioni educative e per il mondo della cultura. Moltiplicando le possibilità di comunicazione, le tecnologie digitali hanno permesso di incontrarsi in modi nuovi. Tuttavia rimane la necessità di una riflessione continua sul tipo di relazioni a cui ci stanno indirizzando. I giovani stanno crescendo in ambienti culturali pervasi dalla tecnologia e questo non può non mettere in discussione i metodi di insegnamento e formazione.
L’educazione all’uso di forme di intelligenza artificiale dovrebbe mirare soprattutto a promuovere il pensiero critico. È necessario che gli utenti di ogni età, ma soprattutto i giovani, sviluppino una capacità di discernimento nell’uso di dati e contenuti raccolti sul web o prodotti da sistemi di intelligenza artificiale. Le scuole, le università e le società scientifiche sono chiamate ad aiutare gli studenti e i professionisti a fare propri gli aspetti sociali ed etici dello sviluppo e dell’utilizzo della tecnologia.
La formazione all’uso dei nuovi strumenti di comunicazione dovrebbe tenere conto non solo della disinformazione, delle fake news, ma anche dell’inquietante recrudescenza di «paure ancestrali (…) che hanno saputo nascondersi e potenziarsi dietro nuove tecnologie». Purtroppo ancora una volta ci troviamo a dover combattere «la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare muri per impedire l’incontro con altre culture, con altra gente» e lo sviluppo di una coesistenza pacifica e fraterna.
8. Sfide per lo sviluppo del diritto internazionale
La portata globale dell’intelligenza artificiale rende evidente che, accanto alla responsabilità degli stati sovrani di disciplinarne l’uso al proprio interno, le organizzazioni internazionali possono svolgere un ruolo decisivo nel raggiungere accordi multilaterali e nel coordinarne l’applicazione e l’attuazione. A tale proposito esorto la comunità delle nazioni a lavorare unita al fine di adottare un trattato internazionale vincolante, che regoli lo sviluppo e l’uso dell’intelligenza artificiale nelle sue molteplici forme. L’obiettivo della regolamentazione, naturalmente, non dovrebbe essere solo la prevenzione delle cattive pratiche, ma anche l’incoraggiamento delle buone pratiche, stimolando approcci nuovi e creativi e facilitando iniziative personali e collettive.
In definitiva, nella ricerca di modelli normativi che possano fornire una guida etica agli sviluppatori di tecnologie digitali, è indispensabile identificare i valori umani che dovrebbero essere alla base dell’impegno delle società per formulare, adottare e applicare necessari quadri legislativi. Il lavoro di redazione di linee guida etiche per la produzione di forme di intelligenza artificiale non può prescindere dalla considerazione di questioni più profonde riguardanti il significato dell’esistenza umana, la tutela dei diritti umani fondamentali, il perseguimento della giustizia e della pace.
Questo processo di discernimento etico e giuridico può rivelarsi un’occasione preziosa per una riflessione condivisa sul ruolo che la tecnologia dovrebbe avere nella nostra vita individuale e comunitaria e su come il suo utilizzo possa contribuire alla creazione di un mondo più equo e umano. Per questo motivo, nei dibattiti sulla regolamentazione dell’intelligenza artificiale, si dovrebbe tenere conto della voce di tutte le parti interessate, compresi i poveri, gli emarginati e altri che spesso rimangono inascoltati nei processi decisionali globali.
Spero che questa riflessione incoraggi a far sì che i progressi nello sviluppo di forme di intelligenza artificiale servano, in ultima analisi, la causa della fraternità umana e della pace. Non è responsabilità di pochi, ma dell’intera famiglia umana. La pace, infatti, è il frutto di relazioni che riconoscono e accolgono l’altro nella sua inalienabile dignità, e di cooperazione e impegno nella ricerca dello sviluppo integrale di tutte le persone e di tutti i popoli.
La mia preghiera all’inizio del nuovo anno è che il rapido sviluppo di forme di intelligenza artificiale non accresca le troppe disuguaglianze e ingiustizie già presenti nel mondo, ma contribuisca a porre fine a guerre e conflitti, e ad alleviare molte forme di sofferenza che affliggono la famiglia umana. Possano i fedeli cristiani, i credenti di varie religioni e gli uomini e le donne di buona volontà collaborare in armonia per cogliere le opportunità e affrontare le sfide poste dalla rivoluzione digitale, e consegnare alle generazioni future un mondo più solidale, giusto e pacifico.
Pubblicata l’esortazione apostolica di Francesco che specifica e completa l’enciclica del 2015.
«“Lodate Dio” è il nome di questa lettera. Perché un essere umano che pretende di sostituirsi a Dio diventa il peggior pericolo per sé stesso». Con queste parole si conclude la nuova esortazione apostolica di Papa Francesco, pubblicata il 4 ottobre, festa del Santo di Assisi. Un testo in continuità con la più ampia enciclica Laudato si’ del 2015. In 6 capitoli e 73 paragrafi il Successore di Pietro intende specificare e completare quanto già affermato nel precedente testo sull’ecologia integrale, e al tempo stesso lanciare un allarme e una chiamata alla corresponsabilità di fronte all’emergenza del cambiamento climatico, prima che sia troppo tardi. L’esortazione guarda in particolare alla COP28 che si terrà a Dubai tra fine novembre e inizi di dicembre. Il Pontefice scrive: «Con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura» e «non c’è dubbio che l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie» (2). È una «delle principali sfide che la società e la comunità globale devono affrontare» e «gli effetti del cambiamento climatico sono subiti dalle persone più vulnerabili, sia in patria che nel mondo»
I segni del cambio climatico sempre più evidenti
Il primo capitolo è dedicato alla crisi climatica globale. «Per quanto si cerchi di negarli, nasconderli, dissimularli o relativizzarli, i segni del cambiamento climatico sono lì, sempre più evidenti» spiega il Papa. Che osserva come «negli ultimi anni abbiamo assistito a fenomeni estremi, frequenti periodi di caldo anomalo, siccità e altri lamenti della terra», una «malattia silenziosa che colpisce tutti noi». Inoltre Francesco afferma: «è verificabile che alcuni cambiamenti climatici indotti dall’uomo aumentano significativamente la probabilità di eventi estremi più frequenti e più intensi». Il Pontefice, dopo aver ricordato che se si superano i 2 gradi di aumento della temperatura «le calotte glaciali della Groenlandia e di gran parte dell’Antartide si scioglieranno completamente, con conseguenze enormi e molto gravi per tutti» (5), a proposito di chi minimizza il cambiamento climatico, risponde: «quello a cui stiamo assistendo ora è un’insolita accelerazione del riscaldamento, con una velocità tale che basta una sola generazione – non secoli o millenni – per accorgersene». «Probabilmente tra pochi anni molte popolazioni dovranno spostare le loro case a causa di questi eventi» (6). Anche i freddi estremi sono «espressioni alternative della stessa causa» (7).
La colpa non è dei poveri
«Nel tentativo di semplificare la realtà – scrive Francesco – non mancano coloro che incolpano i poveri di avere troppi figli e cercano di risolvere il problema mutilando le donne dei Paesi meno sviluppati. Come al solito, sembrerebbe che la colpa sia dei poveri. Ma la realtà è che una bassa percentuale più ricca della popolazione mondiale inquina di più rispetto al 50% di quella più povera e che le emissioni pro capite dei Paesi più ricchi sono di molto superiori a quelle dei più poveri. Come dimenticare che l’Africa, che ospita più della metà delle persone più povere del mondo, è responsabile solo di una minima parte delle emissioni storiche?» (9).
Il Papa mette a tema anche la posizione di chi dice che gli sforzi per mitigare il cambiamento climatico riducendo l’uso di combustibili fossili «porteranno a una riduzione dei posti di lavoro». Ciò che sta accadendo, in realtà «è che milioni di persone perdono il lavoro a causa delle varie conseguenze del cambiamento climatico: l’innalzamento del livello del mare, la siccità e molti altri fenomeni che colpiscono il pianeta hanno lasciato parecchia gente alla deriva». Mentre «la transizione verso forme di energia rinnovabile, ben gestita» è in grado «di generare innumerevoli posti di lavoro in diversi settori. Per questo è necessario che i politici e gli imprenditori se ne occupino subito» (10).
Indubitabile origine umana
«L’origine umana – “antropica” – del cambiamento climatico non può più essere messa in dubbio» afferma Francesco. «La concentrazione dei gas serra nell’atmosfera… è rimasta stabile fino al XIX secolo… Negli ultimi cinquant’anni l’aumento ha subito una forte accelerazione» (11). Allo stesso tempo la temperatura «è aumentata a una velocità inedita, senza precedenti negli ultimi duemila anni. In questo periodo la tendenza è stata di un riscaldamento di 0,15 gradi centigradi per decennio, il doppio rispetto agli ultimi 150 anni… A questo ritmo, solo tra dieci anni raggiungeremo il limite massimo globale auspicabile di 1,5 gradi centigradi» (12). Con conseguente acidificazione dei mari e scioglimento dei ghiacci. La coincidenza fra questi eventi e la crescita di emissioni di gas serra «non può essere nascosta. La stragrande maggioranza degli studiosi del clima sostiene questa correlazione e solo una minima percentuale di essi tenta di negare tale evidenza». Purtroppo, osserva amaramente il Pontefice, «la crisi climatica non è propriamente una questione che interessi alle grandi potenze economiche, che si preoccupano di ottenere il massimo profitto al minor costo e nel minor tempo possibili» (13).
Siamo appena in tempo per evitare danni più drammatici
«Sono costretto – continua Francesco – a fare queste precisazioni, che possono sembrare ovvie, a causa di certe opinioni sprezzanti e irragionevoli che trovo anche all’interno della Chiesa cattolica. Ma non possiamo più dubitare che la ragione dell’insolita velocità di così pericolosi cambiamenti sia un fatto innegabile: gli enormi sviluppi connessi allo sfrenato intervento umano sulla natura» (14). Purtroppo alcune manifestazioni di questa crisi climatica sono già irreversibili per almeno centinaia di anni, mentre «lo scioglimento dei poli non può essere invertito per centinaia o migliaia di anni» (16). Siamo dunque appena in tempo per evitare danni ancora più drammatici. Il Papa scrive che «alcune diagnosi apocalittiche sembrano spesso irragionevoli o non sufficientemente fondate», ma «non possiamo dire con certezza» ciò che accadrà (17). È quindi «urgente una visione più ampia… Non ci viene chiesto nulla di più che una certa responsabilità per l’eredità che lasceremo dietro di noi dopo il nostro passaggio in questo mondo» (18). Ricordando l’esperienza della pandemia di Covid-19 Francesco ripete «Tutto è collegato e nessuno si salva da solo» (19).
Il paradigma tecnocratico: l’idea di un essere umano senza limiti
Nel secondo capitolo Francesco parla del paradigma tecnocratico che «consiste nel pensare come se la realtà, il bene e la verità sbocciassero spontaneamente dal potere stesso della tecnologia e dell’economia» (20) e «si nutre mostruosamente di sé stesso» (21) basandosi sull’idea di un essere umano senza limiti. «Mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene, soprattutto se si considera il modo in cui se ne sta servendo… È terribilmente rischioso che esso risieda in una piccola parte dell’umanità» (23). Purtroppo, come insegna anche la bomba atomica, «l’immensa crescita tecnologica non è stata accompagnata da uno sviluppo dell’essere umano per quanto riguarda la responsabilità, i valori e la coscienza» (24). Il Papa ribadisce che «il mondo che ci circonda non è un oggetto di sfruttamento, di uso sfrenato, di ambizione illimitata» (25). Ricorda pure che noi siamo inclusi nella natura, e «ciò esclude l’idea che l’essere umano sia un estraneo, un fattore esterno capace solo di danneggiare l’ambiente. Dev’essere considerato come parte della natura» (26); «i gruppi umani hanno spesso “creato” l’ambiente» (27).
Decadenza etica del potere: marketing e falsa informazione
Abbiamo compiuto «progressi tecnologici impressionanti e sorprendenti, e non ci rendiamo conto che allo stesso tempo siamo diventati altamente pericolosi, capaci di mettere a repentaglio la vita di molti esseri e la nostra stessa sopravvivenza» (28). «La decadenza etica del potere reale è mascherata dal marketing e dalla falsa informazione, meccanismi utili nelle mani di chi ha maggiori risorse per influenzare l’opinione pubblica attraverso di essi». Grazie a questi meccanismi si convincono gli abitanti delle zone dove si vogliono realizzare progetti inquinanti illudendoli che si potranno generare delle opportunità economiche e occupazionali ma «non viene detto loro chiaramente che in seguito a tale progetto» resterà «una terra devastata» (29) e condizioni di vita molto più sfavorevoli. «La logica del massimo profitto al minimo costo, mascherata da razionalità, progresso e promesse illusorie, rende impossibile qualsiasi sincera preoccupazione per la casa comune e qualsiasi attenzione per la promozione degli scartati della società… Estasiati davanti alle promesse di tanti falsi profeti, i poveri stessi a volte cadono nell’inganno di un mondo che non viene costruito per loro» (31). Esiste «un dominio di coloro che sono nati con migliori condizioni di sviluppo» (32). Francesco li invita a chiedersi, «di fronte ai figli che pagheranno per i danni delle loro azioni», quale sia il senso della loro vita (33).
Politica internazionale debole
Nel capitolo successivo dell’esortazione il Papa affronta il tema della debolezza della politica internazionale, insistendo sulla necessità di favorire «gli accordi multilaterali tra gli Stati» (34). Spiega che «quando si parla della possibilità di qualche forma di autorità mondiale regolata dal diritto, non necessariamente si deve pensare a un’autorità personale» ma di «organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali». Che «devono essere dotate di una reale autorità per “assicurare” la realizzazione di alcuni obiettivi irrinunciabili» (35). Francesco deplora che «le crisi globali vengano sprecate quando sarebbero l’occasione per apportare cambiamenti salutari. È quello che è successo nella crisi finanziaria del 2007-2008 e che si è ripetuto nella crisi del Covid-19», che hanno portato «maggiore individualismo, minore integrazione, maggiore libertà per i veri potenti, che trovano sempre il modo di uscire indenni» (36). «Più che salvare il vecchio multilateralismo, sembra che oggi la sfida sia quella di riconfigurarlo e ricrearlo alla luce della nuova situazione globale» (37) riconoscendo che tante aggregazioni e organizzazioni della società civile aiutano a compensare le debolezze della Comunità internazionale. Il Papa cita il processo di Ottawa sulle mine antiuomo che mostra come la società civile crea dinamiche efficienti che l’ONU non raggiunge.
Inutili le istituzioni che preservano i più forti
Quello proposto da Francesco è «un multilateralismo “dal basso” e non semplicemente deciso dalle élite del potere… È auspicabile che ciò accada per quanto riguarda la crisi climatica. Perciò ribadisco che se i cittadini non controllano il potere politico – nazionale, regionale e municipale – neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali» (38). Dopo aver riaffermato il primato della persona umana e sulla difesa della sua dignità al di là di ogni circostanza, Francesco spiega che «non si tratta di sostituire la politica, perché… le potenze emergenti stanno diventando sempre più rilevanti». «Proprio il fatto che le risposte ai problemi possano venire da qualsiasi Paese, per quanto piccolo, conduce a riconoscere il multilateralismo come una strada inevitabile» (40). È necessario dunque «quadro diverso per una cooperazione efficace. Non basta pensare agli equilibri di potere, ma anche alla necessità di rispondere alle nuove sfide e di reagire con meccanismi globali». Servono «regole universali ed efficienti» (42). «Tutto ciò presuppone che si attui una nuova procedura per il processo decisionale»; servono «spazi di conversazione, consultazione, arbitrato, risoluzione dei conflitti, supervisione e, in sintesi, una sorta di maggiore “democratizzazione” nella sfera globale, per esprimere e includere le diverse situazioni. Non sarà più utile sostenere istituzioni che preservino i diritti dei più forti senza occuparsi dei diritti di tutti» (43).
Le conferenze sul clima
Nel capitolo seguente Francesco descrive le diverse conferenze sul clima tenutesi fino ad oggi. Ricorda quella di Parigi, il cui accordo è entrato in vigore nel novembre 2016, ma «pur essendo vincolante, non tutti i requisiti sono obblighi in senso stretto e alcuni di essi lasciano spazio a un’ampia discrezionalità» (47), non sono previste sanzioni per gli obblighi non rispettati e mancano strumenti efficaci per farla osservare, non prevede sanzioni vere e proprie e non ci sono strumenti efficaci per garantirne l’osservanza. E «si sta ancora lavorando per stabilire procedure concrete di monitoraggio e fornire criteri generali per confrontare gli obiettivi dei diversi Paesi» (48). Il Papa accenna alla delusione per la COP di Madrid e ricorda che quella di Glasgow ha rilanciato gli obiettivi di Parigi, con molte “esortazioni”, ma «le proposte volte a garantire una transizione rapida ed efficace verso forme di energia alternativa e meno inquinante non sono riuscite a fare progressi» (49). La COP27 in Egitto del 2022 «è stata un ulteriore esempio della difficoltà dei negoziati» e anche se ha prodotto «almeno un progresso nel consolidamento del sistema di finanziamento per le “perdite e i danni” nei Paesi più colpiti dai disastri climatici» (51) anche su questo molti punti sono rimasti “imprecisi”. I negoziati internazionali «non possono avanzare in maniera significativa a causa delle posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune globale. Quanti subiranno le conseguenze che noi tentiamo di dissimulare, ricorderanno questa mancanza di coscienza e di responsabilità» (52).
Cosa ci si aspetta dalla COP di Dubai?
Guardando alla COP28 Francesco scrive che «dire che non bisogna aspettarsi nulla sarebbe autolesionistico, perché significherebbe esporre tutta l’umanità, specialmente i più poveri, ai peggiori impatti del cambiamento climatico» (53). «Non possiamo rinunciare a sognare che la COP28 porti a una decisa accelerazione della transizione energetica, con impegni efficaci che possano essere monitorati in modo permanente. Questa Conferenza può essere un punto di svolta» (54). Il Papa osserva che «la necessaria transizione verso energie pulite… abbandonando i combustibili fossili, non sta procedendo abbastanza velocemente. Di conseguenza, ciò che si sta facendo rischia di essere interpretato solo come un gioco per distrarre» (55). Non si può cercare soltanto un rimedio tecnico ai problemi, «corriamo il rischio di rimanere bloccati nella logica di rattoppare… mentre sotto sotto va avanti un processo di deterioramento che continuiamo ad alimentare» (57).
Basta ridicolizzare la questione ambientale
Francesco chiede di porre fine «all’irresponsabile presa in giro che presenta la questione come solo ambientale, “verde”, romantica, spesso ridicolizzata per interessi economici. Ammettiamo finalmente che si tratta di un problema umano e sociale in senso ampio e a vari livelli. Per questo si richiede un coinvolgimento di tutti». A proposito delle proteste dei gruppi radicalizzati, il Papa afferma che «essi occupano un vuoto della società nel suo complesso, che dovrebbe esercitare una sana pressione, perché spetta a ogni famiglia pensare che è in gioco il futuro dei propri figli» (58). Il Pontefice auspica che dalla COP28 emergano «forme vincolanti di transizione energetica» che siano efficienti, «vincolanti e facilmente monitorabili» (59). «Speriamo che quanti interverranno siano strateghi capaci di pensare al bene comune e al futuro dei loro figli, piuttosto che agli interessi di circostanza di qualche Paese o azienda. Possano così mostrare la nobiltà della politica e non la sua vergogna… Ai potenti oso ripetere questa domanda: “Perché si vuole mantenere oggi un potere che sarà ricordato per la sua incapacità di intervenire quando era urgente e necessario farlo?”» (60).
Un impegno che scaturisce dalla fede cristiana
Infine il Papa ricorda che le motivazioni di questo impegno scaturiscono dalla fede cristiana, incoraggiando «i fratelli e le sorelle di altre religioni a fare lo stesso» (61).«La visione giudaico-cristiana del mondo sostiene il valore peculiare e centrale dell’essere umano in mezzo al meraviglioso concerto di tutti gli esseri». «Noi tutti esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale, una comunione sublime che ci spinge ad un rispetto sacro, amorevole e umile» (67). «Questo non è un prodotto della nostra volontà, ha un’altra origine che si trova alla radice del nostro essere, perché Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda» (68). Ciò che conta, scrive Francesco è ricordare che «non ci sono cambiamenti duraturi senza cambiamenti culturali, senza una maturazione del modo di vivere e delle convinzioni sociali, e non ci sono cambiamenti culturali senza cambiamenti nelle persone» (70). «Gli sforzi delle famiglie per inquinare meno, ridurre gli sprechi, consumare in modo oculato, stanno creando una nuova cultura. Il semplice fatto di cambiare le abitudini personali, familiari e comunitarie» contribuisce «a realizzare grandi processi di trasformazione che operano dal profondo della società» (71). Il Pontefice conclude la sua esortazione ricordando che «le emissioni pro capite negli Stati Uniti sono circa il doppio di quelle di un abitante della Cina e circa sette volte maggiori rispetto alla media dei Paesi più poveri». E afferma che «un cambiamento diffuso dello stile di vita irresponsabile legato al modello occidentale avrebbe un impatto significativo a lungo termine. Così, con le indispensabili decisioni politiche, saremmo sulla strada della cura reciproca» (72).
L’articolo che segue è di Faggioli ed è interessante per comprendere la situazione generale della Chiesa cattolica e in particolare per il ruolo che ha assunto «nella storia delle violenze e degli abusi nella Chiesa». Acquisire uno statuto di minoranza (e a maggiore ragione acquisirlo per demerito), specie nei paesi con «radici» cristiane non lascia dormire sonni tranquilli, agita i dibattiti, specie per l’interrogativo su come porsi di fronte al nuovo: ne parla sull’ultimo numero dell’anno Massimo Faggioli, presentando le due diverse e complementari visioni di Chantal Delsol (La fin de la chrétienté, Cerf, Paris 2021) e di Danièle Hervieu-Leger e Charles Schlegel (Vers l’implosion?, Seuil, Paris 2022).
Il Consiglio Nazionale della Scuola Cattolica ha pubblicato delle Linee guida con indicazioni per la vita scolastica e la formazione degli educatori
“La tutela dei minori nelle scuole cattoliche – Linee Guida” è il testo che il Consiglio Nazionale della Scuola Cattolica (CNSC) rivolge a tutte le istituzioni educative cattoliche e di ispirazione cristiana, quale contributo alla cultura e all’azione promosse dalla Conferenza Episcopale Italiana per la prevenzione e il contrasto degli abusi sui minori.
Nella ferma convinzione che “la cura e la tutela dei minori sono una parte essenziale del compito educativo”, il CNSC intende offrire la visione “positiva e fiduciosa di chi intende rafforzare e migliorare la prassi educativa, servendosi di tutti gli strumenti a vantaggio della persona che cresce”. Si tratta di una scommessa sull’educazione. L’educazione integrale della persona, nella prospettiva dell’antropologia cristiana, infatti, “contiene in sé i semi della prevenzione e del contrasto di ogni forma di abuso”. In questo quadro si collocano gli interventi specifici, con il coinvolgimento dell’intera comunità educante e un particolare investimento nella formazione degli educatori.
Come ricorda S.E. mons. Claudio Giuliodori, presidente del CNSC, la finalità del testo è quella di “offrire a quanti lavorano nelle istituzioni educative cattoliche e di ispirazione cristiana alcuni criteri e indirizzi operativi. Si tratta di un’azione che ben si inserisce nelle prospettive pedagogiche a cui le scuole cattoliche si ispirano, volte a promuovere il vero bene della persona e dunque a prevenire e contrastare ogni ostacolo alla sua crescita armoniosa e integrale”.
Il documento è articolato in tre capitoli. Il primo (Presupposti di fondo) inserisce l’azione di prevenzione e contrasto degli abusi nel quadro del progetto educativo della scuola, “comunità di persone chiamata a prendersi cura di ciascun bambino e ragazzo per far fiorire la sua unicità”. Per questo, si evidenziano principi pedagogici quali la centralità dell’alunno e la corresponsabilità educativa con la famiglia, richiamando il ruolo di tutte le figure della comunità educante: insegnanti, coordinatori pedagogico-didattici; personale didattico; famiglie.
Il secondo capitolo (Maltrattamento, abuso e scuola) descrive i fenomeni da contrastare, soffermandosi sui diversi traumi e le loro conseguenze. Individua infine una strategia di prevenzione e protezione articolata in quattro azioni: osservare, ascoltare, accogliere, tessere reti per rilanciare.
Segue un’ampia sezione (Strumenti), di taglio prevalentemente giuridico, con una presentazione essenziale delle norme vigenti e indicazioni circa la trattazione delle segnalazioni. In appendice viene richiamata la struttura e l’azione della Chiesa italiana per la tutela dei minori e una serie di buone pratiche (Ispettoria Salesiana Lombardo Emiliana; Fondazione Gesuiti Educazione; FIDAE). In particolare, è riportata una scheda su un corso di formazione rivolto agli insegnanti.
In allegato il testo delle Linee guida e una scheda sintetica.
Il linguaggio su Dio è segnato naturalmente dalla sensibilità culturale del tempo. Molti sono i modi di dire Dio privilegiati nella tradizione. In ambito occidentale e cattolico è prevalso l’aspetto razionale. Specialmente il riferimento alla constatazione immediata della realtà sensibile – sensuconstat – è stato alla base di una rigorosa argomentazione – la prova – dell’esistenza di Dio.
L’orizzonte ermeneutico, che questi interventi privilegiano, sposta l’attenzione dalla dimostrazione razionale alla significatività esistenziale. A fondamento si questa impostazione sta un concetto di verità fortemente innovativo; tende a ripensare l’accesso stesso alla verità; a interpretarla in dimensione ermeneutica, come emergenza e manifestazione del reale.
In ambito religioso la stessa impostazione impone un’esplorazione attenta del vissuto credente. La riflessione tende cioè ad esplorare il rapporto con Dio in tutta la provocazione esistenziale che comporta: è meno preoccupata della fondazione razionale, del resto indispensabile, mostrandosi invece più sollecitata a misurare la novità appassionante di un rapporto che affiora nell’esistenza, la celebra e ne risulta a sua volta celebrato.
1.1. Il processo interpretativo nell’esperienza[1]
– Ho l’impressione che il mio orologio vada a rilento.
– Attendo che il campanile batta le ore e verifico.
– Sì, ritarda di alcuni minuti…
– Dovrò farlo regolare!
Ho constatato un piccolo disguido; ho preso coscienza che il mio orologio non funziona regolarmente. Ho deciso di farlo controllare. Un fatto semplicissimo, un’esperienza consueta che già consente di interpretare un processo normale in atto.
I casi sono di solito più complessi e coinvolgenti, magari rivelativi di situazioni drammatiche che incombono. Ancor più frequentemente si danno atteggiamenti esistenziali, banalizzati dalla consuetudine quotidiana. Prendiamo il caso della moglie che pensa al marito in termini di sicurezza economica: è colui che dispone di una somma notevole in banca o che al 27 del mese porta la busta… Può darsi che riflettendo con calma si renda conto di averlo ridotto ad una pura funzione materiale e sappia prendere coscienza che la sua presenza è fonte di sicurezza, ragione di dialogo, di comunicazione. Può anche darsi che la moglie arrivi finalmente a ricuperare il significato esistenziale pieno di lui come persona, scelta a compagno di vita, partecipe di un progetto magari ambizioso, che orienta l’esistenza reciproca. Questa donna va man mano scoprendo il significato autentico di una presenza che la routine rischia di semplificare eccessivamente. Può ricuperare la dimensione esistenzialmente appassionante di un rapporto umano restituito alla sua verità.
Questa ed altre possibili esemplificazioni tratte dalla consuetudine quotidiana lasciano affiorare l’impegno ad interpretare la vita concreta, le situazioni reali per quello che sottendono; orientano ad esplorare l’esperienza in tutto lo spessore che l’attraversa; consentono di avvertirne la risonanza esistenziale. Sollecitano una ricerca che tende a dare rilevanza autentica alla verità delle cose per tutto l’impatto che hanno sulla persona.
Rispetto alla riflessione tradizionale si è operato un cambiamento importante: la verità non è tanto adeguazione fra la cosa e la rappresentazione che la persona se ne fa; è piuttosto manifestazione, emergenza dello spessore che la situazione reale comporta, per tutto l’impatto che sottende all’esistenza.
L’esperienza si è rivelata portatrice di uno spessore singolare che le ricerche, soprattutto recenti sul linguaggio, hanno consentito di sondare.
1.2. La trascendenza presagita nel mistero
La singolare pienezza e novità in cui è percepita ed esplorata l’esistenza nella riflessione recente s’affaccia sull’orizzonte alternativo; evoca una presenza nascosta e fondante; fa appello alla trascendenza.
Un appello che tuttavia non è obbligante. Ciò che forse caratterizza l’incontro della riflessione recente – specialmente esistenziale e fenomenologica – con la trascendenza è una marcata connotazione di libertà. Non nel senso che risulti arbitrario affermarla o negarla; piuttosto perché il progetto stesso esistenziale è segnato dalla libertà: su questa base interpreta e si interpreta; si orienta e decide.
L’affermazione del fondamento non è logica conclusione di un ragionamento astratto: è esistenziale consapevolezza d’una presenza presagita e riconosciuta. L’uomo può sentirsi “gettato” nel mondo o “chiamato” all’esistenza. La trascendenza dell’essere è percepita in tutta la sua alterità: l’orma che di sé ha impresso nel mondo è ambivalente: lo rivela e lo nasconde. La ragione può trovarsi sconcertata dal nascondimento o sollecitata dalla rivelazione: denunciare l’assurdità e l’inconsistenza del progetto umano, dove non ne vede lo sbocco e ne misura lo scacco – essere per la morte – ; o presagirne il senso e la pienezza dove avverte di poterlo ancorare ad una presenza ultima e appagante – esistere per l’incontro –.
La prima condizione del linguaggio religioso è l’opzione per la trascendenza, come misteriosa presenza su cui il progetto dell’uomo può dispiegarsi in una vitalità che attinge a risorse inesauribili. Un’opzione tuttavia che non è mai affermazione astratta, ma percezione vissuta: garanzia di stabilità e di approdo.
Il linguaggio religioso esplora e comprende la realtà – anche quella materiale – animata e fermentata da una trascendenza che l’attraversa e la vivifica. “La natura è piena di dei”; il “logos” anima la realtà materiale già nell’originaria riflessione occidentale. «I cieli narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento» nella più consapevole e perentoria attestazione biblica (Sal 19).
L’uomo può sentirsi “spaesato” in questa immensa dimora che lo accoglie; ma può anche sentirsi “ospitato” in una casa fatta sulla sua misura e che tuttavia non è opera delle sue mani. Perciò l’intera realtà è invito suadente a riconoscervi una presenza misteriosa e ad invocarla.
Il linguaggio religioso instaura dunque un rapporto nuovo con il mondo: l’uomo vi abita in attesa di un incontro, per prepararlo. Secondo l’immagine suggestiva che la Bibbia ci ha tramandato, l’uomo considera l’universo come un immenso giardino che gli è stato affidato, su cui ha piena signoria, per quanto la fatica di dissodarlo e di asservirlo non riempia la sua attesa, né le sue aspirazioni.
2. DIRE DIO NEL CONTESTO ATTUALE
2.1. Molteplicità delle manifestazioni di Dio
L’affermazione è data a partire da una doppia considerazione, che richiamiamo:
– la realtà, creata da Dio, ne porta il segno, è costitutivamente relazionata a Lui; cosicché la ricerca può legittimamente tentare di decifrare un rapporto già in atto;
– l’uomo è dotato di una risorsa capace di leggere in profondità le cose e svelarne la relazione con il creatore che le costituisce.
Dunque, presupposto fondamentale è l’atto creatore; l’intervento di Dio all’origine, di cui la realtà porta il segno.
Il presagio da cui muove la ricerca umana suppone quella traccia lasciata dal creatore sulla creatura al momento in cui l’ha costituita e continua ad alimentarne l’esistenza. Dire-Dio comporta quindi:
– che i segni della presenza creatrice siano impressi nella bellezza e nella maestà della natura, tanto da renderla potente e suggestivo richiamo ad una maestà definitiva;
– che la straordinaria forza evocativa di cui l’uomo dispone sia in grado di presagire e di chiamare per nome, insomma di rivelare la verità costitutiva della creazione.
La fede è depositaria di questo sguardo penetrante e rivelativo della verità delle cose: passa dai segni alla presenza; legge la verità della creazione nella misteriosa risorsa che la costituisce.
Il volto di Dio non corrisponde al volto dell’essere, ma è vero che il volto autentico dell’essere lo testimonia, lo lascia presagire. Cosicché la realtà anche materiale può segnalarlo ad una coscienza avvertita, capace di darvi risonanza.
Il ritorno all’interiorità, la chiara presa di coscienza del presagio che le cose sottendono, diventa traccia privilegiata all’incontro con Dio. Anche se va mantenuta la differenza fra ricerca filosofica e religiosa, in quanto l’una tende a darsi ragione e l’altra tende a vivere la pienezza dell’incontro. Anche se, e soprattutto, va salvaguardata la differenza fra essere e Dio.
La trascendenza di Dio – il suo essere totalmente altro dalla creazione – è la premessa per salvare la religione da ogni rischio di indebita identificazione di Dio con la realtà.
2.2. Presupposti dell’elaborazione esistenziale
– Il problema non è “la prova” ma “l’incontro”.
Per dire-Dio non è tanto questione di affermarne o dimostrarne l’esistenza, quanto di esplorare il rapporto sotteso, che vivifica e rende straordinario l’incontro.
La pista della razionalità rigorosa a base dell’affermazione dell’esistenza di Dio, per lunga tradizione perseguita con piena credibilità, lascia oggi margini di perplessità.
L’ambiguità sta nel termine stesso di “oggettività”. Sotteso, rischia di affiorare il sospetto di oggettività sensibile–verificabile. Il pregiudizio scientista di riportare ogni affermazione sensata alla verifica empirica o alla falsificabilità compromette radicalmente il discorso su Dio.
Assai più fidata e credibile, si è venuta impostando la ricerca esistenziale che ha saputo ancorarsi alla realtà e, di conseguenza, garantirsi la verità delle proprie conclusioni.
– Il pensiero e la realtà.
Il pensiero è di sua natura orientato alla realtà.[2] Che tuttavia non è affatto riducibile al dato sensibile, per quanto il dato sensibile stesso venga riconosciuto fondamentale per l’elaborazione del pensiero, nella sua prerogativa di spaziare su tutte le dimensioni della realtà, fino ad attingere il suo fondamento.
– L’esperienza del singolo a perno della riflessione.
Inoltre, nell’impostazione esistenziale l’esperienza del singolo assurge a perno della riflessione. Ma l’esperienza del singolo è iscritta in una storia di cui egli fa parte, che quindi l’individuo non può presumere di analizzare “oggettivamente”, con il distacco dello spettatore. Tanto più che nella considerazione dell’esperienza la storia risulta la “mia” storia, della quale faccio parte integrante, in cui sono coinvolto.
Allora ogni ricerca cessa di essere un problema che mi è estraneo; sono costretto a considerarlo un fatto che mi tocca da vicino, che non posso mai considerare oggettivo; cammina con me, si modifica man mano che mutano i miei punti di vista.
La realtà, che pure sono in grado di conoscere, assume uno spessore su cui il procedimento razionale anche rigoroso non ha presa: dovunque sono coinvolto, il problema si apre al mistero che fascia l’intera realtà. Di questo mi rendo conto proprio prendendo atto di me stesso.
– Il ridimensionamento dell’aspetto razionale.
Tanto più che, dovunque sono coinvolto, l’aspetto razionale risulta ridimensionato. Infatti, oltre lo sfondo della razionalità si impone la risonanza emotiva, si staglia netta e risolutiva l’esigenza della libertà. A livello esistenziale l’ultima parola sembra rivendicata non dalla chiarezza della comprensione ma dalla imprevedibilità della decisione.
Nel caso di Dio, la ragione conserva tutta la sua forza, ma non è risolutiva. L’argomentazione è importante, ma non obbligante. L’affermazione di Dio, con il peso enorme che sottende sulla vita del singolo, si gioca su un retroterra esistenziale di uno spessore straordinario. La responsabilità di ciascuno conserva margini di libertà decisivi.
2.3. Un volto alla trascendenza
Il tema della trascendenza resta da impostare in maniera esistenziale, cioè:
– come dato connaturale e costitutivo del vivere umano,
– insito nell’esistenza ed da questa emergente come presagio.
S’impone l’analisi di ciò che sono e dei richiami interiori da cui sono attraversato e che sono da esplorare e identificare.
Dentro questi potrò cogliere un richiamo che mi supera e che può trasfigurasi in appello e quindi in affermazione implicita di una presenza più intima a me di me stesso, cui sono sollecitato a rispondere.
Su questa pista l’affermazione di Dio assume un’altra logica.
Non è la ragione – il cosmo e l’argomentazione sul cosmo privilegiata dalle “vie” tradizionali – ma è la coscienza di quanto si vive, l’analisi dell’intuizione esistenziale che porta il richiamo di Dio e consente di affermarlo. Non il fatto di provarlo ma di “constatarlo” diventa decisivo; s’impone la correttezza dell’analisi soprattutto interiore, con i suoi apporti e i suoi limiti da evidenziare.
Dunque non è in gioco tanto una prova dell’esistenza di Dio, ma l’orma, il presagio della sua presenza da sondare, al cuore stesso della percezione del mistero.
È all’interno dell’analisi del mistero che la sua presenza può imporsi, nella libertà di accoglierlo o di negarlo. Si tratta dunque di una “prova” piuttosto singolare: si tratta di riconoscere il mistero nel quale sono immerso; di rendermi disponibile all’analisi delle condizioni reali di possibilità che vi danno consistenza.
Se l’uomo è immerso nel mistero ha ancora senso parlare di autonomia? Ha senso parlare di libertà: di accogliere o di rifiutate il mistero e colui che lo abita?
Emerge una libertà situata ed ancorata all’essere nel mistero. E tuttavia chiamata a deciderne il riconoscimento o il rifiuto; un atto che richiede la decisione di accogliere o di rifiutare e vi conferisce il suo significato esistenziale.
Non è la ragione che cerca Dio; è l’esistenza che anela all’incontro con Dio.
Donde la saggezza nel maestro dell’apologo orientale, dove si parla di un discepolo alla ricerca di Dio che domanda: «Come posso incontrare Dio?». Il maestro tace, nonostante la comprensibile insistenza del discepolo. «Andiamo al fiume», riprende finalmente il maestro. Si tuffano e mentre nuotano uno accanto all’altro, il maestro preme vigorosamente la testa del discepolo sott’acqua, vincendone la disperata resistenza. Tornati finalmente a riva il discepolo chiede sconcertato il significato del gesto. «Cosa cercavi disperatamente sott’acqua?», chiede il maestro. «L’aria», risponde pronto il discepolo. «Bene, così dovrai cercare Dio, se vuoi incontrarlo!», suona laconica ma perentoria la risposta del maestro.
3. UN LINGUAGGIO PER SONDARE IL MISTERO
3.1. Un volto al presagio
Al cuore della ricerca sta dunque l’esistenza, espressa in una molteplicità di situazioni, consapevole dello spessore che l’attraversa. In particolare segnata dal rapporto con la trascendenza, che la riflessione dichiara oscura e che la fede privilegia. Si impone la domanda: quale linguaggio interpreta la trascendenza stessa e la esprime; come accedervi?
3.2. Lo spessore dell’esperienza
Il singolo ha fame, cerca un’abitazione, desidera essere accolto… Il vissuto immediato ha uno spessore straordinario, che precede ogni riflessione: è esperito prima di essere capito e decifrato. E prima di venire decifrato ha già un senso esaustivo, nella gioia di vivere, di partecipare, di trovare soddisfazione ai bisogni più elementari e continui; tanto più se l’esperienza dischiude un rapporto di persone che si cercano e si amano.
Non è mai misurabile l’attesa e la speranza con cui due persone si aspettano e si incontrano. Com’è difficile descrivere il margine di delusione e di amarezza che segna un incontro, anche riuscito! Torna la verità di un’aspirazione interiore che la vita costantemente delude. Che può assurgere a grande allusione, a presagio di trascendenza, radice esistenziale ultima della ricerca religiosa.
Sfumature e spessore che si ribellano alla razionalizzazione disegnano uno spazio che il linguaggio tenta di interpretare; che comunque resta sempre insondabile.
La ricerca scientifica può facilmente definire il proprio ambito e identificare la propria demarcazione.[3] La chiave e il segreto della scienza, sta proprio nel definire con chiarezza un aspetto specifico da verificare, che risulti falsificabile.
La riflessione esistenziale, invece, si apre sull’intero orizzonte della vita. La sua demarcazione raccoglie e organizza aspetti molteplici, di cui la puntualizzazione razionale è solo l’iceberg; soggiacenti ci sono diramazioni e componenti illimitate e perciò indecifrabili. La ricerca scientifica può essere rigorosa; la riflessione esistenziale – che non prescinda dal vissuto – si rifiuta al rigore della razionalizzazione. L’esperienza empirica è verificabile; l’esperienza esistenziale è inverificabile.[4]
La scienza procede nell’ignoto; la filosofia, la religione, l’arte… si addentrano nel mistero. Esplorano ambiti diversi, si avvalgono di un linguaggio specifico, per lo più reciprocamente incomparabile.
Si tratta allora di mettere in atto un procedimento coerente e integrale: esplorare l’esperienza per sondarne tutti i richiami; anche quello specificamente religioso, dove emerge e si impone alla considerazione.
È un procedimento che potremmo definire “esistenziale”, senza volerlo ancorare obbligatoriamente a qualcuna delle scuole che hanno segnato recentemente questa riflessione. Il nodo della ricerca sta in un’esigenza di analisi aperta dell’esperienza, senza prevenzioni o strettoie, per raccogliere tutte le sollecitazioni che vi affiorano.
La prima sollecitazione riguarda la condizione stessa da cui la ricerca prende l’avvio. L’analisi dell’esperienza tiene conto che vi siamo coinvolti in prima persona: non può costituire una ricerca distaccata e oggettiva.
Inoltre, a sua volta, l’esperienza comporta una gamma innumerevole di rimandi, che le conferiscono uno spessore pressoché impenetrabile. Risalendo man mano i rimandi, di cui è intessuta, ci si affaccia ad un mondo che sconfina nel mistero.
Si può dire che ne portiamo l’intuizione profonda e suggestiva ad un tempo: riportata al suo asse si concentra sulla domanda: chi sono? Precisamente questo interrogativo induce a riconoscere che la mia esistenza resta avvolta di mistero: alla sua origine e soprattutto, in forma più conturbante, nel suo destino.
3.3. Il rifiuto della finitudine
La riflessione attorno a qualunque esperienza umana profonda avverte richiami penetranti e non eludibili. E questo, a partire dalle sensazioni più consuete:
– la salute che oggi si gode non è esente da una sottile trepidazione per il futuro immediato e lontano;
– l’amore come disponibilità e attesa non è mai garantito del tutto: l’indifferenza o il tradimento lo insidiano;
– le realizzazioni più ambiziose nell’ambito dell’essere come dell’avere lasciano sempre un margine inappagato.
Anche più profonda e tenace è l’insoddisfazione per la statura conseguita, per la sincerità e la trasparenza con cui si vive. Lo scarto fra la vita e la speranza, fra il desiderio e l’attuazione, fra l’attesa e la risposta sembrano dilatarsi man mano che l’esistenza avanza.
Buber l’ha rilevato con chiarezza: l’ha soprattutto attribuito alla situazione contemporanea – alla sensibilità tipica di un’epoca storica –, in cui l’uomo risulta privo di una “casa” che gli consenta stabilità. E certo ha colto nel segno dove ha voluto sottolineare che la nostra è epoca di transizione, che vede scompaginati i riferimenti tradizionali e sconcertate le prospettive.
E tuttavia la sua annotazione non si riduce al dato esteriore. Una casa, per quanto grande e spaziosa non è la risposta; anzi non è neppure la domanda: è solo un simbolo. Già il saggio antico ha visto bene, dove ha misurato l’irraggiungibilità di una condizione interiore finalmente placata e paga (Marco Aurelio).
Questa serenità definitiva è aspirazione che il saggio non sa tacitare. Attraversa l’esistenza e, forse più veramente, la fermenta. Rileva quel margine di inquietudine, di insoddisfazione che si apre sulla dignità dell’uomo: mai pago, più grande di qualunque statura conseguita, proprio perché non c’è statura che esaurisca la sua misura.
Nell’apologo così semplice e suggestivo posto a perno dell’interpretazione che Pico della Mirandola propone nel suo celebre discorso sull’uomo, resta adombrata la ragione definitiva dell’anelito inappagato.
Affidato dal Creatore alla propria completa responsabilità non gli è stato assegnato nessun limite come invalicabile: piuttosto gli è stata data una consegna di perfezione illimitata.[5] Il Vangelo lo ribadisce con perentoria chiarezza: «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48).
Un compito esigente e una consegna ambiziosa: segnano l’esistenza così profondamente che l’ultimo ritocco non è mai dato; perciò ogni realizzazione risulta parziale e insoddisfacente: lascia sempre un margine non raggiunto, eppure proposto e perciò ambito.
La riflessione credente ne ha fatto da sempre – non solo nel cristianesimo – il riferimento decisivo. Le parole di Agostino – «il nostro cuore è inquieto finché non si placa in Te» – hanno trasferito in linguaggio lucido e consapevole la sensazione che in termini indefiniti e vaghi attraversa l’esperienza di tutti.
4. UN MISTERO DA ESPLORARE
Il procedimento che si innesta è allora un percorso induttivo che prende sul serio l’esperienza umana e vi presagisce dimensioni molteplici; alcune delle quali si portano sul versante del mistero e della trascendenza.
Tale procedimento, affidato alla riflessione, può concludere legittimamente ad una presenza trascendente insita nell’esistenza. Il credente è colui che vi ha dato la propria adesione con un gesto gratuito e libero; che tuttavia potrebbe anche essere ripercorso con rigore e trovare piena legittimità razionale.
Per il credente c’è chi accoglie la sua invocazione: lo sa; anche se non sarà mai in grado di verificare scientificamente o di dimostrare razionalmente che il suo appello è stato recepito. Su questa consapevolezza poggia l’atteggiamento di fede: fonda un rapporto singolarissimo che legittima il dialogo religioso oltre i limiti della scienza e oltre le strettoie della filosofia.
Tutte le indagini che l’uomo fa sulla natura non s’imbatteranno mai nella constatazione di una presenza che per definizione è trascendente e quindi altra da ogni rilevamento empirico possibile. Così, tutte le ragioni che si adducono possono solo legittimare l’affermazione della trascendenza. Caso mai, quando questa venga postulata come orizzonte alternativo, le analisi scientifiche e le considerazioni razionali potranno darvi ulteriore conferma e comprensione. Come è chiaro che precisamente l’orizzonte di fede popola la natura e investe la ragione di un riferimento altrimenti inavvertito.[6]
4.1. Quale linguaggio per sondare il mistero?
Anche in queste annotazioni, il linguaggio si è progressivamente portato su aspetti specifici.
Si è innanzitutto trasferito dal confronto con la realtà esteriore, constatata nella sensazione, all’interiorità della persona, esplorata nelle intuizioni che la segnano e non trovano legittima spiegazione nella persona stessa; donde il passaggio razionalmente richiesto di portarsi su un versante alternativo, postulato più che constatato.
Dio non risulta tanto garantito dalla dimostrazione razionale; è richiesto piuttosto dall’esplorazione esistenziale. La trascendenza è chiamata in causa perché l’esistenza non si giustifica, né è in grado di spiegare se stessa.
E tuttavia è vero che questa realtà, cui sembra indispensabile fare appello non si può constatare, non si avverte direttamente. Appare avvolta di “mistero”. E impone la domanda se sia possibile identificarla, chiamarla per nome…
Comunque è chiaro che i nomi di cui disponiamo non le si addicono.
Il linguaggio è dunque sfidato su una dimensione specifica, sulla quale falliscono i procedimenti propri dell’indagine scientifica e dell’argomentazione razionale.
Il linguaggio religioso punta al… mistero e presume di poterne parlare in termini che abbiano senso.
Negativamente è chiamato in causa perché gli altri linguaggi risultano spuntati; l’esistenza è assillata da spiegazioni che i vari versanti della ricerca umana non sono in grado di soddisfare.
Più profondamente l’uomo è sollecitato da una presenza che resta avvolta di mistero; gli parla in maniera profonda e suadente, ma non lo costringe; gli si rivela in un richiamo ineludibile, proposto tuttavia alla sua vita; suscettibile di adesione e di rifiuto. L’orizzonte della ricerca religiosa si colloca così sul fronte del mistero; il suo compito resta quello di darvi volto e nome.
Le indicazioni forse più pertinenti ci vengono dalla riflessione religiosa recente.[7] Si tratta di chiamare per nome, di conferire volto ad una presenza che si impone come mistero in cui la vita è immersa.
La dimensione religiosa sembra affiorare dove l’uomo prende coscienza di una presenza arcana con cui è in una relazione radicale e ultima. Dove tale intuizione viene decifrata e si tenta di chiamarla per nome sembra potervi conferire volto personale e appagante; rappresentare il riferimento e custodire la risposta.
L’esperienza concreta che viviamo può essere ripercorsa sull’onda del richiamo interiore, come sulla traccia delle acquisizioni culturali di cui disponiamo.
4.2. La traccia privilegiata
L’atto religioso analizzato nella sua più profonda istanza è aspirazione al rapporto personale: è attesa di risposta definitiva.[8] Per lo più, esso soggiace all’esperienza consueta di incontro: anzi, dove il rapporto a tu per tu viene analizzato nelle sue sottese aspirazioni lì è presagita e invocata una presenza trascendente, una capacità di interpretazione e di risposta che nessun tu finito è in grado di dare. Di più: dove l’analisi si fa radicale e interpreta l’esistenza nella sua origine e nel suo destino ogni riferimento finito denuncia la propria insufficienza.
La riflessione si porta obbligatoriamente sul versante trascendente e ultimo. L’invocazione non trova risposta che in un Tu assoluto.
Cosicché l’esplorazione del rapporto religioso non può che percorrere la pista obbligata del rapporto interpersonale. Solo nell’esplorazione del rapporto corretto con un tu – e nel caso con un Tu assoluto – la religione parla in termini singolarmente nuovi e persuasivi.
Viene così identificato l’orientamento attuale della ricerca concentrata sull’analisi del rapporto interiore con una trascendenza personale, dialogante.
Il che apre anche la riflessione al problema della rivelazione. Dove la trascendenza assume carattere personale la possibilità di una rivelazione diretta e positiva è legittimata.
Si tratterà, allora, di evidenziare quali siano i connotati di un linguaggio relazionale e interpersonale, di caratterizzarli correttamente dove il rapporto è con il Tu assoluto. Il linguaggio dovrà quindi cercare l’impostazione corretta.
Rimane inoltre fondata anche la legittimità di una ricerca che avverta nella cultura la manifestazione esplicita del richiamo religioso, che potrebbe o addirittura dovrebbe essere anche segnato di impronta personale. La presenza del dato cristiano non è solo questione che tocca il credente. È un problema che la ricerca si pone e che è suo compito esplorare, come avremo modo di rilevare nei prossimi interventi.
[1] Il termine esperienza è generico; lo assumiamo in tutto lo spessore che comporta e che analisi puntuali e attente, anche recentemente, hanno rilevato. Richiamo in particolare le pp. di Gadamer dedicate a Il concetto di esperienza e l’essenza dell’esperienza ermeneutica, in G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani 1995, pp. 401ss.
[2] È la rivendicazione costante anche della riflessione esistenziale; cf, ad es. uno dei suoi pensatori più accreditati, G. Marcel, Giornale metafisico, Roma, Abete, 1976, p. 248.
[3] Popper ha identificato un criterio oggi sostanzialmente accettato: «Queste considerazioni suggeriscono che, come criterio di demarcazione, non si deve prendere la verificabilità, ma la falsificabilità di un sistema… un sistema empirico deve poter essere confutato dall’esperienza: K. Popper, Logica della scoperta scientifica, Torino, Einaudi 1970, p. 22.
[4] Prini ha giustamente definito la ricerca di Marcel metodologia dell’inverificabile: P. Prini, Gabriel Marcel e la metodologia dell’inverificabile, Roma, Studium 1968; ne ha con questo identificato l’aspetto qualificante, ma ha anche indicato un aspetto qualificante della stessa riflessione filosofica.
[5] “La natura illimitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte.
Tu non costretto da nessuna barriera, la determinerai secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà di consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi ciò che è nel mondo. Non Ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice, ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti, tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine.” G. PICO DELLA MIRANDOLA, Discorso sulla dignità dell’uomo, Brescia, La Scuola, 1987, pp. 5-7:
[6] Sulla traccia di annotazioni come queste trovo irrilevanti talune discussioni sul rapporto fede-ragione. Mi sembrano perfettamente pertinenti le riflessioni di K. Popper, Dopo la società aperta, Roma,Armando 2009, p. 117.
[7] Sono stati valorizzati in questa ricerca proprio quegli Autori che hanno esplorato con singolare originalità l’esperienza religiosa.
[8] Cf M. Scheler, Vom Ewigen im Menschen, Bern, Franke 1968,pp. 364ss.