“Il nostro compito è costruire piccoli paradisi” di Giulio Meotti “Siamo tornati a casa”, proclama il cartello all’ingresso di Givat Assaf, un avamposto israeliano che prende il nome da un colono ebreo ucciso dai palestinesi.
Il leader della comunità, Benny Gal, spiega così la loro presenza: “In questo punto preciso, 3.800 anni fa, la terra d’Israele fu promessa al popolo ebraico.
Se ci portano via di qui, in pericolo sarà l’aeroporto internazionale Ben Gurion”.
Givat Assaf è uno dei capisaldi della “Hilltop Youth”, la gioventù delle colline, la seconda generazione di coloni che sta organizzando la resistenza all’evacuazione degli insediamenti giudicati illegali, i cosiddetti “outpost”, al centro delle trattative fra il primo ministro israeliano Netanyahu e l’amministrazione Obama.
Per questi giovani il risorgimento ebraico passa, come all’inizio del Novecento, dal confronto gomito a gomito con gli arabi.
Le regole del processo di pace non sembrano scalfirli.
I soldati israeliani, quelli con cui i coloni condividono brigate e divisa, devono trascinarli via a forza quando da Gerusalemme arriva l’ordine di evacuazione.
Chi resta, vive palmo a palmo con la morte.
Lo scorso aprile uno di questi giovani è stato ucciso a colpi di ascia.
In caso di conflitto non conta la legge dello Stato, ma quella del Signore.
È come la frontiera americana dell’epopea western.
Guai a pensare che sia un fenomeno di estrema destra, categoria priva di senso in Israele.
Con Ariel Sharon primo ministro sono nati 44 avamposti.
Altri 39, secondo i dati di Peace Now, furono edificati sotto Rabin, Peres e Barak, i protagonisti dei negoziati di Oslo.
Gli esecutivi laburisti non hanno fatto quasi nulla per impedire che gli avamposti si moltiplicassero.
Israele non li considera enclave ribelli, almeno a giudicare dalle cospicue forze di sicurezza messe a loro protezione.
Alcuni hanno strade pavimentate, fermate degli autobus, sinagoghe, perfino campi sportivi.
Si va dal semplice container piazzato in cima a una collina o qualche fila di baracche, sino a veri e propri insediamenti realizzati con prefabbricati tipo post terremoto.
Per la preghiera del sabato serve un minyam, il quorum necessario di dieci uomini.
Basta questo per fare un outpost.
Così si trovano dieci famiglie di peruviani convertiti all’ebraismo in un avamposto appena fuori l’insediamento di Efrat, tra Betlemme e Hebron.
David Ha’ivri, originario di Long Island, è uno dei leader della gioventù delle colline e vive con moglie e figli a Kfar Tapuach.
Il villaggio è celebre per il miele che vi si produce, ma soprattutto per essere citato nella Bibbia, nel capitolo 12 del libro di Giosuè.
È una delle trenta città conquistate dagli ebrei al loro arrivo migliaia di anni fa.
Oggi è uno degli insediamenti di punta della Cisgiordania, che i coloni chiamano con i nomi biblici di Giudea e Samaria.
Della “Hilltop Youth” fanno parte giovani nati e cresciuti nelle colonie, che hanno deciso di abbandonare il tetto paterno nei grandi conglomerati per andare ad annidarsi in cima alle colline.
Pregano in sinagoghe spesso fatte di terracotta.
Si costruiscono la casa con le proprie mani, sono single o appena sposati, da pochissimo genitori.
Si ritengono la nuova avanguardia dei coloni.
Il loro motto è: “Costruiamo e il permesso arriverà”.
Vivono a un tiro di schioppo dagli arabi.
Si muovono a cavallo o con un asino.
È una nuova generazione imbevuta di un nazionalismo mistico che si coniuga al pionierismo e all’ascetismo, rigetta il consumismo delle grandi città sulla costa e vive di ideologia e ardore.
Le donne indossano il mitpahat, l’equivalente ebraico, meno avvolgente e più delicato, del chador islamico.
Gli uomini hanno capigliature al vento, lunghi riccioli laterali e camicie a quadri.
“Sono giovani che incarnano l’ideologia della Torah e l’autosacrificio”, ci spiega Ha’ivri.
“La salvezza di Israele e del popolo ebraico non può venire da politicanti che pensano che la battaglia per la terra sia un gioco tattico.
Dieci anni fa abbiamo iniziato a creare avamposti.
Sono giovanissime coppie che hanno deciso di essere pionieri come i genitori, credono nel sionismo, sono idealisti, pronti a lasciare ogni esistenza confortevole nelle grandi città o nelle grandi colonie.
Vogliono essere autosufficienti, con tutti i limiti che questo comporta”.
Shani Simkovitz dirige la Gush Etzion Foundation.
È americana e ha cinque figli.
“Questa è terra contesa, da patteggiare, non terra occupata”, spiega.
“Più di tremila anni fa i nostri padri ci hanno dato una terra, che non è Roma, non è New York, ma questa: la terra ebraica.
Ci hanno mandato qui a costruire, a coltivare, a vivere, ci hanno sostenuto sempre, soprattutto Rabin, Peres e gli altri laburisti.
Fino a oggi.
I miei figli sono nati qui, ma non c’è più terra legale su cui costruire, il governo da tempo non concede più permessi per una casa, per questo nascono gli outpost.
Gli avamposti sono estensioni delle comunità esistenti.
Ma lo stesso avviene a Gerusalemme, dove migliaia di israeliani abitano al di là della Linea Verde”.
Un altro leader delle colline vive in un agglomerato di roulotte abbarbicate sul monte Artis, chiamato Pisgat Yaakov, che significa la collina di Giacobbe.
Un luogo isolato d’inverno, tanto lì nevica.
Tra queste trenta famiglie c’è Yishai Fleischer, il fondatore di Kumah, un’organizzazione che promuove alyah, cioè immigrazione di ebrei in Israele, e conduce un programma radiofonico di grande successo.
“Abbiamo una vita idilliaca e naturalistica, è una regione bellissima, in mezzo alle montagne”, ci dice Yishai.
“I nostri padri hanno camminato qui tremila anni fa, siamo un po’ come i nuovi hippy.
Lavoriamo la terra.
C’è molta musica, religione, è una vita felice.
Preghiamo, meditiamo, conduciamo un’esistenza spirituale.
Siamo il popolo aborigeno.
Ero a New York, da studente credevo nel sionismo e decisi che questo era il posto dove avrei dovuto vivere.
Abbiamo quello che ci serve.
Ci sentiamo pionieri, siamo dei veri sionisti.
Molti miei amici sono religiosissimi e lavorano nel settore high tech.
I nostri figli crescono con valori autentici”.
È una vita, ammette Yishai, molto pericolosa.
“Giro armato, odio le pistole, non significa che debba usarle, ma devo proteggere la mia famiglia.
Il nostro villaggio è citato più volte nella Bibbia, per questo attrae molte persone.
Lei vive a Roma, una città sacra per il suo popolo, il mio è nato e cresciuto in Israele.
Qui senti di essere parte della terra e del cielo.
Siamo cresciuti sapendo che il prossimo passo sarebbe stato il nostro”.
Yishai sa bene che i coloni non sono amati dagli israeliani che vivono sulla costa.
“Siamo isolati nell’opinione pubblica, ma lavoriamo ogni giorno per migliorare.
Oggi il nazionalismo non è “cool”, non è politicamente corretto.
Non mi aspetto di conquistare i cuori delle persone che non vivono qui.
È semplice: questa è la nostra terra.
Secondo le norme internazionali, secondo la Bibbia, secondo la storia.
Viviamo in tempi eccitanti in cui il popolo ebraico torna a casa.
Quando ci svegliamo la mattina non pensiamo alla pace, ma a condurre una vita felice, dignitosa e piena di amore.
Dobbiamo essere vigili, ci sono persone qui che vogliono ucciderci in quanto ebrei.
Hanno la stessa ideologia dei nazisti.
Gli europei non si sono interessati alla sorte degli ebrei sessant’anni fa, e allora stiano lontani da noi oggi.
Sappiamo perché siamo qui, abbiamo una missione che portiamo avanti tutti i giorni.
Il nostro posto è qui”.
David Ha’ivri descrive così i giovani delle colline: “Molti sono contadini o pastori, ci sono studenti, tutti pionieri che vivono in zone desertiche, vuote, senza abitanti, non ci sono palestinesi cui venga sottratto alcunché, i coloni piantano alberi, coltivano la terra, portano acqua, cibo, elettricità.
Nei grandi insediamenti la sicurezza è ben organizzata, ma in queste comunità di poche famiglie il peso della sicurezza è enorme.
La seconda generazione è molto più attaccata alla terra della prima, sono nati qui, il loro sangue viene da qui.
Sono persino più religiosi dei padri”.
Molti di questi avamposti sono stati creati negli anni proprio lì dove i palestinesi avevano ammazzato un colono.
Come Itay Zar, che oggi vive in un outpost intitolato al fratello ucciso.
Venti famiglie, una dozzina di scatole di metallo, quaranta bambini e un maneggio per cavalli.
“Non siamo venuti qui per divertirci.
C’era il deserto, oggi la terra fiorisce”.
Il leader spirituale dell’outpost, Ariel Lipo, dice che il loro compito è costruire “piccoli paradisi”.
Maoz Esther, sette baracche di lamiera e cinque famiglie, non lontano da Ramallah, è il primo avamposto preso di mira da Netanyahu da quando è salito al potere.
È già stato rimosso tre volte.
E per tre volte ricostruito.
L’ultima pochi giorni fa.
Il leader della comunità, Avraham Sandack, è arrivato su questa altura direttamente da una delle colonie smantellate a Gaza da Ariel Sharon.
Studia per diventare rabbino e intanto fa le pulizie in una sinagoga.
“Il nostro spirito è lo stesso dei nostri padri”, ci dice Avraham.
“Due anni fa era la festa di Hanukkah, siamo partiti da un insediamento vicino e abbiamo costruito una casa di pietra.
Una mamma con tre figlie piccole si è trasferita da sola per due mesi sulla collina.
Non avevano elettricità né acqua.
Ma sapevano di appartenere alla terra d’Israele.
Nella Bibbia si parla di questa terra per la profezia del regno di Dio.
Ci dà forza per andare avanti.
Ieri abbiamo iniziato a ricostruire quello che l’esercito ha distrutto.
Qui riusciamo a essere equi con la nostra anima.
Qui c’è qualcosa di metafisico.
Dio non è in cielo o da qualche parte.
Dio è parte di noi, è in tutta la nostra vita”.
Sono i figli e i nipoti dei primi coloni inviati dai governi israeliani a “far fiorire il deserto” nei territori contesi dopo la guerra dei sei giorni del 1967.
Bibbia in mano e fucile in spalla, tanti bambini, vita di sacrifici, un’anima nazionalista e una religiosa.
Nell’insieme, i coloni sono circa trecentomila, e il presidente americano Barack Obama, nel discorso del Cairo, li ha indicati come l’ostacolo principale sulla via di quella pace tra “due popoli e due Stati” che è anche l’obiettivo della politica vaticana.
Per tre quarti di loro l’ostacolo non appare insormontabile.
Vivono non lontano dalla Linea Verde del vecchio armistizio tra Israele e Giordania, a est di Gerusalemme, nei grandi insediamenti di Ariel, Gush Etzion, Ma’aleh Adumim, Givat Zeev, Latrun, che non coprono più del cinque per cento dei territori contesi, trattabili.
Ma poi ci sono gli altri.
I cinquantamila che vivono in piccoli o piccolissimi insediamenti di poche centinaia o decine di abitanti.
Oppure negli outpost, gli avamposti.
Gli avamposti, nei luoghi più impervi e sperduti, sono la nuova realtà degli insediamenti.
Se ne contano ormai un centinaio.
Si sono moltiplicati in questi ultimi anni, assieme alla Hilltop Youth, alla “gioventù delle colline”, la nuova generazione dei coloni.
Gli outpost sono tutti illegali.
I giovani li costruiscono e l’esercito israeliano li sgombera.
Ma sempre ne risorgono di nuovi.
Chi sono questi giovani delle colline? Come vivono? Quale visione biblica li muove? Perché si avventurano lì? Accetteranno di lasciare? Il reportage che segue risponde a queste domande.
Ne è autore Giulio Meotti, già noto ai lettori di www.chiesa per un’inchiesta choc su Rotterdam islamizzata che ha fatto il giro del mondo in più lingue.
L’articolo è apparso l’8 agosto 2009 sul quotidiano “il Foglio”, con un seguito sullo stesso giornale il 13 agosto.
In settembre uscirà un libro-inchiesta di Meotti su Israele.
Categoria: Storia e Teoria
Pavel Florenskij
Come anticipazione alla mostra su Pavel Florenskij che sarà allestita in occasione del prossimo Meeting di Rimini, la rivista “La nuova Europa” ripropone nel terzo numero di quest’anno un suo profilo scritto da uno dei protagonisti della rinascita religiosa in Urss.
Ne pubblichiamo alcuni stralci.
Eccoci, dunque, a parlare di Pavel Florenskij.
Non basterebbero neppure dieci incontri per trattare particolareggiatamente l’opera letteraria, scientifica e filosofica di quest’uomo, figurarsi uno solo.
Ma il mio compito è semplice.
Come negli incontri precedenti, vorrei che sentiste, che vedeste la figura di quest’uomo, il suo stile di pensiero, che riusciste a gettare uno sguardo sul suo percorso creativo ed esistenziale.
Si tratta di un personaggio che ha avuto un destino molto, molto speciale.
Infatti, la maggior parte dei pensatori religiosi russi di cui abbiamo parlato sono stati espulsi dal Paese o l’hanno lasciato di propria volontà, e il loro destino è rimasto legato all’emigrazione russa.
Florenskij è stato uno dei pochi a rimanere qui.
Non solo, Florenskij è una persona di cui non si può dare una definizione univoca.
Un ingegnere? Sì, ha brevettato trenta invenzioni, in epoca sovietica.
Un filosofo? Sì, uno dei più luminosi interpreti del platonismo, uno dei più brillanti platonici russi.
Un poeta? Sì, forse non grandissimo, ma che comunque ha composto versi e ha pubblicato un libro di poesie, che è stato amico di Andrej Belyj ed è cresciuto nell’atmosfera dei simbolisti.
Un matematico? Sì, un discepolo del celebre professor Bugaev, padre di Andrej Belyj, che ha formulato teorie molto interessanti in questo campo; un uomo che, contemporaneamente e indipendentemente da Aleksandr Fridman, lo scienziato di Pietrogrado oggi famoso, era arrivato all’idea dello spazio curvo.
Fridman è il padre della teoria dell’universo in espansione, che aveva formulato sulla base delle equazioni di Einstein.
E Florenskij si era avvicinato molto a questa teoria proprio nello stesso periodo, nel 1922, mentre lavorava al capo opposto del Paese.
Il pensiero di Florenskij si estendeva alla storia dell’arte che era, si può dire, la sua seconda professione (o la terza, o la decima, se si vuole).
Florenskij era un fine teologo.
Un erudito.
Padre Vasilij Zen’kovskij, autore di una monumentale Storia della filosofia russa, parla della sua impressionante erudizione.
Persone che avevano conosciuto Florenskij, mi hanno raccontato che poteva dare risposte circostanziate praticamente a qualsiasi domanda nei più diversi campi delle scienze umane e tecniche.
Florenskij era uno storico, sebbene le tematiche storiche siano poco presenti nelle sue opere, era tuttavia un archeologo, autore di numerose brevi monografie e saggi sull’arte russa antica e medievale, sull’iconografia, sulle piccole sculture.
Lavorava instancabilmente.
Era una persona che Vernadskij’ stimava e apprezzava.
Nelle loro ricerche scientifiche, operavano nello stesso alveo.
Purtroppo, non tutte le opere di Florenskij sono state ancora pubblicate; tuttavia oggi si può dire che la sua figura, sebbene sia stata e sia tutt’ora discussa, ha senz’altro un valore immenso.
Del resto, tutti i grandi personaggi hanno suscitato delle discussioni: da Puskin a Leonardo da Vinci…
Quelli di cui non si discute, non interessano a nessuno.
Florenskij era legato all’università di Mosca, ai progetti e agli istituti per l’elettrificazione del Paese, inoltre era professore dell’Accademia teologica di Mosca, docente di storia della filosofia; al tempo stesso era redattore della rivista “Bogoslovskij vestnik”.
La molteplicità di interessi era emersa in lui sin dall’infanzia, lo chiamavano il Leonardo da Vinci russo.
Ma quando diciamo “Leonardo da Vinci”, ci viene in mente un maestoso vegliardo, che guarda l’umanità dall’alto dei suoi anni.
Florenskij, invece, è morto giovane.
Era scomparso.
Arrestato nel 1933, era sparito e i suoi familiari, moglie e figli, non sapevano dove fosse, né cosa gli fosse accaduto: lo ignorarono per molto tempo, perché nel 1937 gli avevano tolto il diritto di corrispondenza.
Mi ricordo quando con la mamma camminavo per Zagorsk, in tempo di guerra, lei salutava la moglie di Florenskij e diceva: “Questa donna sta portando un’enorme croce”.
E mi spiegava che non sapeva cosa fosse accaduto al marito.
Anche mio padre a quel tempo era appena stato liberato dalla detenzione e io, sebbene fossi abbastanza giovane, capivo cosa voleva dire.
In realtà, a quell’epoca Florenskij era già morto.
Ai tempi di Chruscëv, nel 1958, sua moglie aveva chiesto la riabilitazione, e aveva ricevuto un certificato in cui si attestava che Florenskij era morto nel 1943, ossia alla fine della condanna.
Infatti nel 1933 gli avevano dato dieci anni, come a un pericoloso delinquente.
Sì, quando io e la mamma parlavamo della sua sorte, lui ormai non c’era già più.
Questo è il certificato di morte che i familiari hanno ricevuto solo ora, nel novembre dello scorso anno.
“Certificato di morte (eccetera)…
Il cittadino Florenskij Pavel Aleksandrovich…
è deceduto l’8 dicembre 1937…
Età: 55 anni [non è vero, ne aveva 56]…
Causa del decesso: fucilazione…
Luogo del decesso: …
regione di Leningrado”.
Un uomo che, alcuni mesi prima di questi eventi, trovandosi ai lavori forzati in condizioni infernali, proseguiva attivamente il suo lavoro di ricerca; un uomo che aveva una profonda vita spirituale, intellettuale, che trasmetteva ai figli le sue ricche conoscenze.
Fino al 1937, infatti, ebbe il permesso di scrivere, e vi furono persino dei momenti in cui la famiglia poté andarlo a trovare.
Di un uomo come lui può andare fiera qualsiasi civiltà: sta sullo stesso piano di Pascal, di Teilhard de Chardin, di molti studiosi e pensatori di tutti i tempi e popoli.
Fra i filosofi russi, Florenskij era il più apolitico.
Tutto immerso nei suoi pensieri, nel suo lavoro, stava sempre un po’ in disparte dalla vita pubblica.
Eppure, preferirono fucilarlo.
Assieme a questo certificato, il Kgb ha consegnato ai familiari la copia della “Sentenza della trojka dell’Unkvd, verbale n.
199 del 25 gennaio 1937 in merito al condannato alla pena capitale Florenskij Pavel Aleksandrovich.
La condanna è stata eseguita l’8 dicembre 1937, il che è attestato dal presente atto”.
Seguono le firme, come in tutti i documenti di cancelleria.
C’è anche una fotografia allegata: un uomo con il volto segnato dalle percosse, che ha toccato il fondo, perché lo hanno straziato e torturato.
Ecco in che epoca siamo vissuti.
Pavel (…) aveva una predilezione per le pietre, le piante, i colori: in questo senso assomiglia molto a Teilhard de Chardin, che pure, da bambino, provava tenerezza per la materia, era, oserei dire, innamorato della materia.
Per Florenskij questo era iniziato dall’infanzia.
Forse il mondo delle persone gli era persino estraneo e talvolta opprimente.
Almeno tre profonde crisi interiori colpirono la vita di Pavel Aleksandrovich.
La prima fu una crisi salutare, nel periodo della giovinezza, quando Florenskij, cresciuto in una famiglia non religiosa, lontana dalla Chiesa, a un certo punto comprese l’inconsistenza della visione materialistica del mondo, e si mise a cercare appassionatamente una via d’uscita.
Vi fu un’altra grave crisi, per così dire personale, quando cercò di compiere da sé la propria vita.
Per uno come lui non era affatto semplice portare il proprio fardello, il peso di se stesso.
Un suo conoscente mi ha raccontato che Florenskij gli aveva detto, scherzando, che dal punto di vista logico era in grado di dimostrare, e in modo molto convincente, cose assolutamente contraddittorie.
Il suo intelletto era una macchina colossale, ma al tempo stesso Florenskij non era solo un uomo astratto, era un uomo profondamente appassionato.
Berdjaev ricorda di aver visto Florenskij da giovane in un monastero, da uno starec dove lo avevano portato alcuni amici devoti: stava in piedi in mezzo alla chiesa e piangeva, singhiozzando…
Una vita tutt’altro che semplice, la sua.
Infine, a 42 anni, sopraggiunse un’altra crisi, senza contare quella immediatamente precedente alla rivoluzione, quando Florenskij stava scrivendo il libro su Chomjakov.
O meglio, non proprio su Chomjakov, si trattava dello studio critico di un’opera su Chomjakov.
E in questo studio avanzava tutta una serie di tesi, che suscitarono la dura reazione dei suoi amici ultraortodossi.
Questi era un ex tolstojano, passato poi all’ortodossia, una persona molto buona e cordiale ma che, non avendo una forma mentis filosofica, apprezzava moltissimo Chomjakov.
La critica a Chomjakov lo aveva messo così in subbuglio, che Novosëlov era partito di gran carriera per Sergiev Posad, aveva raggiunto Florenskij e per tutta la notte l’aveva rimproverato, finché padre Pavel, scrollando la testa, non aveva detto: “Non scriverò più niente di teologia”.
Non doveva essere stato semplice, per un uomo come lui, autore di un libro celebre come La colonna e il fondamento della verità, lasciarsi sfuggire un’espressione del genere.
Di fatto, dopo questo episodio Florenskij non avrebbe più scritto su argomenti filosofico-religiosi.
La sua ultima opera del genere, quasi un commiato dal mondo strettamente teologico, sono le sue lezioni sulla filosofia del culto.
Sono state pubblicate postume solo moltissimi anni dopo, e forse sono state quelle che hanno suscitato le maggiori critiche.
Era una persona difficile e contraddittoria, padre Pavel.
Si era laureato brillantemente in matematica all’università di Mosca, dove aveva subito ottenuto una cattedra.
La matematica era per lui come il fondamento dell’universo.
Alla fine, era arrivato a pensare che tutta la natura visibile, in sostanza, può essere ridotta a dei punti d’appoggio invisibili.
Per questo amava tanto Platone, infatti per quest’ultimo l’invisibile è la fonte di ciò che è visibile.
Florenskij amò, studiò, commentò Platone per tutta la vita.
Non c’è da meravigliarsene.
Il filosofo inglese Whitehead diceva che tutta la filosofia mondiale non è che una serie di note in calce a Platone.
Il pensiero di Platone ha definito una volta per tutte le linee principali dello spirito e del pensiero umano.
Negli anni in cui era studente, Florenskij fu molto influenzato da Vladimir Solov’ëv.
Bisogna dire che entrambi erano platonici, che ad entrambi stava a cuore il problema del fondamento spirituale dell’essere e il tema misterioso della Sofia-Sapienza Divina.
Forse per questo Florenskij cercava di prendere le distanze da Solov’ëv, quasi non lo cita e se lo cita, lo fa in modo critico.
Eppure, nella storia del pensiero i due sono molto vicini, molto più di quanto lo stesso Florenskij potesse sospettare.
Ma la matematica non rimase la sua preferita per tutta la vita.
Florenskij abbandonò la scienza, si trasferì a Sergiev Posad ed entrò all’Accademia teologica.
Andrej Belyj, che l’aveva conosciuto in quegli anni, parla con tenerezza e ironia di questo giovane dai capelli lunghi; dice che lo chiamavano “il naso coi riccioli”, perché Florenskij aveva un viso olivastro, ereditato dalla madre armena, un naso come quello di Gogol’ e lunghi capelli ondulati.
Era basso di statura e di costituzione esile.
Parlava a bassa voce, soprattutto dopo essersi stabilito nel monastero: senza volere aveva fatto proprio il comportamento monastico.
Quando nel 1909 venne inaugurato il monumento a Gogol’ (il vero monumento a Gogol’, quello che ora sta nel cortile, non quella specie di idolo che c’è adesso), quando fu tolto il drappo un uomo esclamò: “Ma questo è Pavlik!”.
In effetti, la figura curva, i capelli, il naso somigliavano straordinariamente a quelli di Florenskij.
Lo scrittore religioso Sergej Fudel, figlio del noto sacerdote moscovita Iosif Fudel’, da giovane aveva conosciuto Florenskij.
Mi descriveva il suo aspetto esteriore, i suoi gesti, e diceva che assomigliava a un affresco egiziano che aveva preso vita.
Raccontava che poteva ascoltarlo a lungo quando parlava con suo padre a voce sommessa.
Non era sempre chiaro di cosa stessero parlando, nei loro discorsi si mescolavano tanti argomenti: la moda femminile, che era un indicatore preciso dello stile della civiltà del tempo; le esperienze occulte; il mistero dei colori delle icone; i significati misteriosi, profondi, delle parole.
Florenskij conservò per tutta la vita un interesse filologico e filosofico per il significato delle parole.
Pavel Aleksandrovich aveva un amico, Sergej Troickij, cui era molto legato in gioventù.
La separazione da quest’ultimo lo ferì dolorosamente: Troickij andò a Tbilisi e, di lì a pochi anni, perì in circostanze tragiche.
A lui Florenskij dedicò il suo libro principale, La colonna e il fondamento della verità, scritto da un uomo che era passato attraverso una tempesta di dubbi.
(…) E questa tempesta ha lasciato il segno nell’opera.
Il sottotitolo è “saggio di teodicea ortodossa”.
Se pensate che sia un trattato nel quale viene esposta in modo coerente e sistematico una certa concezione, vi sbagliate.
Qui non ci sono capitoli, ma lettere indirizzate a un amico.
Ed è fatto volutamente.
Proprio per questo, fra l’altro, il saggio aveva suscitato tanto disaccordo negli ambienti accademici.
Florenskij, per la pubblicazione del libro, volle che fosse stampato in un carattere particolare.
A ogni capitolo vi erano delle vignette, prese da un trattato latino del XVIII secolo, accompagnate da frasi molto laconiche e commoventi.
Quasi ogni capitolo si apriva con un’introduzione lirica.
Un libro dottissimo, in cui i commenti scientifici occupano quasi la metà del testo, con migliaia e migliaia di citazioni da autori antichi e moderni, era scritto come un diario lirico! Che cos’era? Un capriccio? No, era quello che di lì a poco in Europa avrebbero chiamato filosofia esistenziale.
Non filosofia della teoria, bensì filosofia dell’uomo, dell’uomo vivo.
(©L’Osservatore Romano – 10 luglio 2009)
Testrimoni del nostro tempo: Padre Pio
Ricordo di padre Pio Il frate e il sindaco socialista di Giuseppe Tamburrano Presidente della Fondazione Nenni La visita che il Papa farà alla tomba di padre Pio mi emoziona come figlio di San Giovanni Rotondo.
Una visita molto significativa perché non tutti nella Chiesa hanno amato il frate con le stimmate.
Ed evoca in me il ricordo di un villaggio contadino, di un piccolo convento francescano aggrappato alla roccia della montagna, di quel cappuccino con le mani piagate nei guanti e un volto sorridente, circondato dalla devozione quasi clandestina di pochi.
Non riesco a dissociare quelle mani e quel volto dai ricordi della mia prima giovinezza, ragazzo vivace, irriverente, propenso più a combattere per il paradiso sulla terra che ad aspirare a quello dei cieli.
Ribelle, ma padre Pio col suo sorriso dolce e ironico mi placava.
Mi voleva bene: chissà perché.
Forse perché sentiva in me il laico cristiano.
È stampato vividissimo nella mia memoria il suo viso trasfigurato, sofferente e rigato di lacrime mentre mi porge l’ostia della prima comunione.
Dopo le quotidiane sassaiole contro la squadra dei figli dei “signori” io, caporione della squadra dei figli dei “cafoni”, andavo al convento a preparare le recite che la maestra Cleonice organizzava in onore di padre Pio – ricordo sant’Agnese, interpretata da una bionda, eterea fanciulla che fu il mio primo amore: io ero nelle vesti del centurione Vinicio, convertito da Agnese – o a esercitarmi per le mie esibizioni canore: ricordo l’Ideale del Tosti che ho cantato accompagnato all’organo dal sacerdote Di Gioia.
E ricordo soprattutto l’atmosfera triste della mia casa, il volto afflitto di mio padre nel cavo della sua mano e i profondi, dolorosi sospiri di mia madre.
Mio padre, figlio di contadini, riuscì a laurearsi in giurisprudenza grazie ai sacrifici dei genitori.
Ma la passione politica lo infiammò più dell’agone forense.
Fu il leader del Partito socialista e fu eletto sindaco nelle elezioni dell’ottobre 1920.
Di quel tragico ottobre che, il giorno 14, registrò quattordici cadaveri e molti feriti tra i proletari – tante donne! – che volevano issare la bandiera rossa sul municipio e furono ricevuti a colpi di arma da fuoco dalla forza pubblica e dagli agrari.
Il destino di mio padre fu segnato: l’emarginazione sociale e civile e la miseria dell’esiliato in patria.
Mia madre apparteneva a una buona famiglia borghese e quanto era mite mio padre tanto ella era orgogliosa.
E la vedo curva sulla macchina da cucire Singer o con l’ago da ricamo lavorare per le sue “amiche” dell’establishment fascista.
E ricordo la zia Annina che viveva sola in una modesta abitazione ma godeva di buone rendite che divideva con la nipote prediletta: “Giusè, va’ a trovare zia Annina”, si raccomandava mia madre.
E mio padre, senza clienti e senza amici (tutti diventati fascisti) non diceva nulla: subiva, viveva triste, assente.
Dopo ho capito perché non voleva vedermi vestito da balilla moschettiere andare alle adunanze del sabato fascista.
“Tu lo vedi ora spento.
Avresti dovuto vederlo qualche anno fa: sembrava un leone con l’abbondante chioma al vento e la voce calda nei comizi proletari” mi diceva mia madre.
Ebbene quest’uomo mite, onesto, umiliato, escluso dal consorzio civile del paese trovò in padre Pio un vero amico, un cuore fraterno, una mente intelligente che sapeva come nessuno farlo sorridere e dargli la forza della speranza.
E non gli chiese mai: perché non entri in chiesa? Prima di morire, mio padre, cristiano autentico per tutta la vita, riconobbe il Dio cattolico.
(©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009 Due sono le principali fonti autobiografiche di padre Pio.
La prima è senz’altro costituita dal suo Epistolario (i-iv, San Giovanni Rotondo, 1992).
Il primo volume, in particolare, ha un valore notevole essendovi raccolta la corrispondenza con i direttori spirituali nella quale il cappuccino svela gran parte della sua interiorità.
Vi sono poi le risposte giurate e sottoscritte da padre Pio davanti al visitatore apostolico, il vescovo Raffaello Carlo Rossi, nel 1921.
Si tratta di 142 dichiarazioni fino a poco tempo fa sconosciute, nelle quali il cappuccino rivela importanti e a volte decisivi aspetti della sua vita spirituale e mistica.
Durante l’esame stimmatico condotto dal visitatore apostolico, peraltro, padre Pio spiega fenomeni sinora ignoti relativi alle sue piaghe.
Tale documento è ora pubblicato integralmente nel libro Padre Pio sotto inchiesta.
L’autobiografia segreta (Milano, Edizioni Ares, 2008, pagine 328, euro 14, a cura di chi scrive).
Oltre alle fonti ricordate prima, sono state e certamente ne verranno pubblicate altre – cartoline, lettere, auguri e così via – che, per quantità e contenuto saranno però difficilmente avvicinabili al valore delle prime due.
Circa le fonti testimoniali, di notevole rilevanza sono gli appunti di uno dei suoi direttori spirituali, editi nel Diario di Agostino da San Marco in Lamis, (San Giovanni Rotondo, 2003).
Possono poi essere utilmente lette le pubblicazioni di memorie o diari di tanti figli spirituali.
Richiedono tuttavia un attento vaglio critico.
Su san Pio, biografie scientifiche definitive non esistono giacché molti archivi – soprattutto quelli del Sant’Uffizio e dell’Archivio Segreto Vaticano – non sono ancora completamente esplorabili.
Tra le numerose biografie – spesso divulgative, ora devote, ora prevenute in senso opposto – segnaliamo quelle di Alessandro da Ripabottoni, Padre Pio da Pietrelcina.
“Il cireneo di tutti” (San Giovanni Rotondo, 1991); di Ferdinando da Riese, Padre Pio da Pietrelcina, croficisso senza croce (San Giovanni Rotondo, 1984) e di Yves Chyron, Padre Pio.
Le stigmatisé (Paris, 2004).
A queste opere va affiancata la lettura di monografie su questioni particolari.
Su tali argomenti ricordiamo Un tormentato settennio (1918-1925) nella vita di padre Pio da Pietrelcina di Giuseppe Saldutto (Roma, 1974, con buona ricostruzione storica); Alla scuola spirituale di padre Pio da Pietrelcina di Melchiorre da Pobladura (San Giovanni Rotondo, 1978); Il Calvario di padre Pio, i-ii di Giuseppe Pagnossin (Padova, 1978); I casi di morale di padre Pio di Luigi Di Matteo (San Giovanni Rotondo, 1991), Don Luigi Orione e padre Pio da Pietrelcina.
Nel decennio della tormenta.
1923-1933.
Fatti e documenti, di Flavio Peloso (Milano, 1999); Il beato Pio da Pietrelcina di Gerardo Di Flumeri (San Giovanni Rotondo, 2001); Il divenire inquieto di un desiderio di santità.
Padre Pio da Pietrelcina: saggio psicologico di Giuseppe Esposito e Silvana Consiglio (Siena, 2002); L’itinerario di fede di padre Pio da Pietrelcina nell’Epistolario di Luigi La Vecchia (San Giovanni Rotondo, 2003); Nella comunione dei santi.
Santa Gemma Galgani a san Pio da Pietrelcina di Luca Lucchini (Città del Vaticano, 2005) e L’epistolario di padre Pio.
Una lettura mistagogica di Luciano Lotti (San Giovanni Rotondo, 2006).
Tra gli studi recenti, di valore appare il volume di Carmelo Pellegrino, Oltre la sapienza di parola.
Paolo di Tarso e Pio da Pietrelcina: linee didattiche cristiane tra antichità e novità (San Giovanni Rotondo, 2007).
Per uno studio sulla stigmatizzazione del frate fondamentale appare la lettura dei lavori di Johannes Hocht, Träger der Wundmale Christi (Stein am Rhein, 1964) e di quelli curati da Gerardo di Flumeri Le stigmate di padre Pio da Pietrelcina: testimonianze, relazioni (San Giovanni Rotondo, 1985); La trasverberazione di padre Pio da Pietrelcina (San Giovanni Rotondo, 1985); Atti del convegno di studio sulle stigmate del servo di Dio padre Pio da Pietrelcina (San Giovanni Rotondo, 1988).
Sul rapporto di padre Pio con Giovanni Paolo II, ricordiamo il documento autobiografico del Pontefice pubblicato nel libro di Stefano Campanella, Il Papa e il frate (San Giovanni Rotondo, 2007); circa la terza lettera di Wojtyla a padre Pio, rimandiamo all’articolo di chi scrive, La terza lettera di monsignor Wojtyla a padre Pio, pubblicato nella rivista “Servi della Sofferenza”, XVIi, (2008), pp.
6-11.
Infine è utile consultare i numeri delle riviste “Voce di padre Pio” e “Studi su padre Pio”.
Per ulteriori approfondimenti si può anche ricorrere al libro di Alessandro da Ripabottoni, Molti hanno scritto di lui.
Bibliografia di padre Pio da Pietrelcina (San Giovanni Rotondo, 1986).
(francesco castelli) Due sono le principali fonti autobiografiche di padre Pio.
La prima è senz’altro costituita dal suo (i-iv, San Giovanni Rotondo, 1992).
Il primo volume, in particolare, ha un valore notevole essendovi raccolta la corrispondenza con i direttori spirituali nella quale il cappuccino svela gran parte della sua interiorità.
Vi sono poi le risposte giurate e sottoscritte da padre Pio davanti al visitatore apostolico, il vescovo Raffaello Carlo Rossi, nel 1921.
Si tratta di 142 dichiarazioni fino a poco tempo fa sconosciute, nelle quali il cappuccino rivela importanti e a volte decisivi aspetti della sua vita spirituale e mistica.
Durante l’esame stimmatico condotto dal visitatore apostolico, peraltro, padre Pio spiega fenomeni sinora ignoti relativi alle sue piaghe.
Tale documento è ora pubblicato integralmente nel libro (Milano, Edizioni Ares, 2008, pagine 328, euro 14, a cura di chi scrive).
Oltre alle fonti ricordate prima, sono state e certamente ne verranno pubblicate altre – cartoline, lettere, auguri e così via – che, per quantità e contenuto saranno però difficilmente avvicinabili al valore delle prime due.
Circa le fonti testimoniali, di notevole rilevanza sono gli appunti di uno dei suoi direttori spirituali, editi nel di Agostino da San Marco in Lamis, (San Giovanni Rotondo, 2003).
Possono poi essere utilmente lette le pubblicazioni di memorie o diari di tanti figli spirituali.
Richiedono tuttavia un attento vaglio critico.
Su san Pio, biografie scientifiche definitive non esistono giacché molti archivi – soprattutto quelli del Sant’Uffizio e dell’Archivio Segreto Vaticano – non sono ancora completamente esplorabili.
Tra le numerose biografie – spesso divulgative, ora devote, ora prevenute in senso opposto – segnaliamo quelle di Alessandro da Ripabottoni, (San Giovanni Rotondo, 1991); di Ferdinando da Riese, (San Giovanni Rotondo, 1984) e di Yves Chyron, (Paris, 2004).
A queste opere va affiancata la lettura di monografie su questioni particolari.
Su tali argomenti ricordiamo di Giuseppe Saldutto(Roma, 1974, con buona ricostruzione storica); di Melchiorre da Pobladura (San Giovanni Rotondo, 1978); , i-ii di Giuseppe Pagnossin (Padova, 1978); di Luigi Di Matteo (San Giovanni Rotondo, 1991), , di Flavio Peloso (Milano, 1999); di Gerardo Di Flumeri (San Giovanni Rotondo, 2001); di Giuseppe Esposito e Silvana Consiglio (Siena, 2002); di Luigi La Vecchia (San Giovanni Rotondo, 2003); di Luca Lucchini(Città del Vaticano, 2005) e di Luciano Lotti (San Giovanni Rotondo, 2006).
Tra gli studi recenti, di valore appare il volume di Carmelo Pellegrino, (San Giovanni Rotondo, 2007).
Per uno studio sulla stigmatizzazione del frate fondamentale appare la lettura dei lavori di Johannes Hocht, (Stein am Rhein, 1964) e di quelli curati da Gerardo di Flumeri (San Giovanni Rotondo, 1985); (San Giovanni Rotondo, 1985); (San Giovanni Rotondo, 1988).
Sul rapporto di padre Pio con Giovanni Paolo II, ricordiamo il documento autobiografico del Pontefice pubblicato nel libro di Stefano Campanella, (San Giovanni Rotondo, 2007); circa la terza lettera di Wojtyla a padre Pio, rimandiamo all’articolo di chi scrive, , pubblicato nella rivista “Servi della Sofferenza”, XVIi, (2008), pp.
6-11.
Infine è utile consultare i numeri delle riviste “Voce di padre Pio” e “Studi su padre Pio”.
Per ulteriori approfondimenti si può anche ricorrere al libro di Alessandro da Ripabottoni, (San Giovanni Rotondo, 1986).
() (©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009) Le date 1887.
Il 25 maggio a Pietrelcina (Benevento) nasce Francesco Forgione.
1891.
Iniziano le vessazioni diaboliche.
1892.
All’età di cinque anni percepisce il desiderio di consacrarsi a Dio e l’anno successivo gli appare il Sacro Cuore di Gesù.
1899.
Riceve il sacramento della cresima e si accosta per la prima volta all’Eucaristia.
1903.
Entra tra i cappuccini, nel noviziato di Morcone (Benevento).
Prende il nome di fra Pio da Pietrelcina.
1907.
Emette la professione dei voti solenni.
A circa 20 anni comincia il dono dei “rapimenti”.
1910.
Il 10 agosto viene ordinato sacerdote nel duomo di Benevento dall’arcivescovo Paolo Schinosi.
Inizia il fenomeno delle stimmate.
1912.
Il fenomeno della stimmatizzazione invisibile si ripete dal giovedì sera fino al sabato.
1915.
Su richiesta di padre Agostino da San Marco in Lamis, confessa di aver subito quasi ogni settimana, da più anni, la “coronazione di spine” e la “flagellazione”.
1918.
Il 30 maggio si offre vittima per i peccatori perché la guerra finisca.
Tra il 5 e il 7 agosto vive il fenomeno della transverberazione.
Il 20 settembre Gesù Crocifisso gli appare sofferente e gli dice: “Ti associo alla mia Passione”, poi lo stimmatizza.
1919.
Primi esami medici delle stimmate.
1920.
Il 18 aprile Agostino Gemelli visita padre Pio per pochi minuti.
Dopo un brevissimo colloquio, Gemelli invia al Sant’Uffizio una valutazione non positiva sull’origine del fenomeno delle stimmate pur elogiando la vita religiosa del frate.
1921.
Dal 14 al 21 giugno si svolge la prima visita apostolica del Sant’Uffizio da parte del vescovo di Volterra, Raffaello Carlo Rossi.
Nella relazione presenta un profilo estremamente positivo del cappuccino e della sua fedeltà al Signore.
1922.
I cardinali del Sant’Uffizio scrivono al ministro generale dei cappuccini dichiarando di rimanere in osservazione su padre Pio; di evitare ogni “singolarità e rumore”; che “per nessun motivo egli mostri le così dette stimmate”; che interrompa con padre Benedetto da San Marco in Lamis “ogni comunicazione anche epistolare”; che i superiori dell’ordine si preparino a trasferire padre Pio quando il clima popolare lo consentirà.
In questo periodo giungono al Sant’Uffizio nuove accuse dal clero locale poi rivelatesi infondate.
1923.
Il Sant’Uffizio afferma che non consta la soprannaturalità dei fatti attribuiti a padre Pio ed esorta i fedeli a conformarsi a queste dichiarazioni.
Gli viene proibito di celebrare la messa in pubblico.
Sommossa popolare di tremila persone davanti al convento.
Al frate viene concessa la facoltà di celebrare in chiesa.
1923-1926.
Al Sant’Uffizio giungono costantemente numerose accuse del clero locale provocando timori e sospetti.
1931.
Il 23 maggio il Sant’Uffizio comunica la proibizione per padre Pio di celebrare in pubblico e il ritiro della facoltà di confessare.
1933.
Il 16 luglio viene autorizzato a celebrare di nuovo in pubblico e gradualmente gli viene restituita la facoltà di confessare.
1947.
Inizia la costruzione della Casa Sollievo della Sofferenza.
1948.
In aprile don Karol Wojtyla incontra padre Pio e si confessa da lui.
1956.
Il 2 luglio inizia la costruzione della chiesa di San Giovanni Rotondo.
1959.
Mentre la statua della Madonna di Fátima fa tappa a San Giovanni Rotondo, padre Pio guarisce da una pleurite.
1960.
Dal 30 luglio al 17 settembre si svolge la visita apostolica di monsignor Carlo Maccari.
1961.
Nuove disposizioni del Sant’Uffizio, anche sulla durata della messa di padre Pio.
1962.
Monsignor Wojtyla, vescovo ausiliare di Cracovia, scrive a padre Pio chiedendo e ottenendo la guarigione del medico Wanda Póltawska.
1963.
Nuovi contatti epistolari tra Wojtyla e padre Pio.
Il vescovo chiede preghiere per se stesso e per la sua delicata situazione pastorale.
1964.
Il cardinale Ottaviani, a capo del Sant’Uffizio, comunica la volontà di Paolo VI che “Padre Pio svolga il suo ministero in piena libertà”.
1968.
La salute di padre Pio declina.
Le stimmate iniziano a chiudersi senza lasciare alcun segno.
1968.
Il 23 settembre padre Pio muore.
1983.
Il 20 marzo si apre il processo cognizionale sulla vita e le virtù del servo di Dio Pio da Pietrelcina.
1997.
Il 20 marzo Padre Pio è dichiarato venerabile.
1999.
2 giugno viene proclamato beato.
2002.
Il 16 giugno Giovanni Paolo II proclama padre Pio santo e ne istituisce la memoria liturgica obbligatoria.
(francesco castelli) La salvezza dei «fratelli» al centro della spiritualità sacerdotale di padre Pio Tra il dolore e la bellezza di Cristo di Francesco Castelli Il 2008 è stato un anno di eccezionale importanza per la conoscenza di padre Pio da Pietrelcina.
La pubblicazione di due documenti ha svelato aspetti umani e mistici del cappuccino inediti e di profondo significato.
Nel febbraio 2008 è avvenuta la scoperta di una nuova lettera, la terza, del vescovo vicario capitolare a Cracovia Karol Wojtyla al cappuccino, nella quale il futuro Pontefice chiedeva a padre Pio di pregare questa volta anche per lui e per la propria difficile situazione pastorale.
Poi, è seguita la pubblicazione degli atti della prima visita apostolica del Sant’Uffizio, compiuta nel giugno 1921, per otto giorni, lunghi e intensi, dal vescovo di Volterra Raffaello Carlo Rossi, futuro cardinale.
Un confronto netto e serrato, ma anche equilibrato, durante il quale padre Pio fu chiamato a rispondere su tutti gli aspetti della sua vita, da quelli più semplici della quotidianità fino alle pieghe più intime della sua vita interiore e mistica.
Le risposte del frate, ben 142, trascritte e inviate sub secreto al Sant’Uffizio, offrono oggi un elemento fondamentale per conoscere la spiritualità sacerdotale di questo grande santo del xx secolo: il racconto preciso e dettagliato della stimmatizzazione e con esso della missione a lui affidata dal Signore.
Che cosa accadde dunque quella mattina del 20 settembre 1918, quando padre Pio, dopo aver celebrato la messa, si ritirò in preghiera? Quale missione fu affidata al giovane sacerdote di San Giovanni Rotondo? Padre Pio, com’è noto, era stato sempre restio nel parlare di quel giorno e di quello speciale incontro.
“Un misterioso personaggio”, così diceva, gli era apparso e gli aveva impresso i segni della passione.
Ora, invece, la pubblicazione degli atti dell’inchiesta ha svelato il contenuto e le stesse parole di quell’incontro.
È lo stesso padre Pio a riferirne, sotto giuramento, a monsignor Rossi, a tre anni di distanza dai fatti.
La mattina di quel 20 settembre “vidi Nostro Signore in atteggiamento di chi sta in croce, ma non mi ha colpito se avesse la Croce, lamentandosi (sic) della mala corrispondenza degli uomini, specie di coloro consacrati a Lui e più da Lui favoriti.
Di qui si manifestava che Lui soffriva e che desiderava di associare delle anime alla sua passione.
M’invitava a compenetrarmi dei suoi dolori e a meditarli: nello stesso tempo occuparmi per la salute dei fratelli.
In seguito a questo mi sentii pieno di compassione per i dolori del Signore e chiedevo a Lui che cosa potevo fare.
Udii questa voce: “Ti associo alla mia passione”.
E in seguito a questo, scomparsa la visione, sono entrato in me, mi son dato ragione e ho visto questi segni qui, dai quali gocciolava il sangue.
Prima nulla avevo”.
In padre Pio, dunque, l’affidamento della missione di “occuparsi della salvezza dei fratelli” era stato indissolubilmente legato con l’annuncio delle sofferenze in unione a Cristo: “Ti associo alla mia passione”.
Da quel giorno – come in parte già avveniva – quel “Ti associo alla mia passione” era divenuto la ragione della sua vita e del suo amore.
Era cresciuto in lui uno speciale amore per i suoi fratelli.
Era come un fuoco che gli bruciava nel petto.
Proprio parlando di ciò al suo padre spirituale ebbe a dire: “Per i fratelli (…) quante volte, per non dir sempre, mi tocca dire a Dio giudice, con Mosè: o perdona a questo popolo o cancellami dal libro della vita.
Che brutta cosa è vivere di cuore! Bisogna morire in tutti i momenti di una morte che non fa morire se non per vivere morendo e morendo vivere”.
Padre Pio si trovò, così, per tutta la vita, ad ascoltare un numero straripante di confessioni, ad avere una personale esperienza della consistenza del male causato dal peccato, della distruzione che esso provoca nel cuore dell’uomo, della necessità che esso sia smaltito, “smaltito con l’amore”.
Per questo “Ti associo alla mia passione” divenne un elemento caratterizzante la sua fisionomia spirituale di sacerdote nel quale percepì l’indole esigente delle purificazioni di Dio e la fecondità dell’amore sofferente che egli, come sacerdote, poteva offrire al Signore.
Da allora non si allontanò né spiritualmente né fisicamente dal confessionale.
Monsignor Rossi apprese che padre Pio vi rimaneva fino a sedici ore al giorno.
Domandare il perdono al Signore, aiutare i fratelli nella conversione spirituale divenne – con puntuale fedeltà verso l’invito di quel 20 settembre 1918 – l’imperativo della sua esistenza.
La sua domanda di perdono per i fratelli, gli ricordava “Colui che per il perdono ha pagato il prezzo della discesa nella miseria dell’esistenza umana e della morte in croce”.
Nascevano così in lui la gratitudine per l’amore sofferente del Signore – e questo spiegava la sua preghiera continua, notte e giorno, senza cessare – e poi la gioia di associarsi alla sua passione.
Per questo scriveva: “Sì, io amo la croce, la croce sola: l’amo perché la vedo sempre alle spalle di Gesù: (…) Deh, padre mio, compatitemi se tengo questo linguaggio; Gesù solo può comprendere che pena sia per me, allorché mi si prepara davanti la scena dolorosa del Calvario”.
Sacrifici subiti, incomprensioni, ostilità: tutto accolse pur di essere fedele al quel dono oneroso di domandare perdono per gli altri e di ottenere la gioia dell’amicizia con Dio per i suoi fratelli.
Altre sofferenze non andò a cercarle.
Anzi, a fronte di una richiesta del visitatore che gli domandava quali mortificazioni al di fuori di quelle prescritte facesse per fugare ogni dubbio, gli rispose.
“Non ne fo: prendo quelle che manda il Signore”.
“Ti associo alla mia passione” divenne così per il sacerdote padre Pio un modo tutto nuovo con il quale capire le parole del Signore: “Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me” (Giovanni, 12, 32).
Anch’egli, da quando venne stimmatizzato, iniziò ad attirare molti non a sé, ma al Signore e al suo amore.
A molti, a moltissimi ottenne guarigioni fisiche ma a molti di più quelle dell’anima.
“Sono pronto a tutto – diceva – purché Gesù sia contento e mi salvi le anime dei fratelli, specie quelle che egli mi ha affidate” (18 dicembre 1920).
Da allora tanti divennero suoi figli spirituali, numerose furono le grazie, numerosissime le conversioni.
I molti che facevano ricorso a lui, andavano via soddisfatti, spiritualmente aiutati e umanamente soccorsi.
Proprio con la sua disponibilità d’amore ad associarsi alle sofferenze del Signore, padre Pio verificò visibilmente nella conversione e crescita spirituale dei suoi figli che con “Gesù entra gioia nella tribolazione”.
Così egli mostrò che “non c’è amore senza sofferenza” – “l’amore si conosce nel dolore”, scriveva – e che con l’amore sofferente egli poteva, in un mondo in cui la menzogna è potente, dare pubblica testimonianza di fedeltà all’amore e proprio così alla vera gioia.
In tale maniera il frate di Pietrelcina divenne un vero sacerdote del Signore.
Offerente della Vittima divina e vittima egli stesso, colpiva i suoi discepoli e visitatori proprio per il personale e spirituale coinvolgimento durante la messa, piena realizzazione della sua spiritualità sacerdotale.
Sono molte le testimonianze di quanti lo ricordano in modo indelebile sull’altare.
Giovanni Paolo II, menzionando la sua personale esperienza nel vederlo celebrare, ebbe a scrivere espressioni vive e forti: “Ho partecipato alla santa messa (di padre Pio), che fu lunga e durante la quale si vide la sua faccia che soffriva profondamente.
Vidi le sue mani che celebravano l’Eucaristia; i luoghi delle stigmate erano coperti con una fascia nera.
Tale evento è rimasto in me come un’esperienza indimenticabile.
Si aveva la consapevolezza che qui sull’altare, a San Giovanni Rotondo, si compiva il sacrificio di Cristo stesso, il sacrificio incruento e, nello stesso tempo, le ferite sanguinose sulle mani ci facevano pensare a tutto quel sacrificio, a Gesù crocifisso.
Questo ricordo dura fino a oggi e, in qualche modo, fino a oggi ho davanti agli occhi quello che allora vidi io stesso”.
La qualità liturgica della celebrazione di padre Pio che colpiva tutti, perfino il futuro Papa, manifestava un vero cammino interiore di graduale assimilazione a Cristo, nel dolore e nella gioia, nella morte e nella risurrezione, nell’ubbidienza e nella libertà vera.
In definitiva, in lui il “sì” alla croce e alle sofferenze permesse dal Signore divenne la via ordinaria della sua gioia e di una più profonda amicizia con Cristo come suo sacerdote.
I suoi figli spirituali dicevano e dicono di aver continuato negli anni a vedere nel suo viso qualcosa di angelico e straordinariamente sereno, nonostante la sofferenza da lui vissuta nel corpo attraverso le stimmate, e, spiritualmente, per la conversione dei peccatori.
Gioia e dolore, sofferenza e beatitudine furono e rimasero così in lui due tratti costitutivi del volto spirituale di sacerdote, proprio come Gesù che per la sua bellezza paradossale è “il più bello dei figli dell’uomo” (Salmo, 44, 3) e allo stesso tempo colui che “non ha bellezza né apparenza; l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore” (Isaia, 53, 2).
Proprio parlando della paradossale bellezza di Gesù, il cardinale Joseph Ratzinger scrisse: “Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine, la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante.
Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva “sino alla fine” e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza”.
Proprio di tale bellezza il sacerdote padre Pio ha dato testimonianza alla Chiesa e al mondo facendo della paradossale bellezza di Gesù la sua spiritualità sacerdotale.
(©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009) Dall’accoglienza alla comunione di Mario Ponzi San Giovanni Rotondo ha certamente confidenza con i grandi eventi ecclesiali.
Eventi in parte legati alla fama di santità dei figli dell’antica terra del Gargano, di padre Pio in particolare, e in parte dovuti alla tradizionale religiosità di un popolo devoto, generoso e accogliente.
Sta di fatto che la macchina che si è messa in moto per ricevere la visita di Benedetto XVI domenica prossima, 21 giugno, non ha perso un colpo e “tutto è pronto per mostrare al Papa l’anima vera del Gargano” confida a “L’Osservatore Romano” monsignor Domenico Umberto D’Ambrosio, in procinto di fare – subito dopo la visita del Papa – il suo ingresso nell’arcidiocesi di Lecce, sede dove è stato trasferito già dallo scorso mese di aprile.
Ha retto la Chiesa di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo dal 2002 e oggi, come ultimo atto della sua missione, prepara la sua gente ad accogliere Benedetto XVI.
Ci sono tanti motivi per definire indimenticabile il momento che si prepara a vivere domenica prossima: la visita del Papa sembra essere il prezioso sigillo al suo incarico pastorale tra queste genti del Gargano.
Come state vivendo questa vigilia? Effettivamente è un momento particolare.
Il Papa, successore di Pietro, viene a confermarci nel cammino di fede compiuto in questi anni.
Il fatto che venga tra di noi per pregare sulla tomba del nostro santo padre Pio, e solo due giorni dopo aver inaugurato l’anno sacerdotale, sta a significare il riconoscimento del clima di ricchezza sacerdotale che si respira nella nostra terra, della fecondità della nostra testimonianza di devozione e di fedeltà al carisma del santo, al suo messaggio, che è il messaggio stesso della Croce.
Nei giorni passati abbiamo molto riflettuto su questo messaggio e sugli insegnamenti di Benedetto XVI.
Diversi vescovi si sono quotidianamente alternati nel parlarne ai fedeli della nostra diocesi ma anche ai tanti pellegrini che passano di qui.
Simbolicamente questo cammino si concluderà nella veglia di sabato notte al santuario.
Nella preparazione della visita è tornato spesso un motivo: è la seconda volta in poco più di venti anni che un Papa viene tra di noi.
Un evento di grazia che si rinnova, dunque.
La visita di Giovanni Paolo II è rimasta nel cuore dei fedeli.
Si è fermato due giorni in questi luoghi e ha lasciato un grande messaggio di speranza.
E dalla visita di Benedetto XVI cosa vi aspettate? Intanto ci attendiamo una rinnovata percezione dell’intensità del rapporto con la Chiesa che non può ridursi alle formalità.
Un rapporto, per intenderci, del quale ci si accorge solo per necessità contingenti, cioè perché si vuole fruire dei servizi religiosi tipo il battesimo, la cresima, il matrimonio 0 quando c’è bisogno di certificazioni come se la Chiesa fosse una stazione di servizio, anche se religioso.
Ecco io mi auguro che quest’esperienza accanto a Benedetto XVI ci farà da viatico per una reale inversione di tendenza.
Accogliere milioni di pellegrini che vengono qui da ogni parte del mondo comporta uno scambio di doni spirituali con la comunità ecclesiale dei residenti? Questo è un altro degli aspetti sui quali vorrei tanto che portasse una parola nuova la visita del Papa.
È una delle questioni che io ritengo tra le più grandi che debba affrontare e risolvere questa Chiesa che sto per lasciare.
La nostra comunità quotidianamente si deve confrontare con i quattro cinque milioni di pellegrini che, solo a San Giovanni Rotondo, annualmente salgono a questo colle.
A essi vanno poi ad aggiungersi gli oltre due milioni di quelli che annualmente fanno visita all’altro grande santuario di queste terre, quello ultramillenario dedicato a San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo.
Ma è proprio questa marea di persone che si trasforma per la nostra Chiesa, una sfida da affrontare.
Non dovrebbe essere un problema visto che San Giovanni Rotondo è nota nel mondo proprio come “Città della pace e dell’accoglienza”.
Certo noi i pellegrini li accogliamo molto bene.
Garantiamo per quello che può essere il servizio religioso, la soddisfazione di loro bisogni, delle loro esigenze.
In moltissimi casi si tratta di pellegrinaggi che durano un giorno, o due al massimo però possono trascorrere tranquillamente e nel giusto clima.
Ma non è questo il problema che mi preoccupa.
La domanda che ci poniamo infatti è un’altra: cosa diamo a questa gente? cosa possiamo ricevere da questa gente? In questi anni ho visto quasi una frattura fra queste due componenti, cioè tra la Chiesa che vive in questi luoghi e quanti qui vengono per attingere alla santità di padre Pio, a cercare, nell’incontro spirituale con lui, risposte ad attese e ad incognite che pervadono la loro esistenza, a sofferenze che portano dentro di sé sino a deporle ai piedi della tomba del santo quasi gli chiedessero aiuto per sopportarle.
Certamente si sarà fatto un’idea di cosa fare per risanare questa frattura.
Bisogna reimpostare la pastorale per far sì che sia soprattutto pastorale dell’accoglienza.
Non basta infatti continuare a dire che San Giovanni Rotondo è la città della pace e dell’accoglienza; bisogna fare di più perché in realtà non c’è un rapporto vero tra questa comunità ecclesiale e questa massa di persone che portano con sé il bagaglio della loro fede.
Né gli uni ne gli altri ricevono un granché da questa seppure fugace vicinanza.
Ecco cosa mi aspetto dalla visita del Papa.
Mi aspetto che da quanto ci dirà nei tre momenti centrali della sua visita, possano venire delle indicazioni chiare e precise per il cammino futuro di una Chiesa che è comunque già di per sé vivace e in questo momento avviata nel progetto “giovani, famiglia e missione”, affinché possa realmente trasformarsi in Chiesa in missione tra questa massa di persone che vengono a bussare alle sue porte.
Non possiamo più limitarci a dare quel poco che può essere la confessione o la celebrazione.
Tantomeno possiamo accontentarci del ritorno dal punto di vista economico per le strutture alberghiere e di ristorazione del posto e così via.
Dobbiamo offrire la ricchezza di una fede che risale alle origini della Chiesa apostolica e che vive autonomamente, separata dalla comunque provvidenziale presenza di padre Pio.
Allargando un po’ lo sguardo all’intera Capitanata ci può dire quali sono le sfide che deve affrontare la Chiesa oggi in quest’area che sembra essere particolarmente colpita dalla crisi economica? La Capitanata è un territorio molto vasto ma poco popolato.
La situazione sociale presenta diverse sfaccettature.
Lungo le nostre coste, per esempio, dove il turismo è la forza trainante, i riflessi della crisi non hanno lasciato tracce profonde.
La situazione cambia drasticamente nelle zone interne, segnate da larghe fasce di povertà, dove i tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile, raggiungono indici gravissimi.
È una condanna che ci portiamo dietro da sempre.
E se non fosse per quei bagliori riflessi dell’industria del turismo per tutto il territorio conosceremmo i morsi della povertà estrema.
La situazione si aggrava per la distrazione, diciamo così, di chi dovrebbe provvedere ad un’equa distribuzione delle risorse tra le diverse aree della Puglia, tanto che da qualche tempo ha ripreso forza l’ondata emigratoria.
Non ha ancora raggiunto i livelli di quella degli anni cinquanta, ma di fatto bisogna prendere atto della recrudescenza di questo fenomeno che riguarda soprattutto i giovani, tra i quali sono sempre più numerosi quelli che hanno conseguito lauree ed alte specializzazioni.
Per loro non c’è spazio in casa, non ci sono opportunità.
Dunque bisogna emigrare.
Ciò comporta non solo un distacco dalle proprie origini ma anche un cambiamento di mentalità, di atteggiamenti.
Si abbandonano tutti i principi, anche etici e morali, acquisiti per immergersi in una cultura che non gli appartiene, si imbevono di un’etica lontana dalla bontà di tutto ciò di cui si sono nutriti nella loro terra originaria.
Però la situazione oggi è talmente grave che la fuga si presenta come unica alternativa.
Noi come Chiesa, con l’aiuto della Conferenza episcopale italiana (Cei) abbiamo istituto un fondo di solidarietà, abbiamo anche effettuato interventi ad ampio raggio, ma la situazione è quella che è.
Mi preoccupa piuttosto la mancata risposta da parte di chi sarebbe preposto ad intervenire, a creare strumenti e progetti che garantiscano un approccio diverso alla povertà che fa soffrire così tante famiglie.
Cassa integrazione, mobilità, licenziamenti sembrano essere invece le uniche risposte alla crisi.
E questo anche perché industrie che hanno ricevuto il contributo dello Stato per aprire attività in loco, non esitano a chiudere subito dopo.
Questo crea grande sofferenza.
Ed è estremamente pericoloso perché dà il via libera ad attività criminose, alla malavita organizzata che trova sempre più abbordabili adepti tra i giovani, e anche tra i giovanissimi.
Dal punto di vista pastorale cosa la preoccupa di più? In questo periodo stiamo dedicando un’attenzione particolare alla famiglia.
Assistiamo ad un’impennata dei divorzi.
È un problema che ci assilla.
C’è un allentamento dei costumi che porta all’abbandono della fedeltà coniugale, e alla separazione.
I giovani sembrano sempre più orientati verso la convivenza più che verso il matrimonio.
C’è poi una certa recrudescenza della pratica dell’aborto.
Spesso restano coinvolti proprio dei giovanissimi, ma che hanno comunque il sostegno dei genitori.
Di qui la necessità di reimpostare una pastorale giovanile che sappia andare incontro ai giovani, andarli a cercare senza aspettare che vengano loro, offrire loro proposte recepibili da parte dei giovani stessi.
C’è anche bisogno di reimpostare la pastorale familiare, fondandola sull’aiuto di laici esemplari che sappiano offrire modelli da imitare.
Dobbiamo cioè aiutare la gente a recuperare il senso della stabilità della famiglia, il sapore della sua genuinità, il valore di un amore che nasce dal cuore.
Il dono che il Papa ci fa è una possibilità che ci offre per trovare modi nuovi di vivere la nostra fede, per cogliere le novità che si presentano grazie all’incontro con tante persone che portano esperienze di Chiese diverse e che dunque possono costituire un arricchimento per la nostra Chiesa come valore universale.
(©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009)
I Templari e la sindone di Cristo
Dopo il 1250, perduta ormai da decenni Gerusalemme e allontanandosi sempre più la prospettiva di recuperarla, i Templari sentirono il bisogno di mantenere un contatto fisico, concreto con i luoghi della vita di Cristo; così presero l’abitudine di farsi delle reliquie personali da portare sempre addosso come difesa contro i peccati dell’anima e i rischi della battaglia: in fondo questo rispondeva bene alla loro fisionomia di ordine militare e religioso, e anche san Bernardo aveva sottolineato che il Templare combatte sempre su due fronti tutti i giorni della sua vita.
Durante i decenni precedenti, quando Gerusalemme e il Santo Sepolcro erano custoditi dai cristiani, i Templari si recavano nella grande basilica per celebrare particolari liturgie notturne delle quali le fonti non ci dicono nulla: probabilmente consacravano le loro cordicelle, simbolo dei voti religiosi del Tempio, poggiandole proprio su quella pietra dove era stato deposto il cadavere di Gesù dopo la crocifissione.
Se così fu, le rendevano in tal modo inestimabili reliquie della Passione di Cristo da tenere sempre su di sé, a tutela della loro salvezza fisica e spirituale.
Più tardi, perduto il Sepolcro per la riconquista del Saladino, dovettero rassegnarsi a consacrare le loro corde con qualcosa di diverso: altri Luoghi Santi del regno cristiano che però non avevano certo lo stesso valore del Sepolcro, oppure alcune reliquie di cui l’ordine era entrato in possesso, che nella seconda metà del Duecento formavano un tesoro custodito nella città di Acri.
La voce che il misterioso “idolo” fosse conservato proprio nel tesoro di Acri circolava fra i Templari e tutto lascia pensare che la sua identità venisse tenuta segreta alla maggioranza dei frati.
Qualunque cosa fosse, nell’ordine esistevano molte copie sparpagliate fra le varie commende; questi simulacri sembra venissero esposti alla venerazione dei Templari ma anche dei fedeli laici che frequentavano le chiese del Tempio come se appartenessero a un misterioso personaggio sacro che proteggeva l’ordine in maniera speciale.
Il ritratto era considerato più una reliquia che non una semplice immagine, veniva conservato ed esposto insieme alle altre reliquie dei Templari, e anche la liturgia con cui era venerato prevedeva proprio quel bacio rituale che per tradizione si dava alle reliquie.
Secondo alcuni Templari l’idolo era chiamato “il Salvatore”; si pregava chiedendogli non favori materiali come la ricchezza, il successo con le donne o il potere nel mondo, ma piuttosto il più alto dei valori cristiani, la salvezza dell’anima.
Esiste la possibilità di sapere con certezza chi mai fosse l’uomo raffigurato in questo ritratto? Fortunatamente sì.
Nell’anno 1268 il sultano Baibars si impadronì del fortilizio di Saphed che era stato in possesso dei Templari; certo si meravigliò di trovare nella sala principale della fortezza, proprio quella in cui si celebrava il capitolo dell’ordine, un bassorilievo che raffigurava la testa di un uomo con la barba.
Il sultano non capì chi fosse quell’uomo, e purtroppo anche lo storico moderno non può fare alcuna ipotesi perché il monumento è andato distrutto.
Esistono comunque alcune raffigurazioni dello stesso personaggio che si trovano su oggetti appartenuti sicuramente ai Templari, oggetti che si conservano ancor oggi e permettono di vedere, diciamo pure toccare con mano, l’identità dell’uomo misterioso: sono alcuni sigilli di Maestri del Tempio conservati in archivi della Germania, che portano sul verso proprio il ritratto di un uomo con la barba, e un pannello di legno ritrovato nella chiesa della magione templare di Templecombe, in Inghilterra.
Sono senza dubbio tutte copie del Volto di Cristo raffigurato senza né aureola né collo, come se la testa fosse stata in qualche modo isolata dal resto del corpo.
È un modello iconografico abbastanza raro nell’Europa del medioevo ma invece estremamente diffuso in Oriente perché riproduce il vero aspetto del Cristo come appariva dal mandylion, la più preziosa delle reliquie posseduta dagli imperatori bizantini.
Secondo una tradizione molto antica si trattava di un ritratto di Cristo non fatto da mano umana, bensì prodottosi in maniera miracolosa quando Gesù aveva passato sul volto un asciugamano (in greco appunto mandylion); non era un ritratto in senso vero e proprio, cioè un disegno, ma piuttosto un’impronta.
Custodito nel grande sacrario del palazzo imperiale di Costantinopoli, il mandylion fu copiato innumerevoli volte in affreschi, miniature, icone su tavola di legno, e la tradizione di questo ritratto miracoloso si diffuse pian piano anche in Occidente.
Ancor oggi in alcune fra le maggiori basiliche d’Europa restano opere d’arte che la riproducono, come ad esempio l’icona su tessuto nota come Santo Volto di Manoppello, quelle conservate a Genova, Jaen, Alicante, quella custodita nella basilica di San Pietro in Vaticano dentro la cappella di Matilde di Canossa: sono tutte copie del mandylion realizzate in Oriente.
La tavola trovata nella chiesa templare di Templecombe sembra molto interessante perché riproduce addirittura la forma della teca-reliquiario di Costantinopoli così come ci risulta in tante raffigurazioni, prima fra tutte la splendida miniatura sul codice Rossiano greco 251 della Biblioteca Apostolica Vaticana (secolo XII): il Volto appare inserito dentro una specie di custodia rettangolare che ha proprio le dimensioni di un asciugamano, più largo che lungo, e questa custodia ha un’apertura al centro che lascia vedere soltanto il Volto di Cristo isolato dal collo e dal resto del corpo.
Nell’icona di Templecombe la forma di questo riquadro che scopre le fattezze umane di Gesù e le isola dalla copertura è un elegante motivo geometrico a quadrifoglio molto amato in Oriente, e usato nei reliquiari bizantini già dal ix secolo.
Il fantomatico idolo dei Templari era dunque in se stesso un ritratto di Gesù Cristo di tipo molto particolare: ma nel guazzabuglio degli interrogatori, sotto tortura o anche solo suggestionati dagli inquisitori, molti frati finirono per descrivere ogni cosa che potesse in qualche modo somigliare a quella strana testa maschile su cui gli aguzzini volevano informazioni a ogni costo.
Era un ritratto che seguiva un’iconografia orientale, importata da Costantinopoli ma poco nota in Europa, ed era presente in molte commende dell’ordine in forme diverse: come icona su legno, come bassorilievo, in forma di un telo di lino che però ne portava la rappresentazione del corpo per intero.
L’ultimo di questi oggetti fu visto solo da alcuni frati nel sud della Francia: non sembrava un dipinto ma piuttosto un’immagine dai tratti indefiniti, ed era un’immagine monocromatica.
Si trattava di un ritratto assolutamente particolare, impossibile da riconoscere per chi non fosse consapevole di certi fatti: riproduceva il Cristo in una versione tragicamente umana, lontanissima da quella del Risorto che i Templari erano abituati a vedere di solito.
E tutto lascia pensare che i dirigenti dell’ordine ebbero le loro ragioni per decidere di mantenere segreta la sua esistenza.
Secondo Ian Wilson la sindone ripiegata in modo da lasciar vedere solo l’immagine del volto era in realtà un oggetto a suo tempo posseduto dagli imperatori bizantini, ritenuto fra le più venerate e preziose reliquie della cristianità: era un ritratto autentico del viso di Gesù che ne riproduceva fedelmente la fisionomia.
Ian Wilson crede che la sindone-mandylion sparì da Costantinopoli durante il terribile saccheggio che la città dovette subire al tempo della quarta crociata (1204).
Restò nascosta per molti decenni, poi ricomparve nell’anno 1353 presso Lirey, una cittadina della Francia centrosettentrionale: in quell’anno il cavaliere Geoffroy de Charny, Portaorifiamma nell’esercito di re Giovanni il Buono nonché uomo tra i nobili più in vista a corte, donò la singolare reliquia alla chiesa collegiata che aveva appena fondato proprio a Lirey.
La sindone cominciò a essere esibita alla venerazione come vero sudario del Cristo in una serie di ostensioni solenni che attirarono l’entusiasmo dei fedeli e le gelosie del vescovo locale; passata dopo varie vicissitudini nelle mani della famiglia Savoia, fu custodita dapprima a Chambéry presso la sontuosa Sainte-Chapelle del palazzo ducale, poi trasferita a Torino dove si trova tuttora.
Il legame con l’ordine dei Templari è stato suggerito a Ian Wilson dalla circostanza che l’uomo morto sul rogo insieme a Jacques de Molay si chiamava Geoffroy de Charny, cioè esattamente come il proprietario della sindone a Lirey.
Alcuni sollevano un’obiezione a quest’ultimo punto e sostengono che il primo possessore della sindone si trova nominato come Geoffroy de Charny, mentre il cognome del Precettore templare in Normandia compare nei vari documenti che lo citano in forme diverse, cioè Charny ma anche Charneyo, Charnayo, Charniaco.
A loro giudizio ci sarebbe insomma una piccola differenza di suoni e ciò basterebbe per supporre che si trattò di due persone diverse.
Mi permetto di far notare che in un registro amministrativo del tempo di re Filippo vi di Valois il cognome del primo possessore della sindone è reso con le forme de Charneyo e anche Charni, Charnyo oppure Charniaco proprio come si trova per il suo parente templare Geoffroy morto sul rogo il 18 marzo 1314 insieme a Jacques de Molay.
Un simile ragionamento che pretende di spaccare il capello in quattro sulle varianti d’ortografia del latino medievale può essere dato in pasto solo a chi non ha alcuna pratica di documenti del medioevo.
Il discorso sarebbe giusto se il nostro personaggio fosse vissuto nella Francia di Napoleone o di Victor Hugo, ovvero in un mondo dominato dalla carta stampata e soprattutto con una cultura che è ormai ufficialmente in francese.
Per la società del medioevo le cose sono completamente diverse.
Gli atti del processo contro i Templari, come un numero incalcolabile di altri documenti della stessa epoca, furono scritti a mano e questo significa che si potevano facilmente commettere piccoli errori; ma soprattutto, venivano composti in latino da alcuni notai che traducevano simultaneamente mentre ascoltavano i testimoni parlare nella loro lingua nativa, in questo caso il francese.
Quanto possiamo trarre dai documenti del processo contro i Templari conferma l’ipotesi di Wilson.
Geoffroy de Charny apparteneva alla cerchia ristretta dei fedeli di Jacques de Molay ed era l’unico compaignon dou Maistre cui Nogaret riconobbe un potere tale nel Tempio da rinchiuderlo nelle prigioni di Chinon insieme ai membri dello Stato Maggiore: il tipo di isolamento prescelto, e il fatto di volerli negare al Papa che desiderava interrogarli, fa supporre che Charny e gli altri fossero in grado di dare una testimonianza determinante.
Geoffroy veniva da una famiglia di rango cavalleresco ed era diventato templare nel 1269 presso la magione di Étampes, nella diocesi di Sens: la sua cerimonia d’ingresso fu celebrata da un alto dignitario templare chiamato Amaury de La Roche, di cui parleremo in seguito, un personaggio di primo piano nell’ordine del Tempio ma anche uomo legatissimo alla corona di Francia.
Dovette trattarsi di una cerimonia importante, visto che anche il precettore di Parigi Jean le Franceys si spostò dalla sua magione per assistere alla cerimonia.
Nato intorno al 1250, il cavaliere Geoffroy de Charny nel 1294 era responsabile della magione di Villemoison, in Borgogna, e un anno più tardi, a soli 45 anni, deteneva la responsabilità della provincia templare di Normandia; fece un carriera prestigiosa, ma non fu solo il suo grado gerarchico a determinarne il potere e il prestigio nel Tempio.
Le fonti templari documentano che quest’uomo fu sempre molto vicino alla persona di Jacques de Molay; nel 1303 era nella magione di Marsiglia dove assistette all’ingresso di un giovane servitore del Gran Maestro, preposto alla cura dei suoi arnesi e dei suoi cavalli, il quale fu ricevuto da Symon de Quincy allora soprintendente alla traversata verso Outremer.
Marsiglia era il principale porto francese d’imbarco verso l’Oriente ed entrambe le testimonianze affermano che i frati presenti in quel capitolo partirono poi alla volta di Cipro: una norma degli statuti gerarchici templari proibiva ai precettori delle province occidentali di recarsi in Outremer a meno che non obbedissero a un espresso ordine del Gran Maestro, dunque è sicuro che Geoffroy de Charny si trovava in quel luogo mentre era in viaggio con gli altri frati per raggiungere Jacques de Molay.
Esisteva di sicuro un forte legame di amicizia personale fra il Gran Maestro e Geoffroy de Charny: la cronaca nota come Continuazione di Guillaume de Nangis ricorda che solo il Precettore di Normandia volle seguire Molay sul rogo gridando alle folle, durante l’ultimo appello loro concesso, che il Tempio era innocente e non aveva tradito la fede cristiana.
Geoffroy de Charny sembra costantemente fra i più importanti dignitari del Tempio.
C’è anche un altro dettaglio.
Se guardiamo ai documenti del processo nella loro interezza, notiamo che il Precettore di Normandia Geoffroy de Charny era noto ai confratelli anche con un soprannome che indicava la sua zona d’origine, come noi oggi diremmo “il toscano” o “il siciliano”.
Charny era chiamato anche le berruyer, che nel francese trecentesco significava “originario del Berry”: è la zona oggi detta Champagne berrichonne, la quale nel tardo medioevo si trovava incuneata fra i due grandi potentati feudali del conte di Champagne e del duca di Borgogna.
Si tratta proprio della zona dove vissero e fiorirono i de Charny, che infatti dovettero sempre barcamenarsi nel difficile gioco dei poteri imposto dalla presenza di queste due grandi signorie.
Il Precettore templare di Normandia Geoffroy de Charny e il Portaorifiamma di Francia che possedeva la sindone alla metà del Trecento appartenevano con ogni probabilità alla stessa famiglia, anche se le fonti non ci permettono di vedere in dettaglio quale fosse l’esatto legame di parentela.
I de Charny si erano legati all’ordine del Tempio verso la fine del XII secolo: nel 1170 Guy vendette al Tempio un bosco ma i suoi figli Haton e Symon, 11 anni più tardi, doneranno all’ordine 15 arpenti di terra, mentre nel 1262 un altro membro del lignaggio, Adam, donerà all’ordine il feudo di Valbardin.
È da notare che queste donazioni si facevano spesso come “dote” per un figlio che entrava nell’ordine.
Il dominio templare a Charny distava soltanto un quarto di lega dalla commanderia.
Grazie al cartulario di Provins veniamo a conoscenza del fatto che nel 1241 viveva un templare chiamato Hugues de Charny, il quale potrebbe ben essere uno zio del futuro Precettore di Normandia.
La famiglia ebbe a che fare (seppur in via indiretta) con un altro evento che riguardò la sindone da vicino: la quarta crociata, con il tremendo saccheggio di Costantinopoli durante il quale la reliquia sparì.
Il conte Guillaume de Champlitte, uno dei maggiori baroni che parteciparono alla presa di Costantinopoli e divenne poi principe di Acaia, chiese in moglie Elisabeth del lignaggio di Mont Saint-Jean, signori di Charny.
Già dalla metà del XII secolo il feudo di Charny era intimamente legato alla famiglia de Courtenay: Pietro i de Courtenay, signore anche di Charny e ultimo figlio del re di Francia Luigi il Grosso, era il padre di Pietro ii de Courtenay destinato a divenire imperatore di Costantinopoli nel 1205; un anno dopo la conquista della capitale greca, cioè proprio nel 1205, un personaggio del lignaggio de Courtenay risiede nel castello di Charny.
Più tardi, anche quando i greci ripresero il controllo dell’impero d’Oriente, i de Charny mantennero legami concreti con i feudi che si erano creati laggiù: agli inizi del Trecento il cavaliere Dreux de Charny sposò la nobildonna Agnès erede della signoria greca di Vostzitza.
Le fonti note indicano comunque che la famiglia de Charny non entrò in possesso della sindone all’indomani del grande sacco, bensì molti decenni più tardi.
(©L’Osservatore Romano – 17 giugno 2009) FRALE B., I Templari e la sindone di Cristo, il Mulino,Bologna,2009 , pp.251, ISBN 272, 978-88-15-13157-7, pp. € 16,00 I Templari, l’ordine religioso-militare più potente del Medioevo, con tutta probabilità per un certo periodo custodirono la sindone oggi conservata a Torino.
Venerato nel più rigido segreto e conosciuto nella sua reale natura solo dai maggiori dignitari dell’ordine, il telo era conservato nel tesoro centrale dei Templari, che avevano fama di essere autorità nel campo delle reliquie.
In un’epoca di confusione dottrinale diffusa in gran parte della Chiesa, la sindone per i Templari rappresentava un potente antidoto contro il proliferare delle eresie.
Seguendone l’itinerario nel corso del Medioevo l’autrice procede anche a ritroso nel tempo, fino agli albori dell’era cristiana, aprendo una prospettiva nuova sulla controversa reliquia.
Barbara Frale, storica ed esperta di documenti antichi, è ufficiale dell’Archivio Segreto Vaticano.
Studiosa dei Templari e delle crociate, ha scritto “L’ultima battaglia dei Templari” (Viella, 2001), “Il papato e il processo ai Templari” (Viella, 2003) e “I Templari” (Il Mulino, 2004; trad.
inglese, francese, spagnola, portoghese, polacca e ceca).
Testimoni del nostro tempo: Il cardinale Massaia
L’8 giugno 1809, a Piovà d’Asti, nasceva il servo di Dio cardinale Guglielmo Massaia.
Nel Bicentenario di tale evento, si stanno svolgendo varie iniziative per riproporre alla considerazione della gioventù d’oggi questa grande figura di missionario dei tempi moderni.
Con lo spirito di san Francesco d’Assisi, il Massaia obbedì alla voce del Papa Gregorio XVI, che gli proponeva un’attività apostolica immane in un territorio fino ad allora poco conosciuto.
Confidando nella Provvidenza Divina, egli accettò d’essere inviato in Etiopia, come vicario apostolico dei Galla.
Era, per lui, un mondo nuovo, ma, sorretto dalla fede dei santi, iniziò il suo eroico apostolato che doveva durare per ben 35 anni.
Si trattò di un’attività missionaria gigantesca, che ancor oggi continua a stupirci.
Era quindi giusto far nuovamente conoscere agli uomini d’oggi tale grande opera apostolica.
Con molta soddisfazione, ho quindi salutato l’iniziativa del noto studioso di storia della santità moderna, qual è monsignor Alessandro Pronzato, che ha voluto regalarci una nuova pubblicazione sul cardinale Massaia.
È un’opera che ho letto con profondo interesse, ammirando soprattutto lo sforzo nel sottolineare la santità di vita di questo importante apostolo dell’Africa.
In realtà, i numerosi scritti finora apparsi sulla figura di tale leggendario missionario abbondavano nel descrivere le sue caratteristiche di viaggiatore instancabile, di studioso della vita dei popoli, di buon samaritano verso tanti ammalati, di uomo dedito, secondo le circostanze, anche ai lavori più umili per aiutare quelle popolazioni.
Bene ha fatto il nostro biografo nell’insistere sull’anima del suo apostolato, su quel fuoco interiore d’amore per Cristo e per i fratelli, che sempre lo sospingeva sul suo doloroso cammino.
Scorrendo le pagine di tale libro, emerge chiaramente la santità eroica del cardinale Massaia, come ben leggiamo nella seconda parte della biografia: “Se questo non è un santo”! Del resto, la sua santità di vita era ben nota al Papa Leone XIII, il Papa che, nel Concistoro del 10 novembre 1884, aveva voluto esaltare tale intrepido missionario creandolo cardinale di Santa Romana Chiesa e che, poi, alla sua morte, il 6 agosto 1889, aveva esclamato, profondamente commosso: “È morto un santo!” Grande fu pure la fama di santità presso i suoi contemporanei.
Qui basterebbe ricordare come parlava di lui il suo grande amico, san Daniele Comboni, che conosceva a fondo il Massaia e con il quale collaborò nella ricerca delle vie migliori per l’apostolato missionario in terra africana.
Basterebbe leggere una lettera che il giovane Comboni scrisse da Parigi al rettore dell’istituto Mazza di Verona, il 22 marzo 1865, nella quale vi sono le seguenti espressioni: “Ho la consolazione di essere qui con un santo uomo, che mi ama come suo figlio e mi circonda di mille premure, e mi fa fino da infermiere.
Più che studio e che pratico con questo sant’uomo, più mi comparisce ammirabile…
Egli, uomo semplice come l’acqua, ma assai colto, menò la vita più santa, di cui so molti particolari”.
Circa la fama di santità di cui godeva in vita il nostro missionario cappuccino, basterebbe pure leggere la testimonianza di san Giustino De Jacobis, il noto sacerdote vincenziano, nominato vicario apostolico per l’Abissinia Superiore e ordinato vescovo dal medesimo cardinale Massaia.
Nei suoi scritti, il De Jacobis parla sovente del “santo prelato”, definendolo “uno dei più preziosi monumenti moderni alla carità apostolica”, e anche “il sant’Eusebio dei nostri giorni” – alludendo alle gravi sofferenze ed all’esilio che dovette subire il santo vescovo di Vercelli.
Felicemente, quindi, monsignor Pronzato ha voluto sottolineare la santità di vita del Massaia.
È stata una grata sorpresa anche per me leggere alcune pagine del libro che hanno il sapore dei Fioretti di san Francesco.
Già conoscevo parecchie testimonianze di altri contemporanei del Massaia.
Le aveva ben sintetizzate nel 2003 il cappuccino Antonino Rosso, noto studioso del cardinale Massaia, in un suo scritto dal titolo Evangelizzazione, promozione umana, fama di santità (Pinerolo, 2003).
Con la presente pubblicazione, monsignor Alessandro Pronzato ha contribuito magistralmente a presentarci la statura spirituale di questo grande uomo di Dio, quale fu il Massaia, sia come religioso cappuccino a Torino, che come vescovo missionario di Africa ed infine come cardinale di Santa Romana Chiesa.
Personalmente, poi, in quest’anno in cui commemoriamo i duecento anni dalla sua nascita, ho voluto rileggere le belle pagine delle memorie storiche redatte dal Massaia per ordine del Papa Leone XIII, e recanti il noto titolo: I miei trentacinque anni di Missione in Alta Etiopia (Roma-Milano, 1885-1895).
Ho voluto poi riflettere sugli scritti dei numerosi altri studiosi, di ieri e di oggi, e sono giunto alla stessa conclusione.
In passato, alla causa di canonizzazione del Massaia era forse nociuto che alcuni scrittori l’avessero piuttosto presentato come il viaggiatore, lo scopritore, l’etnologo, il poliglotta, il medico, il diplomatico che trattava con i responsabili dei cinque regni esistenti nel territorio affidatogli e che manteneva poi contatti con le potenze coloniali europee.
Gli studi recenti hanno però contribuito a porre in giusta luce la spiritualità del Massaia.
Non rimane perciò che esprimere il voto che presto possiamo anche venerare sugli altari questa grande figura di servo di Dio dei tempi moderni.
Si sono aperte a Piovà Massaia, in provincia d’Asti, con una messa presieduta dal decano del collegio cardinalizio Angelo Sodano, le celebrazioni per ricordare i duecento anni dalla nascita del cardinale Guglielmo Massaia, grande missionario dell’Etiopia.
“Egli non ha voluto solo annunciare la Buona novella di Cristo con la sua vita e la sua parola – ha ricordato il porporato nell’omelia – ma ha consacrato tutta la sua esistenza a portare la luce del Vangelo anche nelle lontane terre africane”.
I suoi viaggi apostolici lo portarono, infatti, in molte regioni dell’Africa, anche al di fuori dell’Abissinia.
È ormai giunta al termine – ha ricordato poi il cardinale – l’indagine della Chiesa sulla vita e le opere di “questo grande apostolo dei tempi moderni”.
Sodano ha perciò auspicato che “la celebrazione del bicentenario della nascita del nostro grande cardinale ci spinga tutti a pregare perché presto sia anche riconosciuta dalla Chiesa la sua santità eroica”.
Una preghiera perché il Signore “attraverso anche qualche suo segno straordinario, quali sono i miracoli, voglia guidare la Chiesa a riconoscere presto la santità di questo suo figlio illustre”.
Numerosissime sono le iniziative in programma fino al prossimo autunno in tutta Italia per ricordare la figura di Massaia: convegni, incontri di preghiera, mostre, libri.
Pubblichiamo la prefazione del cardinale decano a un volume appena uscito (Alessandro Pronzato, Tanta strada sotto quei sandali…
Cardinale Guglielmo Massaia un santo dimenticato, Milano, Gribaudi, 2009, pagine 204, euro 13,50) che ne ripercorre l’itinerario umano e spirituale.
Monte Athos
Fermate gli orologi, quando dai vapori del Mar Egeo vedete sbucare la cima dell’Athos.
Perchè lì sono cose d’altri tempi.
Il calendario è il giuliano, in ritardo di 13 giorni su quello latino che ha invaso il resto del mondo.
Le ore non si contano a partire da mezzanotte, ma dal tramonto del sole.
E non è sotto il sole meridiano, ma nel buio notturno che l’Athos più vive e più palpita.
Di canti, di luci, di misteri.
Il Monte Athos è vera terra santa, che incute timor di Dio.
Non è per tutti.
Intanto non è per le donne, che già sono una buona metà degli umani.
L’ultima pellegrina autorizzata vi ha messo piede sedici secoli fa.
Si chiamava Galla Placidia, quella dei mosaici blu e oro di una chiesa di Ravenna a lei intitolata.
A nulla le valse d’esser figlia del grande Teodosio, imperatore cristiano di Roma e Costantinopoli.
Entrata in un monastero dell’Athos, un’icona della Vergine le ordinò: férmati! e le ingiunse di lasciar la montagna.
Che doveva restare da lì in poi inviolata da donna.
Dal secolo XI – dicono – neanche gli animali femmina, vacche, capre, coniglie, osano più salire impunemente il santo monte.
URANÚPOLIS Uranúpolis, città del cielo, ultimo villaggio greco prima del sacro confine, è posto di frontiera specialissimo.
Cartelli di ferro smaltato vi avvertono fino all’ultimo che non la passerete liscia se siete donna travestita da uomo o se vi scoveranno senza i giusti permessi.
La sacra epistassía, il governo dei monaci, vi consegnerà a un tribunale di Grecia.
Il quale è sempre severo nel tutelare l’extraterritorialità dell’Athos e le sue leggi di autonoma teocrazia, sancite nella costituzione ellenica e forti di riconoscimento internazionale.
Sudati monaci in tonaca e cappello a cilindro tengono a freno la calca dei viaggiatori in cerca d’un lasciapassare.
Molti i chiamati ma pochi gli eletti, dice il Vangelo.
E pochissimi sono i visti d’ingresso timbrati ogni mattina col sigillo della Vergine.
Chi finalmente riceve la similpergamena che autorizza la visita corre al molo d’imbarco.
Perché nell’Athos si entra solo via mare, su navigli che hanno nomi di santi.
Lo sbarco è un porticciolo a metà penisola che si chiama Dafne, come la ninfa di Apollo.
Ma il lontano Olimpo, che da lì si scorge nelle giornate ventose, dimenticàtelo.
Un vecchio autobus panciuto, del color della terra anche nei finestrini, arranca sulla salita fino a Kariès, ombelico amministrativo dell’Athos, sede dalla sacra epistassìa.
KARIÈS A Kariès ci sono la gendarmeria, un paio di viuzze con botteghe che vendono semi di farro, icone, grani d’incenso e tonache monacali; ci sono il finecorsa dell’autobus e una trattoria.
C’è anche un telefono pubblico, che ha tutta l’aria d’essere il primo e l’ultimo.
Kariès è uno strano paesetto senza abitanti.
Quei pochi che compaiono sono tutti provvisori: monaci itineranti, gendarmi, operai di giornata, viaggiatori smarriti.
Da lì in avanti si procede a piedi, ore di marcia su strade sterrate, senz’ombra, in nuvole di polvere impalpabile come cacao.
Oppure su camionette prese a nolo da un altro degli strani greci provvisori.
Oppure saltando su jeep di passaggio, di proprietà dei monasteri più ammodernati.
Ma sempre con grande supplizio corporeo.
L’Athos è per tempre forti, ascetiche.
Da subito vi torchia.
Ogni giorno di visita avrà la sua via crucis di polvere e sassi e precipizi: perchè sul prezioso vostro permesso c’è scritto che non potete fermarvi più di una notte in un monastero e tra l’uno e l’altro ci sono ore di cammino.
Il pellegrinare è d’obbligo.
GRANDE LAVRA Ma quando arrivate esausti in uno dei venti grandi monasteri, che paradiso.
La Grande Lavra, il primo nella gerarchia dei venti, vi accoglie tra le sue mura sospese tra terra e cielo, verso la punta della penisola proprio sotto la santa montagna.
Compare un giovane monaco e vi ritira pergamena e passaporto.
Ricompare come l’angelo dell’Apocalisse dopo un silenzio in cielo di circa mezz’ora, ristorandovi con un bicchier d’acqua fresca, un bicchierino di liquor d’anice, una zolletta di gelatina di frutta e un caffè alla turca, speziato.
È il segno che siete stato ammesso tra gli ospiti.
Vi tocca un letto in una camera a sei tra mura vecchie di secoli, con le lenzuola fresche di bucato e l’asciugamano.
Da lì in avanti farete vita da monaci.
Ossia farete come vi pare.
I monasteri dell’Athos non sono come quelli d’Occidente, cittadelle murate dove ogni mossa, ogni parola sono sotto regola collettiva.
Sull’Athos c’è di tutto e per tutti.
C’è l’eremita solitario sullo strapiombo di roccia, cui mandano su il cibo di tanto in tanto con una cesta.
Ci sono gli anacoreti nelle loro casupole sperdute tra ginestre e corbezzoli, sulla costa della montagna.
Ci sono i senza fissa dimora, sempre in cammino e sempre irrequieti.
Ci sono i solenni cenobi di vita comune retti da un abate, che qui si chiama igúmeno.
Ci sono i monasteri villaggio dove ciascun monaco fa un po’ a ritmo suo.
La Grande Lavra è uno di questi.
Dentro le sue mura ci sono piazze, stradine, chiese, pergole, fontane, mulini.
Le celle fanno blocco come in una kasbah orientale.
Spiccano gli intonaci azzurri, mentre il rosso è il sacro colore delle chiese.
Quando suona il richiamo della preghiera, con campane dai sette suoni e con il martellare dei legni, i monaci s’avviano al katholikón, la chiesa centrale.
Ma se qualcuno vuol pregare o mangiare in solitudine, niente gli vieta di restare nella sua cella.
Anche per il visitatore è così, salvo che lui di alternative ne ha proprio poche.
Al vespero accorre impaziente.
Alla preghiera notturna ci prova, presto indotto a ripiegare dal sonno.
Alla liturgia mattutina ci riprova, vagamente stordito.
O inebriato? C’è profumo d’Oriente, di Bisanzio, nella Grande Lavra.
C’è aroma di cipresso e d’incenso, fragranza di cera d’api, di reliquie, di antichità misteriosamente prossime.
Perchè i monaci dell’Athos non patiscono il tempo.
Vi parlano dei loro santi, di quel sant’Atanasio che ha piantato i due cipressi al centro della Lavra, che ha costruito con forza erculea il katholikón, che ha plasmato il monachesimo athonita, come se non fosse morto nell’anno 1000 ma appena ieri, come se l’avessero incontrato di persona e da poco.
Santi, secoli, imperi, città terrene e celesti, tutto par che oscilli e fluisca senza più distanza.
Ai visitatori sono offerti in venerazione, al centro della navata, i tesori del monastero: scrigni d’oro e d’argento con zaffiri e rubini, che incastonano la cintura della Vergine, il cranio di san Basilio Magno, la mano destra di san Giovanni Crisostomo.
La luce del tramonto li accende, li fa vibrare.
E s’accendono anche gli affreschi di Teofane, maestro della scuola cretese del primo Cinquecento, le maioliche azzurre alle pareti, le madreperle dell’iconostasi, del leggio, della cattedra.
Dopo il vespero si esce in processione dal katholikón e si entra, dirimpetto sulla piazza, nel refettorio, che ha anch’esso l’architettura di una chiesa ed è anch’esso tutto affrescato dal grande Teofane.
È la stessa liturgia che continua.
L’igúmeno prende posto al centro dell’abside.
Dal pulpito un monaco legge, quasi cantando, storie di santi.
Si mangia cibo benedetto, zuppe ed ortaggi in antiche stoviglie di ferro, nelle feste si beve del vino color ambra, su spesse tavole di marmo scolpite a corolla, a loro volta poggianti su sostegni marmorei: vecchie di mille anni ma che evocano i dolmen della preistoria.
Anche l’uscita avviene in processione.
Un monaco porge a ciascuno del pane santificato.
Un altro lo incensa con tale arte che anche in bocca ve ne resta a lungo il profumo.
VATOPÉDI Dopo la Grande Lavra, nella gerarchia dei venti monasteri, viene Vatopédi.
Sorge sul mare tra dolci colline vagamente toscane.
Lì, raccontano, si salvò il naufrago Arcadio, figlio di Teodosio.
E lì dovette riprendere il largo la sorella, Galla Placidia, la prima delle donne interdette dall’Athos.
Come la Lavra è rustica, così Vatopédi è raffinato.
E lo fu sin troppo, in qualche tratto della sua storia passata: opulento e decadente.
Ancora non molti anni fa albergava monaci sodomiti, disonore dell’Athos.
Ma poi è venuta la sferza purificatrice d’un manipolo di monaci rigoristi giunti da Cipro, che hanno messo al bando i reprobi e imposto la regola cenobitica.
Oggi Vatopédi è tornato monastero tra i più fiorenti.
Accoglie giovani novizi fin dalla lontana America, figli di ortodossi emigrati.
Vatopédi è l’aristocrazia dell’Athos.
Dice solenne l’igúmeno Efrem, barba color rame, occhi chiari e voce melodiosa: “L’Athos è unico.
È il solo Stato monastico al mondo”.
Ma se è città del cielo sulla terra, allora tutto lì dev’essere sublime.
Come le liturgie, che a Vatopédi sublimi lo sono per davvero.
Specie nelle grandi feste: Pasqua, Epifania, Pentecoste.
Il pellegrino vinca il sonno e non perda, per niente al mondo, i suoi meravigliosi uffici notturni.
Già la chiesa è di grande suggestione: è a croce greca come tutte le chiese dell’Athos, mirabilmente affrescata dai maestri macedoni del Trecento, con un’iconostasi fulgentissima d’ori e d’icone.
Ma è il canto che a tutto dà vita: canto a più voci, maschio, senza strumenti, che fluisce ininterrotto anche per sette, dieci ore di fila, perché più la festa è grande e più si prolunga nella notte, canto ora robusto ora sussurrato come marea che cresce e si ritrae.
I cori guida sono due: grappoli di monaci raccolti attorno al leggio a colonna del rispettivo transetto, con il maestro cantore che intona la strofa e il coro che ne coglie il motivo e lo fa fiorire in melodie e in accordi.
E quando il maestro cantore si sposta dal primo al secondo coro e traversa la navata a passi veloci, il suo leggero mantello dalle pieghe minute si gonfia a formare due ali maestose.
Sembra volare, come le note.
E poi le luci.
C’è elettricità nel monastero, ma non nella chiesa.
Qui le luci sono solo di fuoco: miriadi di piccoli ceri il cui accendersi e spegnersi e muoversi è anch’esso parte del rito.
In ogni katholikón dell’Athos pende dalla cupola centrale, tenuto da lunghe catene, un lampadario a forma di corona regale, di circonferenza pari alla cupola stessa.
La corona è di rame, di bronzo, di ottone scintillanti, alterna ceri e icone, reca appese uova giganti che sono simbolo di risurrezione.
Scende molto in basso, fin quasi a esser sfiorato, proprio davanti all’iconostasi che delimita il sancta sanctorum.
Altri fastosi lampadari dorati scendono dalle volte dei transetti.
Ebbene, nelle liturgie solenni c’è il momento in cui tutte le luci vengono accese: quelle dei lampadari e quelle della corona centrale; e poi i primi sono fatti ampiamente oscillare, mentre la grande corona viene fatta ruotare attorno al suo asse.
Almeno un’ora dura la danza di luce, prima che pian piano si plachi.
Il palpito delle mille fiammelle, il brillare degli ori, il tintinnio dei metalli, il trascolorare delle icone, l’onda sonora del coro che accompagna queste galassie di stelle rotanti come sfere celesti: tutto fa balenare la vera essenza dell’Athos.
Il suo affacciarsi sui sovrumani misteri.
Quali liturgie occidentali, cattoliche, sono oggi capaci d’iniziare a simili misteri e d’infiammare di cose celesti i cuori semplici? Joseph Ratzinger, ieri da cardinale e oggi da papa, coglie nel segno quando individua nella volgarizzazione della liturgia il punto critico del cattolicesimo d’oggi.
All’Athos la diagnosi è ancor più radicale: a forza d’umanizzare Dio, le Chiese d’Occidente lo fanno sparire.
“Il nostro non è il Dio dello scolasticismo occidentale”, sentenzia Gheorghios, igúmeno del monastero athonita di Grigoríu.
“Un Dio che non deifichi l’uomo non può avere alcun interesse, che esista o meno.
È in questo cristianesimo funzionale, accessorio, che stanno gran parte delle ragioni dell’ondata di ateismo in Occidente”.
Gli fa eco Vassilios, igúmeno dell’altro monastero di Ivíron: “In Occidente comanda l’azione, ci chiedono come possiamo rimanere per così tante ore in chiesa senza far nulla.
Rispondo: cosa fa l’embrione nel grembo materno? Niente, ma poiché è nel ventre di sua madre si sviluppa e cresce.
Così il monaco.
Custodisce lo spazio santo in cui si trova ed è custodito, plasmato da questo stesso spazio.
È qui il miracolo: stiamo entrando in paradiso, qui e ora.
Siamo nel cuore della comunione dei santi”.
SIMONOS PETRA Simonos Petra è un altro dei monasteri che sono alla testa della rinascita athonita.
Si erge su uno sperone di roccia, tra la vetta dell’Athos e il mare, coi terrazzi a vertigine sul precipizio.
Eliseo, l’igúmeno, è appena tornato da un viaggio tra i monasteri di Francia.
Apprezza Solesmes, baluardo del canto gregoriano.
Ma giudica la Chiesa occidentale troppo “prigioniera di un sistema”, troppo “istituzionale”.
L’Athos invece – dice – è spazio degli spiriti liberi, dei grandi carismatici.
All’Athos “il logos si sposa alla praxis”, la parola ai fatti.
“Il monaco deve mostrare che le verità sono realtà.
Vivere il Vangelo in modo perfetto.
Per questo la presenza del monaco è così essenziale per il mondo.
Scriveva san Giovanni Climaco: luce per i monaci sono gli angeli, luce per gli uomini sono i monaci”.
Simonos Petra fa scuola, anche fuori dei confini dell’Athos.
Ha dato vita a un monastero per monache, un’ottantina, nel cuore della penisola Calcidica.
Un altro ne ha fatto sorgere vicino al confine tra Grecia e Bulgaria.
E ha aperto tre altri suoi nuclei monastici persino in Francia.
È un monastero colto, dotato d’una ricca biblioteca.
A notte alta i suoi ottanta monaci, prima della liturgia antelucana, vegliano in cella da tre a cinque ore leggendo e meditando i libri dei Padri.
Athos insonne.
Senza tempo che non sia quello delle sfere angeliche.
Lasciarlo è una dura scossa anche per il visitatore più disincantato.
A Dafne si risale sul traghetto.
Il cadenzato ronfare dei motori vi rimette in pari con gli orologi mondani.
La ragazza greca, la prima, che a Uranúpolis vi serve il caffé, vi viene incontro come un’apparizione.
Con la folgorante bellezza d’una Nike di Samotracia.
Tutto il processo a Galileo
L’opera – osserva monsignor Pagano – per vari motivi fu parziale e lacunosa.
Seguirono edizioni analoghe curate nello stesso anno a Stoccarda da Karl von Gebler e un anno dopo da Domenico Berti.
Solo nel 1909 Antonio Favaro, nel xix volume dell’edizione nazionale delle Opere di Galileo (1888-1909), compiva un deciso passo avanti.
Si deve poi effettuare un ben più ampio balzo temporale fino al 1984, quando lo stesso Sergio Pagano, per volere di Giovanni Paolo ii pubblica una nuova edizione dei documenti del processo allo scienziato pisano.
“La brevità dei tempi allora – ricorda monsignor Pagano – mi costrinse a giornate di lavoro molto intenso e il risultato mi soddisfece solo in parte.
Per questo come ho potuto, mi sono dedicato alla presente nuova edizione di 550 pagine e 1300 note.
E ho piacere che il volume – che uscirà per la fine di giugno – veda la luce proprio ora: è il contributo umile e silenzioso dell’Archivio Segreto alla celebrazione dell’Anno Internazionale dell’Astronomia”.
Dal 1984 a oggi – osserva monsignor Pagano – molti studi relativi a questa celebre vicenda sono apparsi in veste di monografie e di saggi su riviste storiche; ma soprattutto dal 22 gennaio 1998: quando sono stati ufficialmente aperti agli studiosi gli archivi del Sant’Officio e quello della Congregazione dell’Indice, entrambi conservati nell’Archivio storico della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Quest’ultimo evento ha avuto una rilevanza notevole e ha stimolato nuove indagini e approfondimenti non solo sugli atti superstiti della vicenda giudiziaria in questione, ma anche sul funzionamento della stessa Inquisizione Romana e sui personaggi che ne furono guida o membri lungo i secoli.
Rispetto alle edizioni precedenti degli atti processuali galileiani le novità più rilevanti odierne sono determinate dalla maggiore conoscenza dei personaggi implicati nel procedimento, tutti precisati nelle note, compresi moltissimi inquisitori; dai documenti presentati nella loro genuinità – originali, copie, sunti, note d’ufficio – con rigorose note archivistiche; dal panorama, come si è detto, delle fonti “vaticane” riguardanti il processo allo scienziato pisano e cioè l’Archivio storico della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’Archivio Segreto Vaticano, la Biblioteca Apostolica Vaticana.
La nuova edizione comprende naturalmente tutte le carte già note e almeno una ventina di nuovi documenti reperiti nell’Archivio del Santo Officio dopo il 1991 da alcuni ricercatori: in particolare Ugo Baldini e Leen Spruit.
La nuova edizione annota criticamente i vari documenti dei quali propone una edizione fedele agli originali che – come sottolinea monsignor Pagano – sono stati letti di nuovo, riga per riga.
L’edizione dei documenti è preceduta da una ampia introduzione storica alle vicende che gradualmente portarono all’istruzione e allo svolgimento del processo, a partire dalle denunce del domenicano Tommaso Caccini, dal 1616 al 1633 e fino al 1741, quando, sotto il pontificato di Papa Benedetto xiv, fu permessa la costruzione del mausoleo nella basilica di Santa Croce di Firenze (di fronte alla tomba di Michelangelo) e fu consentita la pubblicazione a Padova dell’opera galileiana ferme restando le censure del Sant’Uffizio.
Il 31 ottobre 1992, nel rivolgersi ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze Giovanni Paolo ii diceva a proposito del processo: “Come la maggior parte dei suoi avversari Galileo non fa distinzione tra quello che è l’approccio scientifico ai fenomeni naturali e la riflessione sulla natura, di ordine filosofico, che esso generalmente richiama.
È per questo che egli rifiutò il suggerimento che gli era stato dato di presentare come un’ipotesi il sistema di Copernico, fin tanto che esso non fosse confermato da prove irrefutabili.
Era quella peraltro, un’esigenza del metodo sperimentale di cui egli fu il geniale iniziatore (…) Il problema che si posero dunque i teologi dell’epoca era quello della compatibilità dell’eliocentrismo e della Scrittura.
Così la scienza nuova, con i suoi metodi e la libertà di ricerca che essi suppongono, costringeva i teologi a interrogarsi sui loro criteri di interpretazione della Scrittura.
La maggior parte non seppe farlo.
Paradossalmente, Galileo, sincero credente, si mostrò su questo punto più perspicace dei suoi avversari teologi”.
Anche a giudizio di monsignor Pagano l’atteggiamento dei teologi avrebbe potuto essere più comprensivo ed elastico.
Fermo restando che i tempi storici non erano maturi per recepire gli studi scientifici del grande studioso pisano è innegabile che in questa vicenda siano stati commessi diversi errori; anche da parte dello stesso Galileo, dice il prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano.
In una cultura dominata dalla visione tolemaica l’irruzione del sistema copernicano che veniva a contraddire sistematicamente la Scrittura – allora letta senza interpretazioni – richiedeva da parte dello studioso un atteggiamento meno apodittico quale traspariva da il Dialogo sopra i massimi sistemi.
Al tempo stesso non si può negare la ferma e risoluta decisione di Urbano viii a volere il processo e la condanna affidando le carte e gli studi di Galileo al vaglio di studiosi prevenuti e non sempre all’altezza.
Tra i gesuiti – che rimasero fuori dal procedimento – infatti non sarebbero mancati atteggiamenti disposti a essere più indulgenti con gli studi del pisano che invece, come recitava la sentenza: essendosi egli reso “veementemente sospetto d’eresia” era incorso nelle censure e nelle pene previste.
Queste consistettero, com’è noto, nel domicilio coatto e in una vita di preghiere e penitenze.
Prima per pochi giorni a Villa Medici a Roma, poi a Siena e infine ad Arcetri, dove Galileo sarebbe morto nel 1642.
(©L’Osservatore Romano – 29 maggio 2009) Come e perché fu processato e condannato Galileo? Da oltre centotrent’anni gli studiosi si sono dedicati a rispondere a questa domanda.
Sopraggiunge oggi un contributo decisivo con la nuova edizione accresciuta, rivista e annotata dal prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano, il vescovo Sergio Pagano, del volume I documenti vaticani del processo di Galileo Galilei (Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 2009, pagine 550, 16 tavole fuori testo, “Collectanea Archivi Vaticani”, 69).
Ne parliamo con il curatore che ci ricorda come fin dal 1877 si ebbe la prima edizione parigina del cosiddetto “codice vaticano” del processo a Galileo a opera di Henri de L’Épinois, uno studioso laico che ebbe il permesso sotto il pontificato di Pio ix – era Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa il cardinale Jean-Baptiste Pitra – di visionare le carte del processo.
Testimoni del nostro tempo: Giuseppe Lazzati
Lazzati, il mistico della concretezza Si prova sempre una certa emo¬zione quando si incontra una persona importante, di cui per anni si è letto sui quotidiani, una per¬sona vista e rivista in tv, di cui si co¬noscono le opere, una persona che si ammira e che, appunto, si vorreb¬be incontrare un giorno.
E questo incontro alla fine anche per me fu possibile e fu l’occasione gra¬dita e preziosa per vedere innanzi¬tutto in faccia l’uomo — occhi chia¬ri, penetranti, sereni — e quindi sco¬prirne l’indole, lo spirito, le aspira¬zioni di cristiano impegnato.
Era Giuseppe Lazzati, allora rettore del¬l’Università Cattolica.
L’incontro av¬venne durante una cena, in casa di un mio amico scrittore, scomparso nel 1999, Luigi Santucci, al quale spesso ho riconosciuto questo me¬rito. L’argomento della nostra con¬versazione era a prima vista sempli¬cissimo, ma per il mio interlocutore molto appassionato e tormentato: la Chiesa.
Giuseppe Lazzati amava la Chiesa, di un amore — per dirla con Baudelaire — autentico e lacerante.
Quel giorno, vicino a lui, compresi che questo suo amore era drammatico nel senso più elevato del termine, ma anche nel senso quasi di ferita e tensione che il termine stesso contiene in sé.
Rivelava l’«incisione» che ti lascia nella vita l’amore quando diventa esigente; amore che può addirittura artigliarti la coscienza.
In Lazzati io riuscii a scorgere quella che gli antichi greci definivano orghé, ossia «ira», «passione impellente», intesa, però, nel suo senso primario come stato di necessità a parlare, che nasce da un’emozione interiore e dura finché non si coagula nella forza della comunicazione.
E l’amore per la Chiesa in Lazzati era proprio una necessità interiore, che si muoveva di continuo nel groviglio del nodo in¬teriore della persona, della coscien¬za, e poi alla fine riusciva a esplode¬re e a diventare comunicazione e, quindi, a entrare nella storia, nell’esistenza, nella società.
Allora trovava la quiete por¬tando con sé tutte le scaglie di luce e di tenebra che tale amore presenta.
Ebbi ancora modo di incon¬trare l’allora rettore all’ere¬mo di San Salvatore, sopra Erba (Co), dove vidi nel vol¬to di Lazzati un altro tratto fondamentale, che possono testimoniare coloro che l’hanno co¬nosciuto.
Ero lì per un ritiro ai gio¬vani di Azione cattolica e la sera Laz¬zati aveva partecipato alla messa da me celebrata; l’avevo proprio di fronte.
Mentre celebravo, di lui qualcosa mi catturava e addirittura mi distraeva: il suo particolare modo di essere in comunione con l’Infinito e con l’Eterno.
E provo soddisfazione al pensiero che egli sia ora sulla strada della beatificazione, in quanto, avendolo conosciuto, posso affermare di aver avuto — soprattutto in quel momento liturgico — un’impressio¬ne diretta della sua santità.
In lui si realizzavano pienamente le parole di sant’Agostino: Nolite quae¬rere a Deo nisi Deum («Non chiede¬te nulla a Dio se non Dio stesso»).
In quegli istanti, vedendolo tutto concentrato e preso dal divino, Lazzati rappresentava la definizione della preghiera formulata da Kierkegaard, secondo la quale pregare è come respirare: «È sciocco cercare un perché.
Perché respiro? Perché altrimenti morirei.
Lo stesso discorso vale per la preghiera».
E in Lazzati la preghiera era respiro, un respiro spontaneo.
E qui vorrei mettere in particolare risalto quest’aspetto, che rientra nell’area interiore, mistica dell’uomo, uno di quegli aspetti che spesso si preferisce trascurare parlando di persone illustri di cui amia¬mo soprattutto sottolineare, se non solo ricordare, l’attività pubblica.
Un altro tratto caratteristico, il più personale e il più diretto, ebbi la ventura di coglierlo poco tempo prima della sua morte.
Era il febbraio 1986 e ci eravamo trovati insieme a una tavola rotonda televisiva.
Alla fine lo accompagnai a casa e lì rimanemmo a parlare fino a tarda notte.
Il discorso cadde su La Pira, sul loro sodalizio, sulla loro visione utopica.
«È l’utopia che salva, non l’ordinaria amministrazione! – esclamava Lazzati –.
L’unica visione veramente feconda».
Ciò che notai in particolare fu la sua fiducia e speranza nel dialogo, nel dialogo con le culture e con gli orizzonti diversi.
Era un tema tanto caro a quel grande cristiano laico.
In quell’occasione gli citai alcune battute di un testo orientale che, secondo me, rappresentava bene il cammino del dialogo.
Lazzati ne rimase conquistato.
Un uomo, nel deserto di Giuda, se ne va per una valle pietrosa, ed ecco vede in lontananza un essere che si arrampica su una montagna, forse un animale.
L’uomo, dato il posto in cui si trova, pensa subito a qualcosa di pericoloso.
Tuttavia, avanza per riuscire a individuarlo meglio.
Intanto si accorge che anche l’altro si è avvicinato un poco e così scopre che non si tratta di un animale, bensì di un uomo.
Allora il cuore comincia ad allargarsi, anche se rimane un certo sospetto, perché questo è il deserto: un luogo di rischi e di insidie.
Alla fine i due si incontrano e si guardano e scoprono di essere fratelli, da tempo separati e lontani.
Un’ultima e conclusiva considerazione.
Soprattutto alla luce del Vaticano II — si ricordi il decreto sull’apostolato dei laici ( Apostolicam actuositatem — oggi si parla tanto di presenza, contributo, azione dei laici nella Chiesa.
Non si può, allora, tacere l’apporto fondamentale di Lazzati nel laicato cattolico italiano.
Egli resta un esempio di cristiano che, in tempi difficili — in particolare negli «anni di piombo» —, ha donato e messo in causa la sua vita per la Chiesa, in un servizio generoso, ma al tempo stesso umile, senza enfasi di circostanza, in un lento, quotidiano travaglio, all’ascolto di ogni voce e nell’accoglienza di ogni i¬stanza, anche diversa e problematica, per sottoporla a un dialogo.
Sono trascorsi vent’anni dalla promulgazione, da parte di Giovanni Paolo II, dell’esortazione apostolica Christifideles laici, sulla vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo.
Ripercorrendo questo testo per giungere poi all’appello finale dove si rinnova l’invito del «padrone di casa» di cui parla il Vangelo: «Andate anche voi nella mia vigna», un invito rivolto a tutti i laici, uomini e donne, si deve ben dire che Giuseppe Lazzati ha veramente incarnato il modello di laico che la Chiesa, nel suo magistero, propone e ripropone perché si mantenga sempre viva quella coscienza ecclesiale, la coscienza cioè di essere membri della Chiesa di Cristo con dignità, nella partecipazione alla vita della Chiesa in piena corresponsabilità.
Pertanto, è giusto e doveroso collocare la figura di Lazzati tra i grandi laici impegnati del Novecento.
Ma direi non tanto per cercarvi un «maestro » (titolo che egli avrebbe certamente respinto), quanto un «testimone ».
Una testimonianza che poteva essere definita — per usare le parole di un grande amico di Lazzati, Paolo VI, nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi — come «il primo mezzo di evangelizzazione», poiché «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni».
Questa fu la testimonianza di Lazzati, uomo immerso nel mondo e totalmente presente nell’impegno secolare, senza mai rinunciare a una profonda vita interiore: continuo contatto col mondo, con l’uomo, con la terra nell’azione, ma, nello stesso tempo, continuo contatto con Dio nella preghiera, nella vita sacramentale e liturgica e nella contemplazione.
Gianfranco Ravasi
Coppi e Bartali
M i ha sempre affascinato, nella vita degli assi del ciclismo, il loro precoce senso di predestinazione.
Fin dalla più tenera infanzia, sanno che un giorno diventeranno campioni.
Hanno dei sogni, delle visioni.
Già all’età di sei, otto o dieci anni, ciascuno di loro sa che diventerà un fuoriclasse, e che un giorno vincerà la Milano-Sanremo, il Giro d’Italia, la Parigi-Roubaix, il Tour de France, una Sei Giorni.
Ciascuno di loro, all’età di sei, otto anni, sa già che avrà un rivale, un nemico fraterno.
Ogni Oreste, prima ancora di inforcare la prima bicicletta, sa già che avrà il suo Pilade.
Ogni Girardengo sa che avrà il suo Ganna, ogni Binda il suo Guerra, ogni Bartali il suo Coppi.
Ma Gino Bartali non è come tutti gli altri.
A sei anni non solo aveva, come gli altri, dei sogni e delle visioni: sentiva anche delle «voci».
Il buon Gino si arrabbia se gli si parla dei suoi buoni rapporti di amicizia, o forse farei meglio a definirli di buon vicinato, con i santi del paradiso.
Gino Bartali si arrabbia quando gli si ricorda con discrezione la sua cuginanza con gli angeli del cielo, cosa di cui parla sempre, in ogni momento, a ogni colpo di pedale.
Quando discretamente si allude alla sua madrina, voglio dire alla Santa Vergine.
Gino si arrabbia quando gli si dice che a dargli una mano sul Galibier, nel 1948, probabilmente è stata la Madonna, o santa Rita da Cascia, oppure è stato il suo zietto san Cristoforo.
Gino diventa rosso di collera quando si sente chiedere se è vero che il Santo Padre gli ha predetto per l’anno 1949 una magnifica serie di vittorie, a condizione che egli si confessi e si comunichi ogni settimana.
Perché la fede di Gino è sincera e ardente, e lui non ama essere preso in giro su questo argomento.
«Sono un buon cattolico» dice, come se volesse convincervi che solo grazie a questa condizione si può essere un grande campione.
Bartali possiede la fede ingenua e profonda dei toreri spagnoli.
Ogni volta, prima di sfidare il toro, si inginocchia e prega: ogni volta, dopo aver ucciso la tappa, si inginocchia e prega per ringraziare Dio di avergli concesso la vittoria contro la strada, contro il cronometro o contro il toro Coppi.
Sono nato a Santa Lucia, villaggio sulle colline del Chianti che dominano Ponte a Ema, paese natale di Gino Bartali.
Di recente il curato mi raccontava che, durante l’ultimo Giro d’Italia, una ragazzina della sua parrocchia aveva visto un angelo sospingere Bartali lungo una salita.
Questo buon prete è orgoglioso del suo Gino tanto quanto Gino lo è del suo angelo.
«Esiste al mondo un altro campione che possa vantarsi di correre con un angelo sulla spalla?» mi diceva il curato di Santa Lucia.
Certo che non esiste! O perlomeno io la penso così: e così la pensa Fausto Coppi, il rivale di Bartali.
Coppi è piemontese e appartiene, senza saperlo, al genere di persone che non credono molto al soccorso divino.
Voglio dire che è un voltairiano inconsapevole.
Sicuramente c’è qualcosa di filosofico nella rivalità sportiva che lo oppone a Bartali e rappresenta uno degli aspetti più moderni della disputa fra credenti e liberi pensatori.
Gino è figlio della fede.
Fausto è figlio del libero pensiero.
Entrambi figli del popolo, discendenti dai migliori ceppi del popolo italico (i toscani e i piemontesi sono considerati, a ragione, i più intelligenti fra gli italiani), rappresentano in qualche modo le due grandi correnti del pensiero italiano contemporaneo.
Bartali appartiene a coloro che credono alle tradizioni e alla loro immutabilità, Coppi a coloro che credono al progresso.
Gino è con chi crede al dogma, Fausto con chi lo rifiuta, nella fede, nello sport e nella politica così come in ogni altro ambito.
Bartali crede all’aldilà, al paradiso, alla redenzione, alla resurrezione, a tutto ciò che costituisce l’essenza della fede cattolica.
Coppi è un razionalista, un cartesiano, uno spirito scettico, un uomo pieno di ironia e di dubbi che confida solo in se stesso, nei propri muscoli, nei polmoni, nella buona sorte.
Ah, la fortuna! Bartali non crede alla sorte.
La sua fortuna si chiama Provvidenza.
È Lei a governare ogni cosa sulla Terra, e quindi anche sulle strade.
Gino è un ispirato, Fausto uno scettico.
«La casa di Bartali è la casa del buon Dio» scriveva di recente Pierre About.
«A casa sua, tavola imbandita.
La cucina è sempre popolata, i fornelli cucinano senza sosta, le camere degli ospiti non sono mai vuote.
Solo l’altare dove egli recita le sue preghiere è rispettato.
Là Gino entra in contatto con santa Teresa di Lisieux, di cui possiede una bella statua».
Fausto Coppi non è protetto da una santa.
Non ha nessuno, in cielo, che si occupi di lui.
Il suo manager e il suo massaggiatore non portano le ali.
Egli è solo.
Solo sulla sua bicicletta.
Non pedala con un angelo appollaiato sulla spalla destra.
È un uomo.
Un «uomo» nel senso più moderno e scientifico della parola.
Bartali è un uomo nel senso antico, classico e anche metafisico della parola.
È un asceta che in ogni istante mortifica e dimentica il corpo, un mistico che confida soltanto nel proprio spirito e nello Spirito Santo.
Gino sa che, se il motore della Provvidenza perde anche un solo colpo, per lui può arrivare la disfatta.
Bartali prega pedalando.
Alza la testa solo per guardare al cielo.
Sorride ad angeli invisibili.
Fausto Coppi, invece, è un meccanico.
Crede solo al motore che gli è stato affidato, vale a dire al suo corpo.
Per tutta la tappa è lui a condurre: è solo lui, voglio dire, a condurre la macchina, il suo corpo.
Dalla partenza all’arrivo, dall’inizio alla fine della corsa, non smette un solo istante di tenere sotto controllo quel motore preciso, delicato e formidabile che è il suo corpo.
Pedala a testa bassa, gli occhi fissi su invisibili manometri.
Sa che una perdita d’olio, un semplice colpo in testa, un accesso di tosse del carburatore, la sincope di una candela possono costargli la vittoria.
Coppi non teme l’inferno: teme il secondo posto nell’ordine di arrivo.
Egli sa che Bartali forse arriverà per primo in paradiso.
Ma che gli importa? Fausto Coppi vuole arrivare primo sulla Terra.
Questi due atleti perfetti, fra i più grandi che esistano, sono tanto diversi fra loro quanto possono esserlo due diverse rappresentazioni del mondo, due modi diversi di concepire l’universo e l’esistenza.
Il duello fra questi due rivali, fra questi due nemici fraterni, è il più bello, il più puro, il più nobile al quale sarà mai dato di assistere.
Lo sport internazionale forse non vedrà mai più, l’uno di fronte all’altro, due campioni che incarnino a tal punto i due aspetti essenziali del mondo moderno.
Anche la differenza di età fra Bartali e Coppi può spiegare molte cose sulla loro rivalità.
Gino è nato nel 1914, Fausto nel 1919.
Bartali ha compiuto la prima parte della sua mirabile carriera sportiva prima della guerra del 1939.
Il primo exploit di Coppi risale al 1939.
Bartali è il campione di un mondo già scomparso, il sopravvissuto di una civiltà che la guerra ha ucciso: egli rappresenta quel romanticismo inquieto e inquietante che ha raggiunto l’apice fra le due guerre e perpetua nel mondo moderno lo spirito eroico della vecchia Europa.
Coppi è il campione del nuovo mondo partorito dalla guerra e dalla liberazione: egli rappresenta lo spirito razionale, scientifico, il cinismo, l’ironia, lo scetticismo della nuova Europa, l’assenza d’immaginazione delle nuove generazioni, il loro credo materialista.
In Bartali, nato da una famiglia di agricoltori toscani, prevale il contadino, con la sua mistica elementare, la sua fede in Dio, il suo attaccamento ai valori tradizionali della terra.
In Coppi prevale invece l’operaio, sebbene anche lui sia nato in una famiglia di contadini.
Ma mentre Bartali è passato dall’aratro alla bicicletta, Coppi, quando ha sposato la bicicletta, aveva già ripudiato la terra.
Bartali è figlio di una zona della Toscana che è rimasta contadina, Coppi di una zona del Piemonte in cui il contadino appariva già tinto di spirito «proletario».
Per essere ancora più preciso, aggiungo che Bartali proviene da una famiglia di mezzadri, Coppi da una famiglia di braccianti.
Fausto è un operaio, Gino un agricoltore.
Il «mistero » fisico di Bartali sarebbe inspiegabile se si dimenticasse che la virtù fondamentale dei contadini toscani è la resistenza, unita a un senso dell’economia, sia fisico sia morale, che diventa arte.
L’aspetto umano è più sviluppato in Bartali che in Coppi.
Bartali è un uomo, Coppi un robot.
Curzio Malaparte 12 maggio 2009
Papa e Islam: un dialogo senza ambiguità
Sul Monte Nebo, in Giordania, Benedetto XVI ha colto l’occasione per ribadire con solennità quanto ha peraltro già detto e scritto in molte occasioni.
Ha affermato con enfasi quanto speciale sia il rapporto fra cristianesimo e ebraismo, quanto «inseparabile» sia il vincolo che li unisce.
Forse non tutte le incomprensioni spariranno di colpo ma sono state poste le basi per un loro superamento.
Benedetto XVI ha parlato così agli ebrei ma anche, contestualmente, ai cristiani.
Ha voluto dire agli uni e agli altri che anche gli ultimi detriti sopravvissuti dell’antico antigiudaismo cristiano devono essere spazzati via senza indugio dalle coscienze.
Inoltre, la sua presenza in Israele oggi, nella condizione presente, vale più di mille riconoscimenti diplomatici.
E’ un’implicita affermazione del diritto all’esistenza dello Stato di Israele contro coloro che vorrebbero cancellarlo.
Altrettanto delicato, e forse anche più delicato, è il rapporto con l’islam.
E non solo a causa degli eventi che seguirono il discorso di Ratisbona.
E’ più delicato anche perché il Papa è impegnato in una assai difficile e complessa operazione che investe, al tempo stesso, la sfera religiosa e quella mondana.
Una operazione complessa che nasce dal riconoscimento, più volte ribadito da Benedetto XVI, che il rapporto fra il cristianesimo e l’islam è di natura diversa da quello che lega il cristianesimo e l’ebraismo.
Quella relazione speciale che c’è, e va riconosciuta, fra cristianesimo ed ebraismo, non c’è, non ci può essere, fra cristianesimo e islam.
Ciò che il Papa sta cercando di fare (un aspetto che era rimasto non chiarito, irrisolto, all’epoca del pontificato di Giovanni Paolo II, e anche in occasione del viaggio che quel Papa fece in Terra santa) è di togliere ogni ambiguità al dialogo con il mondo musulmano, in modo da renderlo davvero proficuo sgombrando il campo dai malintesi.
Ciò che il Papa vuol fare è di chiarire che fra cristianesimo e islam non ci può essere dialogo religioso (le due fedi sono, su questo terreno, inconciliabili) ma ci deve essere invece, fra cristiani e musulmani, un incontro inter-culturale e civile (un dialogo che potremmo anche definire laico).
Anche per ribadire questo il Pontefice è rimasto in meditazione ma non ha pregato durante la sua visita alla moschea Hussein.
E’ un modo, l’unico modo, per spazzare via equivoci e ipocrisie rendendo possibile il rispetto reciproco e un dialogo forse foriero di buone conseguenze per le persone, cristiani e musulmani, coinvolte.
In Giordania, per lo meno, il senso della presenza del Papa sembra essere stato compreso dagli islamici che lo hanno accolto.
Così come sono state comprese le parole che il Papa ha dedicato alla condanna della violenza ammantata di motivi religiosi.
Benedetto XVI, naturalmente, è stato attento a non mettere a carico del solo mondo islamico (oltre a tutto, ciò non sarebbe stato nemmeno veritiero) la tentazione e la pratica della violenza.
Ma è certo che le sue parole sulla violenza (così come quelle rivolte ai cristiani del Medio Oriente sul ruolo delle donne) rappresentano una sponda che il capo della cristianità ha offerto a quella parte del mondo islamico che patisce la violenza dei fondamentalisti ancor più di quanto la patiscano gli occidentali.
La presenza del Papa, e i suoi atti e le sue parole, sono assai dispiaciute ai fondamentalisti, nonché a quei personaggi ambigui, di confine (il più celebre dei quali è Tariq Ramadan), che circolano e predicano in Occidente.
Ed è un bene che sia così.
Il viaggio del Papa può aiutare l’azione degli uomini, musulmani, ebrei o cristiani, alla ricerca di una pacifica convivenza proprio perché ricorda a tutti quanta mistificazione ci sia nell’uso a scopi politici della religione e nella violenza che quell’uso porta sempre con sé.
Angelo Panebianco 11 maggio 2009 Non è la religione all’origine della divisione nel mondo, ma la sua “manipolazione ideologica, talvolta a scopi politici”.
Il Papa lo denuncia chiaramente durante l’incontro di sabato mattina, 9 maggio, all’esterno della moschea Al-Hussein Bin Talal di Amman, invitando tutti i credenti a “essere fedeli ai loro principi” per dare pubblica “testimonianza di tutto ciò che è giusto e buono”.
Benedetto XVI si rivolge in particolare a cristiani e musulmani: li esorta a liberarsi dal peso delle incomprensioni che hanno segnato secoli di “storia comune” e a riconoscere “la comune origine e dignità di ogni persona umana”.
Ma ricorda anche “l’inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebreo”.
E manifesta – durante il pellegrinaggio sul monte Nebo col quale si apre la seconda giornata della sua visita in Terra Santa – “il desiderio di superare ogni ostacolo che si frappone alla riconciliazione fra cristiani ed ebrei, nel rispetto reciproco e nella cooperazione al servizio della pace”.
Nelle parole del Pontefice si delinea così quel “dialogo trilaterale” tra le grandi religione monoteiste evocato venerdì mattina durante la conferenza stampa in volo verso Amman.
Un dialogo – aveva puntualizzato il Papa – che “deve andare avanti”, perché “è importantissimo per la pace e anche per vivere bene ciascuno la propria religione”.
Benedetto XVI loda perciò gli sforzi del regno hascemita per far sì che “il volto pubblico della religione rifletta la sua vera natura”, dando “un contributo positivo e creativo” a settori cruciali della vita civile, culturale, sociale.
E chiama cristiani e musulmani a promuovere “una maggiore conoscenza reciproca” e “un crescente rispetto sia per quanto abbiamo in comune sia per ciò che comprendiamo in maniera differente”.
Solo andando all'”essenziale del rapporto fra Dio e il suo mondo”, infatti, è possibile rispondere alla sfida di “coltivare il vasto potenziale della ragione” per il bene dell’intera umanità.
Così il Papa rilancia il discorso a lui caro della possibilità di un incontro fecondo tra fede e ragione.
In realtà – assicura – la prima non indebolisce ma purifica la seconda; anzi, le consente di “resistere alla presunzione di andare oltre i propri limiti”.
In questo modo “la ragione umana viene rinvigorita nell’impegno di perseguire il suo nobile scopo di servire l’umanità”.
E gli orizzonti della comprensione si allargano, permettendo alla libertà di esprimersi in sintonia con la verità.
Tutto ciò richiede speranza e, al tempo stesso, prudenza.
Cristiani e musulmani – dice Benedetto XVI – devono impegnarsi a “oltrepassare gli interessi particolari” per “servire il bene comune, anche a spese personali”.
Il Pontefice rimette sul tappeto la questione dei diritti umani fondamentali e avverte, in particolare, che il diritto alla libertà religiosa va oltre la questione del culto e include anche quello di un “equo accesso al mercato dell’impiego e alle altre sfere della vita civile”.
Di questi temi il Papa aveva fatto cenno anche nel precedente incontro all’università del Patriarcato latino a Madaba, sottolineando in particolare che “la fede in Dio non sopprime la ricerca della verità, al contrario l’incoraggia” e rafforza “la fiducia nel dono della libertà”.
Benedetto XVI aveva messo in guardia contro la tentazione di sfigurare la religione, mettendola al servizio di ignoranza, pregiudizi, violenza o abusi.
E aveva sottolineato la centralità della “sapienza religiosa ed etica” nella formazione dei giovani.
In questo senso – aveva affermato – le università devono garantire la “giusta formazione professionale e morale” per dare una solida base ai “costruttori di una società giusta e pacifica, composta di genti di varia estrazione religiosa ed etnica”.
Al termine della mattinata il pensiero del Papa va agli abitanti del vicino Iraq, molti dei quali hanno trovato accoglienza proprio in Giordania.
L’appello alla pace e alla riconciliazione si unisce, nelle sue parole, alla richiesta del “fondamentale diritto alla pacifica convivenza” per i cristiani.
Nel Paese vanno rimesse in piedi istituzioni e infrastrutture – ricorda – ma soprattutto va ricostruita la fiducia delle persone per il bene della società irachena.
(©L’Osservatore Romano – 10 maggio 2009) Benedetto XVI è giunto oggi a Tel Aviv dopo la sua prima tappa in Giordania.
Questo lungo viaggio in Terra santa del Papa avrà certamente ancora molti momenti salienti ma un primo bilancio è reso possibile dall’accoglienza che gli è stata fin qui riservata e dalle parole, forti e inequivocabili, che egli ha già pronunciato sui rapporti fra il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam.
Il viaggio del Papa è di estrema delicatezza.
Non solo perché si svolge nei luoghi che sono, oggi come mille anni fa, il terreno di incontro/scontro fra le tre religioni monoteiste.
E non solo perché è proprio lì, in Medio Oriente, che si addensano, si sovrappongono e si intrecciano i più gravi elementi di conflitto che minaccino oggi la stabilità mondiale.
E’ di estrema delicatezza anche perché il Papa vi è giunto preceduto da una lunga scia di polemiche e incomprensioni che hanno fin qui segnato i suoi rapporti sia con l’ebraismo che con l’islam.