«Star Trek» di J. J. Abrams

Facendo capolino in una libreria antiquaria o in una preziosa biblioteca, l’appassionato e lo studioso sanno bene l’emozione e la meraviglia che è possibile provare quando gli occhi si posano sulle antiche relazioni dei viaggi di esplorazione, sui diari di bordo delle navigazioni intorno al mondo che nel XVI secolo hanno cambiato il volto della geografia, del commercio e della società.
Vi sono documenti di viaggio – ed è un piacere leggerli – altrettanto famosi delle grandi opere letterarie:  il Mundus Novus di Amerigo Vespucci, Pigafetta che ricorda le scoperte di Magellano, la straordinaria impresa editoriale di Gian Battista Ramusio.
Risalendo i secoli fino al nostro, lo scaffale si riempie delle memorie scritte da tanti intrepidi avventurieri o intraprendenti scienziati partiti alla scoperta dei nuovi continenti, dei “passaggi” a settentrione e dei due Poli.
Oggi che queste avventure sono esaurite e il loro fascino depositato, appunto, nelle preziose pagine; oggi che ogni angolo del nostro pianeta ha esaurito il suo mistero e gli astronauti sono sbarcati sulla luna e fanno la spola con le stazioni orbitanti nello spazio; oggi che Google Earth ha portato a tutti sullo schermo di casa l’immagine dell’angolo di terra preferito, il fascino e il sapore dell'”ultima frontiera” non è andato perduto.
Lo dobbiamo, soprattutto, alla fantasia di Gene Roddenberry e al “diario di bordo” più famoso del cinema, quello dettato con data astrale al computer della più amata e invincibile nave spaziale a memoria d’uomo, la U.S.S.
Enterprise, nome che ricorda le tante caravelle del passato ed è stato imposto, a furor di popolo, al prototipo dello Space Shuttle della Nasa.
Che fascino insuperabile mantiene ancora l’epopea di Star Trek! È la serie più applaudita e longeva della storia, la prima a strutturare in episodi televisivi la fantascienza, a portare il senso dell’ignoto e dell’avventura spaziale nelle case di milioni di americani e di appassionati nel mondo:  iniziata l’8 settembre del 1966 (due anni prima dell’Odissea nello Spazio di Kubrick), proseguita con settantanove episodi fino al 1969, risorta a più intervalli generando ben quattro nuove serie (The Next Generation, Deep Space Nine, The Voyager, Enterprise) e una animata, ha oltrepassato il Nuovo Millennio, toccando il 2005.
Il grande schermo ha cavalcato, naturalmente, questo successo planetario:  dal 1979 dieci film (il primo, e fino a oggi il migliore, con la regia di Robert Wise), molto alterni nei risultati, nei successi e negli incassi.
Certo la grande famiglia dei “treccker” non ha mai abbandonato, in oltre quarant’anni di vita, il capitano James T.
Kirk, nervi d’acciaio e coraggio da vendere, il signor Spock, vulcaniano di ferro quasi privo di emozioni con le inconfondibili orecchie a punta e tutti gli ufficiali e sottufficiali in servizio sull’Enterprise, fiore all’occhiello della flotta interstellare della Federazione Unita dei Pianeti:  Scotty, McCoy, Sulu, Chekov, Uhura.
Da notare i loro nomi:  su quella nave sono rappresentate tutte le etnie (il bianco americano, l’orientale dagli occhi a mandorla, il pallido russo europeo e la longilinea africana di colore).
Ciò che ha fatto, fin dall’inizio, la fortuna di Star Trek è stato, infatti, non solo l’inconfondibile, duraturo ottimismo, ma la sua ibridazione interrazziale.
Soltanto un regista come il newyorkese J.
J.
Abrams – che di talento, a soli quarantadue anni, ne ha parecchio – poteva prendersi il rischio di girare l’undicesimo film e portarlo alle vette del successo e della visibilità, ritornando all’origine dell’Enterprise, agli anni giovanili del suo equipaggio, ai suoi “eroici furori”.
Facciamo conoscenza con i ragazzi e le ragazze, perfetti ed efficienti nelle loro tute colorate diventate, già quarant’anni fa, un fenomeno di moda, e finalmente ci viene svelato perché si sono conosciuti, come partecipano al primo dei loro viaggi stellari, sfrecciando oltre la velocità della luce con la “propulsione a curvatura” (copiata poi da Star Wars).
Anche questa volta fanno abbondante uso del teletrasporto, visitando pianeti più o meno pericolosi ed entrando in contatto con civiltà buone e cattive, le prime da aiutare e le seconde da redimere, prima che da combattere.
Produttore e scrittore di tre intriganti serie televisive di incondizionato successo – Alias, Lost e Fringe – e regista del terzo capitolo di Mission Impossible, Abrams ha preso in mano un soggetto cinematografico che, parlando del futuro, sembrava non averne più e lo ha trasformato in un film rocambolesco, ambizioso, godibilissimo.
Rimanendo, anche nel nuovo, fedele all’originale.
“La mia è una storia ottimistica – afferma il regista americano – come lo era la prima serie televisiva.
Fa riferimento ad alcune paure classiche che troviamo nei racconti di fantascienza, ma tutto il film è segnato da un profondo senso di speranza, connesso alla visione di quale potrebbe essere il nostro futuro”.
Dopo molti guai e molte paure, il giovane Kirk, orfano di padre, scavezzacollo e strafottente, capirà il valore e il senso del bene comune e la responsabilità che lo deve sostenere.
Spock, dal canto suo, interpretato da Zachary Quinto – suscita, inevitabilmente, l’applauso dei fan in sala il cammeo di Leonard Nimoy, il primo a dar volto al vulcaniano – orfano di madre, dovrà scendere a compromessi che stridono con la sua cultura ferrea e superiore, con la sua glaciale logica “vulcaniana”, facendosi “contaminare” dall’amore, dal sentimento e dalla lealtà.
Chris Pine, volto sconosciuto, perfetto per interpretare Kirk, coglie assai bene lo spirito del suo personaggio:  “Da giovane è un ragazzo arrabbiato, arrogante, fragile, che cerca di mascherare un’incredibile insicurezza e paura.
Non è sicuro se vuole rimanere all’ombra della memoria del padre, che lo schiaccia.
La parte interessante del suo viaggio è proprio quella di imparare come imbrigliare tutte le emozioni che nascono da questo suo conflitto, passando dall’essere un giovane scriteriato alla maturità di un capitano concentrato e responsabile.
Non è un supereroe, ma un uomo che affronta fin da giovane tremende sfide”.
Se volessimo parlare di fantascienza edificante, Star Trek di Abrams potrebbe dirsi un singolare, avvincente gioiello del genere.
(©L’Osservatore Romano – 10 maggio 2009)

“Il caso Galileo. Una rilettura storica, filosofica, teologica”

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parteciperà all’inaugurazione del convegno internazionale di studi “Il caso Galileo.
Una rilettura storica, filosofica, teologica”, in programma a Firenze dal 26 al 30 maggio e organizzato dall’Istituto Stensen dei gesuiti di Firenze, diretto da Padre Ennio Brovedani sj, ideatore dell’iniziativa.    Il convegno verrà inaugurato martedì 26 maggio nella basilica di Santa Croce – mausoleo dei sommi italiani, dove si trova la tomba di Galileo – con le lectiones magistrales di Nicola Cabibbo (presidente della Pontificia Accademia delle Scienze) e Paolo Rossi (Professore emerito di Storia della Scienza dell’Università degli Studi di Firenze).
Oltre al Presidente della Repubblica, saranno presenti numerose autorità del mondo istituzionale italiano.
  “Ritengo che, visti gli ampi strumenti che verranno messi sul tavolo, il convegno potrebbe portare realmente ad una svolta storica della complessa questione galileiana, una delle più scottanti della storia – ha detto Paolo Rossi – Il convegno affronta, con un’ampiezza finora intentata, tutti i temi essenziali: la condanna della dottrina di Copernico nel 1616 e il processo a Galileo del 1633; la genesi del “caso Galilei” nell’Italia, Francia e Inghilterra del Seicento; la storia di quel caso prima nell’Illuminismo e poi nell’Ottocento (nell’età del positivismo e del Risorgimento) e infine nel Novecento, fino a questi nostri giorni”.
  “La partecipazione del Presidente della Repubblica – sottolinea P.
Brovedani  – rivela che il Quirinale ha colto non solo l’evidente valore culturale del Convegno, ma anche e soprattutto la sua alta valenza politica.
La memoria del passato e la corretta contestualizzazione della ‘vicenda galileiana’ contribuirà sicuramente a favorire le condizioni per un rapporto di collaborazione e serenità tra la Chiesa e le istituzioni di ricerca, soprattutto nella prospettiva delle complesse e, a volte,  inedite problematiche filosofiche ed etiche sollevate dalle prospettive della ricerca bio-tecno-scientifica contemporanea.”   Il convegno fiorentino ha ottenuto l’adesione e la partecipazione di 18 autorevoli Istituzioni, che si ritrovano per la prima volta insieme dopo 400 anni.
Queste istituzioni, rappresentative di importanti settori della vita culturale e scientifica, sono storicamente coinvolte in una vicenda e in un evento che hanno fortemente caratterizzato l’intelligenza e la creatività italiane, innescando tuttavia tensioni mai completamente risolte nei rapporti tra la Chiesa e diversi ambiti della produzione intellettuale.
  Al convegno interverranno i massimi esperti e studiosi mondiali del tema (teologi, storici, filosofi): tra gli altri, George Coyne, Evandro Agazzi, Nicola Cabibbo, Claus Arnold, Paolo Prodi, Adriano Prosperi, Annibale Fantoli, Jean-Robert Armogathe, Horst Bredekamp, Michele Ciliberto, Paolo Rossi e Paolo Galluzzi.
In allegato il programma

Padre Agostino Gemelli

Un «gran corpo con piccolissi­ma testa»: questa la metafora, incisiva ma alquanto impieto­sa, con cui padre Agostino Gemelli, qualche tempo dopo la creazione del­l’Università Cattolica, definiva il cat­tolicesimo italiano.
La notizia viene da una lettera di Arturo Carlo Jemolo, che riporta le parole pronunciate dal rettore forse in una conversazione pri­vata.
«Quanto alle masse cattoliche – scriveva Jemolo nel ’49 – ricordo che circa un quarto di secolo fa udii dalle Sue labbra un paragone molto sapido tra cattolicesimo francese ed italiano: il primo una gran testa senza corpo, il secondo un gran corpo con piccolis­sima testa».
L’Università Cattolica era stata creata da qualche anno: perché, allora, chi più sentiva la responsabi­lità di guidarla esprimeva un giudizio che faceva trapelare dubbi e perples­sità sul grado di maturazione cultura­le di quel mondo cattolico che l’ave­va prodotta? Gemelli metteva a con­fronto la creatività del cattolicesimo francese e le caratteristiche del movi­mento generato dall’Opera dei con­gressi, un tronco solido da cui erano germinati molti polloni, ma anche un ‘corpo’ cui mancavano menti capa­ci di indirizzarlo nel difficile confron­to tra prospettiva religiosa e moder­nità.
Era questo il compito che si era addossato, non coincidente solo con una sfida privata tra la foggia france­scana del saio che lo rivestiva e l’e­spulsione del cattolicesimo dai domi­ni della ragione laica, comminata da alcuni cultori della modernità nel cli­ma positivista di fine Ottocento, in cui lui stesso si era formato.
I cattolici – sosteneva Gemelli – non devono confutare astrattamente i ne­mici della fede, bensì contribuire «con la pura indagine scientifica» a formu­lare nuove conclusioni, per far risal­tare l’incompletezza e l’incoerenza del sistema di pensiero degli ‘avversari’.
Ecco perché il rettore, amante delle scienze sperimentali, psicologo, in­dagatore che si avvaleva di mezzi di osservazione all’avanguardia, persi­no pilota all’età di sessant’anni, non aveva nulla dell’uomo di altri tempi.
Il medievalismo non gli impediva di dar vita a un’impresa culturale (l’Uni­versità) che non doveva aver nulla di arcaico.
Al centro di tale disegno vi e­ra l’auspicio di una metamorfosi po­litica, sociale e culturale, che l’ateneo avrebbe dovuto favorire formando quadri rinnovati.
N on bastava creare un appar­tato giardino delle intelligen­ze cattoliche, per preservarle dai contagi della cultura laica; l’uni­versità ‘libera’ si candidava invece a fucina in cui sarebbe stata forgiata u­na classe dirigente integralmente cat­tolica e, allo stesso tempo, pienamen­te nazionale.
E infatti l’ateneo era strutturato per fornire agli studenti i saperi necessari ai compiti civili cui e­rano destinati: le discipline sociali e le scienze economiche, sostenute da un lato dalle conoscenze psicologiche che il rettore aveva fatto fruttare sul terre­no patriottico, e dall’altro dall’ausilio dei filosofi neoscolastici, intenti a de­finire i criteri edificatori del nuovo Sta­to, avrebbero dovuto collocare l’ate­neo del Sacro Cuore al centro del pro­cesso di rifondazione nazionale.
Uni­versità, dunque, cattolica ma anche i­taliana, perché alimentata da un dise­gno complessivo che mirava a raffor­zare il senso di responsabilità civile della cattolicità italiana, per trasfor­marla, da luogo della contestazione degli assetti liberali, a sorgente di un modo diverso di essere cittadini.
Il fascismo si inserì in questo proget­to, alterandone parzialmente le carat­teristiche.
L’Università si trovò ben presto ad operare all’interno di un si­stema a vocazione totalitaria, che complicava la strategia del rettore.
Fi­niva allora per polemizzare, non solo con l’agnosticismo moderno, ma con la forzata attrazione dell’individuo nello Stato etico idealista, paventando un inasprimento della temperie auto­ritaria.
E infatti le autorità fasciste va­lutavano con preoccupazione l’anco­raggio al modello di Stato cattolico, preteso da Gemelli, e lo stile educati­vo dell’ateneo, accusato di «non edu­care fascistica­mente » e dunque al centro di lunghi contenziosi, mo­menti di rottura e faticose ricomposi­zioni.
La rigidità di­mostrata da Gemelli si spiega anche con la necessità di porre un argine nei con­fronti di aperture pericolose per la collocazione di u­na libera università in età dittatoriale.
La scelta per la ri­gorosa ortodossia diveniva, non solo un limite alla ricerca individuale, ma una specie di difesa dal mondo che Gemelli si augurava funzionasse an­che nei confronti della dittatura.
L’i­namovibilità dottrinale, peraltro, era il sostrato che apriva a una sorta di sperimentalismo in diversi settori.
Quanto al fascismo, si può osservare che, pur fra cedimenti e alterazioni del progetto, Gemelli riuscì a difendere l’intuizione originaria, apprestando, in vista della successione, una porzione notevole della classe dirigente che ha guidato il Paese dopo il ’45.
L’Uni­versità Cattolica, che già forniva gio­vani all’insegnamento, alle carriere u­niversitarie e alle libere professioni, vide molti docenti e laureati entrare nelle istituzioni nazionali, nella pub­blica amministrazione, negli enti lo­cali e nei punti nevralgici per la rico­struzione del Paese, contribuendo al­la rinascita democratica, alla fonda­zione della Dc ( i documenti ci dico­no che padre Ge­melli, d’accordo con Montini e con De Gasperi, ha convinto Pio XII dell’opportunità di sostenere il na­scente partito cat­tolico), all’Assem­blea costituente, alla ripresa econo­mica e al ripristino di libere attività sindacali.
Parlare del suo rettore si­gnifica insomma riflettere su un in­tellettuale e su un organizzatore di cultura che non ha esitato a fare i conti con la propria e­poca.
Si devono discutere i risultati ot­tenuti, le luci e le ombre di quella at­titudine progettuale, gli esiti teorici e pratici, non ultimo, probabilmente, il fardello ideologico trasmesso ai suoi e­redi.
Tali valutazioni, tuttavia, devono riconoscere a padre Gemelli almeno una capacità: quella di incidere sul proprio tempo, una capacità che for­se altre volte, in campo cattolico, ha faticato a mostrarsi.
Maria Bocci I rapporti tra Ratti e Gemelli venivano da lontano.
Non è escluso che all’inizio del Novecento l’allora dottore dell’Ambrosiana possa avere avuto qualche influsso sulla conversione del giovane scienziato positivista e socialista.
L’ipotesi è avvalorata da un cenno contenuto nella commemorazione del Papa appena defunto fatta dal rettore il 28 febbraio del 1939, due settimane appena dopo la sua scomparsa.
Riferendosi agli anni in cui Ratti aveva lavorato all’Ambrosiana, disse che “le sue ore di riposo erano dedicate alla lettura e alla amicizia di uomini di profondo senso religioso”.
Ma, aggiunse, egli “coltivava anche altre amicizie, per quell’istinto che il Sacerdote ha di cercare le anime lontane da Dio e che hanno bisogno del Sacerdozio”.
È molto probabile che Gemelli intendesse includere fra quelle anime anche la sua.
Poi il futuro pontefice era passato indenne attraverso la vicenda modernista – “mantenne una posizione di equilibrio”, ricorda Gemelli nella commemorazione appena citata – nonostante l’amicizia che lo legava a Gallarati Scotti, ed era successivamente salito prima al vertice dell’Ambrosiana e poi della Biblioteca Vaticana, non toccato, evidentemente, dai dubbi di Pio x sulle infiltrazioni modernistiche nella diocesi di Milano.  Ma da uomo di libri e di cultura, abituato a muoversi nel mondo scientifico, fra gli intellettuali e gli studiosi, non solo in Italia, era ben consapevole della modestia della cultura cattolica del nostro Paese, della sua inferiorità rispetto alla situazione di altri nazioni europee.
Nicola Raponi ha opportunamente ricordato la sua partecipazione al Congresso degli scienziati cattolici svoltosi a Friburgo nel mese di agosto del 1897.
In quella sede le critiche rivolte agli studi cattolici italiani furono impietose, fino alla bocciatura dell’idea di tenere a Roma il successivo congresso, motivata dal fatto che da Roma e dall’Italia non venivano né luci di scienza, né pubblicazioni di rilievo, né riviste importanti, né uomini significativi.
La discussione che si svolse dopo l’assise tedesca sulle pagine della “Rassegna nazionale”, della “Cultura sociale” di Romolo Murri e, proprio ad opera di Ratti, della “Rivista Internazionale di Scienze Sociali”, cambiò prospettiva all’idea di istituire una università cattolica in Italia.
Da problema giuridico e antagonistico, come era stato posto fino ad allora in seno all’Opera dei Congressi, divenne problema di sostanza:  uomini da formare, attitudini e sensibilità da creare, collegamenti internazionali da promuovere.
Gemelli, che allora stava iniziando i suoi studi accademici, raccoglierà in seguito queste idee e con esse il testimone di un progetto che sarebbe stato insieme di rinnovamento delle forze cattoliche, di scontro con la predominante cultura scientista e anticattolica, ma anche di costruttiva rifondazione della vita nazionale.
La lunga crisi che seguì la Prima guerra mondiale, la strisciante guerra civile che preparò la vittoria del fascismo, dimostrò che l’Italia liberale era giunta al capolinea, cosa che non poteva dispiacere all’anima intransigente di cui erano profondamente nutriti tanto Achille Ratti, che si era formato proprio negli anni della protesta ottocentesca, quanto Agostino Gemelli, a motivo della sua conversione.
Non era crollata l’Italia, esito a lungo sperato dall’intransigenza postrisorgimentale, ma era crollato il regime politico che l’aveva fatta.
Il senso del celebre discorso di Pio XI ai quadri dell’Università Cattolica, tenuto il 13 febbraio del 1929, era in fondo questo.
Non era nata un’Italia migliore, ma almeno era finita quella peggiore, cioè l’Italia “della scuola liberale – disse il Papa – per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, erano altrettanti feticci”.
Subito, infatti, era stato possibile restituire status giuridico e piena dignità di soggetto internazionale alla Santa Sede attraverso i Patti Lateranensi, “grazie ad un uomo” , per citare le esatte parole del pontefice, “come quello che la Provvidenza “Ci ha fatto incontrare””.
Mussolini non era insomma “l’uomo della Provvidenza” di tante semplificazioni, bensì il casuale interlocutore che rese possibile la soluzione dell’annoso conflitto proprio perché era estraneo alle pregiudiziali del liberalismo.
Ora toccava ai cattolici costruire, sui cocci e sulle macerie di quei “disordinamenti”, il futuro del Paese.
E l’Università Cattolica si proponeva come la punta di diamante della ricostruzione.
Ma occorreva che non vi fossero altre istituzioni analoghe per non frammentare un disegno nazionale che solo dall’unicità dell’indirizzo e del riferimento avrebbe tratto senso, come ha ricordato proprio qui in Cattolica qualche anno fa Giuseppe Dalla Torre, rammentando l’opposizione di Gemelli alla costituzione, a Roma, di quella che oggi è la Libera Università Maria Santissima Assunta (Lumsa), cioè di un secondo polo universitario cattolico.
Non erano allora preventivabili i tempi della fine del fascismo né gli sviluppi successivi, con il lungo governo della Democrazia Cristiana, ma alla luce di quanto è poi avvenuto non si può non riconoscere che il disegno del Papa e di Agostino Gemelli guardasse molto lontano.
Questo disegno è prefigurato, più o meno chiaramente, nella lunga lettera che Ratti aveva inviato a Gemelli dalla nunziatura di Varsavia il 28 marzo del 1921, tanto lunga che prima di concluderla sentì il bisogno di scusarsi di avere scritto sopra e oltre le righe.
In quella lettera, esprimendo tutto il suo incontenibile entusiasmo per la fondazione dell’Università, il futuro pontefice si era espresso in termini molto simili a quelli che userà il rettore, come vedremo fra poco, sebbene con il linguaggio sovrabbondante che gli era caratteristico, così diverso dal periodare secco ed essenziale del francescano.
Scriveva il futuro pontefice:  “Forse mai come adesso è stato grande e stringente il bisogno di tali aiuti (gli aiuti divini, ndr) mentre la società disfatta e dissanguata alla guerra mondiale e dalle sue conseguenze immediate anela ad una restaurazione, ad una rinascita che non possono venirle se non appunto dalla scienza e dalla sapienza di cui il Cuore divino serba il tesoro e il segreto.
È ben qui dove è dato vedere una particolare utilità e necessità di una Università cattolica in Italia.
Soltanto un istituto di alta cultura scientifica dove il Dio delle scienze e la scienza di Dio tengono il posto che loro serbarono Dante e Manzoni, soltanto una tale Istituzione può procurare alla restaurazione e rinascita cristiana della società i più utili e insieme i più necessari elementi di azione e di reazione, di direzione soprattutto; preparando dei laici di una completa formazione scientifica, insieme e cattolica, che è quanto dire scientificamente e cattolicamente consapevoli e persuasi dei diritti di Dio e della Chiesa, dei bisogni della società e della patria, dei fini da raggiungere e dei mezzi da impiegare per provvedere agli uni e agli altri”.
È in questo quadro, dentro i progetti e le illusioni di poter costruire una nuova Italia, che si situa la battaglia per la libertà della scuola, anch’essa portata avanti congiuntamente e in piena sintonia dal Papa e dal rettore.
Il tema della libertà della scuola era stata la punta di diamante delle vecchie lotte dell’intransigenza, ma nel clima postbellico e in presenza di un regime politico come quello fascista, in particolare dopo la Conciliazione, la questione entra in una prospettiva nuova, di competizione piuttosto che di contrapposizione, si rivolge al futuro piuttosto che guardare al passato, come ha ricordato con acutezza in un convegno di qualche anno fa Maria Bocci.
Per Gemelli e per Ratti era certamente necessario sottrarre i cattolici ai luoghi di formazione laicisti e anticlericali, ma non era meno importante contribuire al rinnovamento della vita nazionale portando linfa nuova, energie finora inutilizzate quando non apertamente respinte.
La guerra aveva rivelato la fragilità del tessuto nazionale, la debolezza del senso di appartenenza, l’estraneità delle classi dirigenti rispetto all’anima profonda del Paese.
E ora la crisi dello stato liberale portava a conclusione un intero ciclo storico, aprendo alle forze sociali e culturali rimaste fino ad allora escluse spazi che chiedevano soltanto di essere occupati.
“L’università cattolica – disse il rettore nella relazione di apertura dell’anno accademico 1923-24 – nasceva nel dicembre del 1921 come un esperimento fondato soprattutto sulla fiducia che anche noi cattolici abbiamo nel risorgimento della grandezza del nostro Paese e sulla persuasione che da decenni ci anima, e cioè che la scuola potrà contribuire più di ogni altro istituto a questo risorgimento nazionale, solo se essa sarà libera e se potranno, nel promuoverne l’incremento, cimentarsi in nobile gara, mirando solo all’educazione e alla formazione delle nuove generazioni, tutte le energie sane e fattive del Paese”.  Per Gemelli, e per gli uomini della sua generazione, era chiarissimo quello che per noi oggi è meno chiaro:  che l’Italia non è fondata su armonie sociali prestabilite, ma è un Paese costruito attraverso contrapposizioni, disarmonie, strappi, diversità storiche, ideologiche, culturali, sociali.
Se questa è l’Italia, un Paese lacerato, tutt’altro che compatto, la pretesa di imporre a tutti il medesimo itinerario educativo, neutro e agnostico, era mera illusione.
Molto più realistico era prendere atto di queste eterogeneità e consentire, dentro un comune quadro normativo, la libera competizione di istituti scolastici dichiaratamente orientati, tali da garantire alle famiglie il diritto di scegliere per i figli percorsi educativi coerenti.
Col tempo e con il dispiegarsi del disegno totalitario fascista, cioè dello Stato etico di marca gentiliana, questa idea si caricò di significati nuovi, imprevisti e imprevedibili al momento della nascita dell’Università.
Da rivendicazione di sapore quasi confessionale, come era stata nella vecchia cultura cattolica, divenne difesa della libertà di tutti, benché riferita soprattutto alle prerogative della Chiesa, come scrisse Pio XI nel 1931, nell’enciclica Non abbiamo bisogno.
Il proposito “di monopolizzare interamente la gioventù, dalla primissima fanciullezza fino all’età adulta – affermò il Papa nell’enciclica – a tutto ed esclusivo vantaggio di un partito, di un regime, sulla base di un’ideologia che dichiaratamente si risolve in una vera e propria statolatria pagana”, confligge irrimediabilmente con i “diritti naturali della famiglia e coi diritti soprannaturali della Chiesa”.
La lotta per il riconoscimento della scuola libera diventava, nella prospettiva comune al Papa e a Gemelli, non tanto lotta per la libertà di coscienza, che sarebbe stato andare troppo oltre l’ecclesiologia del tempo, ma lotta strenua per la “libertà delle coscienze”, della quale la famiglia era l’irrinunciabile baluardo, in una concezione del vivere sociale alternativa a quella del fascismo, concezione che intendeva lo Stato come ente sussidiario di istituti preesistenti e non come istituto monopolistico, totalizzante e fondante il diritto.
La famiglia aveva diritti e doveri che precedevano quelli dello Stato, soprattutto in materia di educazione e istruzione dei figli.
Queste erano prerogative che lo Stato non poteva manomettere Sul tema della famiglia intesa come ultimo, estremo bastione difensivo davanti all’avanzata dello stato etico, l’archivio dell’Università Cattolica conserva quattro chiarissimi memoriali inviati da Gemelli al Papa, purtroppo non datati.
L’Ateneo del Sacro Cuore, anello conclusivo di un percorso scolastico che si voleva alternativo a quello della scuola e dell’università statale, divenne così una sorta di bandiera della cattolicità italiana, fermamente difesa dalla Santa Sede e oggetto fino all’ultimo delle trattative concordatarie.
Conservato nell’archivio dell’università c’è un lungo promemoria inviato da Gemelli all’avvocato Francesco Pacelli il 6 febbraio del 1929, solo qualche giorno prima della conclusione dei Patti, volto a fissare i termini giuridici con i quali l’università avrebbe dovuto essere indicata nel concordato.
Non mi soffermo su questo documento.
È importante però precisare che per volontà del Papa, una volontà che in questo caso si sovrappose e si impose a quella del rettore, diversamente orientata, non fu mai messa in dubbio la sua natura di università statale piuttosto che pontificia.
Il Papa era convinto che in questo secondo caso si sarebbe sganciato l’ateneo dal sistema pubblico italiano, compromettendone il carattere nazionale, voluto fin dall’inizio, nonchè il prestigio accumulato nel mondo scientifico e accademico del Paese.
Gianpaolo Romanato (©L’Osservatore Romano – 27-28 aprile 2009)

Earth Day: Il Giorno della Terra

Il 22 aprile si é celebrato in pompa magna in quasi tutta la terra (prima nell’emisfero Nord e poi in quello Sud) l’ “Earth Day”, cioè la Giornata della terra.
Questa umanità ipocrita che per il suo comodo stare sta dilaniando foreste, mari, monti, bestie- che certe volte sono più degne dell’uomo- una volta all’anno celebra la Terra che- come pure i più imbecilli sanno, non ha molto da vivere davanti a sé, seppure sia un qualcosa di meraviglioso e stupendo, creato da Dio come dicono i credenti, usciti dal Big Bang come sostengono molti scienziati che però ancora non sono arrivati a dimostrare il famoso inizio del “Bang”(e non lo scopriranno perché la creazione è un mistero troppo grande per la piccola mente umana).
Nel corso degli anni, ho riportato la voce di scienziati, di astronomi, di sociologi, di umanisti che mi avvertivano di informare sul disastro cui andava incontro l’umanità se non si dava una regolata nei consumi, nello strafare e nella prepotenza del mondo ricco sul mondo povero.
Ma si sa, le “piccole voci” che non hanno supporti politici sono soffocate, ammutolite.
Certe volte, mi sembra di rivedere il dramma di Sodoma e Gomorra raccontato nella Bibbia(Gn 18 e 19) i cui abitanti ridevano e sghignazzavano, si davano ai bagordi di ogni genere, credendosi “immortali”.
Sulla Terra, niente è immortale, tranne il pensiero che- certe volte- indirizza gli uomini e le donne a trovare dei “rimedi” per aiutare i propri simili a credere nel Bene.
Naturalmente, come al solito , nell’insieme dei fatti che presento, ce n’è per tutti: sfruttatori e amici della Terra Madre.
Terra madre Regia di Ermanno Olmi [Terra madre, 2009, Documentario, durata 78′] Con Ampello Bucci, Maurizio Gelati, Carlo Petrini, Pier Paolo Poggio, Marco Rizzone, Aldo Schiavone, Vandana Shiva, Angelo Vescovi Il regista denuncia i disastri ambientali e prende spunto dal Forum Mondiale Terra Madre, tenutosi a Torino nel 2006, per poi seguire nei luoghi d’origine alcuni dei protagonisti del Forum: dalle isole Svalbard (Nord della Novergia) per filmare l’inaugurazione della Banca Mondiale dei Semi, a Dehradun (regione Uttaranchal, Nord dell’India) per riprendere la raccolta del riso, nei pressi della Navdanya Farm, la fattoria di Vandana Shiva, dove sono custoditi i semi del riso tramandati di generazione in generazione sino a Quarto d’Altino, Comune di Roncade nel Veneto, dove racconta la storia di un contadino.
Il lavoro di Olmi è stato presentato a Berlino 2009, però uscirà nei cinema in Italia:08 maggio 2009.
Il Giorno della Terra, in inglese Earth Day è il nome usato per indicare due diverse festività: una che si tiene annualmente ogni primavera nell’emisfero nord del pianeta, e un’altra in autunno nell’emisfero sud, dedicate entrambe all’ambiente e alla salvaguardia del pianeta Terra.
Le Nazioni Unite celebrano questa festa ogni anno nell’equinozio di primavera, ma è un’osservanza ufficializzarla il 22 aprile di ciascun anno.
La festività è riconosciuta da ben 175 nazioni e viene celebrata da migliaia e migliaia di persone.
L’Earth Day fu celebrato a livello internazionale per la prima volta il 22 aprile 1970 per sottolineare la necessità della conservazione delle risorse naturali della Terra.
Nato come movimento universitario, nel tempo, l’Earth Day è divenuto un avvenimento educativo ed informativo.
I gruppi ecologisti lo utilizzano come occasione per valutare le problematiche del pianeta: l’inquinamento di aria, acqua e suolo, la distruzione degli ecosistemi, le migliaia di piante e specie animali che scompaiono, e l’esaurimento delle risorse non rinnovabili.
Si insiste in soluzioni che permettano di eliminare gli effetti negativi delle attività dell’uomo; queste soluzioni includono il riciclo dei materiali, la conservazione delle risorse naturali come il petrolio e i gas fossili, il divieto di utilizzare prodotti chimici dannosi, la cessazione della distruzione di habitat fondamentali come i boschi umidi e la protezione delle specie minacciate.
Tutti, a prescindere dalla razza, dal sesso, da quanto guadagnino o in che parte del mondo vivano, hanno il diritto morale a un ambiente sano e sostenibile.
L’Earth Day, il giorno della Terra, da quasi quarant’anni si basa saldamente su questo principio.
Il 22 aprile del 1970, 20 milioni di cittadini americani, rispondendo a un appello del senatore democratico Gaylord Nelson, si mobilitarono in una storica manifestazione a difesa del nostro pianeta.
Oggi, su questo principio quanto mai d’attualità si sono mobilitati ancora, in 174 paesi del mondo.
L’Earth Day 2009 ha segnato anche l’inizio di un’ ampia campagna di sensibilizzazione denominata dagli organizzatori “Green Generation Campaign” i cui punti principali sono la ricerca di un futuro basato sulle energie rinnovabili, che ponga fine alla nostra comune dipendenza dai combustibili fossili, incluso il carbone.
Un impegno personale a un consumo responsabile e sostenibile.
La creazione di una “economia verde” che tolga la gente dalla povertà con la creazione di milioni di “posti di lavoro verdi” e trasformi anche il sistema educativo globale in un sistema educativo “verde”.
Il 22 aprile 2009, Giorno della Terra, è stata l’occasione per migliaia di eventi organizzati in scuole, comunità, villaggi e città nel mondo.
In Italia, per il terzo anno consecutivo, a promuovere la manifestazione è stato Nat Geo Music, il canale musicale di National Geographic( quello che ha commissionato a Cementato il suo “predicavideo sulla Terra”.
Non dimentichiamo che è stato proiettato nelle varie sale italiane i “Earth – La nostra terra”, prodotto della DisneyNature.
«Earth» è un inno alla natura con immagine di paesaggi incontaminati e animali ripresi nel loro ambiente naturale.
Il settimanale Topolino è in edicola con un numero a Impatto Zero.
Grazie all’adesione al progetto di LifeGate, il magazine Disney compenserà le emissioni di gas ad effetto serra generate dalla produzione di ogni copia, con la creazione e tutela di nuove foreste in Italia e nel mondo.
Anche «Il Sole 24 Ore» partecipa all’iniziativa: dal 21 aprile le emissioni di CO2 legate al ciclo di vita Sole24ore.com saranno compensate con la creazione e la tutela di nuove foreste nel Parco del Ticino, Madagascar e Costa Rica grazie alla collaborazione con Lifegate e Lexmark.
A www.decrescita.com.terra vi è il blog che raccoglie informazioni e organizza eventi per l’Earth Day 2009.
Ma intanto, cominciamo a non sprecare l’acqua, a non essere schizzinosi nel mangiare, a non usare tutti i detersivi variamente pubblicizzati, a sopportare con più pazienza i cambi atmosferici.
Io( e con me tutti) “speriamo che me la cavo”! Figurarsi se mancava Celentano! Su Sky ha presentato Sognando Chernobyl, ovviamente commissionatogli sia da Sky che da Nat Geo Music.
Egli, predicatore “eccellente” ha detto che «Tutti quanti insieme salteremo in aria bum!»( che grande scoperta) Sempre per l’Earth Day arriva in tutte le radio il nuovo singolo dei Rio (band formata da Marco Ligabue, fratello di Luciano, e Fabio Mora).
A dare manforte al duo saranno il comico Paolo Rossi e Fiorella Mannoia: il primo recita una filastrocca all’inizio del brano, mentre Fiorella fa da contrappunto ai gorgheggi di Ligabue Jr.
e Mora.
«Con questa canzone – spiegano i Rio – appoggiamo il progetto Impatto Zero.
Essi dichiarano che “Tutti dovremmo fare un piccolo gesto per questo pianeta schiacciato da quello che noi chiamiamo “gigante”.
Un robot-transformer bestiale e inquinante che rappresenta il tempo moderno e non si cura di nulla in nome degli interessi economici».
Al progetto italiano Impatto Zero Lifegate aderiscono ricercatori, universitari, ambientalisti: l’obiettivo è rendere concreti gli intenti del protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di CO2 attraverso la creazione di nuove foreste”.

Francesco oggi è ancora “Il giullare di Dio”?

Nel suo “Testamento” scritto poco prima di morire, Francesco annotò: “Nessuno mi insegnava quel che io dovevo fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo il Santo Vangelo”.
Per questo è considerato il più grande santo della fine del Medioevo; egli fu una figura sbocciata completamente dalla grazia e dalla sua interiorità, non spiegabile per niente con l’ambiente spirituale da cui proveniva.
Ma proprio a lui toccò in un modo provvidenziale, di dare la risposta agli interrogativi più profondi del suo tempo.
Avendo messo in luce con la sua vita i principi universali del Vangelo, con una semplicità e amabilità stupefacenti, senza imporre mai nulla a nessuno, ebbe un influsso straordinario, che dura tuttora, non solo nel mondo cristiano ma anche al di fuori di esso.
Origini e gioventù Francesco, l’apostolo della povertà, in effetti era figlio di ricchi, nacque ad Assisi nei primi del 1182 da Pietro di Bernardone, agiato mercante di panni e dalla nobile Giovanna detta “la Pica”, di origine provenzale.
In omaggio alla nascita di Gesù, la religiosissima madonna Pica, volle partorire il bambino in una stalla improvvisata al pianterreno della casa paterna, in seguito detta “la stalletta” o “Oratorio di s.
Francesco piccolino”, ubicata presso la piazza principale della città umbra.
La madre in assenza del marito Pietro, impegnato in un viaggio di affari in Provenza, lo battezzò con il nome di Giovanni, in onore del Battista; ma ritornato il padre, questi volle aggiungergli il nome di Francesco che prevarrà poi sul primo.
Questo nome era l’equivalente medioevale di ‘francese’ e fu posto in omaggio alla Francia, meta dei suoi frequenti viaggi e occasioni di mercato; disse s.
Bonaventura suo biografo: “per destinarlo a continuare il suo commercio di panni franceschi”; ma forse anche in omaggio alla moglie francese, ciò spiega la familiarità con questa lingua da parte di Francesco, che l’aveva imparata dalla madre.
Crebbe tra gli agi della sua famiglia, che come tutti i ricchi del luogo, godeva dei tanti privilegi imperiali, concessi loro dal governatore della città, il duca di Spoleto Corrado di Lützen.
Come istruzione aveva appreso le nozioni essenziali presso la scuola parrocchiale di San Giorgio e le sue cognizioni letterarie erano limitate; ad ogni modo conosceva il provenzale ed era abile nel mercanteggiare le stoffe dietro gli insegnamenti del padre, che vedeva in lui un valido collaboratore e l’erede dell’attività di famiglia.
Non alto di statura, magrolino, i capelli e la barbetta scura, Francesco era estroso ed elegante, primeggiava fra i giovani, amava le allegre brigate, spendendo con una certa prodigalità il denaro paterno, tanto da essere acclamato “rex iuvenum” (re dei conviti) che lo poneva alla direzione delle feste.
Soldato e sua conversione Con la morte dell’imperatore di Germania Enrico IV (1165-1197) e l’elezione a papa del card.
Lotario di Segni, che prese il nome di Innocenzo III (1198-1216), gli scenari politici cambiarono; il nuovo papa sostenitore del potere universale della Chiesa, prese sotto la sua sovranità il ducato di Spoleto compresa Assisi, togliendolo al duca Corrado di Lützen.
Ciò portò ad una rivolta del popolo contro i nobili della città, asserviti all’imperatore e sfruttatori dei loro concittadini, essi furono cacciati dalla rocca di Assisi e si rifugiarono a Perugia; poi con l’aiuto dei perugini mossero guerra ad Assisi (1202-1203).
Francesco, con lo spirito dell’avventura che l’aveva sempre infiammato, si buttò nella lotta fra le due città così vicine e così nemiche.
Dopo la disfatta subita dai suoi concittadini a Ponte San Giovanni, egli fu fatto prigioniero dai perugini a fine 1203 e restò in carcere per un lungo terribile anno; dopo che i suoi familiari ebbero pagato un consistente riscatto, egli ritornò in famiglia con la salute ormai compromessa.
La madre lo curò amorevolmente durante la lunga malattia; ma una volta guarito egli non era più quello di prima, la sofferenza aveva scavato nel suo animo un’indelebile solco, non sentiva più nessuna attrattiva per la vita spensierata e i suoi antichi amici non potevano più stimolarlo.
Come ogni animo nobile del suo tempo, pensò di arruolarsi nella cavalleria del conte Gualtiero di Brenne, che in Puglia combatteva per il papa; ma giunto a Spoleto cadde in preda ad uno strano malessere e la notte ebbe un sogno rivelatore con una voce misteriosa che lo invitava a “servire il padrone invece che il servo” e quindi di ritornare ad Assisi.
Colpito dalla rivelazione, tornò alla sua città, accolto con preoccupazione dal padre e con una certa disapprovazione di buona parte dei concittadini.
Lasciò definitivamente le allegre brigate per dedicarsi ad una vita d’intensa meditazione e pietà, avvertendo nel suo cuore il desiderio di servire il gran Re, ma non sapendo come; andò anche in pellegrinaggio a San Pietro in Roma con la speranza di trovare chiarezza.
Ritornato deluso ad Assisi, continuò nelle opere di carità verso i poveri ed i lebbrosi, ma fu solo nell’autunno 1205 che Dio gli parlò; era assorto in preghiera nella chiesetta campestre di San Damiano e mentre fissava un crocifisso bizantino, udì per tre volte questo invito: “Francesco va’ e ripara la mia chiesa, che come vedi, cade tutta in rovina”.
Pieno di stupore, Francesco interpretò il comando come riferendosi alla cadente chiesetta di San Damiano, pertanto si mise a ripararla con il lavoro delle sue mani, utilizzando anche il denaro paterno.
A questo punto il padre, considerandolo ormai irrecuperabile, anzi pericoloso per sé e per gli altri, lo denunziò al tribunale del vescovo come dilapidatore dei beni di famiglia; notissima è la scena in cui Francesco denudatosi dai vestiti, li restituì al padre mentre il vescovo di Assisi Guido II, lo copriva con il mantello, a significare la sua protezione.
Il giovane fu affidato ai benedettini con la speranza che potesse trovare nel monastero la soddisfazione alle sue esigenze spirituali; i rapporti con i monaci furono buoni, ma non era quella la sua strada e ben presto riprese la sua vita di “araldo di Gesù re”, indossò i panni del penitente e prese a girare per le strade di Assisi e dei paesi vicini, pregando, servendo i più poveri, consolando i lebbrosi e ricostruendo oltre San Damiano, le chiesette diroccate di San Pietro alla Spira e della Porziuncola.
La vocazione alla povertà e l’inizio della sua missione Nell’aprile del 1208, durante la celebrazione della Messa alla Porziuncola, ascoltando dal celebrante la lettura del Vangelo sulla missione degli Apostoli, Francesco comprese che le parole di Gesù riportate da Matteo (10, 9-10) si riferivano a lui: “Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento.
E in qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se ci sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza”.
Era la risposta alle sue preghiere e domande che da tempo attendeva; comprese allora che le parole del Crocifisso a San Damiano non si riferivano alla ricostruzione del piccolo tempio, ma al rinnovamento della Chiesa nei suoi membri; depose allora i panni del penitente e prese la veste “da povero”, cingendosi i fianchi con una rude corda e coprendosi il capo con il cappuccio in uso presso i contadini del tempo e camminando a piedi scalzi.
Iniziò così la vita e missione apostolica, sposando “madonna Povertà” tanto da essere poi definito “il Poverello di Assisi”, predicando con l’esempio e la parola il Vangelo come i primi apostoli.
Francesco apparve in un momento particolarmente difficile per la vita della Chiesa, travagliata da continue crisi provocate dal sorgere di movimenti di riforma ereticali e lotte di natura politica, in cui il papato era allora uno dei principali protagonisti.
In un ambiente corrotto da ecclesiastici indegni e dalle violenze della società feudale, egli non prese alcuna posizione critica, né aspirò al ruolo di riformatore dei costumi morali della Chiesa, ma ad essa si rivolse sempre con animo di figlio devoto e obbediente.
Rendendosi interprete di sentimenti diffusi nel suo tempo, prese a predicare la pace, l’uguaglianza fra gli uomini, il distacco dalle ricchezze e la dignità della povertà, l’amore per le creature di Dio e al disopra di ogni cosa, la venuta del regno di Dio.
I primi seguaci dell’Ordine dei Frati Minori Ben presto attirati dalla sua predicazione, si affiancarono a Francesco, quelli che sarebbero diventati suoi inseparabili compagni nella nuova vita: Bernardo di Quintavalle un ricco mercante, Pietro Cattani dottore in legge, Egidio contadino e poco dopo anche Leone, Rufino, Elia, Ginepro ed altri fino al numero di dodici, proprio come gli Apostoli, formanti una specie di ‘fraternità’ di chierici e laici, che vivevano alla luce di un semplice proposito di ispirazione evangelica.
Il loro era un vivere alla lettera il Vangelo, senza preoccupazioni teologiche e senza ambizioni riformatrici o contestazioni morali, indicando così una nuova vita a chi voleva vivere in carità e povertà all’interno della Chiesa; per la loro obbedienza alla gerarchia ecclesiastica, il vescovo di Assisi Guido prese a proteggerli, seguendoli con interesse e permettendo loro di predicare.
Ai primi del 1209 il gruppo si riuniva in una capanna nella località di Rivotorto, nella pianura sottostante la città di Assisi, presso la Porziuncola, iniziando così la “prima scuola” di formazione, dove durante un intero anno Francesco trasmise ai compagni il suo carisma, alternando alla preghiera, l’assistenza ai lebbrosi, la questua per sostenersi e per riparare le chiese danneggiate.
Giacché ormai essi sconfinavano fuori dalla competenza della diocesi, e ciò poteva procurare problemi, il vescovo Guido consigliò Francesco e il suo gruppo di recarsi a Roma dal papa Innocenzo III per farsi approvare la prima breve Proto-Regola del nuovo Ordine dei Frati Minori.
Regola che fu approvata oralmente dal papa, dopo un suggestivo incontro con il gruppetto, vestito dalla rozza tunica e scalzo, colpito fra l’altro da “quel giovane piccolo dagli occhi ardenti”; nacque così ufficialmente l’Ordine dei Frati Minori, che riceveva la tonsura entrando a far parte del clero.
Chiara e le clarisse Tutta Assisi parlava delle ‘bizzarie’ del giovane Francesco, che viveva in povertà con i compagni laggiù nella pianura e che spesso saliva in città a predicare il Vangelo con il permesso del vescovo, augurando a tutti “pace e bene”; nella primavera del 1209 aveva predicato perfino nella cattedrale di S.
Rufino, dove nell’attigua piazza abitava la nobile famiglia degli Affreduccio e sicuramente in quell’occasione, fra i fedeli che ascoltavano, c’era la giovanissima figlia Chiara.
Colpita dalle sue parole, prese ad innamorarsi dei suoi ideali di povertà evangelica e cominciò a contattarlo, accompagnata dall’amica Bona di Guelfuccio e inviandogli spesso un poco di denaro.
Nella notte seguente la Domenica delle Palme del 1211, abbandonò di nascosto il suo palazzo e correndo al buio attraverso i campi, giunse fino alla Porziuncola dove chiese a Francesco di dargli Dio, quel Dio che lui aveva trovato e col quale conviveva.
Francesco, davanti all’altare della Vergine, le tagliò la bionda e lunga capigliatura (ancora oggi conservata) consacrandola al Signore.
Poi l’accompagnò al monastero delle benedettine a Bastia, per sottrarla all’ira dei parenti, i quali dopo un colloquio con Chiara che mostrò loro il capo senza capelli, si convinsero a lasciarla andare.
Successivamente Chiara e le compagne che l’avevano raggiunta, si spostò dopo alterne vicende, nel piccolo convento annesso alla chiesetta di San Damiano, dove nel 1215 a 22 anni Chiara fu nominata badessa; Francesco dettò alle “Povere donne recluse di S.
Damiano” (il nome ‘Clarisse’ fu preso dopo la morte di s.
Chiara) una prima Regola di vita, sostituita più tardi da quella della stessa santa.
Chiara con le compagne, sarà l’incarnazione al femminile dell’ideale francescano, a cui si assoceranno tante successive Congregazioni di religiose.
L’ideale missionario Francesco non desiderò solo per sé e i suoi frati, l’evangelizzazione del mondo cristiano deviato dagli originari principi evangelici, ma anche raggiungere i non credenti, specie i saraceni, come venivano chiamati allora i musulmani.
Se in quell’epoca i rapporti fra il mondo cristiano e quello musulmano erano tipicamente di lotta, Francesco volle capovolgere questa mentalità, vedendo per primo in loro dei fratelli a cui annunciare il Vangelo, non con le armi ma offrendolo con amore e se necessario subire anche il martirio.
Mandò per questo i suoi frati prima dai Mori in Spagna, dove vennero condannati a morte e poi graziati dal Sultano e dopo in Marocco, dove il gruppo di frati composti da Berardo, Pietro, Accursio, Adiuto, Ottone, mentre predicavano, furono arrestati, imprigionati, flagellati e infine decapitati il 16 gennaio 1220.
Il ritorno in Portogallo dei corpi dei protomartiri, suscitò la vocazione francescana nell’allora canonico regolare di S.
Agostino, il dotto portoghese e futuro santo, Antonio da Padova.
Francesco non si scoraggiò, nel 1219-1220 volle tentare personalmente l’impresa missionaria diretto in Marocco, ma una tempesta spinse la nave sulla costa dalmata, il secondo tentativo lo fece arrivare in Spagna, occupata dai musulmani, ma si ammalò e dovette tornare indietro, infine un terzo tentativo lo fece approdare in Palestina, dove si presentò al sultano egiziano Al-Malik al Kamil nei pressi del fiume Nilo, che lo ricevette con onore, ascoltandolo con interesse; il sultano non si convertì, ma Francesco poté dimostrare che il dialogo dell’amore poteva essere possibile fra le due religioni monoteiste, dalle comuni origini in Abramo.
La seconda Regola Verso la metà del 1220, Francesco dovette ritornare in Italia per rimettere ordine fra i suoi frati, cresciuti ormai in numero considerevole, per cui l’originaria breve Regola era diventata insufficiente con la sua rigidità.
Il Poverello non aveva inteso fondare conventi ma solo delle ‘fraternità’, piccoli gruppi di fratelli che vivessero in mezzo al mondo, mostrando che la felicità non era nel possedere le cose ma nel vivere in perfetta armonia secondo i comandamenti di Dio.
Ma la folla di frati ormai sparsi per tutta l’Italia, poneva dei problemi di organizzazione, di formazione, di studio, di adattamento alle necessità dell’apostolato in un mondo sempre in evoluzione; quindi il vivere in povertà non poteva condizionare gli altri aspetti del vivere nel mondo.
Nell’affollato “capitolo delle stuoia”, tenutosi ad Assisi nel 1221, Francesco autorizzò il dotto Antonio venuto da Lisbona, d’insegnare ai frati la sacra teologia a Bologna, specie a quelli addetti alla predicazione e alle confessioni.
La nuova Regola fu dettata da Francesco a frate Leone, accolta con soddisfazione dal cardinale protettore dell’Ordine, Ugolino de’ Conti, futuro papa Gregorio IX e da tutti i frati; venne approvata il 29 novembre 1223 da papa Onorio III.
In essa si ribadiva la povertà, il lavoro manuale, la predicazione, la missione tra gl’infedeli e l’equilibrio tra azione e contemplazione; si permetteva ai frati di avere delle Case di formazione per i novizi, si stemperò un poco il concetto di divieto della proprietà.
Il presepe vivente di Greccio La notte del 24 dicembre 1223, Francesco si sentì invadere il cuore di tenerezza e di slancio volle rivivere nella selva di Greccio, vicino Rieti, l’umile nascita di Gesù Bambino con figure viventi.
Nacque così la bella e suggestiva tradizione del Presepio nel mondo cristiano, che sarà ripresa dall’arte e dalla devozione popolare lungo i secoli successivi, con l’apporto dell’opera di grandi artisti, tale da costituire un filone dell’arte a sé stante, comprendenti orafi, scenografi, pittori, scultori, costumisti, architetti; il cui apice per magnificenza, realismo, suggestività, si ammira nel Presepe settecentesco napoletano.
Il suo Calvario personale Ormai minato nel fisico per le malattie, per le fatiche, i continui spostamenti e digiuni, Francesco fu costretto a distaccarsi dal mondo e dal governo dell’Ordine, che aveva creato pur non avendone l’intenzione.
Nell’estate del 1224 si ritirò sul Monte della Verna (Alverna) nel Casentino, insieme ad alcuni dei suoi primi compagni, per celebrare con il digiuno e intensa partecipazione alla Passione di Cristo, la “Quaresima di San Michele Arcangelo”.
La mattina del 14 settembre, festa della Esaltazione della Santa Croce, mentre pregava su un fianco del monte, vide scendere dal cielo un serafino con sei ali di fiamma e di luce, che gli si avvicinò in volo rimanendo sospeso nell’aria.
Fra le ali del serafino, Francesco vide lampeggiare la figura di un uomo con mani e piedi distesi e inchiodati ad una croce; quando la visione scomparve lasciò nel cuore di Francesco un ammirabile ardore e nella carne i segni della crocifissione; per la prima volta nella storia della santità cattolica, si era verificato il miracolo delle stimmate.
Disceso dalla Verna, visibilmente dolorante e trasformato, volle ritornare ad Assisi; era anche prostrato da varie malattie, allo stomaco, alla milza e al fegato, con frequenti emottisi, inoltre la vista lo stava lasciando, a causa di un tracoma contratto durante il suo viaggio in Oriente.
Il lungo declino fisico, il “Cantico delle creature”, la morte Dopo le ultime prediche all’inizio del 1225, Francesco si rifugiò a San Damiano, nel piccolo convento annesso alla chiesetta da lui restaurata tanti anni prima e dove viveva Chiara e le sue suore.
E in questo suggestivo e spirituale luogo di preghiera, egli compose il famoso “Cantico di frate Sole” o “Cantico delle Creature”, sublime poesia, ove si comprende quanto Francesco fosse penetrato nella più intima realtà della natura, contemplando sotto ogni creatura la presenza di Dio.
Se la fede gli aveva fatto riscoprire la fratellanza universale degli uomini, tutti figli dello stesso Padre, nel ‘Cantico’ egli coglieva il legame d’amore che lega tutte le creature, animate ed inanimate, tra loro e con l’uomo, in un abbraccio planetario di fratelli e sorelle che hanno un solo scopo, dare gloria a Dio.
In questo periodo, ospite per un certo tempo nel palazzo vescovile, dettò anche il suo famoso ‘Testamento’, l’ultimo messaggio d’amore del Poverello ai suoi figli, affinché rimanessero fedeli a madonna Povertà.
Poi per l’interessamento del cardinale Ugolino e di frate Elia, Francesco accettò di sottoporsi alle cure dei medici della corte papale a Rieti; poi ancora a Fabriano, Siena e Cortona, ma nell’estate del 1226 non solo non era migliorato, ma si fece sempre più evidente il sorgere di un’altra grave malattia, l’idropisia.
Dopo un’altra sosta a Bagnara sulle montagne vicino a Nocera Umbra, perché potesse avere un po’ di refrigerio, i frati visto l’aggravarsi delle sue condizioni, decisero di trasportarlo ad Assisi e su sua richiesta all’amata Porziuncola, dove a tarda sera del 3 ottobre 1226, Francesco morì recitando il salmo 141, adagiato sulla nuda terra: aveva circa 45 anni.
Le allodole, amanti della luce e timorose del buio, nonostante che fosse già sera, vennero a roteare sul tetto dell’infermeria, a salutare con gioia il santo, che un giorno (fra Camara e Bevagna), aveva invitato gli uccelli a cantare lodando il Signore; e in altra occasione in un campo verso Montefalco aveva tenuto loro una predica, che gli uccelli immobili ascoltarono, esplodendo poi in cinguettii e voli di gioia.
La mattina del 4 ottobre, il suo corpo fu traslato con una solenne processione dalla Porziuncola alla chiesa parrocchiale di S.
Giorgio ad Assisi, dove era stato battezzato e dove aveva cominciato nel 1208 la predicazione.
Lungo il percorso il corteo si fermò a San Damiano, dove la cassa fu aperta, affinché santa Chiara e le sue “povere donne” potessero baciargli le stimmate.
Nella chiesa di San Giorgio rimase tumulato fino al 1230, quando venne portato nella Basilica inferiore, costruita da frate Elia, diventato Ministro Generale dell’Ordine.
Intanto il 16 luglio 1228, papa Gregorio IX a meno di due anni dalla morte, proclamò santo il Poverello d’Assisi, alla presenza della madre madonna Pica, del fratello Angelo e altri parenti, del vescovo Guido di Assisi, di numerosi cardinali e vescovi e di una folla di popolo mai vista, fissandone la festa al 4 ottobre.
Il culto, le leggende, i suoi Fioretti.
Gli episodi della sua vita e dei suoi primi seguaci, furono raccolti e narrati nei “Fioretti di San Francesco”, opera di anonimo trecentesco, che contribuì nel tempo alla larga diffusione del suo culto, unitamente alla prima e seconda ‘Vita’, scritte dal suo discepolo Tommaso da Celano (1190-1260), su richiesta di papa Gregorio IX.
Alcuni episodi sono entrati nell’iconografia del santo e riprodotti dall’arte, come la predica agli uccelli, il roseto in cui si rotolò per sfuggire alla tentazione, il lupo che ammansì a Gubbio, il ricevimento delle Stimmate, ecc.
È patrono dell’Umbria e di molte città, fra le quali San Francisco negli USA che da lui prese il nome; innumerevoli sono le chiese, le parrocchie, i conventi, i luoghi pubblici che portano il suo nome; come pure tanti altri santi e beati, venuti dopo di lui, che ebbero al battesimo o adottarono nella vita religiosa il suo nome.
Il grande santo di Assisi fu riconosciuto da papa Pio XII, come il “più italiano dei santi e più santo degli italiani” e il 18 giugno 1939, lo proclamò Patrono d’Italia.
Il cammino dei suoi Frati Minori.
La Regola composta da s.
Francesco su istanza del cardinale Ugolino de’ Conti, futuro papa Gregorio IX e approvata solennemente da Onorio III nel 1223, era formata da 12 capitoli, essa prescriveva una rigida e assoluta povertà, il lavoro per procurasi il cibo e l’elemosina come mezzo sussidiario di sostentamento.
Capo dell’Ordine, che si propagò rapidamente al punto che, vivente ancora il fondatore, annoverava già 13 Province, fu un Ministro Generale.
Le costituzioni furono redatte da San Bonaventura da Bagnoregio.
Mentre ancora l’organizzazione del nuovo Movimento religioso si stava consolidando, scoppiarono i primi contrasti.
I membri dell’Ordine si divisero in due fazioni: la prima intendeva adottare forme meno severe di vita comunitaria e prescindere dall’obbligo assoluto della povertà, al fine di rendere meno difficile lo sviluppo dell’Ordine stesso; la seconda al contrario, si proponeva di uniformarsi alla lettera e allo spirito delle norme lasciate dal fondatore.
I numerosi tentativi per placare i dissensi non ebbero effetto, anzi questi si acuirono di più quando Gregorio IX con la bolla “Quo elongati” (1230), concesse ai frati, che presero in seguito il nome di ‘Conventuali’, la possibilità di ricevere beni e di amministrarli per le loro esigenze.
Nel campo opposto, correnti definite ereticali, come quelle degli spirituali e dei fraticelli, rappresentarono l’ala estrema del francescanesimo e agitarono un programma di rinnovamento religioso misto ad un’auspicabile rinascita politico-sociale, che sarebbe dovuto sfociare nell’avvento del regno dello Spirito, ma si attirarono scomuniche e persecuzioni dalle autorità ecclesiastiche e feudali.
La divisione in due Movimenti, Osservanti e Conventuali, fu sanzionata nel 1517 da papa Leone X; nel 1525 papa Clemente VII approvò il nuovo ramo dei frati Cappuccini, guidato dal frate Minore Osservante Matteo da Bascio della Marca d’Ancona, dediti ad una più austera disciplina, povertà assoluta e vita eremitica; altre famiglie francescane riformate sorsero nei secoli (Alcantarini, Riformati, Amadeiti) in seno o a fianco degli Osservanti, ma tutti obbedivano al Ministro Generale dell’Osservanza.
L’Ordine francescano comprende anche il ramo femminile, le Clarisse e il Terzo Ordine dei laici o Terziari francescani, fondati dallo stesso s.
Francesco nel 1221, per raccogliere i numerosi seguaci già sposati e di ogni ordine sociale.
L’Ordine, ai cui membri dei diversi rami, Leone XIII nel 1897, ingiunse di prendere il nome comune di Frati Minori, è tra i più notevoli della Chiesa.
Oltre alle pratiche religiose e ascetiche, essi furono e sono dediti alla predicazione, ad un apostolato di tipo sociale in luoghi di cura, e soprattutto all’opera missionaria.
La prima poesia della letteratura italiana: Il Cantico delle Creature Altissimo, onnipotente, bon Signore Tue so’ le laude, la gloria et l’honore et onne benedictione.
A te solo, Altissimo, se konfanno Et nullo homo ene digno te mentovare.
Laudato si’, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, specialmente messer lo frate sole lo quale è iorno et allumini noi per lui, et ellu è bellu e radiante, cum grande splendore: de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle: in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale alle tue creature dai sostentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora acqua, la quale è molto utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu per lo quale enallumini la nocte ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra madre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore, et sostengo’ infirmitate et tribolatione.
Beati quelli ke le sosterranno in pace ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale da la quale nullo homo vivente po’ skappare.
Guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le sue sanctissime volutati, ka la morte secunda nol farrà male.
Laudate et benedicete mi’ Signore, et rengratiate et serviteli cum grande humilitate.
(S.
Francesco d’Assisi) Francesco è ancora il santo del futuro Così ha detto la regista Liliana Cavani, che gli ha dedicato due film.
«È talmente nuovo da essere inattuale: noi non siamo ancora pronti per capirlo fino in fondo».
Infatti Francesco, il poverello d’Assisi, il giullare di Dio, la cui festa è il 4 ottobre, tra i santi è una delle figure più popolari, amate e “raccontate”.
Dalle Fonti francescane ai celeberrimi affreschi di Giotto, dai Fioretti alle innumerevoli biografie romanzate, ai film, tutti hanno provato a raccontarci il “loro” Francesco.
Tra i registi che si sono occupati della sua straordinaria vicenda, Rossellini, Zeffirelli e soprattutto Liliana Cavani, che nel 1966 girò un’essenziale Francesco d’Assisi in bianco e nero e nel 1989 Francesco con Mickey Rourke.
Sempre secondo la Cavani : «Francesco è un uomo che si prende delle responsabilità verso le persone che incontra, prova simpatia, compassione, interesse, amore.
Francesco d’Assisi era uno che viveva il Vangelo alla lettera, in modo totale e ingenuo, così come ciascuno di noi ha il suo modo di interpretare il Vangelo, di vivere questa chiamata, questo incontro.
Ognuno può ricevere da lui uno stimolo a seguire il Vangelo in modo personale.
La sua caratteristica è che non riduce il Vangelo a un arzigogolo intellettualistico, a una dimostrazione di sé e nemmeno a una notizia da comunicare al mondo: Francesco non fa il comunicatore.
Sono gli altri, i suoi discepoli che lo vanno a cercare, non lui che li insegue.
Francesco d’Assisi non ha calpestato il mondo ma lo ha appena sfiorato.
A La Verna, poi, ha esercitato, oltre alla saggezza, una grande pazienza con gli organizzatori dell’Ordine, anche se lui vedeva più in là di essi e dei loro limiti.
Per la reista Francesco è sempre moderno proprio perché inattuale.
La sua è un’attualità così poetica da essere “inafferrabile”.
Anche per noi, E- speriamo- che lo sia ancora per le sue numerose famiglie che ancora riscuotono l’amicizia e l’interesse del mondo cattolico( non solo).
Il giullare di Dio All’inizio era un vero play boy.
Si comportava come quelli di Uomini e Donne: organizzava le serate e non mancava a nessuna festa o festino che si svolgeva nel suo paese.
Un giorno un uomo povero bussò alla porta di Francesco.
Gli disse: “dimmi ciò che vuoi”.
E quello, che in realtà era il Signore, gli disse “Il tuo cuore” Quando si è convertito ed ha iniziato a predicare , San Francesco non ha mai dimenticato le sue origini.
E così, mentre gli altri continuavano a frustarsi ed a far sermoni che addormentavano la gente, lui capì che per evangelizzare i popoli bisogna anche farli divertire.
E così andava in giro a cantare ed a ballare, ed a dedicare tutte le poesie d’amore che conosceva (e ne conosceva tante, visto il suo passato) al suo vero amore: Dio.
In cambio dei suoi spettacoli, il giullare di Dio non chiedeva soldi, ma chiedeva di convertirsi e credere al Vangelo.
Del resto lui, che era ricco, divenne ancor più ricco quando amò la ragazza più bella che aveva mai incontrato: la povertà.
Amava così tanto la natura che predicava agli uccelli e parlava con i lupi.
Abbracciò ed aiutò i lebbrosi, che erano come i moderni zingari.
Lo seguono ancora in tanti, che pregano, cantano ed aiutano i poveri.
Un giorno, il Vescovo ed il Signore di Assisi fecero lite.
Ma lite forte.
Ed allora Francesco arrivò, parlò del perdono, ed entrambi fecero pubblicamente pace.
Scrisse una bellissima preghiera: “Laudato si o mi Signore”.
Morì malato, ma felice e sorridente.
Se ho raccontato la storia di San Francesco è perchè è un santo diverso.
Un santo da cui dobbiamo imparare molto.
In questo mondo che ormai dà tutto per scontato, deve donarci un pò di stupore.
Nelle difficoltà deve donarci la “perfetta letizia”, perchè deve farci capire che le difficoltà della vita servono a crescere.
Al mondo sanguinante deve insegnare la Pace, e deve insegnare a far pace.
A chi non crede ispiri la speranza.
Ed ai nostri preti ed ai nostri Vescovi insegni la povertà e l’umiltà.
E faccia capire che una predica di 20 minuti non l’ ascolta nessuno.
Come diceva lui, Il Signore ci doni la Pace.
Michele, catechista( cfr.: barlo86.spaces.live.com/blog/cns!7ACC2AE9DBE70814!448.entry – 56k -) La testimonianza di questo giovane del nostro tempo , ci introduce nel modo più adatto alla presentazione di Francesco d’Assisi, ancora oggi amato e popolarissimo per la sua scelta coraggiosa di vita connotata dalla rinuncia ad ogni avere, dalla preghiera, dal rispetto per ogni creatura, tanto che è il “santo dell’ecologia”- anche se proprio non tutte le sue “famiglie” seguono alla lettera i suoi insegnamenti.
Sicuramente è il santo più popolare della tradizione cristiana.
I suoi eremi da secoli sono meta di una devozione che non ha paragoni nella storia della fede; in ogni angolo del globo a lui sono state intitolate decine di chiese e monumenti, perfino una metropoli negli States(San Francisco) porta con orgoglio il suo nome.
Di fronte a questo successo, alimentato per secoli dalla devozione di milioni di fedeli, una domanda viene spontanea: ma come fece un mercante di nome Francesco di Bernardone, nato in una modesta città dell’Umbria alla fine del 1100, a creare così tanto entusiasmo intorno a sé al punto da raggiungere nel giro di appena dieci anni l’immortalità? Non è facile dirlo.
Possiamo solamente raccontare la sua storia, secondo fonti attendibili.
Dal 15 al 18 di aprile 2009, la famiglia francescana, si riunisce alla grande per ricordare un avvenimento che ha segnato la storia della Chiesa universale: 800 anni fa, nella primavera del 1209, il papa Innocenzo III dava la sua prima approvazione alla regola di vita che frate Francesco era andato a sottoporgli.
Il “Capitolo delle stuoie”, che si svolgerà tra Assisi e Roma, non è solo celebrazione di un evento che ha mutato il volto della cristianità, ma anche memoria di un lungo percorso, talvolta travagliato ma sempre ricco di fede, della vita religiosa che in varie forme si è ispirata all’esempio del suo fondatore.
Un percorso che non è certo terminato, che è difficile, problematico, però con uno sguardo rivolto con coraggio al domani.
Ed oggi, più di ieri, l’umanità, ovvero la cristianità ha necessità di “riscoprire” stimoli fecondi per proseguire il suo cammino, magari non proprio come il “poverello d’Assisi”, ma cogliendo i suoi semi ancora troppo nuovi per l’oggi.

Aprile

La letteratura epica dell’India ha un testo, il Mahabharata che, con i suoi 90.000 versi è la più lunga epopea della letteratura universale.
L’oggetto del Mahabharata è di raccontare il conflitto che oppone due famiglie di prìncipi, i Kaurava e i Pandava in lotta per la successione del re dei Kuru.
Il conflitto sbocca in una grande guerra escatologica che annuncia la fine di un’era e l’inizio di una nuova.
Il Mahabharata, oltre ai suoi molteplici sviluppi leggendari, racchiude un testo riconosciuto come il vertice del pensiero religioso indiano e una delle più straordinarie realizzazioni del pensiero universale: la Bhagavad Gita.
La Gita riporta il dialogo tra Krishna, incarnazione di Vishnù, e Arjuna, uno dei principi guerrieri, prima di ingaggiare la battaglia.
L’insegnamento consiste nel principio che la cessazione della violenza non ha alcun valore se non è accompagnata dall’arresto dei pensieri e dei desideri violenti.
Si ritrova qui, espressa con altre parole, la posizione di Gesù a proposito del comandamento «Non uccidere» (Mt 5,21-22) e quella di Buddha che stabilisce il primato dell’azione dello spirito.
La vera saggezza non consiste nell’abbandonare ogni azione, ma nell’abbandonare lo spirito di attaccamento che ci lega all’azione.
Questo è l’insegnamento fondamentale della Bhagavad Gita: si può compiere un’azione senza essere legati ad essa, perché l’azione senza attaccamento lascia libero colui che agisce.
È sufficiente per questo spegnere il desiderio che concerne i risultati dell’azione (Bhagavad Gita, XVIII, 10,11): L’uomo saggio che rinuncia, i cui dubbi sono dissipati, la cui natura è la bontà, non ha né avversione per l’azione sgradevole, né attaccamento per l’azione gradevole.
È infatti impossibile ad ogni essere incarnato astenersi interamente dall’azione.
Ma colui che abbandona il frutto dell’azione, pratica il vero abbandono.
La Bhagavad Gita non considera la guerra sotto l’angolazione del problema morale; l’ideale è lo stato di pace: una pace che è interiore, ma che è anche nello spazio sociale.
Numerosi passi mostrano che lo spirito di tolleranza impregna tutto il romanzo.
Il “Jihad minore” è detto Jihad al-saghir.
Jihad è il termine utilizzato nei versetti del Corano in cui è definito l’atteggiamento dell’islam nei confronti della guerra.
Impropriamente tradotto nelle lingue europee con “guerra santa”, Jihad significa invece “lotta, sforzo teso verso un determinato scopo” ed è generalmente integrato nell’espressione Jihad fi sabil Allah, “sforzo sul cammino di Dio”.
La traduzione corretta di questa parola dà la misura delle concezioni islamiche: le guerre intraprese da Muhammad si situano in una prospettiva molto precisa di sforzo personale del credente così come indica questo versetto: «Sforzatevi sul cammino di Dio contro coloro che vi faranno la guerra.
Ma non commettete ingiustizie attaccando per primi, perché Dio non ama affatto gli ingiusti».
Lo spirito religioso di cui è investito il Jihad apre però la porta agli eccessi, poiché, dando un valore religioso alla guerra, si rischia inevitabilmente di trasformare la religione in un’impresa bellica.
I primi combattenti dell’islam dovevano battersi per diffondere la parola divina e compiere le loro azioni in un totale spirito di sacrificio.
Il Jihad diveniva dunque l’azione più elevata, perché, rispetto agli altri atti di sottomissione a Dio, si dava la propria vita combattendo nel Suo Nome.
I guerrieri uccisi nel Nome di Allah diventavano così i “testimoni”, si assicuravano la Salvezza eterna ed entravano immediatamente in Paradiso (Sura, II, 49): Non dite che coloro che sono uccisi sulla via di Dio sono morti.
No, essi sono vivi; ma voi non lo comprendete.
Questa morte benedetta cancella i peccati commessi e i mujahid, i combattenti del Jihad (cioè coloro che praticano lo sforzo sul cammino di Dio), compiono una delle pratiche più sante, al punto che un Hadith afferma che «il Jihad è il monachesimo dell’Islam».
Col tempo l’uso delle armi divenne meno evidente e i musulmani adottarono delle posizioni diverse su questo tema, a seconda della scuola di appartenenza.
Il problema, dopo la morte del Profeta e la sottomissione dell’Arabia, fu se il Jihad armato dovesse essere ancora perseguito.
A questa domanda i primi successori del Profeta diedero una risposta precisa: per essi il Jihad offensivo era legittimo.
I paesi vicini non musulmani erano considerati come dar el-Harb, paesi di guerra; questa espressione si contrappone al dar al-Islam, il territorio dove regnano la pace e la fede; infine vi è il dar al sulh, il territorio che paga tributi e che è retto da una convenzione specifica.
In seguito, però, le interpretazioni cominciarono a divergere e il Jihad ebbe delle interpretazioni differenti.
Fin dall’inizio della sua predicazione Muhammad si urta contro l’ostilità della maggior parte dei membri della tribù dei Kuraysh.
Per una decina d’anni, i primi seguaci dell’islam furono violentemente attaccati dai concittadini della Mecca.
L’animosità nei loro confronti spiega la risposta progressivamente offensiva dei musulmani dopo la fuga a Medina.
Con l’esilio a Medina cominciarono infatti le prime operazioni militari.
Si trattò inizialmente di semplici razzie, secondo la tradizione beduina, con uno scopo essenzialmente economico, poiché il bottino era indispensabile alla sopravvivenza degli emigrati musulmani.
Questi si trovavano infatti nel bisogno a causa del boicottaggio commerciale di cui erano oggetto da parte degli avversari della Mecca e dell’abbandono dei loro beni.
Tuttavia, poiché queste azioni erano rivolte contro le carovane della tribù dei Kuraysh, esse rivestivano pure un carattere “nuovo”, quello di “guerra santa” contro gli infedeli.
Lo scopo propriamente economico delle spedizioni, si vede così trasformato in scopo spirituale: diffondere la vera fede.
Alcune rivelazioni coraniche cominciarono, da quel momento, a fissare le regole per definire le spedizioni militari dell’islam: si stabilisce che un quinto del bottino è destinato ad Allah, al Profeta e ai bisognosi (Sura VIII, 41): Sappiate che del bottino che conquisterete, un quinto appartiene ad Allah e al Suo Messaggero, ai parenti, agli orfani, ai poveri, ai viandanti, se credete in Allah e in quello che abbiamo fatto scendere sul Nostro schiavo nel giorno del Discrimine, il giorno in cui le due schiere si incontrarono.
Allah è onnipotente.
L’Arabia preislamica rispettava una tregua nei combattimenti in alcuni mesi dell’anno considerati sacri.
Quando, un giorno, alcuni musulmani decisero di violare questa tregua e di attaccare una carovana della Mecca, tornati a Medina con il quinto del bottino da consegnare al Profeta, furono accolti nel disprezzo generale e il Profeta rifiutò di prendere la sua parte del bottino.
Poco tempo dopo ricevette una rivelazione relativa a questo fatto che formulava in modo esplicito il diritto di fare la guerra e il dovere del credente (Sura II, 212): Ti chiedono del combattimento nel mese sacro.
Di’: «Combattere in questo tempo è un grande peccato, ma più grave è frapporre ostacoli sul sentiero di Allah e distogliere da Lui e dalla Santa Moschea.
Ma, di fronte ad Allah, peggio ancora scacciarne gli abitanti.
L’oppressione è peggiore dell’omicidio».
Ebbene, essi non smetteranno di combattervi fino a farvi allontanare dalla vostra religione, se lo potessero.
E chi di voi rinnegherà la fede e morirà nella miscredenza, ecco chi avrà fallito in questa vita e nell’altra.
Ecco i compagni del Fuoco: vi rimarranno in perpetuo.
Quindi, la mancanza di fede non solo è considerata molto più nefasta della guerra, ma si afferma un concetto molto pesante, cioè che «la tentazione dell’idolatria è peggiore della carneficina».
Sembra infatti che Muhammad fosse convinto del successo ultimo della sua impresa, ricordando senza sosta l’origine divina della sua missione.
Il primo scontro importante fu quello di Badr (624) di cui la tradizione musulmana serba un ricordo leggendario.
La battaglia oppose circa 300 musulmani contro un migliaio di Kuraysh: la vittoria finale dei musulmani fu dovuta a un intervento divino che si manifestò con la venuta di angeli discesi dal cielo per combattere al loro fianco.
A partire da Badr, i guerrieri musulmani diventano davvero gli strumenti di Dio per punire coloro che lo negano: «Non siete voi che li uccidete, è Dio.
Quando tu lanciavi un dardo, non eri tu a lanciarlo, era Dio…» (Sura, VIII, 17).
Quella battaglia resterà nel cuore di tutti i musulmani come il simbolo della vittoria divina sugli infedeli.
L’unità e la conversione delle tribù arabe sottomesse all’islam era ancora fragile quando Muhammad morì nel 632 e i primi quattro califfi che gli succedettero dovettero lottare per mantenere la coesione dell’islam.
Si trovarono di fatto impegnati nella via della conquista aperta dal Profeta.
Rapidamente l’Arabia fu totalmente sottomessa e le truppe islamiche penetrarono più a nord.
L’espansione che seguì fu fulminante, e in circa 50 anni, l’islam si espanse su un territorio che andava da Gibilterra all’Indo.
Ma oramai le lotte intestine dividevano i capi.
È in questa epoca che si forgiarono i fondamenti della religione musulmana e, tra questi, un termine destinato ad avere un destino importante: il Jihad, distinto in “Jihad dei corpi” (o “Jihad minore”) e”Jihad delle anime” (o “Jihad maggiore”).
1.
Quali sono le differenti interpretazioni del Jihad? 2.
Che cosa s’intende per “Jihad Maggiore” e per “Jihad Minore”? 3.
Spiega l’ambivalenza della figura di Shiva.
4.
Qual è l’insegnamento fondamentale della Bhagavad Gita? 5.
Quali sono i fattori della filosofia buddista che favoriscono lo sviluppo della non-violenza? Il concetto di non-violenza, ahimsa, significa letteralmente “assenza del desiderio di uccidere” e trova la sua origine nei gruppi di erranti e di asceti che si opponevano alla casta sacerdotale dei bramini che praticavano il ritualismo vedico.
È in una di queste sette, il Jainismo, che l’ahimsa trovò la sua applicazione etica più radicale: il monaco deve per esempio spazzare il cammino davanti a sé per non schiacciare gli insetti, e deve coprirsi la bocca con un tessuto fine per evitare di ingoiarli.
La non-violenza di Gandhi rappresenta uno sviluppo di questa antica ahimsa.
La non-violenza gandhiana riveste due aspetti: da un lato è una tecnica di attivismo politico, dall’altro è un mezzo di superamento di se stessi con l’interiorizzazione della violenza.
Diceva Gandhi che «È l’arma dei forti con i forti»; «Io so come posso predicare con successo l’ahimsa a coloro che sanno morire, ma non a coloro che hanno paura della morte».
Certamente l’induismo non ha mai lottato e massacrato per convertire gli stranieri alla sua religione come hanno fatto il cristianesimo e l’islam, tuttavia il fanatismo è oggi largamente presente anche nell’induismo: contro il buddismo, contro l’islam (in questo caso si tratta di risposta a una aggressione) e recentemente anche contro il cristianesimo.
Nell’antica letteratura vedica si trovano numerosi passaggi guerreschi che ricordano la vocazione militare dei nomadi indoeuropei.
Alcuni inni come il seguente invocano gli dei per distruggere i nemici: Fai tremare, o Arbudi, i ranghi dell’esercito nemico, e che il vincitore e il vittorioso, ai nostri nemici, con l’assistenza di Indra, impongano la loro vittoria.
Che giaccia, schiacciato, stritolato, ucciso, il nostro nemico, o Arbudi! Che quella di cui Agni [dio del fuoco] è la lingua, e il fumo la treccia, vittoriose, marcino con il nostro esercito! I Veda presentano Indra come divinità maggiore e rappresenta la sovranità guerriera.
La civiltà degli Ariani sacralizzava la forza violenta al punto di trasformarla in fonte di vita, ed era la casta dei guerrieri che assicurava il mantenimento e lo sviluppo della ricchezza attraverso continue conquiste.
Successivamente Indra perderà la sua importanza e dall’epoca classica saranno altre divinità a contendersi il favore degli Hindù: Shiva, Vishnù e la Grande Dea; tuttavia il ruolo di Indra è interessante perché permette di cogliere il valore religioso della violenza così com’era sentita dagli Ariani in epoca vedica.
Dopo aver riflettuto sul rapporto con la guerra tenuto dalla religione ebraica e da quella cristiana, questo mese prenderemo in considerazione l’islam, l’induismo e il buddismo.
Numerosi avvenimenti recenti hanno sensibilizzato l’opinione pubblica sul contenuto politico e guerriero della religione islamica.
I fantasmi di un islam vendicativo e bellicoso sono ritornati senza però analizzare i fondamenti religiosi che sono alla base di quegli atteggiamenti.
L’islam è la sola delle grandi religioni che abbia manifestato un interesse vero per la guerra al punto da integrarla, in un certo senso, come uno dei precetti del vero credente.
D’altra parte, la posizione dell’islam sulla guerra è incomprensibile se non la si riferisce all’epoca del profeta Muhammad.
Da parte sua l’induismo non presenta un atteggiamento univoco di fronte alla guerra e alla violenza, così come di fronte ad altri aspetti della vita e della spiritualità.
L’elemento che emerge con maggior vigore è la molteplicità delle risposte: cosa vi può essere di comune tra Indra, il Dio guerriero e la pratica dell’ahimsa che rifiuta radicalmente di uccidere? Tra Shiva, il Dio distruttore, e il messaggio della Bhagavad Gita dove Krishna sceglie il campo di battaglia per consegnare al mondo uno dei più straordinari insegnamenti religiosi? Al di là di tutte le differenze ogni percorso è volto a trascendere la guerra, cioè a utilizzarla come mezzo di progresso spirituale.
Alla fine attraverso l’insegnamento della Bhagavad Gita e della non-violenza, l’induismo presenta una riflessione che regge l’impatto con il mondo moderno.
Il buddismo ha predicato una morale in cui si ritrovano i precetti comuni a tutte le grandi religioni: non uccidere, non rubare, non mentire ecc.
Tuttavia, più che nelle altre religioni, il rispetto degli altri viene praticato al punto di diventare la virtù primaria da perseguire.
Il “Jihad maggiore” è detto Jihad al-Kabir e rientra nell’ambito esoterico dell’islam.
In questo nuovo Jihad le parole “guerra” e “guerrieri” diventano simboli della condotta religiosa.
L’interpretazione del Jihad maggiore è stata sviluppata soprattutto a opera dei sufi, cioè quei santi e mistici musulmani di scuola sunnita e sciita.
Per i sufi, la “guerra santa” può essere compresa su un piano mistico ed esoterico volto alla trasformazione interiore dell’uomo.
Tale trasformazione si realizza nel senso dell’abbandono spirituale dell’individuo nella divinità, nel riconoscimento intimo che «non c’è altro Dio che Dio».
Un simile assorbimento dell’anima nell’Unico Dio richiede la purificazione, ed è proprio questa purificazione che esprime il Jihad delle anime, la grande “guerra santa”.
Questa interiorizzazione del Jihad trasforma così la lotta contro l’infedele (che è nel prossimo), in lotta contro l’infedele (che è in ciascuno).
L’oggetto del Jihad delle anime è dunque evidente: bisogna uccidere il nemico che è in noi, rinunciare agli istinti e alle passioni.
Si possono citare numerose frasi di sufi che accreditano questa interiorizzazione del Jihad.
Il grande mistico Rumi ebbe a dire: «I profeti e i santi non fanno forse anch’essi degli sforzi (Jihad)? Il primo sforzo che hanno fatto era di uccidere la bramosia della loro anima e di rinunciare ai desideri e alla concupiscenza; è qui la grande guerra (Jihad al-Kabir)».
Questa nuova visione del Jihad getta una nuova luce su diversi versetti del Corano.
Così quando questo afferma: «Combatteteli (gli infedeli) fino a quando non c’è più sedizione ed ogni fede è quella di Dio» (Sura, VIII, 40) significa, per il sufi, che bisogna combattere totalmente quelle passioni che non sono rivolte a Dio, affinché la fede della nostra anima sia tutta intera assorbita in Lui.
Tutto ciò mostra il cambiamento radicale di prospettiva sulla concezione del Jihad, a seconda se lo si considera sotto un aspetto piuttosto che sotto un altro.
Certamente, la maggior parte dei versetti del Corano che menzionano il Jihad sembra riferirsi a situazioni in cui il nemico non è interno, ma esterno; tuttavia, sarebbe negare ogni profondità spirituale al Corano e al Profeta pensare che Muhammad non abbia guardato alla lotta contro se stessi come all’applicazione ultima del Jihad.
D’altra parte, in questo senso si esprimono anche due Hadith del Profeta.
Il primo conferma l’importanza della lotta contro le passioni: Nessuno di voi sarà un credente se non avrà assoggettato le passioni a ciò che ho portato.
Il secondo Hadith nomina direttamente il Jihad maggiore come elemento essenziale della religione islamica; parlando a uno dei suoi compagni, il Profeta dice: Vuoi che ti indichi la parte principale della religione, la sua colonna e il suo culmine? La sua parte principale è la sottomissione (al-Islam) alla volontà divina; la sua colonna è la preghiera rituale; il suo culmine è il Jihad.
Un simile Hadith che vede il Jihad come il culmine della religione, permette di sostenere una spiegazione simbolica e spirituale dell’applicazione militare del Jihad.
La violenza e la distruzione inerenti al mondo sono quindi valorizzati religiosamente nel sistema Hindù grazie a Shiva.
Il Dio Shiva non è propriamente legato al mondo della guerra ma è ugualmente rilevante perché, nella famosa triade divina dell’induismo classico, la Trimurti, egli rappresenta il principio distruttore accanto a Brahma, il creatore e a Vishnù, il conservatore.
Shiva è un dio terrificante, ornato di serpenti e scorpioni.
Ma è anche il Benevolo e il Protettore.
Nelle sue diverse rappresentazioni il suo aspetto violento e distruttore è associato a un altro per nulla negativo.
Dice lo storico Alain Daniélou in un suo saggio su Shiva (A.
Daniélou, Shiva et Dionysos, Fayard, Paris, 1979, p.
93) che Tutto ciò che nasce muore.
Il principio della vita è associato al tempo, cioè al principio della morte.
Il dio creatore è anche il dio distruttore.
La vita si nutre della morte.
Non c’è niente che viva senza distruggere e divorare altre vite.
Pertanto Shiva ha un aspetto terrificante.
Lo scopo della vita è quello di progredire spiritualmente sostituendo costantemente in sé qualche cosa di meglio rispetto a ciò che non lo è.
Il principio distruttore di Shiva bisogna comprenderlo a un livello spirituale: sono le nostre passioni per un mondo effimero, le nostre illusioni che bisogna distruggere.
Ma Shiva è anche Maestro dello yoga, e in quanto tale insegna agli uomini il modo di elevarsi spiritualmente (J.
Herbert, L’Hindouisme vivant, Laffont, Paris, 1975, p.127): L’azione contemporaneamente distruttrice e yogica di Shiva ha come conseguenza inevitabile una ri-creazione.
Questa successione continua di distruzione/ricreazione si trova espressa nella danza cosmica tipica dei rituali esoterici dei fedeli di Shiva.
Il buddismo ha predicato una morale in cui si ritrovano i precetti comuni a tutte le grandi religioni: non uccidere, non rubare, non mentire ecc.
Tuttavia, più che nelle altre religioni, il rispetto degli altri viene praticato al punto di diventare la virtù primaria da perseguire.
Questa atmosfera di non violenza che circonda il buddhismo deriva da diversi fattori che permettono di cogliere alcuni elementi della sua filosofia.
1.
Vi è prima di tutto la tradizione dell’ahimsa, “l’assenza di desiderio di uccidere” che era già presente nell’ambito dei rinuncianti indiani presso cui si è sviluppato il buddismo.
Nel buddismo la non-violenza e il rispetto altrui non provengono da un dogma ma da una certa visione del mondo che favorisce il senso della misura.
Così la violenza, come ogni eccesso di passione è fortemente controllata da una pratica che favorisce la riduzione dei desideri e il controllo di sé.
2.
Il buddismo pone anche la compassione come fonte essenziale della sua etica, come un complemento essenziale alla saggezza.
Il simbolo di questa compassione è il Bodhisattva, cioè colui che, pervenuto sulla soglia del Nirvana, ritorna nel mondo per aiutare tutti gli esseri a incamminarsi verso la liberazione.
3.
Infine vi è la tolleranza che è uno degli aspetti più evidenti del buddhismo.
I testi buddisti brulicano di storie che illustrano la centralità della tolleranza.
Una di queste, tratta dall’Upalisutra, è molto citata, racconta che Upali, un discepolo di Mahavira, maestro della comunità jainista, venne dal Buddha per ingaggiare con lui un confronto sul karma.
Naturalmente, alla fine, Upali viene convinto da colui che voleva convincere, e gli chiede di diventare suo discepolo.
Il Buddha gli raccomanda allora di non affrettarsi e di riflettere con cura prima di prendere una simile decisione.
Quando Upali ripropone il suo desiderio, Buddha lo accoglie, ma domandandogli prima di tutto di continuare a rispettare e a sostenere il suo vecchio maestro religioso.
4.
La tolleranza come il rispetto degli altri e il precetto di non uccidere, si fonda sulla coscienza buddista dell’unità dell’universo.
Tutti i fenomeni e tutte le esistenze sono solo degli aggregati passeggeri, per cui è la stessa vita che anima tutti gli esseri dell’universo; allo stesso modo, aggredire una persona equivale ad aggredire se stessi.
Per lo stesso principio quando un solo essere perviene all’illuminazione, ne beneficia il mondo intero.
L’imperatore Ashoka si convertì al buddismo dopo essere rimasto profondamente turbato dai massacri da lui compiuti conquistando il regno dei Kalinga.
Egli proclamò a quel punto la sua fede e decise di rinunciare alla conquista con le armi consacrandosi unicamente alla diffusione della “Legge” buddista.
I suoi editti, incisi sulla roccia, sono rimasti conservati: Che essi non pensino che la conquista con le armi meriti il nome di conquista.
Che essi considerino come vera conquista solo le conquiste della Legge.
L’aspetto più straordinario è che Ashoka non cercò di sfavorire le altre religioni per favorire la propria.
Contemporaneamente all’invio di missionari a Ceylon, in Birmania e nel nord-ovest dell’India egli predicò una tolleranza totale nei confronti delle altre dottrine: Tutte le sette si propongono il controllo dei sensi e la purezza dell’anima, il Bene è il midollo di tutte le sette.
Per tutte vi è una medesima radice: si tratta di controllare il proprio linguaggio, di non celebrare la propria comunità denigrando le altre.
Al contrario, bisogna rendere alle altre sette gli onori che si conviene, in tutte le circostanze (…).
Di fatto, la migliore illustrazione del pacifismo buddista, resta il suo metodo di diffusione: sebbene non sia sempre ben conosciuto nei dettagli, sembra che non ci siano mai stati conversioni forzate, e insediamenti con le armi, come avvenne, invece, per altre due religioni a vocazione universale come il cristianesimo e l’islam.
Si individuano quattro dottrine relative al Jihad a partire dalla lettura del Corano.
Ci sono coloro che considerano che l’espansione dell’islam debba essere fatta con la persuasione: è l’atteggiamento generalmente adottato da tutti i musulmani moderni.
Il Jihad con le armi può esser proclamato quando c’è un’aggressione: anche questa è un’interpretazione ammessa dai musulmani moderni.
Il Jihad può allora intervenire a livello della comunità quando uno dei Paesi musulmani è attaccato.
La storia recente dà diversi esempi di casi in cui il Jihad armato si è legittimato.
In questo stesso senso il Jihad può intervenire anche a livello personale, quando un nemico attacca i beni o la famiglia di un individuo.
Nelle ultime due concezioni, il Jihad armato deve compiersi in maniera offensiva verso gli infedeli.
La differenza interpretativa è legata solo al problema se si deve rispettare o no la tregua dei mesi sacri.
L’obbligo del Jihad è un obbligo religioso voluto da Dio e dal suo Profeta che riguarda ogni musulmano di sesso maschile, libero, e in salute.
Il Corano precisa (Sura IX, 92): Non saranno ritenuti colpevoli i deboli, i malati e coloro che non dispongono di mezzi, a condizione che siano sinceri con Allah e col Suo Messaggero: nessun rimprovero per coloro che fanno il bene.
Allah è perdonatore, misericordioso.
Quanto alle donne, sebbene abbiano partecipato ad alcuni combattimenti dell’epoca eroica, un Hadith precisa che «il pellegrinaggio è la guerra santa delle donne».
Il Jihad si distingue dagli altri cinque precetti della fede islamica (la professione di fede, la preghiera quotidiana, il digiuno del Ramadan, il pellegrinaggio alla Mecca e l’elemosina rituale) perché mentre questi sono doveri individuali, il Jihad è un dovere collettivo.
L’atteggiamento dei guerrieri musulmani nei confronti dei loro nemici variava a seconda della loro appartenenza religiosa.
Gli ebrei e i cristiani non erano obbligati a convertirsi all’islam: se accettavano di pagare un tributo, essi ricevevano il diritto alla libertà di culto.

Che fatica star dietro a quel prete

“Si avvicina l’ora in cui ci sarà ancora gusto a fare il prete (…) il Signore saldi sulla Croce il tuo slancio”.
Nel dire queste parole a un giovane avviato al sacerdozio don Mazzolari parlava con piena cognizione di causa.
Fin da ragazzo aveva coltivato la virtù della vigilanza e quindi la consapevolezza che il tempo propizio, il kàiros – e l’opportunità di poterlo afferrare – è “adesso”.
Nel flusso volubile delle vicende umane, animato dalle attese del futuro o involuto e ripiegato nostalgicamente sul passato, l’attimo prezioso da cogliere al volo, e perfino con evangelica violenza – poiché “dei violenti è il Regno dei Cieli” – è proprio ora.
In tal senso anche il credente può e deve dire: carpe diem.
Il presente riflette il tempo eterno di Dio e quindi valorizza la quotidianità dell’uomo; e ciò è vero soprattutto per chi sceglie di consacrare la propria vita al servizio della Sposa di Cristo.
Il presente è il tempo del prete.
“L’adesso è la croce che va portata se uno vuol tenere dietro a Cristo.
“Adesso” è la briciola che porta tutto a Cristo.
Nella fedeltà al poco che è l'”adesso” comunico con Dio e gli rendo testimonianza (…) Non soltanto Dio, ma ogni creatura mi dà appuntamento nell'”adesso”: il mio prossimo mi dà appuntamento (…) Vi sono soluzioni che non si possono rimandare in attesa della soluzione perfetta, che non danneggi nessuno, soprattutto chi sta bene.
Chi ha fame non può attendere.
Il pane che va dato è il pane di oggi”.
Con queste parole si apre un’agile antologia di articoli mazzolariani dedicati proprio alla dimensione sacerdotale intitolata Il prete di “Adesso” (Roma, Rogate, 2009, pagine 141, euro 12 ) curata dal padre rogazionista Leonardo Sapienza, addetto al Protocollo della Prefettura della Casa Pontificia.
Sacerdote, giornalista, scrittore e partigiano, don Primo Mazzolari era nato il 13 gennaio 1890 a Cremona e morì da parroco a Bozzolo (Mantova) cinquant’anni fa il 12 aprile 1959.
Di famiglia contadina, aveva fatto i suoi studi nel seminario diocesano di Cremona, dalla seconda ginnasiale fino agli studi teologici, sotto il vescovo Geremia Bonomelli (1831-1914).
I periodi di vacanza li trascorreva a Verolanuova (Brescia) dove suo padre si era stabilito, pur mantenendo sempre stretto contatto con il resto della famiglia rimasta a Boschetto di Cremona.
Fu ordinato sacerdote il 25 agosto 1915 a Verolanuova dal vescovo di Brescia monsignor Giacinto Gaggia (1847-1933).
Il mese di esercizi spirituali di preparazione all’ordinazione Primo lo aveva trascorso a Chiari (Brescia) presso l’abbazia dei monaci benedettini francesi di Solesmes.
Nei primi otto mesi di sacerdozio fu coadiutore nella parrocchia di Spinadesco, presso Cremona, quindi fu incaricato di insegnare italiano, storia e geografia nelle prime classi ginnasiali del seminario e, allo stesso tempo, prestò servizio domenicale a Boschetto dove il parroco titolare era ammalato.
Con lo scoppio della prima guerra mondiale don Mazzolari ebbe subito il dolore di perdere il fratello Peppino caduto sul Sabotino, a nord di Gorizia.
Anch’egli fu costretto a partire per la guerra.
Dapprima da soldato semplice, quindi come caporale della sanità e infine in qualità di cappellano militare.
Dopo la guerra, nel 1920, fu destinato a Bozzolo in veste di delegato vescovile della parrocchia della Santissima Trinità rimanendovi fino al 31 dicembre 1921.
Senonché i suoi metodi pastorali e la sua ampiezza di vedute, tra cui non ultima la rispettosa e dialogante amicizia col sindaco del posto, Umberto Donini che era socialista, furono motivo di forte incomprensione e di critica da parte dell’arciprete della parrocchia principale.
A complicare le cose ci si mise, a un certo punto, anche la ferma presa di posizione di don Primo in difesa delle operaie tessili della locale fabbrica di calze.
Allora il vescovo lo nominò parroco a Cicognara di Viadana dove, con il sacerdote precedente, si erano verificati seri problemi di convivenza con la gente del luogo a causa dei fittabili della prebenda.
Don Mazzolari prese possesso della parrocchia il 31 dicembre 1921 e vi restò fino al luglio del 1932, quando il suo vescovo, monsignor Giovanni Cazzani (1867-1952) decise di trasferirlo nuovamente a Bozzolo, riunendo sotto le sue cure le due parrocchie del paesino tra le quali persisteva una sorta di campanilistico antagonismo.
L’unificazione realizzata da don Primo pose fine all’incresciosa situazione.
A Bozzolo egli sarebbe rimasto fino alla morte.
Tutti in genere gli riconoscevano un forte senso evangelico e pastorale, capace di calarsi con realismo e pertinenza nella vita concreta e nei problemi più reali e umani della gente, oltre a una grande capacità di incidere sulle coscienze.
L’autorità ecclesiastica, soprattutto per i suoi molti scritti giudicati a volte troppo arditi e provocatori a un certo punto lo colpì con diversi interdetti.
Ne La più bella avventura (1934) per esempio, don Mazzolari leggendo la parabola del figliol prodigo, aveva preso le difese del fratello minore scialacquatore e accusava il vuoto perbenismo – da schiavo più che da figlio – del fratello maggiore.
Sfortuna volle che un pastore protestante di un centro vicino si servisse di quelle pagine per polemizzare con la cattolicità.
Il libro, denunciato, da qualche caritatevole zelante, al Sant’Uffizio, fu ritirato.
Don Primo inoltre si era già segnalato a livello pubblico per essersi opposto all’arroganza del fascismo fin dai tempi della marcia su Roma e specialmente nel novembre 1925 quando, dopo l’attentato – fallito – di Tito Zaniboni a Mussolini, si rifiutò di cedere alla pretesa dei fascisti del paese che gli avevano ordinato di presiedere una funzione religiosa di ringraziamento strumentalmente stabilita per controllare chi avesse “fede fascista” senza “confondersi con la solita gente che frequenta la chiesa alla domenica”.
Don Mazzolari rispose che “la Chiesa non può prestarsi a dimostrazioni politiche di nessun genere bastando, a questa bisogna, la piazza e che Cristo non poteva essere preso a discrimine di fede politica.
Che nessuno doveva vergognarsi di mettersi in ginocchio accanto alla buona gente che si ricorda di essere cristiana non in certe occasioni soltanto, ma tutte le domeniche e che più cordialmente di tutti, perché più religiosa, avrebbe ringraziato il Signore per lo scampato pericolo del Presidente del Consiglio”.
Quando nonostante tutto i fascisti inquadrarono e irreggimentarono la popolazione, “con la minaccia del bastone e della rivoltella”, per condurla al canto del Te Deum, don Mazzolari tenne testa alla prepotenza e dopo un discorso di cinque minuti – “il Signore sa quello che ho detto, perché Lui solo me l’ha ispirato e io non ricordo più” – concluso con la recita del Padre Nostro, congedò l’assemblea.
Denunciato dalla Regia procura di Cremona ai superiori ebbe una blanda reprimenda dal vescovo monsignor Cazzani il quale intimamente approvava le posizioni del suo sacerdote e lo avrebbe dimostrato in diverse circostanze, basti solo ricordare le reiterate polemiche che il presule avrebbe avuto con Farinacci, e la forte omelia pronunciata nella cattedrale di Cremona nell’Epifania del 1939 a condanna delle leggi razziali promulgate dal fascismo.
Omelia, che lo stesso don Mazzolari avrebbe definito “magistrale”.
Negli anni della seconda guerra mondiale don Primo partecipò attivamente alla lotta di liberazione.
Si adoperò per nascondere e salvare diversi ebrei e antifascisti – ma dopo la guerra avrebbe fatto lo stesso per difendere alcune persone compromesse col regime e ingiustamente perseguitate.
Fu anche arrestato e rilasciato e dovette vivere in clandestinità fino al 25 aprile del 1945.
Nel dopoguerra fondò il periodico quindicinale “Adesso” (1949-1962) e diversi suoi scritti avrebbero attirato nuove sanzioni e richiami da parte dell’autorità ecclesiastica.
Vicende che avrebbero portato anche alla momentanea chiusura del giornale nel 1951.
Nel luglio dello stesso anno venne imposto a don Primo il divieto di predicare fuori della sua diocesi senza autorizzazione e il divieto di pubblicare articoli senza preventiva revisione dell’autorità ecclesiastica.
“Adesso” riprese le pubblicazioni, don Mazzolari però dovette apparire di meno pur continuando a scrivere sotto pseudonimo.
Negli anni Cinquanta maturò la sua visione sociale prossima alle classi più deboli e soprattutto incentrata sulle tematiche della pace con la condanna della dottrina della “guerra giusta” e dell’ideologia della vittoria (Tu non uccidere, 1955, pubblicato anonimo), espressione di quell’ideale di non violenza e di obiezione di coscienza che soprattutto nel mondo del cattolicesimo fiorentino avrebbe trovato numerosi e convinti assertori quali lo scolopio Ernesto Balducci, Giorgio La Pira, Nicola Pistelli e soprattutto don Lorenzo Milani – collaboratore e lettore assiduo di “Adesso”.
Nonostante la perdurante diffidenza e gli interdetti delle autorità ecclesiastiche – sopportate silenziosamente in sostanziale e rispettosa obbedienza, aliena da clamori e da atteggiamenti vittimistici – le visioni di don Primo Mazzolari così legate al Vangelo e all’etica delle Beatitudini avrebbero anticipato diverse prospettive pastorali e dottrinarie del concilio Vaticano ii.
E proprio negli ultimi mesi di vita il parroco di Bozzolo ricevette le prime e più alte attestazioni di stima da parte delle alte gerarchie.
È noto come Papa Giovanni xxiii ricevendolo in udienza il 5 febbraio del 1959 lo salutasse con un appellativo gioioso rimasto celebre: “La Tromba dello Spirito Santo” dopo che nel novembre del 1957 l’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini lo aveva chiamato a predicare agli universitari.
In seguito proprio Paolo VI avrebbe detto ricordando don Primo: “Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a tenergli dietro.
Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi.
Questo è il destino dei profeti”.
(©L’Osservatore Romano – 8 aprile 2009) Pubblichiamo un estratto dalla recentissima antologia Il prete di “Adesso” (Roma, Rogate, 2009, pagine 141, euro 12) a cura di Leonardo Sapienza.
Una sbarra tra i ricchi e i poveri di Primo Mazzolari Dicono tutti che è l’ora dei poveri, sotto nomi diversi di “povera gente”, “massa lavoratrice”, “proletariato”.
Di quest’ora che mi fa pensare all’evangelico “è giunto il momento, ed è questo” (Giovanni, 4, 23), nessuno se ne rallegra al pari di un prete, che, nonostante il “si dice”, con la povera gente vive veramente gomito a gomito in campagna e alla periferia, e vede come tira e quanto patisce: ma non vorrei che un giorno i poveri, arcistufi di tante e sviscerate concorrenti dichiarazioni di amore, dicessero a questi e a quelli: “vogliateci un po’ meno bene e trattateci un po’ meglio”.
L’allarme è (…) per timore di un possibile baratto – purtroppo già in atto un po’ ovunque – tra una “primogenitura e un piatto di lenticchie” (cfr.
Genesi, 25, 29ss.).
La colpa però di una simile tentazione, se si vuol essere onesti e non pesare soltanto su chi ha fame, ricade in gran parte su coloro che li hanno lasciati nella necessità.
Quand’uno non ne può più, come pretendere che ragioni da uomo e misuri se il baratto gli convenga o no? Molto più che da questa parte, la nostra, ove c’è la “promessa” della primogenitura, ci sono parecchi cui non importa affatto la primogenitura, si fan belli di essa al solo scopo di tener indietro coloro che offrono ai poveri il piatto di lenticchie.
Il piatto di lenticchie è prelevato su quello che credono di avere, mentre la primogenitura può divenire un comodo pretesto di resistenza al comunismo.
E molti preti abboccano e ringraziano tali infidi e poco onorevoli alleati, dimenticando che non sono i comunisti che ci perdono, ma la povera gente, la quale rimane qual era, senza “primogenitura” e senza “lenticchie”, mentre i ricchi si pappano queste e credono di avere diritto pur su quella, quasi non fosse stato detto: “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli” (Matteo, 19, 24).
I poveri vanno amati “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1 Giovanni, 3, 18) come poveri, cioè come sono, senza far calcoli sulla loro povertà, senza pretesa o diritto di ipoteca, neanche quella di farli cittadini del Regno dei Cieli, molto meno dei proseliti.
Cittadini del Regno dei Cieli i poveri sono già per diritto di chiamata evangelica.
La carità di ogni specie non c’è bisogno che renda: è feconda e perfetta in sé quand’è vera carità.
Gesù disse al paralitico: “Alzati e cammina” (Matteo, 9, 5).
Alla parola sacramentale che opera il miracolo, non aggiunge: “E va’ in Chiesa” e molto meno: “Vota questa lista”.
Neanche un “grazie” si può pretendere, dato che la carità non è una cosa che uno possa fare o non fare, un’azione “superogatoria”, “un di più”.
Il secondo comandamento, che è simile al primo e gli fa da compimento o di riprova: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”, è un fondamentale dovere, non un consiglio.
Ed è su quello che verremo giudicati.
Per questo accade che sono molti quelli che dicono di amare i poveri e pochi coloro che li amano di cuore.
I poveri lo sanno e s’adattano al baratto, e si credono pari, mentre sul piano quantitativo son gli altri che ci guadagnano, poiché la primogenitura è come l’olio della lampada, non si può neanche imprestare (cfr.
Matteo, 25, 1 ss.).
Io prete, sprovveduto per investitura di ogni mira temporale, dovrei essere il più adatto per il “ministero dei poveri”.
La Parola è predicata ai poveri: la Grazia è per i poveri.
(Chi più povero di un peccatore?).
Tutto è per il “povero”, poiché basta essere uomo per essere “povero”, sostanzialmente e irrimediabilmente “povero”.
Prete dei poveri quindi, come si è definito, secondo il Vangelo, san Vincenzo de’ Paoli: che non fa torto a nessuno, e non scantona davanti a nessuno, poiché tutti gli uomini, i ricchi in prima fila, sono dei poveri.
La povertà è l’unica condizione dell’uomo, che il peccato ha finito per alterare al pari di ogni altra condizione: e così avviene che ci sono poveri che si credono ricchi e poveri che si rifiutano o si vergognano di esserlo.
Il primo diviene cattivo per paura di perdere ciò che stima di avere: e l’altro si incupisce per timore di essere stato defraudato.
Il benestante è malato come il fariseo.
Essendosi appropriato di qualche cosa che è solo del Padre, si crede diverso dagli altri che non hanno niente.
E davanti all’altare prega come il fariseo: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini…” (cfr.
Luca, 18, 11), ho casa, campi, automobile e ville.
Quando i poveri sentono pregare in tal modo e vedono che c’è qualche prete che sarebbe disposto a mettere l’imprimatur su tale preghiera, non solo si sentono offesi e umiliati, ma sono in tentazione di non credere che ci sia un Padre comune, il quale, se è vero – così ragionano nella loro disperazione – che vuol bene a tutti e può tutto, le cose di quaggiù non le dovrebbe lasciare andare così.
E i ricchi, a loro volta, ispessiti nel cuore dai loro averi e sempre timorosi di perderli, se la prendono col Signore, che mette al mondo tante bocche.
Così nessuno è contento di Dio, per questione di una ricchezza “che tignola e ruggine consumano e ladri scassinano e rubano” (Matteo, 7, 20).
E se non c’è la ruggine o la tignola, se non vengono i ladri, arriva la morte: “Stolto, questa notte tu morirai” (Luca, 12, 20).
Il sacerdote, pur avendo lo sguardo sulla condizione dell’uomo, che è di comune e irrimediabile povertà finché si rimane sul piano delle cose che “oggi sono e domani non sono” (cfr.
Matteo, 6, 30) e che anche quando sono “ingombrano invece di saziare”, si inserisce in questo momento esterrefatto del peccato, che separa gli uomini in ricchi e poveri.
Il suo ufficio non è quello di far ricchi i poveri o poveri i ricchi con accorgimenti legali o di ordine economico-sociale.
Che vi sia chi lo tenti questo lavoro di equità, è buona e doverosa cosa specialmente per un cristiano che non voglia rinnegare la fraternità.
Ed è pure buona cosa che il sacerdote inviti e suggerisca tale sforzo, che entra nei normali doveri della società cristiana; ma la sua propria funzione è di portar via il peccato, che crea le disuguaglianze e ogni male.
“Ecco l’Agnello di Dio, ecco Colui che porta via i peccati del mondo” (cfr.
Giovanni, 1, 36).
Se va via il peccato dal nostro cuore, si fa anche l'”eguaglianza” e i vasi comunicano.
E siccome il peccato è purtroppo un retaggio comune, patrimonio tanto dei ricchi come dei poveri, dato che il male è dentro di noi, e il “bicchiere va lavato dal di dentro”, il sacerdote deve predicare agli uni e agli altri: ai ricchi che fanno del possedere il “mammona”, ai poveri che misconoscono la loro grande dignità per il solo fatto che non ha contropartita immediata.
Da secoli, da quando Cristo ci ha mandato “a predicare la buona novella ai poveri” (cfr.
Luca, 4, 18) ci troviamo in questo poco comodo ufficio.
Né i poveri ci ascoltano, né i ricchi ci ascoltano: e ciò che ancor più ci umilia, par che abbiano lor buone ragioni tanto questi che quelli.
I ricchi dicono: è coi poveri contro di noi: adula i poveri per averli in mano contro di noi.
I poveri dicono: tiene coi ricchi perché sono i più forti e lo foraggiano.
Non è raro il caso che ricchi e poveri si mettan d’accordo, come Erode e Pilato, per farlo tacere (cfr.
Luca, 23, 12).
A sua volta il prete, che è un uomo, cioè un pover’uomo, come ognuno se non di più, può essere preso dalla tentazione di togliersi da questa scomoda e assurda condizione, spostandosi verso destra o verso sinistra, e non per motivi volgari, ma dietro pretesti magistralmente ragionati.
“I ricchi sono irriverenti, mangiapreti, irreligiosi, senza cuore”.
“I poveri, socialisti, bolscevichi, materialisti, atei…”.
E in una vicenda che è spirituale, si finisce con alleati e mezzi di tutt’altro genere.
Ma i ricchi, che son più accorti, ci fanno la corte volentieri, e noi ci caschiamo dentro nell’inganno: con loro contro i poveri.
D’onde le sequele di accuse e di pregiudizi che ben conosciamo e che fortunatamente non meritiamo, ma che tengono lontano ricchi e poveri dalla strada buona.
Il Regno dei Cieli non è a destra né a sinistra, né coi poveri né coi ricchi, finché ricchi e poveri si differenziano soltanto per quello che hanno, non per quello che sono.
Tra questi due fronti, che il peccato ha innalzato e che il peccato tiene in piedi, ci sta, crocifisso, il sacerdote: crocifisso tra due ladroni, uno buono l’altro un po’ meno, ma ladroni entrambi.
Questo è il suo grande e tremendo destino, aggravato dal fatto, che mentre lui ha mani e piedi inchiodati, i suoi compagni, che son legione, muovono mani e piedi, e tiran sassi e calci, l’uno contro l’altro; ma tanto i sassi come i calci finiscono contro il crocifisso che sta di mezzo e fa da sbarra.
Il prete è una sbarra che ha il cuore, e il colpo, venga da destra o da sinistra lui lo riceve nel cuore, e non può ricambiarlo, neanche lamentarsi.
Oscilla soltanto, ed è per grande carità: ma gli altri dicono che parteggia perché se viene colpito a destra oscilla verso sinistra e viceversa.
E così perde anche l’onore.
(dal periodico “Adesso”, n.
5, 1° marzo 1953).
(©L’Osservatore Romano – 8 aprile 2009)

Un mito contro i vecchi miti: Easy Rider

I ragazzi di Easy Rider oggi hanno quarant’anni in più.
Uno è diventato una star dello show-biz, un altro, componente della più famosa famiglia d’attori americana, si è perso per strada dopo un pugno di pellicole troppo figlie del loro tempo per poter sperare di valicarne i confini, il terzo, all’epoca anche improvvisato benché non sprovveduto regista, ricompare saltuariamente, ma regolarmente in linea col suo personaggio di outsider un po’ studiato a tavolino.
Era il 1969 quando con le loro Harley Davidson erravano per un’America insolitamente ostile alla ricerca di risposte a domande divenute tutto d’un tratto mastodontiche.
Promuovendo un nuovo mito di libertà che nascondeva la crisi d’identità di tutta una generazione.
E salvando il cinema del loro Paese ingrato grazie anche ad un pizzico d’opportunismo.
Come capita spesso alle opere che possono fregiarsi del titolo di pietre miliari, infatti, anche il paradigma del road-movie, più che un evento realmente rivoluzionario, è stato il risultato di correnti e influenze pregresse giunte a piena maturazione: ciò che ne fa un mito pressoché intramontabile, più del ribellismo dalla facile presa o di meriti strettamente artistici che oggi appaiono un po’ sbiaditi, è il fatto che non si tratta solo di un film, ma del punto d’approdo di un processo storico, sociale, cinematografico decisivo per la cultura americana.
La strada che porta alle sue interstatali sconfinate e allucinate, a ben vedere, parte da molto lontano.
Almeno da quella seconda metà degli anni Cinquanta in cui tutto sembrava congiurare contro le majors del cinema mainstream e del loro studiosystem dalla struttura piramidale, attaccato su più fronti da fattori correlati e inesorabilmente convergenti ancorché di natura diversa: leggi antitrust, diffusione massiccia della televisione, graduale deurbanizzazione della società dell’immediato dopoguerra con conseguente perdita del rito cittadino dello spettacolo del grande schermo, affermarsi di cinematografie – le nouvelles vagues europee ma anche la scena east-side del New American Cinema – che prendevano di mira i moduli espressivi pedissequamente narrativi del prodotto medio hollywoodiano.
Con una sincronicità casuale quanto si vuole, ma che non manca di ribadire l’importanza del cinema nella società americana, poi, questa crisi della fabbrica dei sogni andava a prendere forma proprio alle porte del decennio che più avrebbe fatto traballare i valori nazionali e sconvolto l’opinione pubblica.
Vietnam e attentato a Kennedy avrebbero rappresentato solo l’inizio di un processo autodistruttivo destinato a durare a lungo, ma era già abbastanza per una generazione cresciuta con il mito dell’America come nazione eletta a guidare l’occidente verso lidi di pace e prosperità.
È da questo fertile humus costituito dalla simbiotica crisi hollywoodiana e nazionale, che trae linfa vitale il nuovo cinema indipendente.
Un movimento ancora disgregato, ma già insospettabilmente vitale che intravede, nel moderno gusto europeo del primato del significato e dello stile sulla tecnica, la legittimazione a operare anche con scarsa disponibilità di mezzi; nella perdita di un tessuto di valori comuni – nonché nel contemporaneo declino del codice di autocensura Hays, caduto sotto i colpi di una realtà che lo ha reso oltremodo ipocrita e anacronistico – più d’uno spiraglio per cominciare a imbastire un discorso di revisionismo storico parallelo a quello che, di lì a poco, promuoverà “in superficie” il contro-western di stampo liberal alla Soldato blu e Piccolo grande uomo.
Ma che qui, ossia nel sottobosco delle produzioni low-budget divenute improvvisamente spavalde e aggressive, assumerà piuttosto i toni di una nuova forma di horror-movie, debitrice a sua volta dell’iconografia western di cui però esibirà generosamente un uso improprio e straniante, spogliandola così di quella vecchia mitopoietica che ora si vuole combattere a ogni costo.
Anche se pochi sul momento se ne accorgono, infatti, è in questi primi anni Sessanta che viene precocemente alla luce, grazie a un manipolo di registi destinati a rimanere per lo più nell’anonimato, quell’immagine di una provincia rurale orribilmente retrograda e violenta che avrebbe fatto la fortuna dell’horror del decennio successivo, e di pellicole destinate a divenire cult imprescindibili per generazioni di cinefili – se è vero che sopravvivono ancora oggi in una serie impressionante di varianti e remake – come Non aprite quella porta di Tobe Hooper o Le colline hanno gli occhi di Wes Craven, pietre miliari, anche in questo caso, che si sono avvalse almeno in parte di intuizioni altrui.
È l’epoca in cui comincia a serpeggiare – anche grazie all’avallo ancora scevro da ideologie di Hitchcock e del suo Psyco – un tòpos che avrebbe fatto scuola: quello che vede un gruppo di giovani forestieri abbandonare per motivi contingenti la strada maestra per inoltrarsi lungo percorsi secondari e perigliosi, dove regolarmente scopriranno un’America allergica al nuovo, e adagiata sui simboli ormai putrescenti della storia nazionale.
Da qui in avanti si moltiplicheranno case dallo stile gotico o coloniale, ancor meglio se costruite su cimiteri indiani, fregi animali che rimandano all’addomesticamento spesso brutale della wilderness e alla conquista della frontiera, vessilli di una guerra di secessione mai del tutto risolta, in virtù di lacerazioni sociali ancora imbevute di razzismo e intolleranza.
Nell’ottica della controcultura cinematografica, insomma, gli eventi fondanti della nazione smetteranno di rappresentare motivo d’orgoglio come accadeva nel vecchio cinema western per divenire simboli del rimosso della coscienza collettiva, e di un peccato originale alla luce del quale ora si vuole inquadrare tutta la storia del Paese per arrivare a comprendere quelle pericolose forze centripete di cui è diventato preda.
Quando il film del trentatreenne Dennis Hopper – attore proveniente non a caso proprio dal fulcro dello studiosystem – finalmente approda su questo terreno figurativo e tematico già in gran parte spianato, allora, il suo merito sarà semmai quello di incanalarne i caotici fermenti in un contesto più organico e persino accattivante, conciliando le istanze metaforiche della critica sociale e politica – anche qui non mancherà il martirio dei “figli” per mano dei “padri” sullo sfondo di un’America profonda e arretrata – con quelle di un nuovo vitalismo un po’ modaiolo, condito sapientemente da un uso deflagrante della colonna sonora e strizzatine d’occhio agli eccessi libertari dell’epoca.
Finendo così per rappresentare, paradossalmente, tanto il riepilogo e la celebrazione del cinema indipendente del decennio che va a concludersi, quanto già uno dei più fulgidi prodromi di quella che sarà la New Hollywood, ovvero di un nuovo cinema americano che, memore della severa lezione ricevuta da oltreoceano e dalla traumatica crisi interna, cercherà di conciliare le ragioni dello spettacolo con quelle della cosiddetta politica degli autori.
Punto cruciale di questo lunghissimo e all’epoca non ancora terminato processo di distruzione e ricostruzione, Easy Rider lungo tale direzione anticiperà, in particolare, pur con accorgimenti ruffiani che in seguito saranno meglio assorbiti dai nuovi mezzi espressivi, quella epica della contro-epica che farà grande la generazione dei cineasti degli anni Settanta – Scorsese, Coppola, Cimino – e i loro losers dalla statura tragica, capace di accogliere le contraddizioni ormai conclamate della società di cui sono espressione.
Quarant’anni fa, insomma, mentre la sua patria d’appartenenza era ancora in pieno subbuglio, il cinema americano non solo ne registrava la crisi con uno sguardo impietoso, ma ritrovava inaspettatamente se stesso tornando a fare ciò che gli era sempre riuscito meglio, ovvero nutrirsi di leggende, poco importa se moralmente irrisolte o destinate alla sconfitta.
Come quei bikers pronti a farsi inghiottire dalle fauci di un Paese cui non appartengono più.
(©L’Osservatore Romano – 3 aprile 2009)

Date a Darwin quel che è di Darwin. Ma la creazione è di Dio

La rivista su cui è uscito il saggio: > La Civiltà Cattolica__________ Il sito web del convegno, in italiano e in inglese: > Biological Evolution: Facts and Theories__________ Benedetto XVI dedicò a “creazione ed evoluzione” il seminario a porte chiuse che tenne con i suoi ex allievi a Castel Gandolfo nel settembre del 2006.
In quell’occasione www.chiesa pubblicò il seguente servizio: > Creazione od evoluzione? La Chiesa di Roma risponde così (11.8.2006) Nel servizio sono riprodotti il discusso articolo che il cardinale Christoph Schönborn dedicò al tema sul “New York Times” del 7 luglio 2005, una nota del professor Fiorenzo Facchini (uno dei relatori al convegno dei giorni scorsi su Darwin) e un indice ragionato dei testi del magistero della Chiesa sull’evoluzione.
Dopo di allora, Benedetto XVI è tornato sul tema, in particolare nel discorso programmatico alla curia romana del 22 dicembre 2008, in un passo evidenziato in quest’altro servizio di www.chiesa: > Tutti i numeri della fede.
Quando Ratzinger veste i panni di Galileo
(9.1.2009) Inoltre, sono usciti in un libro gli atti del seminario di Castel Gandolfo del settembre 2006, con saggi di Christoph Schönborn, Peter Schuster, Robert Spaemann, Paul Erlich, Sigfried Wiedenhofer.
Il libro, intitolato “Creazione ed evoluzione”, è stato pubblicato in Italia dalle Edizioni Dehoniane di Bologna e in Germania da Sankt Ulrich Verlag, di Augsburg.
__________ 9.3.2009 Da Darwin in poi, poche teorie scientifiche sono state così aspramente discusse come l’evoluzione e hanno determinato un tale cambiamento di paradigma nella comune interpretazione dell’intera realtà, uomo compreso.
Sia nel campo scientifico, sia nella visione della Chiesa cattolica, creazione ed evoluzione di per sé non si escludono.
Nell’uno e nell’altro campo vi sono però tendenze ad erigere delle costruzioni teoriche che sono sì tra loro escludenti.
Nel presentare ufficialmente il convegno, in Vaticano, il gesuita Marc Leclerc, professore di filosofia della natura alla Gregoriana, ha così sintetizzato le due opposte derive ideologiche: “La novità del paradigma ha spinto parecchi seguaci di Darwin ad oltrepassare i confini della scienza per erigere qualche elemento della sua teoria, o della sintesi moderna realizzata nel corso del XX secolo, a ‘Philosophia universalis’, secondo la giusta espressione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, a chiave d’interpretazione universale di una realtà in perpetuo divenire.
“Ma lungo questa scia si sono diretti troppo spesso anche gli avversari del darwinismo, confondendo la teoria scientifica dell’evoluzione con l’ideologia onnicomprensiva che la snaturava, per rigettarlo del tutto in quanto totalmente incompatibile con una visione religiosa della realtà.
Tale situazione potrebbe spiegare il ritorno odierno di concezioni ‘creazioniste’ o di ciò che si presenta a volte come una teoria alternativa, il così detto ‘intelligent design’.
A questo livello siamo lontani dalle discussioni scientifiche”.
In effetti nessun relatore, al convegno, ha difeso l’una o l’altra di queste costruzioni ideologiche.
Tutte sono state discusse e valutate criticamente.
L’intento comune era di esercitare le singole discipline – scientifiche, filosofiche, teologiche – con le specificità e le ricchezze di ciascuna, a beneficio di tutte.
Dopo cinque giorni intensissimi, con trentacinque relazioni tenute da altrettanti specialisti, si può dire che l’obiettivo sia stato raggiunto.
La pace tra creazione ed evoluzione appare oggi più solida.
Una prova luminosa di come le due visioni del mondo possano convivere e integrarsi è nel saggio che segue, pubblicato alla vigilia del convegno da “La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti di Roma stampata con il preventivo controllo della segreteria di stato vaticana.
L’autore insegna nella Pontificia Università Gregoriana, la stessa che ha ospitato il convegno su Darwin.
Nel suo saggio egli mostra come il racconto biblico della creazione non solo non è incompatibile con la razionalità moderna, ma ha segnato “una emancipazione del sapere scientifico”, consegnando il creato alla responsabilità dell’uomo.
Del saggio, uscito sul numero 3807 della “Civiltà Cattolica” con la data del 7 febbraio 2009, è qui riprodotto un estratto: “L’origine delle specie”.
Genesi 1 e la vocazione scientifica dell’uomo di Jean-Pierre Sonnet Quando si parla delle origini, per i cristiani del nostro tempo la sfida è vivere una doppia cittadinanza: una fedeltà intelligente all’insegnamento di Genesi 1 e un’apertura attenta alle proposte della ricerca scientifica.
[…] Oggi tuttavia essi devono affinare tale duplice lealtà, in un tempo in cui alcuni si divertono a porre l’una contro l’altra le nozioni di creazione e di evoluzione, sotto forma di ideologie – creazionismo ed evoluzionismo – reciprocamente esclusive.
Per i sostenitori dell’evoluzionismo, rifarsi al poema iniziale della Genesi significa regredire in una forma di oscurantismo incompatibile con la razionalità dell’età moderna.
In questo saggio cercheremo di dimostrare che il riferimento ai primi capitoli della Genesi non implica affatto una resa dell’intelligenza.
[…] Una razionalità luminosa attraversa questi testi, capaci di parlare a ogni uomo ragionevole, e in particolare all’uomo di scienza contemporaneo.
[…] *** Genesi 1 potrebbe avere come sottotitolo “Process and Reality”: l’atto creatore vi è distribuito in momenti successivi, nella sequenza di una settimana.
[…] Lungi dall’essere un’esplosione di potenza cieca, la creazione – secondo il poema narrativo di Genesi 1 – è un’azione che si svolge progressivamente, in una sequenza ordinata, in cui si enuncia un disegno.
La progressione – come ha mostrato Paul Beauchamp nel saggio “Création et séparation” – è anzitutto quella di separazioni successive, espresse dapprima mediante la radice verbale “badal”: “E Dio separò la luce dalle tenebre” (1,4; cfr.
anche 1,6.7.14.18).
A partire dal terzo giorno, una volta costituiti i macroelementi del cosmo, non compare più il verbo della separazione (tranne in 1,14.18, a proposito delle “grandi luci”), sostituito da un’altra espressione: “secondo la propria specie”.
Tale formula, ripetuta dieci volte, si riferisce prima alle specie vegetali (1,11-12) e poi a quelle animali (1,21.24-25).
Fin dall’origine, Dio salva dall’informe e dall’indeterminato, costituendo progressivamente un mondo differenziato.
Nella loro sequenza, i giorni della creazione amplificano la successione già legata alla parola.
Fin dal primo giorno gli atti divini, per quanto immediati, si manifestano in modo discorsivo.
[…] La successione è senza dubbio una legge del linguaggio e, in particolare, del discorso narrativo, che può dire le cose soltanto l’una dopo l’altra.
In un riflesso di “realismo” teologico, il racconto di Genesi 1 si preoccupa di far risalire tale successione alla stessa libertà divina.
[…] Seguendo passo dopo passo le iniziative divine, il narratore si preoccupa di accentuare ciò che il disegno divino ha di costruito e di finalizzato.
L’atto creatore, nella sua sequenza, non è un processo aleatorio o una stravagante dispersione di energia.
Il gesto divino – afferma il narratore – si dispiega tra “principio” (1,1) e “compimento” (vedi il verbo “portare a compimento” in 2,1), e in una serie (“primo giorno”, “secondo giorno” ecc.) che appare progressivamente nella sua compiutezza, quella dei sei giorni più uno.
Infine, al termine del racconto scopriamo che Dio porta a compimento proprio ciò che aveva iniziato a creare all’origine, “il cielo e la terra” (2,1; cfr.
1,1).
In altri termini, il processo si inserisce nell’intelligenza di un disegno, che presiede a ciascuno dei suoi momenti.
Il dominio divino in Genesi 1 ha paradossalmente la sua più bella dimostrazione nelle pause che ritmano la sequenza creatrice.
Infatti Dio unisce alle sue iniziative creatrici un cenno di pausa e di meraviglia: “Dio vide che la luce era cosa buona” (1,4).
[…] In ognuna di queste pause Dio rivela che non è affatto schiavo della propria potenza; questa invece è, fino in fondo, l’espressione della sua libertà, come si scopre il settimo giorno, quando Dio “cessa da ogni suo lavoro” (“wayysbot”, dalla radice “sabat”) e consacra un giorno intero a questa sosta (2,2).
Anziché occupare il settimo giorno della serie a “esaurire” la propria potenza creatrice e a riempire il tutto del mondo, il Dio biblico è colui che pone un limite al gesto creatore, “dominando il suo dominio”, per parlare come Salomone: “Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza” (Sapienza 12,18).
In questa sosta Dio fissa il suo rifiuto di riempire tutto e, correlativamente, la sua volontà di aprire uno spazio di autonomia all’universo, in particolare all’umanità.
[…] Infine questo processo, con la sua disposizione, rivela la finalizzazione che lo sottende: gli elementi progressivamente costituiti disegnano una curva, che va dal “buono” del v.
4 al “molto buono” del v.
31.
L’asse della parola è quello che meglio rivela tale curva dello spazio creato.
Se fin dalla creazione della luce Dio parla, e se parla di tutti gli elementi che crea – “Sia la luce…
Si raccolgano le acque… Ci siano luci nel firmamento…” –, egli parla in seconda persona soltanto ai viventi, a partire dal quinto giorno: “Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari…” (v.
22).
Fino ad allora le creature non erano interpellate, ma erano al massimo destinatarie di ordini in terza persona.
Da questo momento Dio parla a creature viventi, capaci di capirlo.
Ma è nel sesto giorno, con la creazione dell’uomo, che la persona grammaticale mancante – la prima persona – fa la sua apparizione sulla bocca di Dio.
Prima al plurale: “Facciamo l’uomo ” (v.
26), poi al singolare: “Io vi dò ogni pianta come vostro cibo ” (v.
29).
Ed è con l’apparizione della coppia umana che la parola divina si dà un interlocutore esplicito: “Dio disse loro” (v.
28).
Dio si rivolge – e in prima persona – all’essere che sarà lui pure essere di linguaggio, “l’essere a immagine”, destinato al dominio dolce della parola.
La sequenza era dunque, in ogni sua parte, ordinata al proprio fine.
E la forma narrativa, in particolare nel suo modo di rappresentare le variazioni nella parola divina, è stata il veicolo efficace di tale finalizzazione.
*** Genesi 1 potrebbe avere anche come sottotitolo “L’origine delle specie”, tanto il disegno divino è legato alla diversità delle specie.
Certamente, qui non si tratta del processo di evoluzione delle specie.
Se Genesi 1 evoca un processo, questo si deve cercare nella sequenza dei giorni, nel corso dei quali Dio fa sorgere le specie vegetali, le specie animali dell’acqua e dell’aria e quelle della terraferma.
I diversi biotipi sono rispettati (acqua, firmamento, terra), però l’intervento divino non è rivolto a “classi” di animali, ma va dritto alle specie particolari: i vegetali e gli animali appaiono tutti “secondo la propria specie” (vv.
11-12, 21.24-25).
E queste specie appaiono “tali quali”, cioè nello stato in cui le incontra dal v.
28 lo sguardo dell’uomo.
La flora e la fauna consacrate da Dio nella loro bontà sono quelle che accompagnano la famiglia umana nel suo destino.
[…] Se le specie sono portate ognuna all’esistenza con un intervento immediato di Dio, sono pure create nella loro autonomia.
Le specie vegetali sorgono provviste del loro principio di riproduzione: “La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie” (1,11).
Quanto ai rappresentanti delle specie animali, questi si sentono dire: “Siate fecondi e moltiplicatevi” (1,22).
Se l’eteronomia è presente in ogni istante del poema narrativo di Genesi 1 – poiché le creature hanno il loro segreto in questo Altro che le fa sorgere –, l’autonomia delle specie nella durata vi è pure manifesta: Dio crea i viventi affidandoli alla loro autonomia riproduttiva, a ciò che li renderà “uguali” di età in età.
C’è un altro testo del Pentateuco, il capitolo 11 del Levitico, in cui diventa pienamente evidente l’argomento del “discorso sulle specie” di Genesi 1.
[…] Il trattato sugli animali mondi e immondi che si legge in Levitico 11 costituisce infatti una messa in atto sofisticata dei dati e delle distinzioni introdotti in Genesi 1.
Una nuova luce è stata portata su Levitico 11 con i lavori di Mary Douglas, antropologa inglese, che ha pubblicato nel 1966 “Purity and Danger”.
Già nel 1962 Claude Lévi-Strauss nel suo “La Pensée sauvage” aveva […] dimostrato attraverso l’analisi di vari miti e della loro struttura che il pensiero primitivo detto “selvaggio” era invece guidato da una logica rigorosa, classificatrice.
In “Purity and Danger” Douglas dimostra che Levitico 11 illustra perfettamente tale logica.
[…] Di tutte le creature animali, inclusi i mostri marini, Dio ha dichiarato la bontà, consacrando la loro divisione per specie (Genesi 1,21- 25).
Perché allora Levitico 11 introduce distinzioni supplementari tra animali mondi e immondi? Le differenze introdotte in Levitico 11 valgono unicamente per il popolo che è stato “distinto”: sono di ordine pratico e si riferiscono al regime alimentare degli israeliti e alla loro pratica sacrificale; riguardano un popolo chiamato a entrare nella santità di Dio – e dunque nella sua “differenza” – entrando in un mondo più ricco di differenze.
Un passaggio del Levitico riassume tale vocazione singolare: “Io, vostro Dio, vi ho separati dagli altri popoli.
Farete dunque separazione tra animali mondi e immondi, fra uccelli immondi e mondi, e non vi renderete abominevoli mangiando animali, uccelli o esseri che strisciano sulla terra e che io vi ho fatto separare come immondi.
Sarete santi per me, perché io, vostro Dio, sono santo e vi ho separati dagli altri popoli, perché siate miei” (20,24-26).
[…] Unita alle altre distinzioni introdotte dal Levitico, la distinzione degli animali mondi e immondi è tra quelle che pongono i figli di Israele dal lato di […] un rispetto più attento, negli altri e in se stessi, del primo dono di Dio che è questa vita.
Ancora una volta, la visione biblica non sostiene affatto una religiosità irrazionale, ma si rivela legata a una saggia articolazione del mondo, rispettosa delle distinzioni interne al reale e della finalità da esse indicate.
*** Genesi 1 potrebbe infine avere il sottotitolo dato da Karl Popper alla sua ultima opera: “Questioni intorno alla conoscenza della natura”.
Adamo prolunga l’opera creatrice della separazione delle specie.
Così facendo, esercita, a immagine di Dio, il “dominio dolce” del mondo che gli è affidato (1,28).
Un testo del libro dei Re afferma inoltre che egli esercita in questo una funzione reale e, per così dire, “scientifica”.
L’elogio della sapienza di Salomone termina con questi versetti: “La sapienza di Salomone superò quella di tutti gli orientali e tutta la sapienza dell’Egitto.
[…] Pronunziò tremila proverbi; i suoi canti furono millecinque.
Parlò di piante, dal cedro del Libano all’issopo che sbuca dal muro; parlò di quadrupedi, di uccelli, di rettili e di pesci” (1 Re 5,10-13).
Nello stato-giardino che sono Giuda e Israele (cfr.
1 Re 5,5), Salomone, ripieno della saggezza che ha ricevuto, prolunga il gesto di Adamo che “impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche” (Genesi 2,20) e avvia anche il governo del mondo con il linguaggio.
Dopo Herder e Heidegger, non sono mancate le interpretazioni che hanno visto nei nomi dati da Adamo agli animali la nascita della vocazione poetica dell’uomo, quella di “abitare poeticamente questa terra” (Hölderlin).
A dire il vero, il sottofondo culturale della doppia scena (in Genesi 2 e in 1 Re 5) invita a vedere Adamo e Salomone rappresentati sia come poeti sia come uomini di scienza.
La saggezza enciclopedica di Salomone nel citato ritratto di 1 Re 5,12-13 è vicina infatti al sapere classificatore e alla “scienza delle liste” degli abitanti della Mesopotamia, da cui derivano pure gli inventari del libro dei Proverbi e dei codici di leggi bibliche.
Di tale “scienza delle liste” elaborata fra il Tigri e l’Eufrate, René Labat scrive: “Anche se non era rivolta all’universalità, essa si trova in pratica estesa a tutti gli ordini della conoscenza: scienze della natura nelle liste di minerali, di piante e di animali; scienza delle tecniche nelle liste di utensili, di vesti, di costruzioni, di cibi e bevande; scienza dell’universo nelle liste degli dei, di stelle, di paesi o contrade, di fiumi e di montagne; infine scienze dell’uomo nelle liste dei particolari fisici, delle parti del corpo, dei mestieri e delle classi sociali”.
Tale classificazione dei fenomeni del reale si organizza in particolare a partire dai loro nomi.
Nella Bibbia c’è un’eco dell’attività creatrice di Dio che crea le cose dando loro un nome.
“La cerchia delle conoscenze di Salomone, zoologica e botanica, è un altro giardino di Adamo”, scrive Paul Beauchamp.
Adamo e Salomone attestano entrambi – uno alle origini e l’altro nella “modernità” della storia – la vocazione dell’uomo ad abitare “scientificamente” la terra che Dio ha loro affidato.
Labat nella sua nomenclatura menziona l’elaborazione delle “liste degli dei”.
Ma questo è un compito che non spetta più all’uomo biblico, il cui Dio unico si rivela irriducibile ai fenomeni del mondo.
Bisogna infatti rilevare come il monoteismo biblico ha trasformato il rapporto del “sapere” dell’uomo con il mondo che lo circonda: nel mondo biblico la “scienza delle liste” ha un nuovo senso.
I politeismi dell’antico Vicino Oriente, egiziani, mesopotamici e cananei […] erano strettamente legati ad ambienti cosmici: il cielo, la pioggia, le costellazioni, l’aria, il vento, le acque dolci.
Questo non è più pensabile nel contesto biblico: se Dio penetra con il suo sguardo e la sua cura il mondo che ha creato, fin nei punti più inaccessibili (cfr.
Giobbe 38-39), è però “separato” nella sua assoluta trascendenza (cfr.
Isaia 40,25; 46,5; 66,1-2).
Le società religiose dell’antico Vicino Oriente si caratterizzano inoltre per un fondo oscuro in cui regnano dèmoni e forze malefiche.
Il pensiero biblico ha notevolmente riorientato questo dato.
[…] Liberata dalle immanenze divine e demoniache, la terra dell’uomo biblico gli è interamente consegnata: “I cieli sono i cieli di Dio, ma egli ha dato la terra ai figli dell’uomo” (Salmo 115,16).
Essa gli è affidata in tutta la sua estensione, cielo, mare e terra, come canta il Salmo 8, con il dovere di ricerca che ne segue: “È gloria dei re investigare le cose” (Proverbi 25,2).
Tale compito reale dell’uomo biblico riceve la forma più “moderna”, quasi secolarizzata, nella ricerca di Salomone, come è presentata nel libro del Qoelet: “Mi sono proposto di ricercare e investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo” (1,13).
Certamente tale impresa è distante dalle scienze moderne: per diventare operative, queste dovranno varcare altre soglie di razionalità, a cominciare da quella della concettualità greca.
È vero tuttavia che il pensiero biblico della consegna del creato al sapere e al potere dell’uomo costituisce una delle condizioni dell’emancipazione del sapere scientifico.
*** Genesi 1 è dunque, a modo suo, un manifesto dell’intelligibilità del mondo.
[…] Questo capitolo e quelli che seguono nella Genesi non affermano affatto una forma di concorrenza tra la scienza divina e quella dell’uomo.
L’accesso dell’uomo al sapere del linguaggio non è una prerogativa sottratta alla divinità, come un fuoco prometeico, nonostante le false promesse del serpente in Genesi 3,1-5.
La vocazione “scientifica” dell’uomo è invece enunciata nei momenti di presenza di Dio all’uomo, sia che si tratti di un discorso rivolto da Dio ad Adamo in Genesi 1, o della vicinanza di Dio all’uomo nel giardino in Genesi 2, o dell’esperienza mistica in 1 Re 3, dove Salomone chiede a Dio la saggezza, che in particolare prenderà la forma del suo governo del mondo attraverso la parola.
Questo sapere non è al riparo da deviazioni, ma procede anzitutto dall’”essere a immagine”, come il compito reale affidato da Dio a Adamo.
Il Salmo 8 pone le cose nella giusta prospettiva, quando celebra la signoria di Dio celebrando quella dell’uomo: “Tu l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato; gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi”.
__________ A duecento anni dalla nascita di Charles Darwin e a centocinquanta dalla sua opera più famosa, il pontificio consiglio della cultura presieduto dall’arcivescovo Gianfranco Ravasi ha patrocinato un sontuoso convegno internazionale dal titolo: “L’evoluzione biologica: i fatti e le teorie.
Una valutazione critica 150 anni dopo ‘L’origine delle specie'”.
Il convegno si è tenuto dal 3 al 7 marzo a Roma, alla Pontificia Università Gregoriana.
Ed è stato promosso da questa università assieme all’americana University of Notre Dame.
Vi hanno preso la parola i maggiori specialisti mondiali nelle diverse discipline, dalla biologia alla paleontologia, dall’antropologia alla filosofia alla teologia.
Molto varie anche le posizioni messe a confronto.
C’erano studiosi cattolici, protestanti, ebrei, agnostici, atei.

8 MARZO 2009

E qualche battuta, tra il vero e il faso su di noi, ci farà sorridere di certo.
Eccole: 1.
Qual e’ la differenza fra le donne di 8, 18, 28, 38 e 48 anni? Quelle di 8 anni le si mettono a letto e si racconta loro delle storie; quelle di 18 anni si raccontano loro delle storie e si mettono a letto; quelle di 28 anni non hanno bisogno che si racconti loro delle storie per metterle a letto; quelle di 38 anni vi raccontano delle storie e vi portano a letto; a quelle di 48 bisogna che le raccontiate delle storie per evitare di andarci a letto.
2.
Potremo dire di avere raggiunto la parità tra i sessi quando donne mediocri occuperanno posizioni di responsabilità.
(Francois Giroud) 3.
Cosa vuol dire quando una donna e’ fuori della cucina? Che la catena e’ troppo lunga.
4.
Una donna affascinante e’ l’inferno dell’anima, il purgatorio del portafoglio, ed il paradiso degli occhi.
(Fontenelle) 5.
Una donna e’ come un buon libro: divertente, ispira, istruisce.
Talvolta ci sono troppe parole, ma se la rilegatura e le decorazioni sono belle e’ irresistibile.
Vorrei potermi permettere una biblioteca.
(Marcus Long) 6.
Le donne sarebbero più affascinanti se si potesse cadere fra le loro braccia senza cadere nelle loro mani.
(Ambrose Bierce) 7.
Era così piatta che di reggiseno non aveva la prima, ma la retromarcia.
(Giorgio Faletti) 8.
Quando la donna che t’ama ti loda, non t’insuperbire: loda se stessa.
9.
Se una donna desidera un diadema di diamanti, vi spiegherà che e’ per evitarvi di comperarle un cappello.
(Jerome K.
Jerome) 10 Dopo tanto discorrere resta dubbio se le donne preferiscano essere prese, comprese o sorprese.
(Gesualdo Bufalino) 11.
Le donne non hanno mai niente da dire.
Ma lo sanno dire così bene! (Oscar Wilde).
12.
Le donne sono straordinarie con la loro mania di far dormire gli altri nel modo in cui loro gli rifanno il letto.
(Samuel Beckett) La prima donna italiana a prendere la penna con intenti letterari fu Compiuta Donzella, una musica fiorentina del 1200, di cui ci restano tre sonetti.
Da Compiuta ad oggi, molte grandi donne italiane si sono avvicinate alla scrittura, ognuna per un motivo e con un intento differente.
I risultati sono stati i più disparati.
Nel percorso che presento, vi sono alcune tra le scrittrici italiane più significative, nella speranza che, attraverso le loro vite, spesso difficili, e le loro opere, sia possibile comprendere anche li diversi momenti che ha attraversato, nel tempo, la società italiana.
Senza strombazzature e botti pirotecnici.
Naturalmente, di ognuna indicherò solo il periodo storico, fermandomi agli Anni Settanta, altrimenti… 1347-80 S.
Caterina da Siena 1450 Antonia Pulci Alessandra Macinghi Strozzi Isotta Nogarola Cassandra Fedele Laura Cereta Gaspara Stampa 1450 – 1500 Lucrezia detta Imperia Vittoria Colonna Tullia d’Aragona Chiara Matraini Laura Battiferri Amannati Veronica Franco Isabella di Morra 1530 Olympia Morata 1550 Moderata Fonte Isabella Andreini Lucrezia Marinella 1600 – 1700 Maria Clemente Ruoti Faustina Maratti Zappi Luisa Bergagli fine 1700 Diodata Saluzzo Roero Gaetana Agnesi Eleonora Fonseca Pimentel Cristina Tivulzio Belgioioso 1850 – 1900 Matilde Serao Caterina Percoto Contessa Lara Vittoria Aganoor Pompilj Grazia Deledda Neera Maria Messina 1900 Amalia Guglielminetti Ada Negri Sibilla Aleramo Futurismo: Rosa Rosà Gianna Manzini Anna Banti Neorealismo: Fausta Cialente Alba de Cespedes Elsa Morante SECONDA GUERRA MONDIALE Natalia Ginzburg II° DOPOGUERRA Antonia Pozzi Amelia Rosselli Giulia Niccolai Margherita Guidacci Maria Luisa Spanzani ANNI ’70 Amanda Guiducci Gina Lagorio Dacia Maraini ……….
Invece le annotazioni che seguono sono preziose per coloro che intendono meglio approfondire i loro studi sul contributo femminile nei vari campi del sapere: Indirizzi: A Celebration of Women Writers: Un sito dedicato alle donne scrittrici, con elenchi suddivisi per epoca e per paese.
Interessante per ricerche specialistiche, dato che compaiono nomi di scrittrici provenienti anche dai paesi più piccoli.
African Women’s Bibliographic Database Un database – suddiviso per paese e per zona – specifico sulle donne africane: dalla situazione sociale alla letteratura, agli studi di genere.
American Women History Un database sulla storia delle donne americane: libri, riviste, tesi, con un indice per soggetto.
E-book by Women Writers – University of Virginia Sito dell’Università della Virginia che offre un elenco di donne scrittrici, soprattutto per il periodo 1800-1900.
I libri sono stati riportati in versione html, e possono quindi essere letti direttamente.
Early Modern Women Database Database delle biblioteche dell’Università del Maryland, suddiviso per temi, paesi, e tipi di documenti cercati.
Feminist Science Fiction, Fantasy and Utopia Sito che offre molto materiale sulla fantascienza e sul genere fantasy scritto da donne e da un punto di vista femminista: bibliografia suddivisa in ordine alfabetico, riviste, documentari e film.
Feminist Studies Collections: Women in History Sito della Stanford University (California) molto ricco di materiale sugli Women’s Studies: amplia soprattutto la parte dedicata alla storia delle donne, con link a siti specifici.
Medieval Feminist Index Questo sito offre la possibilità di consultare giornali, libri, articoli, saggi, riviste sulle donne, la sessualità e il genere nel Medio Evo.
Sito serio, collegato alle Università di Notre Dame, Yale, Princeton, Berkley e Toronto.
SOSIG Women and Education Questo sito, che fa parte dello UK Resource Discovery Network, offre una serie di link che si occupano del campo di Women’s and Gender Studies da vari punti di visti: ogni link viene ampliamente descritto e presentato.
WMST-L File Collection Sito contenente molto materiale suddiviso per tema: dai libri alla storia, dalla sessualità al linguaggio.
The World Wide Web Virtual Library Women’s History Reference Offre molti dati interessanti per quanto riguarda gli Women’s Studies: dallle riviste ai link alle università di tutto il mondo che si occupano di questo campo.
Women’s EuroMap Sito del Centro di Women’s Studies di Anversa, Belgio.
Vuole essere una “guida” ai siti di particolare interesse per gli Women’s Studies nella rete.
Si focalizza soprattutto sull’Europa.
Women’s Studies Database Database dell’Università del Maryland: bibliografie, saggi e informazioni utili per i posti di lavoro vacanti nell’area di Women’s Studies.
Women’s studies information sources Sito dell’Università di York (Inghilterra), con un database specifico, una lista di riviste che si occupano di Women’s e Gender Studies e la possibilità di consultare la biblioteca via internet.
Toglimi il pane, se vuoi, toglimi l’aria, ma non togliermi il tuo sorriso(Pablo Neruda) Non si può ancora affermare che la nostra società dia alle donne la possibilità di svolgere contemporaneamente i propri compiti di madri, di mogli e anche di altri lavori.
Questo e’ quello che occorre ancora ottenere e- sinceramente- impegnarsi per onorare la lotta intrapresa dalle donne più di cent’anni fa.
Mi imbarazza, ma ci sono troppe giovani donne che non sanno il perché di questa “memoria”- non festa- quindi un minimo di vicenda bisogna proporla.
E poi desidero offrire due o tre cose che sfuggono a tanti, ma che vale la pena di conoscere, visto che ci possiamo “abbracciare” come umanità in ricerca con Internet.
Nel 1908 Preceduta da una marcia di 15.000 donne nel 1908 per il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’ottenimento del diritto al voto, la prima festa della donna si è svolta il 28 febbraio 1909 negli Stati Uniti d’America.
La sua istituzione internazionale risale al 1910 nel corso della seconda Conferenza dell’Internazionale Socialista svoltasi a Copenaghen nella Folkets Hus (Casa del Popolo) chiamata poi “ungdomshuset”.
Qui più di 100 donne rappresentanti di 17 paesi scelsero di istituire una festa per onorare la lotta femminile per l’ottenimento dell’uguaglianza sociale.
Dal 1912 la festa vuole ricordare anche un grave incendio avvenuto nel 1911 a New York, nella Triangle Shirtwaist Company dove morirono 140 donne in prevalenza italiane ed ebree.
Nel febbraio del 1913 anche le donne russe parteciparono alla loro prima festa con l’intento di dichiarare la loro posizione contro la guerra, ma si ritrovarono a manifestare il 23 febbraio 1917 (l’8 marzo del calendario giuliano) per la morte di circa 2 milioni di soldati russi scomparsi in guerra.
Le proteste continuarono per vari giorni fintanto che lo Zar fu costretto ad abdicare ed il governo dovette concedere il diritto al voto anche alle donne.
Da quell’anno la festa viene celebrata in una data fissa, mentre precedentemente era onorata l’ultima domenica di febbraio.
In Italia, nel secondo dopoguerra, la giornata internazionale della donna fu ripresa e rilanciata dall’UDI (Unione Donne Italiane) associando nel contempo alla data dell’8 marzo l’ormai tradizionale fiore della mimosa.