Eluana un anno dopo

E’ semplice stare dalla parte giusta Amare la vita umana, difenderla, sostenerla e – comunque e sempre – accoglierla e rispettarla è la cosa più semplice di questo mondo.
E viene na­turale.
È naturale e umano proteggere chi è piccolo e fragile, aiutare chi è in pericolo, consolare chi sof­fre.
È naturale e umano dar da mangiare e da bere a chi non può provvedere da solo.
Innaturale e terri­bile è invece l’idea di negare, in qualunque modo, la vita di chiunque o anche solo di abbandonarla nel­la debolezza, nell’estrema dipendenza, nella diffi­coltà.
Innaturale e terribile è anche solo pensare di lasciar andare alla deriva una persona totalmente disabile.
Amare la vita è semplice.
E, infatti, sono le persone semplici che sanno farlo meglio.
Quei semplici che sono semplici perché – per quanto abbiano speri­mentato, per quanto abbiano studiato, per quanto abbiano indagato – hanno colto, e conservano, il sen­so di una verità basilare: ogni essere umano è « de­gno » e nessuna vita, mai, è padrona di un’altra vita.
Quando le cose, dentro di noi e nelle comunità di cui facciamo parte, sono così chiare, è facile capire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato.
Chi sta con la vi­ta – chi è per la vita – mai la ferisce e mai arbitraria­mente la finisce.
Chi coltiva un’idea di morte – chi si allea con la morte – fa l’esatto contrario.
Eppure, og­gi, c’è molto che sembra rendere incredibilmente ar­dua la comprensione di che cosa è giusto e di che co­sa è sbagliato.
E c’è chi tenta, in tutti i modi, di ren­derci difficile, addirittura impossibile, dire dei « sì » e dei « no » limpidi e chiari.
Per questo, oggi, a un anno dalla dolorosissima mor­te di Eluana Englaro « per disidratazione » , cioè per sete – così ha certificato l’autopsia –, ci sembra im­portante tornare a indicare a noi stessi e a tutti, con la necessaria chiarezza, l’esempio di coloro che, con dolcezza e sapienza umana e medica, amano e ser­vono la vita e non la negano.
Vi raccontiamo le suore Misericordine che nella ca­sa di cura ‘ Talamoni’ di Lecco continuano a offrire ai loro pazienti la stessa dedizione e la stessa fedeltà che diedero per 17 anni alla giovane donna in stato vegetativo persistente poi portata a morte a Udine.
E vi raccontiamo i medici che al Centro ‘ Cyclotron’ dell’Università di Liegi stanno dando nuove e sem­pre più impressionanti risposte scientifiche alle do­mande di chi non s’arrende e non dichiara perse e « senza qualità » le persone classificate in stato vege­tativo.
Facciamo parlare Lucrezia ed Ernesto Tresol­di che hanno riavuto il loro Massimiliano, dopo die­ci anni di asserito stato vegetativo «permanente» (ag­gettivo oggi abolito dagli uomini di scienza, tranne che da quelli superficiali o tenacemente pro- euta­nasia), perché l’amore aiuta i « miracoli » e quel figlio ferito e perso in una disabilità sconfortante loro non l’hanno mai voluto lontano dalle loro vite e da casa sua.
E diamo voce a tutte le altre famiglie toccate dalla durissima prova di una persona cara e presen­te chiusa in uno stato che la rende apparentemente o effettivamente « irraggiungibile » ( famiglie che non lasciano soli questi loro congiunti, ma che, troppe volte, sono lasciate drammaticamente sole dalle pub­bliche strutture di assistenza).
Questi sono gli esempi, i fatti.
E poi ci sono le chiac­chiere.
I digrignanti sofismi di chi vuol far credere che accudire i malati più gravi, i cosiddetti « senza spe­ranza » , sarebbe crudele.
Le algide polemiche di chi osa descrivere come una « violenza » le tenere cure prestate a chi non può badare a se stesso.
L’alterigia antidemocratica di chi invoca l’azione di « saggi ma­gistrati » per sovvertire le leggi che già stabiliscono (come la legge 40) o, si spera, stabiliranno presto (co­me la legge sulle dichiarazioni anticipate di tratta­mento) un limite di rispetto nella manipolazione della vita nascente e un dovere minimo di assisten­za degli inabili.
Le chiacchiere anche feroci di chi, in­somma, pretenderebbe di rovesciare il senso reale delle cose.
Fino a dichiarare « inumano » lo stare, sen­za esitazioni e senza accanimenti, semplicemente dalla parte della vita.
Parole cattive, ferrigne propagande che non valgo­no un attimo del tempo di ricerca e di cura del pro­fessor Laureys o del professor Dolce e neanche il più piccolo e umile dei gesti che compiono ogni giorno, a Lecco, suor Albina e le sue consorelle.
Parole cat­tive che vogliono rendere «morte» sinonimo di «li­bertà» , e perciò non sono e non saranno mai spec­chio dell’animo vero della gente.
Sono passati quasi due anni dall’inciden­te d’auto che prima l’ha condotta in fin di vi­ta e poi sprofondata nello stato vegetativo, ma Eluana chiama mamma Saturna, evoca l’im­magine cui ci si rivolge nel bisogno.
Nei due anni di ricovero a Sondrio mamma Saturna la raggiunge quotidianamente da Lecco, pur di restarle accanto e continuare a spiare in lei quei segnali che solo un genitore può cogliere, il movimento di un dito, un so­spiro più lungo…
Messaggi spediti dal profon­do di una coscienza nascosta, da sottolinea­re con trepidazione al medico di turno: «La madre riferisce, nel pomeriggio, la comparsa di movimenti spontanei di estensione del go­mito sinistro», era scritto qualche pagina pri­ma.
Ogni genitore resta sempre in attesa, scru­ta ed ascolta, aspetta una risposta che maga­ri arriverà tra vent’anni, stimola, chiama, ac­carezza, spera.
Così Eluana «saltuariamente esegue ordini semplici su comando della ma­dre», ad esempio «flessione dorsale dei piedi, flessione esterna delle ginocchia».
Poi quel­l’invocazione due volte ripetuta, e chissà co­me avrà rimbalzato sul cuore di Saturna do­po anni di silenzi: «Mamma, mamma».
Ha viaggiato molto, Eluana, nei 17 anni di ‘sonno’, di ospedale in ospedale, per brevi ricoveri, esami, riabilitazioni, e ogni volta – si legge – «nessun problema durante il trasferi­mento».
È tranquilla, non necessiterebbe nemmeno di farmaci antiepilettici, nessuna crisi, mai.
Il penultimo viaggio importante è quello che la porta a Lecco, dalle suore Mise­ricordine, dove la famiglia chiede che sia o­spitata perché è là che Saturna l’aveva parto­rita il 25 novembre del 1970, e là ora avrebbe potuto continuare ad assisterla, a due passi da casa.
La speranza non muore, specie se i me­dici a Sondrio hanno scritto che «a tratti fissa e sembra contattabile», o che «se adeguata­mente stimolata esegue ordini semplici», non un mignolo mosso, non un colpo di palpebra ma addirittura «la apertura e chiusura della mano sinistra»…
Fantasie di una madre che vede ciò che vuo­le vedere? No, osservazioni di medici e in­fermieri: «…Emetteva qualche vocalizzo, fis­sava e cercava di incrociare lo sguardo del­l’interlocutore ».
«Messa prona con appog­gio sui gomiti accettava la posizione», anche se poi «non riusciva a raddrizzare il capo».
« Sembra muovere le dita dei piedi su co­mando…
».
Alla fine, «considerata la giovane età della paziente e la continua evoluzione anche se lenta, si consiglia il prosieguo del trattamento riabilitativo».
La speranza non muore, ma ce ne vuole dav­vero tanta, e Saturna si ammala di dolore, le loro strade si separano.
Eluana è curata nella casa di cura delle Misericordine fino alla not­te tra il 2 e il 3 febbraio di un anno fa, quan­do il padre la fa trasferire a ‘La Quiete’ di U­dine, dove dovrà morire (un ricovero ufficial­mente finalizzato al suo «recupero funziona­le» e «alla promozione sociale dell’assistita»).
E durante il viaggio questa volta Eluana si di­batte, fino a espellere il sondino.
Ospedale di Sondrio, Divisione di Lun­godegenza, ore 4 del mattino del 15 ottobre 1993.
Eluana è in stato vege­tativo ‘permanente’ – come si diceva allora – da quasi due anni.
Nella sua stanza succe­de qualcosa: «La paziente ha cominciato a la­mentarsi facendo versi…», si legge nella ‘Do­cumentazione clinica’ che la riguarda (e rac­conta i 17 anni dall’incidente alla morte).
Non è un’eccezione che Eluana emetta suoni, so­spiri, gemiti, le accade da due anni e lo farà per altri 15, fino al giorno prima della morte a ‘La Quiete’ di Udine.
Ma quella notte non si placa, forse appare più agitata del solito, forse ha accanto un’infermiera più attenta, forse lì con lei è rimasta sua madre, non lo sappiamo.
Fatto sta che Eluana continua a ‘lamentarsi’, come volesse dire qualcosa, e chi è lì la incoraggia, porge l’orecchio a quei ‘versi’, finché – è scritto nella cartella clinica – «stimolata a dire la parola ‘mamma’ è riu­scita a dirla due volte, in modo comprensibi­le».
Sono passati quasi due anni dall’inciden­te d’auto che prima l’ha condotta in fin di vi­ta e poi sprofondata nello stato vegetativo, ma Eluana chiama mamma Saturna, evoca l’im­magine cui ci si rivolge nel bisogno.
Nei due anni di ricovero a Sondrio mamma Saturna la raggiunge quotidianamente da Lecco, pur di restarle accanto e continuare a spiare in lei quei segnali che solo un genitore può cogliere, il movimento di un dito, un so­spiro più lungo…
Messaggi spediti dal profon­do di una coscienza nascosta, da sottolinea­re con trepidazione al medico di turno: «La madre riferisce, nel pomeriggio, la comparsa di movimenti spontanei di estensione del go­mito sinistro», era scritto qualche pagina pri­ma.
Ogni genitore resta sempre in attesa, scru­ta ed ascolta, aspetta una risposta che maga­ri arriverà tra vent’anni, stimola, chiama, ac­carezza, spera.
Così Eluana «saltuariamente esegue ordini semplici su comando della ma­dre», ad esempio «flessione dorsale dei piedi, flessione esterna delle ginocchia».
Poi quel­l’invocazione due volte ripetuta, e chissà co­me avrà rimbalzato sul cuore di Saturna do­po anni di silenzi: «Mamma, mamma».
Ha viaggiato molto, Eluana, nei 17 anni di ‘sonno’, di ospedale in ospedale, per brevi ricoveri, esami, riabilitazioni, e ogni volta – si legge – «nessun problema durante il trasferi­mento».
È tranquilla, non necessiterebbe nemmeno di farmaci antiepilettici, nessuna crisi, mai.
Il penultimo viaggio importante è quello che la porta a Lecco, dalle suore Mise­ricordine, dove la famiglia chiede che sia o­spitata perché è là che Saturna l’aveva parto­rita il 25 novembre del 1970, e là ora avrebbe potuto continuare ad assisterla, a due passi da casa.
La speranza non muore, specie se i me­dici a Sondrio hanno scritto che «a tratti fissa e sembra contattabile», o che «se adeguata­mente stimolata esegue ordini semplici», non un mignolo mosso, non un colpo di palpebra ma addirittura «la apertura e chiusura della mano sinistra»…
Fantasie di una madre che vede ciò che vuo­le vedere? No, osservazioni di medici e in­fermieri: «…Emetteva qualche vocalizzo, fis­sava e cercava di incrociare lo sguardo del­l’interlocutore ».
«Messa prona con appog­gio sui gomiti accettava la posizione», anche se poi «non riusciva a raddrizzare il capo».
« Sembra muovere le dita dei piedi su co­mando…
».
Alla fine, «considerata la giovane età della paziente e la continua evoluzione anche se lenta, si consiglia il prosieguo del trattamento riabilitativo».
La speranza non muore, ma ce ne vuole dav­vero tanta, e Saturna si ammala di dolore, le loro strade si separano.
Eluana è curata nella casa di cura delle Misericordine fino alla not­te tra il 2 e il 3 febbraio di un anno fa, quan­do il padre la fa trasferire a ‘La Quiete’ di U­dine, dove dovrà morire (un ricovero ufficial­mente finalizzato al suo «recupero funziona­le» e «alla promozione sociale dell’assistita»).
E durante il viaggio questa volta Eluana si di­batte, fino a espellere il sondino.

Il Dottore Angelico

Nacque sotto Papa Onorio III (1216-1227), quando Federico II, figlio di Enrico II, svevo, e di Costanza d’Altavilla, normanna, era imperatore di Germania e Italia e re di Sicilia.
Esponente della nobiltà germanica era il padre di Tommaso, figlio di Francesca di Svevia sorella di Federico Barbarossa, mentre da una casata di principi normanni di Sicilia discendeva la madre Teodora.
 L’intreccio tedesco/normanno accomuna il rappresentante del Sommo potere e quello della Somma teologia:  Eusebio di Cesarea avrebbe letto questa coincidentia come segno della provvidenza divina, analogo a quello della nascita di Gesù sotto Augusto, al sorgere di quell’impero che Costantino avrebbe sacralizzato.
“Segni” del suo futuro compaiono già prima della sua nascita:  un eremita esorta Teodora, prossima al parto, a rallegrarsi perché il nascituro nella vita avrebbe brillato di tale sapienza e santità, che nessuno l’avrebbe eguagliato:  “Buono di nome ma più buono ancora per la vita santa”.
È il dodicesimo figlio – anche la numerologia ha un rilievo – come Beniamino, il figlio più amato da Giacobbe, dalla cui tribù discese l’Apostolo delle genti.
Troveremo analogia tra alcuni episodi della vita di Paolo e quella di Tommaso.
Un segno nel cielo, secondo una fonte tarda, fa coincidere la nascita del santo nello stesso giorno di Ambrogio di Siena e Iacopo di Bevagna:  in pieno giorno a Bevagna si videro tre mezze lune con assisi i tre dottori mentre i bambini gridavano ad scholas, annunciandone la grandezza.
Il segno, di stampo cristologico come la cometa su Betlemme, è predizione che Tommaso avrebbe abbandonato l’ordine benedettino per entrare in quello domenicano.
Ancora, Tommaso ha pochi mesi e una tempesta si abbatte sul castello di Roccasecca.
Un fulmine colpisce il torrione, proprio nella stanza dove dorme il piccolo con una domestica e la sorellina, che resta uccisa, mentre Tommaso rimane incolume.
Il fulmine poi raggiunge la stalla uccidendo i cavalli.
Il padre di Tommaso, leggendo l’evento come un segno divino, affida il figlio come oblato ai benedettini del vicino monastero di Montecassino.
La simbologia è duplice, l’incolumità che preserva l’uomo di Dio e il complesso segno dei cavalli uccisi.
Diretto a Damasco a perseguitare i cristiani, dal fulmine è colpito Paolo che cade da cavallo divenendo da soldato in armi cavaliere spirituale di Cristo.
Anche a Tommaso è indicata la via di una milizia mistica e di sapienza insieme alla rinuncia alla superbia e all’onore mondano, di cui il cavallo è figura secondo Agostino.
Lo confermano alcuni episodi.
Per fargli indossare le vesti di monaco benedettino o di nobile cavaliere e impedire la sua adesione all’ordine domenicano, il padre ridurrà a brandelli il suo abito, ma Tommaso si riavvolgerà nelle sue vesti lacere lieto di subire quell’ingiuria in nome di Cristo.
Rinuncerà anche all’ordinazione di arcivescovo di Napoli offertagli da Clemente IV, preferendo la vita monacale a onori e ricchezze.
Invitato a cena da re san Ludovico insieme al priore, nel periodo della sua lotta contro il manicheismo, durante il convito batte ripetutamente la mano sul tavolo, continuando a pensare e a parlare dell’eresia, dimenticandosi, novello san Martino, di essere alla corte di un re.
D’altronde, l’ingresso nella sua ultima dimora, l’abbazia di Fossanova, avviene non a cavallo, ma in groppa a un asino, a perfetta imitazione di Cristo, che entra trionfalmente in Gerusalemme per esservi crocifisso, come il martire e vescovo Policarpo in groppa a un asino è condotto al martirio.
Tommaso avrebbe pronunciato queste parole:  “Se il Signore verrà a prendermi, è meglio che mi trovi in una casa di religiosi che in un castello”.
Il cavallo ha anche simbologia positiva:  Girolamo e Ambrogio rappresentano la quadriga della virtù che conduce al cielo, le virtù cardinali con cui Orcagna personifica il santo (Santa Maria Novella, Firenze).
Nella storia di Tommaso appare anche il “segno” del libro ingoiato.
Ancora in fasce è ai bagni pubblici di Napoli, dove la madre l’ha condotto perché le truppe papali hanno invaso Roccasecca.
Tommaso stringe nella manina un pezzetto di pergamena e lo porta alla bocca.
Invano la nutrice cerca di aprirgli il pugno chiuso e deve immergerlo nell’acqua con quella carta nella mano.
Quando la madre riesce a farsi dare la pergamena vede che vi è scritta l’Ave Maria.
Fonti più tarde raccontano che il bambino ingoiò la pergamena.
Tommaso, come Giovanni nell’Apocalisse, ingoia il libro, dolce come il miele nella bocca e amaro come il fiele nello stomaco.
In lui entra la sapienza del Verbo incarnato in Maria, con le verità dolci per chi crede e amare per gli increduli.
Con la benedizione della Vergine, quasi a ricevere un secondo battesimo, Tommaso è immerso nell’acqua in modo prodigioso.
Il santo è tale fin dalla nascita, è puer senex, bambino senza infanzia, secondo la definizione di Curtius:  Tommaso rifiuta il divertimento dell’acqua per tenere stretta la pergamena, come Antonio non frequentava i coetanei per recarsi in chiesa, come Ilario dalla culla alzava le due piccole dita per benedire e come Ambrogio da piccolo giocava a fare il vescovo.
Fin da bambino, Tommaso avrebbe dato prova di carità.
La famiglia era solita recarsi a Chieti nella stagione autunnale.
Una tradizione locale lo descrive mentre distribuisce pane ai poveri.
Uscito dalla dispensa col grembo colmo di scorte, si imbatte nel padre che severamente gli impone di aprire la veste, da cui il pane era prodigiosamente scomparso per lasciare il posto a petali e fiori, medesimo miracolo attribuito alla contemporanea santa Zita.
Il pane è il simbolo della carità, dell’eucaristia, di Gesù vita disceso dal cielo (Giovanni, 6, 15) partorito da Maria, secondo gli apocrifi da bambina nutrita da cibo angelico e nel Cantico dei Cantici sposa di Cristo nel giardino fiorito.
La pergamena ingoiata e il pane tramutato in fiori si chiariscono nella simbologia mariana.
Alla vocazione dei santi spesso si oppongono uno o entrambi i genitori, fin nei primi Atti dei Martiri, quando il cristianesimo era oppresso dal paganesimo, e poi in successive realtà storico-geografiche in fase di evangelizzazione.
È il caso di Martino e dell’ostilità del padre che voleva per il figlio il successo della carriera militare.
Analogo il caso di Tommaso, che però sceglie di abbandonare un ordine, quello benedettino filoimperiale, per quello dei mendicanti-predicatori.
Il santo è figura eccezionale e il suo essere straordinario sorge in primo luogo dal modo in cui emerge in un gruppo di appartenenza:  Martino è un soldato, Benedetto è studente, Ambrogio è magistrato.
Quando cresce il desiderio della virtù, il santo lascia questo gruppo, vi ritornerà dopo avere superato una prova.
Antonio apre la porta della tomba in cui si era rinchiuso e rientra nel mondo, Martino e Ambrogio sono chiamati all’episcopato, Benedetto entra in una nuova comunità, come Tommaso, dopo la prova della prigionia.
Si trovava bene nell’abbazia di Montecassino ma, verso i quattordici anni, fu costretto a lasciarla, perché nel 1239 fu occupata dalle truppe di Federico ii, allora in contrasto con il Papa Gregorio ix, che scacciò tutti i monaci.
L’abate accompagnò personalmente l’adolescente Tommaso dai genitori, raccomandando loro di farlo studiare presso l’università di Napoli, allora sotto la giurisdizione dell’imperatore.
A Napoli conobbe, nel vicino convento di san Domenico, i frati predicatori e restò conquistato dal loro stile di vita e dalla loro profondità dottrinale; quasi ventenne, decise di entrare nell’Ordine domenicano, nel 1244; i suoi superiori, intuito il talento del giovane, decisero di mandarlo a Parigi per completare gli studi.
La scelta provocò l’ira dei suoi familiari, soprattutto della madre Teodora, rimasta vedova, che riponeva in Tommaso speranze per gestire gli affari del casato.
Teodora chiese all’imperatore di dare una scorta ai figli, ufficiali nell’esercito, perché questi potessero bloccare Tommaso, già in viaggio verso Parigi, con il padre generale dell’ordine, Giovanni di Wildeshausen detto il Teutonico.
Viene fermato e praticamente rapito dai fratelli nei pressi di Acquapendente; ritrovato in un prato, presso una fonte, è strappato dal locus coelestis della vita monacale per essere rinchiuso nel locus horridus del castello di Monte San Giovanni, di proprietà della famiglia.
Il sequestro dura un anno, durante il quale la famiglia cerca in tutti i modi di farlo desistere da una scelta ritenuta non consona alla dignità della casata:  arriva a introdurre nella sua cella una fanciulla vestita con abiti provocanti.
Tommaso scaccia fuori della stanza la prostituta con un tizzone ardente, e disegna il segno della croce sulla parete con la punta annerita.
Prostrato a terra, prega il Signore di preservare la sua castità:  appaiono due angeli che gli stringono una stretta cintura ai reni.
Come Gesù, il santo è assalito e resiste alle tentazioni; l’archetipo della seduzione femminile è, nella Vita Antonii, uno dei tanti travestimenti del demonio.
Dopo due anni, temendo l’ira del Signore, la madre infine cede, in coincidenza anche con la deposizione di Federico ii (17 luglio 1245), e consente ai domenicani di riprendersi Tommaso, che viene fatto fuggire, calato dalla finestra in una cesta.
È condotto a Napoli dove prende i voti monastici e da qui a Roma.
La fuga è un tòpos paolino:  l’apostolo, venuto a conoscenza della congiura ordita contro di lui dagli ebrei di Damasco, nottetempo viene fatto calare dalle mura dai cristiani suoi amici in una cesta (II Corinzi, 11, 32-33).
I precedenti veterotestamentari sono nella fuga dei due ebrei inviati da Giosuè come spie a Gerico, aiutati dalla prostituta Raab, e in Davide, ricercato a morte da Saul, fatto fuggire da Mikal.
Studente a Colonia, alla scuola di Alberto Magno (Dante, Paradiso, x, 97-99, “frate e maestro fummi”; Beato Angelico, Scuola di Alberto Magno, ritratto ai piedi del maestro), suscita la curiosità dei compagni.
C’era una certa attesa nei confronti di questo ragazzo del sud che aveva combattuto per farsi domenicano.
Racconta Guglielmo di Tocco che divenne straordinariamente silenzioso, assiduo nello studio, devoto nella preghiera.
I confratelli cominciarono a chiamarlo “bue muto”, ignorando ancora l’irrompente muggito e l’armonia del canto teologico della sua dottrina.
È un caso di nomen/omen.
Il referente testamentario è I Corinzi, 9, 9 (Deuteronomio, 25, 4):  non mettere la museruola al bue che trebbia, che già nei primi Padri della Chiesa significa che non si possono mettere a tacere gli Apostoli e tutti coloro che annunciano la verità.
Si cercò di farlo tacere, quando a Parigi, a causa della contestazione degli ordini mendicanti, fu scacciato dall’università insieme a san Bonaventura.
Tommaso continuò a predicare e a scrivere fino a quando Papa Alessandro non ricompose la controversia.
“Bue muto” è dunque nomen del silenzioso rimuginare del lògos da parte di Tommaso (la pergamena ingoiata) che avrebbe proferito una delle più alte parole teologiche.
Conversava con gli Apostoli, così testimonia un altro episodio.
Immerso nella comprensione di un difficile passo di Isaia, restò per tre giorni digiuno e in preghiera.
Cominciò quindi a dettare il suo commento con una rapidità eccezionale, mentre sembrava parlare con qualcuno:  riferì che Pietro e Paolo e la Vergine gli avevano suggerito l’interpretazione di passi oscuri.
Dunque l’epiteto indica la santità della sua parola ispirata:  san Bonaventura, entrato nello studio di Tommaso mentre scriveva, vide la colomba dello Spirito accanto al suo volto.
Ultimato il trattato sull’eucaristia, lo depose sull’altare davanti al crocifisso per ricevere dal Signore un segno.
Subito fu sollevato da terra e udì le parole:  Bene scripsisti, Thoma, de me quam ergo mercedem accipies? E rispose Non aliam nisi te, Domine.
Anche Paolo fu rapito al terzo cielo, e poi Antonio e tutta una serie di santi fino a Caterina; il volo, il levarsi in aria indica la vicinanza con il cielo e con Dio, con archetipo nelle figure di Enoch e Elia.
Nonostante le precarie condizioni di salute, Tommaso ricevette l’ordine di recarsi al Concilio che si sarebbe aperto a Lione per la riconciliazione fra Chiesa greca d’Oriente e la Chiesa di Roma.
Dovette fermarsi al monastero cistercense di Fossanova.
Già sul letto di morte volle lasciare ai fratelli una expositio sul Cantico dei cantici.
Quando arrivò al commento del versetto veni, dilecte mi, esalò l’anima (7 marzo 1274), come Gesù, come tutti i santi, Tommaso muore recitando la Scrittura.
Un religioso vide l’apostolo Pietro sollevare  in  cielo Tommaso (Zurbaran, Trionfo di san Tommaso, Siviglia); sant’Alberto Magno, che si trovava a tavola nel convento di Colonia, in lacrime ne annunciò la morte.
Ritroviamo lo stesso episodio nella Vita Antonii:  l’eremita percepì la morte del monaco Paolo a molte miglia di distanza.
Le ricognizioni delle reliquie di Tommaso portano alla luce un corpo pressoché intatto che emana quel profumo di fiori caratteristico già della prima letteratura agiografica, simbolo delle virtù, della santità, della partecipazione del santo allo spirito divino.
L’inviolabilità è il segno visibile dell’incontro tra divino e umano, dimensione sacrale che ha come referente centrale l’incarnazione-morte-resurrezione del Verbo.
Come uno dei miracoli in vita, la guarigione dell’emorroissa, anche i miracoli di Tommaso post mortem sono cristologici (restituisce la vista al cieco e la vita al morto, libera molti indemoniati).
Guglielmo di Tocco, riferendosi ai numerosi prodigi avvenuti attraverso la reliquia della mano di Tommaso afferma che quella mano, con il dito dell’intelletto, aveva aperto il libro ricevuto da Colui che siede alla destra del trono:  la pergamena ingoiata dal piccolo Tommaso aveva restituito la Parola divina.
(©L’Osservatore Romano – 28 gennaio 2010) Èdifficile presentare una breve biografia di Tommaso.
Le fonti sono spesso contraddittorie e il santo, al contrario di Agostino, non parla quasi mai di sé, tranne alcuni cenni.
Ma sfogliando la fonte principale e altre più tarde (Guglielmo di Tocco, Historia beati Thomae de Aquino; Raimondo Spiazzi, Vita di san Tommaso d’Aquino.
Biografia documentata, 1995), appare una costellazione di segni della sua futura santità.
Cominciamo dai suoi natali:  patria, stirpe, educazione sono i tre elementi nodali delle biografie pagane, i cui valori sono destrutturati nella vita di un santo, il cui modello, come già quello del martire, è Gesù, figlio di un falegname, che ha nobilitato e eletto a popolo di Dio proprio i diseredati e gli umili.
Tommaso è però monaco e nobile, unendo l’antico esempio cenobitico a quello tardo e celebrativo di epoca merovingia e carolingia.

2012? Non è mica la fine del mondo

Faremo la stessa fine dei dinosauri? Forse sì.
Ma tranquilli, non nel 2012.
Perciò nessun credito a “improbabili pronostici” o “previsioni” del futuro già stigmatizzati da Benedetto XVI.
La rassicurazione arriva da fratel Guy Consolmagno, astronomo della Specola Vaticana, che di transiti celesti se ne intende, eccome.
Il viso incorniciato da capelli e barba d’altri tempi, questo gesuita statunitense unisce il rigore dello studioso a uno spiccato senso della notizia – ci ha confidato che da giovane provò a fare il giornalista – e alla fede salda dei discepoli di Ignazio di Loyola.
Da lui una lezione ai profeti di sventura che in tempi di crisi fanno affari d’oro:  il colossal 2012 sbanca al botteghino e i nefasti pronostici attribuiti al calendario degli incolpevoli maya hanno riacceso i riflettori sul tema della fine del mondo.
Lo abbiamo raggiunto a Tucson, dove ha trascorso le giornate natalizie tra l’università dell’Arizona e l’osservatorio sul Monte Graham, con l’avveniristico telescopio vaticano a tecnologia avanzata.  L’intervista Che atmosfera si respira da quelle parti? Il Natale qui presenta quelle caratteristiche comuni che conosciamo e amiamo in tutto il resto del mondo…
ma senza la neve.
Io sono cresciuto nel Michigan, proprio vicino al lago canadese Huron, con molta neve e inverni freddi.
Lo stesso clima l’ho ritrovato sul Monte Graham, a 3.200 metri di altitudine, dove ho trascorso la settimana prima di Natale presso il nostro telescopio con la temperatura che ha quasi raggiunto il gelo e il suolo ricoperto di neve.
Come vive la gente il Natale in Arizona? Qui c’è la tradizione della “luminaria”:  candele poste in piccoli involucri di carta, appesantiti da sabbia, che illuminano le strade la sera.
Il giorno di Natale ho partecipato alla messa in una comunità di monache benedettine.
Il celebrante indossava una stola speciale fatta da una donna Navaho e decorata con immagini di stelle e pianeti.
Poi ho fatto visita a numerosi amici e ho assaggiato cibi tradizionali delle varie culture che formano l’America:  äbleskivers danesi, tamales messicani, mincemeat pies inglesi.
Siamo alla vigilia dell’Epifania.
Cosa può dirci oggi l’astronomia della stella che duemila anni fa guidò i magi e i pastori alla grotta di Betlemme? Di certo non sappiamo cosa videro i pastori o i magi nel cielo.
I Vangeli sono molto più interessati a raccontarci di Gesù che a insegnarci l’astronomia.
Forse si trattò di un avvenimento del tutto miracoloso, senza paragoni nell’astronomia comune; o forse di racconti che vogliono rappresentare ed enfatizzare l’evento dell’Incarnazione che ha scosso l’universo.
Oppure, ancora, si è verificato qualche raro fatto astronomico che è coinciso divinamente con la nascita di Gesù.
Ma qualcuno avvistò la cometa? I pastori erano persone semplici che conoscevano le stelle solo perché le vedevano in cielo, ma non erano interessati a calcolare i loro movimenti.
Per converso, si può presumere che i magi fossero astronomi e avessero la capacità di calcolare e prevedere le posizioni dei pianeti.
Tuttavia, in quanto studiosi della loro epoca, pensavano che i movimenti planetari fossero in qualche modo collegati con gli eventi umani, il che li rendeva anche degli astrologi.
Di certo, i pastori potrebbero non aver visto nel cielo le stesse cose dei saggi.
Le Scritture ebraiche proibivano, in modo categorico, qualsiasi tentativo di predire la fortuna mediante l’astrologia.
E questo potrebbe quindi anche spiegare perché la stella, qualunque fosse, non fu “interpretata” a Gerusalemme come la nascita di un re.
A questo proposito, c’è anche chi periodicamente propone di spostare le lancette e “rimettere” l’ora esatta del Natale.
Gli studiosi moderni riconoscono che è leggermente errata la numerazione degli anni a partire dalla nascita di Gesù – il nostro anno Domini – fatta da Dionigi il Piccolo, nel VI secolo.
Basandoci sui Vangeli possiamo collocare la Natività alcuni anni prima dell’anno 4 avanti l’età cristiana, data considerata coincidente con la morte del re Erode.
Parimenti, il riferimento ai pastori che curano le greggi all’aperto di notte implica che essa possa essere forse avvenuta in primavera.
Di altro non possiamo essere certi.
Quindi tutti i fenomeni verificatisi in quel periodo potrebbero essere la stella di Betlemme? Secondo alcune ipotesi si trattò di una cometa, di una nova o di una supernova, oppure di una congiunzione di pianeti particolarmente luminosa.
In realtà, nelle nostre registrazioni nel periodo coincidente con la nascita di Gesù non è emerso un dato univoco; ma queste non sono del tutto esaustive e vi sono altri indizi annotati da astronomi cinesi che potrebbero essere presi in considerazione.
Esistono diverse possibili congiunzioni dei pianeti Saturno e Giove o di quest’ultimo con la stella Regulus, ma non sono così insolite ed è difficile considerarle un evento tale da attrarre astrologi dall’Oriente.
Altre teorie plausibili? C’è quella suggestiva dell’astronomo Michael Molnar, che suggerisce come la “stella d’Oriente” possa essere una congiunzione di pianeti che sorgono con il sole, una cosiddetta levata eliaca.
Egli sottolinea che il 17 aprile dell’anno 6 avanti l’era cristiana i pianeti Venere, Saturno, Giove e la Luna sorsero tutti poco prima del Sole, raggiunti subito dopo da Marte e da Mercurio, al centro della costellazione dell’Ariete.
Molnar ipotizza che ciò potrebbe aver implicato per gli esperti del tempo la nascita di un re, da qualche parte vicino alla Siria.
In tal caso, comunque, non si sarebbero veramente visti i pianeti, ma solo un astrologo molto capace sarebbe stato in grado di calcolarne le posizioni e ricavare un significato.
Non c’è consenso fra astronomi o storici.
Ogni teoria ha i propri ferventi sostenitori e oppositori.
Non sapremo mai la verità con certezza.
E questo è il bello.
Allora ci viene in soccorso la fede.
Il messaggio più profondo della storia dei magi è che la nascita di Gesù ha avuto un significato cosmico.
Per mezzo della sua Incarnazione, Dio non solo redime le anime umane, ma – come disse sant’Atanasio – “purifica e rinvigorisce” tutto il creato.
Si può essere condotti a Dio dallo studio della sua creazione.
Quindi l’impresa stessa di uno scienziato, che cerca la verità nel mondo fisico, è un compito sacro e santo.
“Fides et ratio”, fede e ragione.
Che rapporto ha un teologo come Benedetto XVI con l’astronomia? Tutti i Pontefici più recenti hanno sostenuto la nostra opera presso la Specola, ma il sostegno di Papa Ratzinger è stato speciale.
Nel suo discorso all’Angelus del 21 dicembre 2008 è stato forse il primo leader mondiale a riconoscere e a salutare l’Anno internazionale dell’astronomia.
Nell’omelia per la solennità dell’Epifania del 2009 vi ha fatto di nuovo riferimento.
Il successivo 30 ottobre ci ha reso onore rivolgendo un discorso a un incontro internazionale di astronomi.
Un’attenzione di cui lei ha fatto esperienza diretta.
Per quanto mi riguarda, la prova più concreta del suo interesse per l’astronomia è la nuova sede della Specola nei giardini di Castel Gandolfo, che è stata inaugurata da Benedetto XVI il 16 settembre scorso.
Per una felice coincidenza la visita è avvenuta proprio 75 anni dopo il trasferimento della Specola – voluto dal suo predecessore Pio xi – dall’interno della Città del Vaticano alla residenza pontificia estiva a Castel Gandolfo.
Cosa resterà dell’Anno dell’astronomia che si conclude proprio in questi giorni? È stato un anno molto impegnativo, scandito da numerosi appuntamenti:  dall’inizio a Parigi, fino alle cerimonie conclusive in programma a Padova il 9 e il 10 gennaio prossimi. Tra i più seguiti dal grande pubblico:  la visita guidata in rete al nostro telescopio nell’Arizona meridionale nel corso di un avvenimento denominato “Il giro del mondo in ottanta telescopi”, la serie podcast “I 365 giorni dell’astronomia” e la mostra “Astrum 2009” ai Musei vaticani che proseguirà fino al 16 gennaio.
Insomma, dodici mesi di febbrile attività.
Fra le tante iniziative sono stato particolarmente impegnato nella pubblicazione del libro The heavens proclaim – in italiano L’infinitamente grande – che descrive l’opera della Specola e la storia del sostegno pontificio all’astronomia.
Si tratta di un coffee-table book, un volume in edizione pregiata con immagini magnificamente riprodotte dalla Libreria Editrice Vaticana.
Ora lo stiamo facendo tradurre in altre lingue, perché grazie a quest’opera gli sforzi promozionali proseguiranno ovunque nel mondo anche dopo la fine dell’Anno dell’astronomia.
Quali sono state le maggiori acquisizioni scientifiche in questo periodo? In genere deve trascorrere molto tempo prima di sapere qual è stata la più importante scoperta dell’anno.
Abbiamo bisogno di una certa prospettiva per vedere cosa è stato davvero importante e cosa si è rivelata una falsa pista.
Ci potrebbero volere anni di lavoro per poter apprezzare ciò che abbiamo osservato quest’anno.
Qualche esempio? Consideriamo la scoperta, nell’ottobre 2008, proprio al di sopra dell’atmosfera della Terra, di un piccolo asteroide che siamo riusciti a seguire fino a quando ha colpito il deserto del Sudan settentrionale.
Quest’anno, abbiamo completato e pubblicato i risultati scientifici del rinvenimento dei pezzi nel deserto e della comparazione fra le differenti osservazioni dell’oggetto durante la sua caduta.
Secondo me, si è trattato di uno dei risultati più entusiasmanti nell’astronomia planetaria del 2009, anche se l’evento in sé si è verificato l’anno precedente.
Invece noi profani pensavamo all’acqua sulla Luna…
Quella è stata una scoperta particolarmente eccitante:  un veicolo spaziale inviato dall’India nell’orbita intorno al satellite ha trovato negli spettri a infrarossi riflessi dalla superficie la prova dell’esistenza di tracce di acqua.
Questo rilevamento è stato confermato quando gli scienziati hanno riesaminato gli spettri misurati da un altro veicolo spaziale passato vicino alla Luna l’anno precedente.
Ma attenzione:  la quantità rilevata dal veicolo di passaggio nella polvere della superficie è soltanto una goccia d’acqua per ogni litro di pulviscolo lunare.
Tuttavia, pare ci sia un po’ più di acqua sepolta nei crateri in ombra delle regioni polari della Luna.
Acqua sufficiente ad alimentare futuri insediamenti umani? Probabilmente sì.
Abbiamo ipotizzato che l’acqua potesse essere intrappolata in queste regioni che sono estremamente fredde, perché non sono mai esposte al sole, ma è stato rassicurante trovarla veramente lì, dopo aver fatto schiantare un veicolo in uno di quei crateri e aver osservato il materiale che fuoriusciva alla luce del sole.
Una buona notizia, specie in caso di evacuazione forzata del pianeta.
Del resto film, oroscopi e libri ci ricordano di continuo che dobbiamo prepararci al peggio.
Gli uomini predicono la fine del mondo fin dagli albori dell’umanità.
Finora, nessuna di queste teorie si è rivelata vera.
Non c’è alcun motivo di credere che lo siano quelle relative al 2012.
Ma mentre è facile ridere di queste sciocche paure, c’è un male più serio dietro di esse:  queste credenze proliferano perché noi tutti siamo tentati dal desiderio di possedere una “conoscenza segreta” del futuro, come se ciò ci rendesse più potenti degli altri.
In realtà questo è solo un segnale di cattiva scienza o di cattiva religione.
Ma l’astronomia può prevedere il futuro senza degenerare nell’astrologia? Direi di sì, ma solo nel senso che l’osservazione dei fenomeni celesti permette di ipotizzare possibili catastrofi di cui dovremmo essere consapevoli.
Del resto comete e asteroidi colpiscono continuamente la Terra.
In che senso “continuamente”? Vuol forse iscriversi alla scuola delle cassandre? Per la maggior parte si tratta di corpi piccoli che passano inosservati, ma un grande evento come quello verificatosi nel 1908 in Siberia, nei pressi di Tunguska, causando un’esplosione paragonabile a quella di una bomba atomica, può accadere una volta ogni cento anni.  Quindi per la legge dei grandi numeri…
Finora gli impatti si sono verificati negli oceani o su terre disabitate, ma prima o poi uno di questi corpi colpirà un’area più densamente popolata.
Da una parte, gli impatti più comuni sono i più piccoli, ma dall’altra sono anche quelli più difficili da rilevare prima che si verifichino.
Non è che rischiamo di fare la fine dei dinosauri e non ce ne rendiamo conto? Un impatto dell’entità di quello che spazzò via i dinosauri 65 milioni di anni fa probabilmente avviene soltanto una volta ogni cento milioni di anni.
Allora perché affannarci con telescopi sempre più sofisticati? Possiamo starcene tranquilli per milioni di anni…
Indipendentemente dalla rarità del fenomeno, vale sempre la pena scrutare i cieli e cercare di determinare se qualcuno dei centomila asteroidi conosciuti può incrociare l’orbita della Terra nel futuro prevedibile.
Significa anche che vale la pena impiegare il nostro tempo per comprendere in che modo questi asteroidi e queste comete sono composti, per poter meglio capire come deviarli nel caso dovessero entrare in rotta di collisione con il nostro pianeta.
Comunque prima di preoccuparci di minacce esterne, forse faremmo meglio a preservare la terra dalle devastazioni prodotte dall’uomo.
Di sicuro.
Ma il discorso è complesso.
Man mano che le aree urbane divengono maggiormente affollate dipendiamo sempre di più dalla tecnologia per sopravvivere.
I sistemi idrici e quelli di trattamento delle acque, l’elettricità, il trasporto pubblico sono tutti necessari a tenerci al caldo, nutriti e in salute.
In definitiva dipendiamo gli uni dagli altri.
Non possiamo vivere egoisticamente perché, di fatto, siamo i custodi dei nostri fratelli.
Lo stesso Benedetto XVI ha dedicato la recente Giornata mondiale della pace al tema “Se vuoi la pace, custodisci il creato”.
Il Papa è consapevole che possiamo causare o impedire disastri ambientali a seconda del modo in cui trattiamo la Terra.
Purtroppo, il tema del riscaldamento globale è stato politicizzato e troppi assumono posizioni estreme o basate su motivazioni che prescindono dalla scienza.
È vero che oltre all’attività umana molti fattori possono causare il riscaldamento globale, ma gli unici che possiamo controllare sono quelli che dipendono da noi.
Per questo non dobbiamo abbandonare il cammino intrapreso per ridurre l’emissione di ossido di carbonio nell’atmosfera.
E nel frattempo? Niente panico.
Bastano due misure precauzionali per aumentare le possibilità di una vita lunga e sana:  smettere di fumare e allacciare le cinture di sicurezza.
(©L’Osservatore Romano – 6 gennaio 2010)

Testimoni del nostro tempo: Edward Schillebeeckx

Edward Schillebeeckx, il teologo olandese del Concilio e postconcilio, ci ha lasciato alla vigilia di Natale.
Chi si sofferma a considerare le date della sua biografia umana e intellettuale resta colpito da una circostanza significativa.
Il teologo domenicano nasce nel 1914, alla vigilia del primo conflitto mondiale, e scrive la sua ultima opera (Umanità, la storia di Dio) nel 1989.
Dopo quell’anno la sua fatica conosce un lungo periodo di silenzio.
Fino alla sua dipartita dal mondo.
La sua parabola intellettuale si colloca dunque tra le due date che delimitano quello che è stato definito il “secolo breve” (Hobsbawn).
Il giovane teologo nasce ad Antwerpen.
Dopo la scuola primaria a Kortenberg, un paesino tra Bruxelles e Leuven, compie gli studi umanistici a Turnhout dai gesuiti.
La vocazione religiosa lo indirizza però dai domenicani per l’ispirazione tomista che proponeva un’armonia tra religioso e umano-mondano, nel noviziato in Gent dove si insegnava filosofia con grande attenzione per la teologia.
La sua formazione teologica avviene a Lovanio tra le due guerre mondiali, tra fermenti di novità sul fronte culturale e timidi accenni di apertura nella Chiesa.
Questi momenti di sotterranea ricerca che fanno capo alla fenomenologia, all’esistenzialismo e al personalismo trovano sbocco nel confronto appassionato della cultura francese con l’engagement nel mondo, facendo da sfondo ideologico ai nuovi movimenti democratici dell’immediato dopoguerra.  La specializzazione a Parigi (1945) influenzerà profondamente la sua mentalità teologica.
L’inizio dell’insegnamento allo Studio teologico domenicano a Lovanio (1946-1956) è solo un momento di apprendistato di una prospettiva teologica che farà di Schillebeeckx un teologo molto ascoltato e ancor più letto, per la sua maggiore accessibilità rispetto alla tormentata lingua di Rahner.
Inoltre, il docente domenicano poteva vantare un’approfondita conoscenza della scolastica, in particolare di san Tommaso, non solo per tradizione, ma per la lettura geniale che aveva coltivato durante il suo dottorato di ricerca presso lo studio teologico di Le Saulchoir, nella scia di Chenu.
Una lettura che cercava intensamente di coniugare senso storico e intento teorico o, come si diceva allora, teologia positiva e teologia speculativa.
La rivisitazione della tradizione si presentava non solo provocata, come nei francesi, da un ricupero delle fonti con il programma di ressourcement, ma motivata da un tratto speculativo più forte, radicato nella fenomenologia ontologica del maestro Dominicus Maria de Petter.
Egli cercherà di accreditarlo come l’omologo di Joseph Maréchal, a sua volta ispiratore della “svolta antropologica” di Karl Rahner.
L’opera di Schillebeeckx trovò ascolto presso l’episcopato olandese per l’abilità delle formule della sua produzione teologica prima del Concilio e durante la stessa assise vaticana.
In questo periodo fece studi approfonditi sulla tematica  sacramentaria, confluiti  nella  dissertazione  De sacramentele heilseconomie e nel fortunato testo Cristo, sacramento dell’incontro con Dio (1959).
Nel 1957 l’università di Nimega lo chiama all’insegnamento di teologia dogmatica, nel momento di trapasso della Chiesa olandese.
Nel crogiolo incandescente dell’Olanda del postconcilio, Schillebeeckx fu un testimone privilegiato del travaglio con cui la Chiesa cattolica voleva ricuperare la distanza accumulata rispetto al mondo moderno.
Al di là del giudizio di merito circa il risultato, si trattava di una distanza che sottoponeva la fede a un’obiettiva insignificanza.
Schillebeeckx ha accompagnato con la forza della riflessione e la competenza della ricca conoscenza della tradizione gli impulsi e le intemperanze di quel popolo, dove ognuno si sente homo theologicus, che non perde mai l’occasione di parlare della religione e della fede.
Il teologo fiammingo si è sentito prestato all’Olanda cattolica e ha inteso dare un contributo critico alle trasformazioni operatesi nella Chiesa olandese, divenuta capofila di un avventuroso progressismo.
L’approdo in Olanda segna una svolta non solo nella vita, ma anche nella teologia del domenicano.
Il cambiamento ha un periodo di incubazione che risale ai primi anni del suo magistero a Nimega (1957-1966).
Da quel momento la sua riflessione diventa una teologia militante.
Il “primo” Schillebeeckx assume la veste di mediatore critico, dinanzi ai nuovi fermenti della Chiesa olandese, che fino a quel momento aveva avuto tratti tradizionalisti.
Tutto riceve un’improvvisa accelerazione con la preparazione immediata e la celebrazione del Concilio.
Basterà ricordare i suoi interventi degli anni Sessanta sulla cristologia, la presenza eucaristica e il celibato ecclesiastico, ma più ancora il serrato dibattito con la stagione della secolarizzazione e della cosiddetta teologia della morte di Dio.
Sullo sfondo la sua teologia della Rivelazione, che forse ha influito per la sua maggiore flessibilità più di ogni altra sull’elaborazione del Concilio.
Solo con il viaggio in America del 1966-1967, il teologo domenicano, per sua esplicita ammissione, non solo diviene l’interlocutore delle nuove istanze culturali e sociali, ma si getta nell’arena della battaglia del rinnovamento ecclesiale.
È a partire da queste circostanze che si parla di un “secondo” Schillebeeckx (1966-1989), sovresposto alle luci della ribalta e più difficile da tratteggiarne la figura.
Intorno agli anni Settanta Schillebeeckx sembra cavalcare un più accentuato rinnovamento.
Si pensi alla questione della cristologia – alla quale ha dedicato due voluminose opere – che ha dato origine a un vero e proprio caso, su cui è intervenuta ripetutamente la Congregazione per la Dottrina della Fede.
Ma soprattutto si rammentino i suoi volumi degli anni Ottanta sul ministero ecclesiale, assai problematici sotto il profilo degli esiti pratico-pastorali, che hanno di nuovo richiesto l’intervento della stessa congregazione.
Infatti, il discusso saggio Gesù, la storia di un vivente (1974), che resta il suo capolavoro, intendeva essere una risposta di alto profilo al pamphlet pubblicato con molto rumore in Germania nel 1972 da Rudolf Augstein, direttore di “Der Spiegel”, cioè alle obiezioni radicali mosse al centro stesso della fede cristiana da un editore molto potente.
La sottovalutazione della risurrezione di Gesù, come esperienza di conversione, poneva però dubbi sulla sufficienza della sua ricostruzione storico-teologica.
Il giudizio sull’opera di Schillebeeckx – e del “secondo” in particolare – non può essere formulato solo confrontandosi con i singoli temi del dibattito teologico, ma risalendo alle fonti della sua teologia e all’impianto stesso della sua opera.
Soprattutto non è possibile stabilire una cesura di comodo tra “primo” e “secondo” periodo del suo lavoro teologico tale da occultare i motivi di continuità e le strutture di pensiero ricorrenti della sua teologia.
Se è innegabile che la riflessione del teologo olandese accompagni con puntigliosa precisione i problemi e i temi dell’effervescente periodo postconciliare (l’ermeneutica, la teoria critica, la dimensione politica della fede, la cristologia e la soteriologia, i temi del ministero e della Chiesa, la questione del pluralismo religioso), altrettanto non si può nascondere l’impressione che la fine delle grandi ideologie sembri sottrarre forza propulsiva al suo pensiero.
Così appare un segno non piccolo che il crollo del muro di Berlino (1989) coincida con la data di pubblicazione dell’ultima sua opera significativa.
Nonostante che la pubblicistica si sia impegnata a lanciarla come una summa del suo itinerario teologico, essa appare piuttosto un canto del cigno, sia per forza di disegno che per profondità delle questioni trattate.
Più interessante forse è la presentazione dell’opera di Schillebeeckx come parabola della teologia del Novecento.
Essa sembra condividerne il destino:  come il secolo sembra terminare anzitempo, così sulla sua opera scende il silenzio in anticipo.
La teologia di Schillebeeckx è testimonianza del Novecento come “secolo breve”.
Chi la percorre si immerge con passione nelle grandi questioni teologiche e non solo che hanno travagliato il secolo, nel trapasso dalla teologia neoscolastica (o “concettualista”, come la definisce il teologo scomparso) passando per la teologia della Rivelazione fino alle “teologie del genitivo” (del futuro, della speranza, della liberazione e la teologia politica).
Ma non si renderà giustizia al lavoro teologico del teologo domenicano se non si renderà conto della tensione epistemologica che l’attraversa.
Schillebeeckx è stato certamente un autore in movimento, ma non ha prodotto un pensiero eclettico.
Nella sua stessa idea di teologia era presente il germe dell’attenzione alle cangianti figure del mutamento culturale.
Col rischio di professare una visione intuizionista della verità, depotenziando la concettualità a mera mediazione culturale, e di dover sottoporre la verità della fede al cambiamento della sua mediazione storica.
La fine delle “grandi narrazioni”, però, sembra far crollare anche l’opera insonne del teologo olandese e forse spiega il suo cecidere manus.
Così pare spegnersi – a differenza di altri autori che hanno avuto un successo postumo – anche l’interesse alla sua produzione.
Essa cade nell’oblio.
Restando tuttavia emblematica, non solo per quello che ha di caduco, ma anche per ciò che lascia in eredità ancora da pensare.
(©L’Osservatore Romano – 28-29 dicembre 2009)

Ha piantato la sua tenda fra noi.

  Ha piantato la sua tenda fra noi.
  Non ha scelto una tenda comoda: non quando è nato; né quando, profugo, ha dovuto trapiantarla in Egitto.
E quando alla morte del tiranno torna in patria la sua tenda resta semplice e povera, quella di un umile artigiano.
Vi lavora sconosciuto per trent’anni, senza abbellirla o dilatarla: gli basta.
  E quando finalmente decide di percorrere le strade assolate della Palestina, la lascia senza rimpianto.
Due discepoli di Giovanni, conquistati dalla maestà della sua figura, gli pongono la domanda: – dove abiti? – venite e vedrete! Forse non ha mostrato loro neppure una tenda: il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo…
(Luca 9, 58)   La povera tenda di Nazaret, che l’ha ospitato per una vita, gli ha consentito di intuire ed elaborare il progetto più ambizioso: instaurare il regno di Dio.
I discepoli che lo incontrano, a cominciare dai primi che gli hanno chiesto – dove abiti?- intuiscono che i contorni della sua tenda sono diversi.
Non accolgono per le ore di riposo.
Incalzano per le ore di impegno.
La sua non è una tenda, è una consegna: beati i poveri, …  beati i perseguitati per la giustizia…
( Matteo 5) – Lui lo sarà per primo! E la consegna suona perentoria ed esigente: “chi ama la sua vita la perde…” Questo discorso è duro, noteranno presto i più.
Ma il loro abbandono non attenua l’esigenza della consegna.
Rivolto ai discepoli: – volete andarvene anche voi? – Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio (Giovanni 6, 67-68) Pietro ha intuito che l’incontro con il Maestro non lo introduceva in nessuna tenda Spalancava orizzonti alternativi, dai contorni misteriosi e carichi di futuro.
In lui e in loro Gesù aveva trovato amici fedeli, disposti a camminare anche senza alcuna tenda, e tuttavia carichi di attesa.
Pietro glielo ricorda: “Ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”.
Gesù gli rispose: “In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle, o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madre e figli e campi, insieme e a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna”.
(Marco 10, 28-32)   La tenda prima, la strada poi consentono a Cristo e ai suoi di impiantare il Regno – la nuova tenda -; un regno stabile: duemila anni di storia lo confermano.
Un regno singolare, sotto molti risvolti alternativo; ma sotto altri singolarmente illuminante: un regno che non si impegna a dilatare la tenda terrena; però vi abita a lungo nel nascondimento e nella fatica quotidiana per esplorare le risorse nascoste del mondo presente e assumerle a condizione privilegiata di salvezza futura.
  La secolarità… pp.
63-65

Personaggi del nostro tempo: Gabriele De Rosa

In un’intervista dei primi anni Ottanta, Gabriele De Rosa rievocava la sua via alla storia: la faceva risalire al periodo intorno al 1950, quando era stato redattore dello “Spettatore italiano”, la rivista di Raimondo Craveri ed Elena Croce, di cui curava – con Franco Rodano – la parte politica.
Erano i primi difficili anni della democrazia italiana, di cui stavano emergendo come veri protagonisti i grandi partiti politici di massa, eredi di tradizioni culturali e politiche che erano state di opposizione “sistemica” rispetto allo Stato liberale prefascista.
Di questo retroterra la storiografia politica dell’epoca stentava a rendersi conto e valutava quelle realtà “come fossero nati dall’oggi al domani”.
De Rosa avvertiva invece che dietro la Democrazia cristiana (Dc) si dipanava una storia di più lunga durata, che imponeva una linea di ricerca che andasse non solo al di là del Partito popolare sturziano (di solito presentato come l’antecedente prossimo), ma si spingesse oltre lo stesso Risorgimento fino al periodo della Restaurazione.
Era allora che erano nate le prime espressioni organizzate del laicato cattolico (quelle che dopo il 1870 avrebbero costituito il movimento cattolico), per lo più espressioni di un’opposizione politico-culturale alla nuova società “borghese” che stava emergendo dai postumi della rivoluzione francese.
Rispetto alla tradizionale centralità del “cattolicesimo liberale”, riproposta in quegli anni da uno studioso come Arturo Carlo Jemolo, De Rosa venne perciò privilegiando, “tra tutte le correnti del movimento cattolico, quella degli “intransigenti”, perché (…) più ricca di socialità in confronto ad altre più ideologizzate e politicizzate, come il “cattolicesimo liberale”, e perché rispondente maggiormente alla nostra sensibilità di allora”.
Socialità: bisogno cioè di andare al di là dell’individualismo liberale, di sentirsi calato in una più ampia comunità (politica, sociale, religiosa), di dare alla propria attività culturale una proiezione sociale, di collegarla a un impegno politico.
Questa socialità è stata una delle cifre più originali della personalità di De Rosa, che aiuta a spiegare il suo periplo ideologico tra la fine degli anni Trenta e il 1953-54, quando appunto pubblicò il pionieristico lavoro su L’Azione cattolica.
Storia politica dal 1874 al 1904.
Come per non pochi della sua generazione (era nato nel 1917 a Castellammare di Stabia), fu il fascismo inteso come movimento di definitiva emancipazione della nazione italiana a costituire il suo primo sistema di valori politici e come altri appartenenti alla “generazione cattolica del Littorio” conobbe anche lui un dérapage antisemita nel periodo delle leggi razziali (La rivincita di Ario, Alessandria 1938).
Ma – anche qui siamo di fronte a una vicenda non solo sua – la crisi del fascismo giovanile dovuta alle tragiche esperienze di guerra (De Rosa partecipò come ufficiale dei granatieri alla campagna in Africa settentrionale) non comportò nel giovane cattolico un recupero dell’eredità “liberale” (magari filtrata dall’esperienza popolare e dai suoi eredi che allora si apprestavano a fondare la Dc), ma la ricerca di un altro tipo di socialità: la trovò nel Partito cristiano-sociale guidato da Gerardo Bruni e poi (novembre 1944) nella Sinistra cristiana di Franco Rodano, che seguì alla fine del 1945 nell’adesione al Pci, nella collaborazione alla stampa comunista e nell’esperienza, appunto, dello “Spettatore italiano”.
La crisi di questa esperienza si consumò proprio negli anni in cui preparava il libro sull’Azione cattolica: per De Rosa, comportò il definitivo trapasso a un’attività più propriamente culturale e l’incontro con nuovi interlocutori che avrebbero poi avuto una decisiva influenza sulla sua personalità.
Innanzitutto don Giuseppe De Luca, per anni un referente del gruppo di Rodano, che lo introdusse nell’ambiente delle sue Edizioni di Storia e Letteratura, un’esperienza editoriale che allora si poneva al di là dello storicismo diffuso nella cultura italiana e riproponeva la centralità del lavoro filologico e documentario.
Fu proprio De Luca che fece il suo nome a Luigi Sturzo, che cercava un giovane studioso che facesse per lui alcune ricerche: così il 15 maggio 1954, nel convento delle suore canossiane di Roma, ebbe luogo il primo incontro fra lo storico e il sacerdote siciliano.
Quasi trent’anni dopo, De Rosa avrebbe sottolineato l’importanza di questi due preti nella sua ricerca storica anche da un altro punto di vista: essi gli avrebbero fatto sentire l’esigenza di superare progressivamente una storiografia événementielle dei fatti politico-sociali a vantaggio di “una “storia minore” di un popolo privo di grandi avvenimenti politici, ma che pure aveva avuto le sue periodizzazioni importanti sia a livello politico sia a livello sociale”: verso insomma una storia delle mentalità e dei comportamenti, che avevano contraddistinto la vita religiosa in Italia e dei quali – proprio negli studi sull’Azione cattolica – egli aveva potuto verificare i perduranti riflessi.
Sturzo (sociologo, non lo si dimentichi) lo avrebbe spinto dal politico al sociale, De Luca lo avrebbe fatto entrare nel “profondo religioso”, attingendo “i ritmi più lenti e duraturi della coscienza popolare e della vita di pietà”.
Questo passaggio avvenne alla metà degli anni Sessanta: nel 1966 pubblicava i due volumi della Storia del movimento cattolico in Italia, in cui rifondeva i suoi libri precedenti sull’Azione cattolica e sul Partito popolare.
Nello stesso anno fondava a Padova il Centro studi per la storia della Chiesa nel Veneto nell’età contemporanea, in cui avviava, fra l’altro, un’ampia ricerca sulle visite pastorali in area veneta, in cui il suo nuovo approccio ormai emergeva.
In questa storia delle strutture, delle mentalità, delle pratiche religiose, De Rosa si confrontava con suggestioni assai diverse, ma che allora in Italia erano di casa: Gramsci e le note dei Quaderni del carcere sul cattolicesimo popolare, la storiografia delle “Annales”, Lucien Febvre e Marc Bloch in particolare, l’indirizzo “sociologico” di Gabriel Le Bras.
Ma, a petto di queste indubbie presenze, la storiografia socio-religiosa di De Rosa mostra una sua originalità: non è pura storia della pietà, né della pratica religiosa e neppure storia del sociale.
Nemmeno si adatta a una storiografia meramente seriale e quantitativa.
Un elemento – si potrebbe dire – “storicistico” permane nel suo approccio, che lo induce a respingere una “storia “immobile”, che apparterrebbe alla storia di coloro che non hanno storia e che sarebbe costituita da permanenze culturali di lungo periodo” e lo fa parlare di “lenta e grandiosa processualità” come caratteristica del processo storico-religioso.
De Rosa è stato uno degli ultimi “maestri” della storiografia italiana, in cui la passione civile si è fatta lievito di ricerca storica, senza mai farla diventare lotta politica condotta con altri mezzi; l’apertura internazionale si è coniugata con un radicamento nella terra italiana, dal Veneto degli “intransigenti” ottocenteschi al Mezzogiorno delle plebi rurali; il rinnovamento metodologico non si è mai risolto in una sperimentazione fine a se stessa, ma è stato diretto all’approfondimento di temi e problemi emergenti nel concreto lavoro storico.
Come ebbe a dire un grande storico “laico” come Giuseppe Galasso, la sua vita è stata una valida testimonianza per la sua fede e per il suo mestiere.
(©L’Osservatore Romano – 9-10 dicembre 2009)

Se il Vaticano vuole vendere le chiese senza fedeli

In sostanza, al catasto cimiteriale delle chiese sarebbero condannati unicamente i pesi morti, le chiese già defunte.
«Un mucchio di mattoni privi di carisma, spesso già sconsacrate» dice Giuliano Della Pergola, per anni docente di sociologia urbana al Politecnico di Milano.
«Strutture chiuse da tempo, inevase per difetto di partecipazione.
Quasi mai hanno un valore artistico o urbano tale da giustificarne il ripristino.
Non sono più un punto di riferimento, nemmeno per la comunità civile.
Per cui l´alternativa che si pone è fra il loro abbattimento puro e semplice o il riuso civile, che non esclude funzioni spirituali, culturali e sociali».
Il caso di Guardia Piemontese potrebbe fare testo nel dibattito subito esploso dopo le dichiarazioni di Ravasi, specie per le spade roteanti dei guardiani leghisti della conservazione a ogni prezzo dell ´antiquariato sacro per scongiurare eventuali aborriti meticciati religiosi con l´Islam.
Ignorano forse che il Dio dell´Islam è lo stesso Dio dei cristiani e degli ebrei e dichiarano di preferire un night club ad una moschea in una ipotetica ex chiesa cattolica sconsacrata.
Che sia uno spazio in sfacelo, lo provano gli stucchi caduti dalla volta sul pavimento, i finestroni sbrecciati, le tre dita di polverume sull´altar maggiore.
Un tempo erano le anziane del villaggio che si prendevano cura della chiesa, scendendo in processione nei loro costumi occitani a cantare il rosario e a confidare le loro pene alla statua della Vergine Addolorata.
«Qui il prete non ci viene, il prete siamo noi» dicevano, riabilitando uno dei tratti laicali della riforma valdese in Calabria.
Ma ora che la somma di secolarizzazione ed emigrazione ha dissolto la piccola comunità spontanea di cristiani di quel paese del sud in vista del Tirreno anche per quella chiesa è suonata la campana a morto.
Tuttavia perfino con la loro rovina queste mura potrebbero rivendicare un senso: testimoniare la ferocia con cui le truppe dell´Inquisizione massacrarono nel 1561 i contadini venuti con la loro eresia dalle valli piemontesi.
La chiesa fu eretta subito dopo per imporre “l´unica vera fede”.
L ´immenso convento dei domenicani là vicino è anch´esso in decomposizione.
La strage fu tale che la Porta del paese si chiama “Porta del Sangue”.
Questa funzione vivente della memoria potrebbe dunque essere ritenuta sufficiente, secondo gli standard stabiliti dalla Commissione vaticana per la conservazione dei Beni Ecclesiastici, a preservare dallo sterminio la chiesa domenicana dell ´Inquisizione in Calabria.
Decisione che implicherebbe interventi di recupero, ripensamenti di funzioni museali-didattiche, programmazioni culturali, con costi difficilmente compensati dai flussi turistici in calo o dalle passioni ecumeniche raffreddate.
Ma se aveva ragione Padre Davide Maria Turoldo a ricordare che sui frontoni di molte chiese cristiane la parola “Dio” è scritta col sangue e le guerre, quale chiesa non avrebbe valore storico sufficiente a salvarla dalla demolizione o dal mercato? Alcuni temono che a prevalere potrebbe essere l´interesse delle alte sfere ecclesiastiche a destituire un passato violento con un cambio negazionista della destinazione d´uso dei luoghi di culto per rimuovere le stragi, prima ancora di averne fatto mea culpa.
Questa storia di chiese inutili serve troppo da allegoria per la crisi del cattolicesimo istituito, come la cattedrale a cielo aperto di Andrej Tarkovskij in Nostalghia.
Di fatto, dichiara formalmente che la Chiesa di Ratzinger rinuncia all´ipotesi di un recupero del terreno perduto, nella prospettiva di un cristianesimo di massa o di una “società cristiana”.
Calo della pratica religiosa, indebolimento istituzionale, travolgenti fattori di trasformazione dei vissuti collettivi hanno tagliato fuori per sempre alcune postazioni sacre, come vecchie stazioni ferroviarie su binari morti.
La secolarizzazione si è abbattuta sul cattolicesimo e sul suo spazio sacro senza la furia distruttiva delle armate di Oliver Cromwell sulle abbazie irlandesi o gli incendi giacobini appiccati alle pievi cattoliche durante la Rivoluzione Francese.
Ma la devastazione a dosi omeopatiche, consumistica, è stata non meno micidiale, e l´alleanza tra Chiesa e Mercato, contro cui Pier Paolo Pasolini aveva predicato nel deserto, presenta ora il conto: non solo il catasto delle chiese da vendere o rottamare, ma anzitutto la “chiesa superflua” analizzata da Heinrich Frics.
«Ovunque la Chiesa è per i più qualcosa di cui si può fare a meno per la significatività del vissuto quotidiano» ha scritto il teologo tedesco, «L´erosione del legame attacca soprattutto la Chiesa istituzionale, col risultato che la fede diventa volatile e la Chiesa perde di riconoscimento sociale».
S´incontrano tuttavia dei vescovi che rifiutano di rovesciare qualsiasi responsabilità sul capro espiatorio della modernità o del laicismo.
Claude Dagens, vescovo di Angouleme, chiama in causa la scarsa attuazione del modello di “Chiesa comunità” proposta dal Concilio Vaticano II e chiede di puntare sul “rifacimento interiore” della Chiesa, su una riorganizzazione istituzionale in cui la Chiesa faccia leva sui piccoli gruppi di preti e laici.
Se la Chiesa ha continuato a farsi identificare con gerarchia e clero, era fatale che, venendo meno il clero in modo massiccio, non si trovassero preti sufficienti a gestire tutte le parrocchie.
L´abbandono di alcuni campanili era il risultato matematico di un errore strategico.
E´ il clericalismo che si morde la coda.
Per deficit di partecipazione e di ruolo dei laici, le chiese sono state caricate quasi unicamente sulle spalle dei preti.
Venendo meno i preti le chiese devono essere abbandonate al nulla.
Il sacramento viene abbandonato e allora, piuttosto che lasciarlo nel deserto di una chiesa vuota, è preferibile trasferirlo ove ci sia il calore di una comunità.
In Francia sono corsi per primi ai ripari, sperimentando le assemblee domenicali senza prete.
Il Vaticano si è affrettato a stroncarle rifiutando loro il diritto di consacrare l´eucarestia, di accettare che persone designate dalle comunità potessero assumere delle responsabilità direttive nella comunità.
Questa diaspora di chiese di pietra non è tuttavia così apocalittica o anomala come potrebbe sembrare a prima vista.
Per alcuni indica che la Chiesa ammette di non poter più a lungo restare avvinghiata a una forma di vita istituzionale, la parrocchia residenziale, che data dall´era preindustriale, e di dover cercare di inculturarsi in forme istituzionali più flessibili e differenziate, provvisorie, accanto a quelle classiche nel territorio.
Della Pergola assicura che non si tratta che di “un´operazione di buon senso”, che non è il caso di drammatizzare dando corpo ai fantasmi del passato.
«Questa transizione dell´identità – dice – è una prerogativa specifica dell´identità fluida del cristianesimo in ogni secolo e ha accompagnato continuamente la storia degli edifici di culto, a Palermo ci sono sinagoghe divenute prima chiese cristiane, poi moschee, in Spagna a Cordova questi cambi di identità sono comuni.
Il cristianesimo si è installato con l´assimilazione di sinagoghe prima e da templi pagani poi, divenuti chiese cattoliche».
In accordo con l´urbanista, anche l´arcivescovo Loris F.
Capovilla che richiama l´invito di Papa Roncalli, quando era nunzio in Turchia, davanti alla scomparsa delle chiese antiche, numerose “come le stelle del cielo” nella terra dei primi Concili Ecumenici: «Non importa nulla.
Venerare i luoghi anche se devastati, le memorie monumentali anche se rovine, ma non attaccarci a tutto ciò.
Il regno di Gesù non è subordinato a ciò che nella stessa religione vera c´è di materiale, di esterno, di transitorio».
«La dismissione di chiese» osserva l´ex segretario di Roncalli – «è una storia che data almeno dal dopoguerra.
A Napoli come a Venezia ci sono chiese storiche trasformate in scuole o banche, uno dei licei scientifici di Venezia è il Santa Giustina, che ha sede nella omonima ex chiesa.
Si conserva la facciata ma si cambia l´interno e la destinazione».
Prima di disfarsi delle chiese spente, Capovilla sarebbe per l´affidamento a Confraternite laicali o a piccole comunità monastiche, come a Bose.
In ogni caso egli raccomanda che le dismissioni siano accompagnate da strumenti giuridici che assicurino la destinazione pertinente dell´ex edificio sacro, vietandone utilizzi impropri.
Nessuna preclusione all´uso dell´edificio di culto per riunioni di preghiera di altre religioni.
Oppure per conferenze, dibattiti, esposizioni, concerti, per la bellezza, perché «si dovrebbe ricordare che ove è bellezza e verità, giustizia e bontà, ivi è Dio».
in “la Repubblica” del 2 dicembre 2009 Le ragnatele rivestono di strati ancestrali il confessionale dell´Inquisizione da dove pende la stola un tempo violacea dell´ultimo confessore: la chiesa di san Michele sulla rocca di Guardia Piemontese, nella Calabria tirrenica, potrebbe essere inclusa nel catasto delle chiese in vendita o da rottamare annunciato dal ministro della cultura della Santa Sede, l´arcivescovo Gianfranco Ravasi.
Corrisponde infatti alle condizioni tassative enunciate per la selezione degli edifici di culto da avviare al mercato o alla demolizione fra le oltre centomila chiese o cappelle sparse lungo la penisola: mancanza di fedeli, scarso o nullo valore artistico o per la memoria, onerosità della manutenzione, sproporzione ingiustificata tra valore in gioco e costi dell´eventuale restauro, sui bilanci delle diocesi.

Testimoni del nostro tempo: John Henry Newman

Quando Newman fu elevato alla dignità cardinalizia (1879), scelse come motto le parole cor ad cor loquitur, il cuore parla al cuore.
Tale motto ci presenta la figura di Newman come uomo di dialogo.
In questo contesto può essere opportuno ricordare tre caratteristiche che hanno contraddistinto l’impegno dialogico di Newman.
 La prima caratteristica è la passione per la verità.
Sin dalla sua “prima conversione” (1816) Newman cercò la luce della verità e seguì questa “luce benevola” con grande fedeltà.
Promosse il Movimento di Oxford (1833) per riportare la Chiesa d’Inghilterra alla libertà e alla verità delle origini.
Si convertì al cattolicesimo proprio perché trovò in esso la pienezza della verità (1845).
Nel suo lavoro su Lo sviluppo della dottrina cristiana scrisse:  “Vi è una verità; vi è una sola verità; l’errore religioso è per sua natura immorale; i seguaci dell’errore, a meno che non ne siano consapevoli, sono colpevoli di esserne sostenitori; si deve temere l’errore; la ricerca della verità non deve essere appagamento di curiosità; l’acquisizione della verità non assomiglia in nulla all’eccitazione per una scoperta; il nostro spirito è sottomesso alla verità, non le è, quindi, superiore ed è tenuto non tanto a dissertare su di essa, ma a venerarla (…) Questo è il principio dogmatico, che è principio di forza”.
Newman fu un appassionato ricercatore e veneratore della verità:  nell’impegno personale, nei rapporti con gli altri, nel confronto con le scienze, nella lotta contro la faziosità delle ideologie del suo tempo.
In modo lungimirante presentì il sorgere e il diffondersi di teorie relativistiche, secondo le quali si danno soltanto opinioni diverse, non verità che richiedono un assenso incondizionato.
Newman fu dominato dalla persuasione che la verità esiste, che solo dalla ricerca della verità fluisce il vero dialogo, che solo la verità ci fa autentici e liberi e ci apre la strada verso la realizzazione di noi stessi.
Tale passione per la verità spinse Newman a un costante impegno per la formazione integrale dell’uomo.
Affermò in un sermone:  “Voglio che un intellettuale laico sia religioso e un devoto ecclesiastico sia intellettuale”.
Quando gli fu affidata la responsabilità pastorale per i fedeli di Littlemore, presso Oxford, fece costruire in quel villaggio sia una scuola sia una Chiesa – segno eloquente del suo impegno per la formazione integrale delle persone.
Nel suo saggio su L’idea di Università ribadì che le molteplici dimensioni del sapere formano un tutt’uno e non possono essere separate, frammentate.
L’università ha il compito di offrire una formazione universale, non escludendo dal confronto sereno e aperto nessuna dimensione del sapere.
Per Newman fu evidente che a detta formazione universale appartiene anche quella etico-religiosa, la quale possiede una sua propria razionalità, che va rispettata, difesa e promossa.
Quanto alla formazione dei fedeli laici, che gli stava molto a cuore, Newman scrisse:  “Voglio un laicato non arrogante, non precipitoso nel parlare, non litigioso, ma fatto di uomini che conoscono la loro religione, che vi entrano dentro, che sanno benissimo dove si trovano, che sanno quello che possiedono e quello che non possiedono, che conoscono la propria fede così bene che sono in grado di spiegarla, che ne conoscono la storia tanto a fondo da poterla difendere.
Voglio un laicato intelligente e ben istruito (…) Desidero che allarghiate le vostre conoscenze, coltiviate la ragione, siate in grado di percepire il rapporto fra verità e verità, che impariate a vedere le cose come stanno, come la fede e la ragione si relazionino fra di loro, quali siano i fondamenti e i principi del cattolicesimo (…) Sono sicuro che non diventerete meno cattolici familiarizzandovi con questi argomenti, purché manteniate viva la convinzione che lassù c’è Dio, e ricordiate che avete un’anima che sarà giudicata e dovrà essere salvata”.
Newman si distinse per uno straordinario impegno formativo, valorizzando pienamente lo sviluppo di tutte le scienze e ribadendo nel contempo il ruolo insostituibile che svolgono la fede e la morale per la crescita integrale della persona e per il bene della società.
L’impegno di Newman per la formazione trovò espressione in una terza caratteristica:  la sua premura di stabilire relazioni personali.
Guidando il Movimento di Oxford, ribadì l’importanza della testimonianza personale.
In tutta la sua vita accompagnò molti nel loro cammino umano e spirituale.
Scrisse più di ventimila lettere che costituiscono una prova impressionante del suo zelo per le anime, della sua capacità di dialogare e di relazionarsi con altri.
Uno dei suoi Sermoni all’Università di Oxford si intitola Il contagio personale della verità.
In tale sermone Newman parte dalla constatazione che nessuno può essere conquistato alla causa della verità con le sole argomentazioni razionali.
La verità, così scrive, “è rimasta salda nel mondo non per virtù di un sistema, non grazie a libri o argomentazioni, non per merito del potere temporale, ma grazie all’influenza personale di uomini (…) che ne sono in pari tempo i maestri e i modelli”.
Newman invita tutti a occuparsi della verità sul piano della ricerca intellettuale, ma al tempo stesso sottolinea che influisce di più – sul permanere, sullo svilupparsi e sul comunicarsi della verità – colui che vive la verità e ne diventa un testimone.
Scrisse circa la forza persuasiva di un tale testimone:  “Mentre egli è sconosciuto al mondo, nell’ambito di quanti lo conoscono egli ispirerà ben altri sentimenti che non sia solita destare la mera superiorità intellettuale.
Gli uomini illustri agli occhi del mondo sono molto grandi alla distanza.
Avvicinati, rimpiccioliscono.
Ma l’attrattiva che si sprigiona da una santità ignara di essere tale è di una forza irresistibile; persuade i deboli, i timidi, gli incerti, chi è alla ricerca della verità”.
Non deve meravigliarci, pertanto, che, quando fu onorato con la porpora, Newman scelse, come motto, le parole cor ad cor loquitur.
Secondo lui, la verità viene trasmessa soprattutto cor ad cor:  in modo personale, tramite l’esempio, la fedeltà e l’amore di testimoni convinti e credibili.
Il processo di beatificazione di Newman, iniziato già nel 1958, era ormai prossimo a concludersi nel momento in cui si è celebrato il nostro convegno; a pochi mesi di distanza, in data 3 luglio 2009, Benedetto XVI ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto riguardante un miracolo, attribuito proprio all’intercessione del venerabile servo di Dio John Henry Newman.
Fra qualche mese, quindi, verrà proclamato beato.
L’avvenimento conferma e propone alla venerazione di tutta la Chiesa ciò di cui sono da sempre ben consapevoli studiosi e amici di Newman, e quanti si accostano senza pregiudizi alla sua figura e ai suoi scritti:  il noto convertito inglese non fu soltanto un pensatore con doti eccezionali, ma un uomo nel quale la genialità del pensiero faceva tutt’uno con la santità della vita quotidiana.
 Quando egli in tarda età sentì dire che l’avrebbero chiamato santo, scrisse:  “Non sono portato a fare il santo, è brutto dirlo.
I santi non sono letterati, non amano i classici, non scrivono romanzi.
Sono forse, alla mia maniera, abbastanza buono, ma questo non è alto profilo (…) Mi basta lucidare le scarpe ai santi, se san Filippo in cielo avesse bisogno di lucido da scarpe”.
Lungo tutta la sua vita Newman pensò di essere ben lontano dalla perfezione cristiana.
Ma dalla sua “prima conversione” la sua aspirazione fu tutta rivolta a Dio, che aveva riconosciuto come il fulcro della sua vita.
Da allora in poi seguì due principi:  “La crescita è la sola dimostrazione della vita” e “la santità piuttosto che la pace”.
Il genio di Newman, sebbene sempre ammirato e venerato, fu riscoperto dal concilio Vaticano II, di cui è stato un precursore profetico.
Jean Guitton scrisse in proposito nel 1964:  “I grandi geni sono dei profeti sempre pronti a rischiarare i grandi avvenimenti, i quali, a loro volta, gettano sui grandi geni una luce retrospettiva che dona loro un carattere profetico.
E come il rapporto che intercorre tra Isaia e la passione di Cristo, reciprocamente illuminati.
Così Newman rischiara con la sua presenza il Concilio e il Concilio giustifica Newman”.
Il Vaticano II ha recepito e consacrato tante intuizioni di Newman, ad esempio sul rapporto tra fede e ragione, sul significato della coscienza, sull’educazione universitaria, sul valore dei Padri e della storia in generale, sul mistero della Chiesa, sulla missione dei laici, sull’ecumenismo, sul dialogo con il mondo contemporaneo – grandi tematiche che vengono ampiamente trattate nel presente volume.
Nei pronunciamenti del Magistero postconciliare la dottrina di Newman viene continuamente valorizzata.
Basta menzionare alcuni documenti di particolare rilevanza dottrinale in cui si trovano riferimenti espliciti al pensiero di Newman:  le Lettere encicliche Veritatis splendor e Fides et ratio come anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, che contiene non meno di quattro testi di Newman (cfr.
nn.
157, 1723, 1778, 2144) – un fatto notevole, perché di solito il Catechismo cita solo autori già canonizzati.
Accanto al suo pensiero forte, gli ultimi Pontefici presentano come esemplare anche la vita di Newman.
Limitiamoci a citare tre testi significativi.
In un discorso del 7 aprile 1975, rivolto ai partecipanti di un simposio accademico Paolo VI disse:  Newman, “che era convinto di essere fedele tutta la sua vita e con tutto il suo cuore votato alla luce della verità, diventa oggi un faro sempre più luminoso per tutti quelli che sono alla ricerca di un preciso orientamento e di una direzione sicura attraverso le incertezze del mondo moderno – un mondo che egli stesso profeticamente aveva preveduto”.
In una lettera del 14 maggio 1979, indirizzata all’arcivescovo di Birmingham in occasione del centenario del cardinalato di Newman, Giovanni Paolo II scrisse:  “L’elevazione di Newman a cardinale, come la sua conversione alla Chiesa cattolica, è un avvenimento che trascende il semplice fatto storico e l’importanza che ciò ha avuto per il suo Paese.
I due eventi hanno inciso profondamente nella vita della Chiesa molto al di là dei confini dell’Inghilterra.
Il significato provvidenziale e l’importanza di questi eventi per la Chiesa in generale sono stati più chiaramente compresi nel corso di questo nostro secolo.
Lo stesso Newman, con visione quasi profetica, era convinto che egli stava lavorando e soffrendo per la difesa e la promozione della causa della religione e della Chiesa non solo nel periodo a lui contemporaneo ma anche per quello futuro.
La sua influenza ispiratrice di grande maestro della fede e di guida spirituale viene percepita sempre più chiaramente proprio nei nostri giorni”.
Il cardinale Joseph Ratzinger, ora Benedetto XVI, disse in una conferenza tenuta nel 1990, parlando del suo incontro con Newman nel seminario di Frisinga:  “La dottrina di Newman sulla coscienza divenne per noi il fondamento di quel personalismo teologico, che ci attrasse tutti con il suo fascino.
La nostra immagine dell’uomo, così come la nostra concezione della Chiesa, furono segnate da questo punto di partenza.
Avevamo sperimentato la pretesa di un partito totalitario, che si concepiva come la pienezza della storia e che negava la coscienza del singolo.
Goering aveva detto del suo capo:  “Io non ho nessuna coscienza.
La mia coscienza è Adolf Hitler”.
L’immensa rovina dell’uomo che ne derivò ci stava davanti agli occhi.
Perciò era un fatto per noi liberante ed essenziale da sapere, che il “noi” della Chiesa non si fondava sull’eliminazione della coscienza, ma poteva svilupparsi solo a partire dalla coscienza.
Tuttavia proprio perché Newman spiegava l’esistenza dell’uomo a partire dalla coscienza, ossia nella relazione tra Dio e l’anima, era anche chiaro che questo personalismo non rappresentava nessun cedimento all’individualismo, e che il legame alla coscienza non significava nessuna concessione all’arbitrarietà”.
Nel famoso Biglietto-Speech, pronunciato in occasione del ricevimento della bolla di nomina a cardinale, Newman, guardando alla sua vita passata, confessò:  “Nel corso di lunghi anni ho fatto molti sbagli.
Non ho nulla dell’alta perfezione che si riscontra negli scritti dei santi, nei quali non ci possono essere errori; ma credo di poter affermare che in tutto ciò che ho scritto ho sempre perseguito nobili intenti, non ho cercato fini personali, ho tenuto una condotta ubbidiente, mi sono dimostrato disponibile a essere corretto, ho temuto l’errore, ho desiderato servire la santa Chiesa e ciò che ho raggiunto lo devo alla misericordia di Dio”.
Queste parole mostrano l’umiltà propria soltanto di un vero uomo di Dio.
Tutta la vita di Newman fu dedicata al servizio della verità e alla lotta contro il liberalismo religioso e morale (da non confondersi con il liberalismo politico), che considerava il più subdolo nemico della fede.
Ebbe uno spiccato senso della vicinanza di Dio, valorizzò pienamente la ragione e le capacità naturali dell’uomo, compì il suo dovere con grande competenza e dedizione, amò la Chiesa e toccò la coscienza e il cuore di tantissime persone di ogni ceto sociale.
Nei suoi ultimi anni condusse una vita di preghiera e di raccoglimento ancora più intensa.
Per la fedeltà alla chiamata di Dio dovette sopportare innumerevoli sofferenze che resero più nobili e più carichi di attrattiva perfino i tratti del suo volto.
Il quotidiano londinese “The Times” pubblicò il giorno seguente la morte di Newman, avvenuta l’11 agosto 1890, un lungo elogio funebre che terminava con le seguenti parole:  “Di una cosa possiamo essere certi, cioè che il ricordo di questa pura e nobile vita durerà e che (…) egli sarà santificato nella memoria della gente pia di molte confessioni in Inghilterra (…) Il santo che è in lui sopravvivrà”.
(©L’Osservatore Romano – 29 ottobre 2009) Il libro Una ragionevole fede raccoglie gli atti del convegno internazionale su John Henry Newman che si è svolto a Milano presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore il 26 e il 27 marzo 2009 (Milano, Vita e Pensiero, 2009, pagine 252, euro 20).
Pubblichiamo quasi per intero la prefazione dei curatori.