Sì, la Chiesa perde influenza, ed è una notizia bellissima! E’ anzitutto una buona notizia per me che sono una donna.
Ho constatato a suffiecienza a mie spese e a spese delle mie sorelle in umanità a qual punto la chiesa ha gravato e grava tuttora con tutto il suo peso per mantenere per quanto è possibile una logica patriarcale, ossia il dominio degli uomini sul corpo delle donne, e oltre il loro corpo, sul loro spirito, sulla loro libertà.
L’ultima trovata è stata il discorso della differenza, una fregatura intellettuale che si riassume alla fin fine nella risaputa battuta di Coluche secondo la quale «alcuni sono più uguali degli altri».
Questo motivo sarebbe sufficiente per rallegrarmi, ma ne ho anche altri.
Perché non sono tra coloro che coltivano la nostalgia di una cristianità ideale, bella come un’immagine pia, in cui la Chiesa, potenza di pace e di carità, istituisce la Tregua di Dio, porta soccorso ai poveri e ai malati e guida con sapienza degna di Salomone.
Senza risalire alle crociate, senza puntare sui roghi, io mi interrogo.
Cosa diceva la Chiesa quando tanti uomini, tante donne e tanti bambini erano gettati nella tormenta disumanizzante della indrustrializzazione nel XIX secolo? Che faceva quando migliaia di schiavi erano trattati peggio delle bestie? Ha assunto il rischio di protestare contro la sorte riservata agli ebrei dalla follia nazista? Oh, certamente, ci sono cristiani che si sono opposti in nome dell’evangelo, santi e eroi: S.
Vincenzo de Paoli, S.
Giovanni Battista de la Salle, Anne Marie Javouhey, il padre Damien, Albert de Mun, l’ Abbé Pierre e Madeleine Debrêl, per citarne solo alcuni tra la folla innumerevole di coloro che hanno messo la carità prima di ogni altra cosa.
Si ha buon gioco, a cose fatte, nel mettere a credito della Chiesa le opere dei suoi figli e delle sue figlie migliori, che tuttavia sono stati quasi sempre considerati, al loro tempo, come dei fautori di disordine.
La Chiesa, nella sua espressione istituzionale, è un potere che naturalmente si allea con i poteri.
Gli esempi storici sono così numerosi, così convergenti che è impossibile citarli.
Tutt’al più è possibile segnalare qualche raro e piccolo contro-esempio, come quello della Chiesa brasiliana, che fu, durante una ventina d’anni, risolutamente a fianco dei più poveri, sino a che Roma «ha rimesso le cose a posto».
Allora se la Chiesa perde influenza non esito a ripetere che me ne rallegro.
E io temo che alcuni vogliano trasformare la Chiesa in una lobby la cui prima funzione sarebbe la difesa degli interessi della «comunità» cattolica, la promozione della propria identità e la lotta per i propri valori.
La prima funzione della Chiesa non è quella di essere una comunità chiusa, ma una comunione.
Una comunine non difende i propri interessi, ma si apre, accoglie, incorpora.
Non promuove un «essere all’interno di sé» ma «un essere insieme» il più esteso possibile (sino all’estremità della terra e attraverso i secoli).
Quanto ai «valori», perché occorrerebbe ad ogni costo inscriverli nella legge civile al posto di poterli incidere nei cuori? Riascoltiamo i nostri predecessori, i discepoli, che avevano le stesse nostre illusioni: «Quando restaurerari il Regno di Israele?» Anche loro sognavano maggiore influenza e posizioni di forza.
Per tutta risposta ebbero il Cristo nudo, in croce.
Sogno, spero, prego perché venga il giorno in cui la Chiesa accetti il denudamento.
Quando non sarà più in nessun modo una potenza, forse potrà sperare di essere fedele al suo Signore.
Con lui e in lui sarà una semplice presenza.
Sarà al suo posto, in ginocchio ai piedi del mondo, secondo il comandamento che il Cristo le affida.
Ma questo non avverrà senza che noi anzitutto, i fedeli di Cristo, saremo umilmente al servizio dei nostri fratelli e delle nostre sorelle in umanità.
Allora, noi potremo dire in verità: la Chiesa, siamo noi.
di Christine Pedotti (editrice e cofondatrice della Conferenza dei Battezzati/e di Francia) in “Témoignage chrétien” n.
3394 del 29 aprile 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
Categoria: Storia e Teoria
Un Papa nelle favelas di Rio
Quella mattina, nel suo primo viaggio in Brasile, il caldo tropicale rendeva tutto – per noi, europei – un po’ improbabile.
Il Papa, scendendo dalla sua residenza verso Rio, intravide alcune casupole a sinistra della strada.
Domandò.
E la risposta: «Qui le chiamiamo favelas.
Ci sono sempre vicino ai grandi agglomerati urbani».
Osservandolo, si vedeva che lui rifletteva.
Come per capire, anzi immaginare quella realtà a lui ancora sconosciuta.
E decise di visitare quella favela, anzi di condividere almeno per qualche momento la vita con quelle persone.
Camminare per lo spazio che lasciavano le casupole non era facile.
Quelli spazi erano, insieme, strade e fogne all’aperto.
La gente riempiva tutti e due.
Quasi tutti sapevano che lontano, a Roma, cioè a metà strada tra il cielo e la terra c’era il Papa.
Ma vedere lì il Papa era per loro qualcosa di inimmaginabile.
Non c’era un percorso previsto: lui girava verso dove sentiva una voce, un grido: da qua e di là.
Non era possibile comunicare con parole ma bastava il gesto: l’abbraccio, posare le mani sul capo, baciare un bambino nudo e abbronzato.
Vide una signora, anziana e sola, un poco separata dalla folla.
Era seduta su qualche cosa: evidentemente non poteva alzarsi e avvicinarsi al Papa.
Bruscamente, lui si voltò verso quella misera casupola.
Lui sorrideva.
Lei aveva sul viso un’espressione perplessa.
Lei alzò le braccia.
Lui prese tutte e due le sue mani e poi, mentre l’abbracciava prese tra le sue mani le guance di quel viso segnato dal tempo e dalla privazione.
La signora, allora, simultaneamente rideva e piangeva.
Il tempo sembrò fermarsi in quel silenzio espressivo dei gesti.
Forse nemmeno il Papa – per un momento – sapeva come sarebbe andato a finire quel momento.
Ma lui decise.
Con straordinaria delicatezza allontanò di poco la figura che aveva davanti.
E, mentre continuava guardarla, si sfilò dalle dita delle sue mani l’anello che portava con lui.
E, quasi di nascosto, lo depose nella mani di quella donna.
Fece in tempo di baciarla ancora una volta.
E si allontanò.
Quell’anello – molto semplice, senza pietra – lo aveva portato fin da quando fu ordinato vescovo.
Dopo la sua elezione non volle cambiarlo per uno nuovo e più “papale”.
Era il “suo” anello: quello legato a tanti momenti della sua biografia.
Forse era la unica cosa veramente “sua” che aveva.
Sicuramente, quella donna non ha saputo mai quale valore avesse quell’anello.
E io non ho saputo mai di quell’anello che vidi per l’ultima volta nelle mani di una persona anziana e sola di una favela di Rio.
di Joaquìn Navarro-Valls in “la Repubblica” del 2 aprile 2010 L’eredità di Wojtyla La Chiesa di Giovanni Paolo II cinque anni dopo di Giancarlo Zizola in “la Repubblica” del 2 aprile 2010 Le polveri d’oro dell’apologetica cominciano a deporsi, cinque anni dopo il 2 aprile 2005 quando alle 21,20 la notizia più ovvia e egualmente crudele che Karol Wojtyla era morto dopo il terzo papato più longevo della storia fece sentire più povero il mondo.
Non che siano esauriti i tentativi di requisirne la figura dentro gli schemi barocchi del processo di beatificazione, con la caccia al miracolo fisico e le improbabili trovate delle autoflagellazioni, c’è l’ostinazione di un ceto clericale di imprigionare i lampi del carisma profetico, da cui l’uomo si faceva talora travolgere, entro i disperati bisogni di credito dell’Istituzione, specie ora che nuota in cattive acque.
Difficile giurare che la crisi del sistema possa portare questa Chiesa a capire che la migliore beatificazione per Giovanni Paolo II sarebbe di portarne a compimento seriamente l’opera.
E cioè completare quegli avvii di riforma, quel nuovo universalismo che si chiamano dialogo permanente con le grandi religioni extra-europee, priorità alla cultura della pace, inculturazione del cristianesimo nelle grandi tradizioni spirituali del mondo, discernimento dei valori storici di un mondo in trasformazione, presa d’atto della fine della cristianità, cambio dello statuto della monarchia assoluta pontificia, povertà della Chiesa, governo collegiale coi vescovi.
Difficile che si comprenda, nell’attuale psicosi dello stato d’assedio, che proprio questa sarebbe la migliore difesa della Grande Tradizione cattolica, come nelle maggiori svolte della sua storia.
Ma «non spetta ai profeti portare a termine il disegno loro affidato» dice Padre Bartolomeo Sorge, nella sua autobiografia (“La Traversata.
La Chiesa dal Concilio Vaticano II a oggi”, Mondadori).
E anche lui discute delle tante “battaglie perdute” di Wojtyla, delle croci interne che hanno segnato il suo profetismo non meno di quanto lo afflissero i colpi di Alì Agca, il fallimento del suo sogno russo, l’opposizione di una parte dei cardinali alla sua obiezione alle guerre dei Bush, l’isolamento brutale del suo Mea Culpa giubilare per le violenze storiche e gli sbagli della Chiesa.
Tanti e impegnativi i problemi lasciati aperti da Wojtyla, ammette il Gesuita.
E fa intuire da un episodio che la grandezza di quel papa fu solo in parte realizzata, che la sua coscienza di essere portatore di un messaggio universale andava oltre le catture della facile identificazione difensiva tra cattolicesimo e Occidente, lo portava piuttosto a sentire la responsabilità di portare la Chiesa a colmare il vuoto creato dalla caduta del comunismo, cui aveva dato mano.
Avvenne al primo incontro informale del Papa con Sandro Pertini a Castel Porziano, nel 1979.
Il Presidente, laico, socialista, si stupiva anche dopo anni che il Papa non avesse cercato di convertirlo: «Santità, io seguo sempre la mia coscienza!», gli disse.
Giovanni Paolo II lo prese amichevolmente per un braccio: «Bene,bene!», gli rispose.
«Segua sempre la sua coscienza.
Perché la coscienza è Trascendenza».
Del resto l’ipotesi di un pontificato lungo un quarto di secolo ma egualmente incompiuto si nutre anche sui rovesciamenti paradossali delle sue ultime ore: non più viaggi ma immobilità, non più linguaggi e magistero ma silenzio, non la logica della ricerca della sicurezza mondana e del successo esteriore della cristianità, ma lo scacco.
L’inferiorità, l’impotenza, l’umiliazione riproducevano nel papa malato l’icona della crocifissione di Pietro cui la Chiesa era invitata a tornare: Chiesa spirituale forse ancora sperabile nel punto limite dell’estremo fallimento della Chiesa politica trionfante.
Ma forse quella figura mondialista di Chiesa che traboccava dai suoi stadi acclamanti non era che la copertura di una crisi interna da riforma interrotta, la stessa di cui è figlio il clero pedofilo in una Chiesa che si è rifiutata di uscire convertita dalla casta per farsi comunitaria.
Dall’inizio del pontificato il papa slavo aveva operato uno sforzo eccezionale per rafforzare la presenza pubblica e la credibilità del messaggio della Chiesa.
Il suo obiettivo: condurre la Chiesa, guardiana e dispensatrice di salvezza, nel cuore del dibattito pubblico, sul terreno civile e antropologico di società temporali in piena crisi di valori.
La “nuova evangelizzazione” e il “terzo millennio” erano i temi portanti sui quali il pontificato tentava di incidere i motivi classici di una cristianità fondata su una identità ecclesiale nettamente definita, col rafforzamento del ruolo egemonico del clero sul “popolo di Dio”, ben presto declassato a vantaggio dei movimenti identitari militanti.
Sul piano internazionale, la Santa Sede aveva incontestabilmente guadagnato in influenza.
Ma sul piano dottrinale e pastorale i gesti simbolici, accompagnati da involuzioni e prudenze reali, prendevano il passo sullo sviluppo delle ispirazioni conciliari, frustrandone l’universalismo potenziale.
Molti si interrogavano sul rilancio neo-medievale del primato assoluto del papa, sull’eccesso di mediatizzazione, sull’opzione di una religione spettacolo, nell’ora in cui sembrava piuttosto incombere la necessità di formare dei cristiani di minoranza cosciente in una società globale secolarizzata .
In questa ottica, anche i viaggi di un papato che si voleva anzitutto “itinerante” erano analizzati come strumenti di centralizzazione pastorale per una Chiesa destinata a diventare più papale che mai, nella mentalità e anche nelle strutture, in una strategia mirata a trasformare il vescovo di Roma in una figura globale, il “solus Pontifex” di gregoriana memoria, all’apice di un sistema politicodiplomatico dall’espansione senza precedenti.
E dietro a tutto questo, si delineava il recupero di un ruolo politico da parte della Chiesa, a spese della opzione spirituale adottata dal Vaticano II.
Le condanne della teologia della liberazione, il soffocamento della cristologia indiana, l’insabbiamento delle richieste del Sinodo africano di un diritto canonico matrimoniale e di modelli liturgici e pastorali in accordo con le tradizioni africane, il controllo penetrante degli Ordini religiosi, ecco(in parte) i punti critici sull’universalismo di Re Karol.
Mentre il suo dinamismo missionario imprimeva certamente il suo calore sulle relazioni della Chiesa con i mondi religiosi “altri”, come l’ebraismo e l’islam.
E chissà se proprio da quei mondi non potrebbe sorgere l’aurora di un “nuovo passaggio ai Barbari” anche per una Chiesa cui l’Occidente sta stretto.
Il cielo capovolto
CENTRO EUROPEO RISORSE UMANE – MULTIMEDIA SAN PAOLO, Il cielo capovolto (su testi di Primo Mazzolari), San Paolo, Cinisello Balsamo, 2010, libro + cd, pag.
56, euro 22,90 Quarto volume del Progetto Culturale ed Educativo PhonoStorie dedicato a grandi personaggi del XX secolo (Vedi la scheda del precedente audiolibro, su testi di Madre Teresa).
Un audiolibro dedicato alla figura, al pensiero e agli scritti di don Primo Mazzolari letti e interpretati da attori con musiche originali.
Fusione di arti diverse, letteratura, recitazione e musica, dove ognuna con il proprio posto e la propria specificità, si lega alle altre per costituire un unico discorso senza soluzione di continuità.
“Il cielo capovolto” mette in risalto la figura di Mazzolari, protagonista fra i più significativi del mondo cattolico e della vita politica del Novecento che, per il suo «umanesimo in prima linea» rappresenta ancor oggi un luminoso esempio per tutti, al di là di ogni orientamento religioso o politico.
Benedetto XVI nell’udienza generale dell’1 aprile 2009 ricordando il cinquantesimo della morte di don Mazzolari ha tra l’altro auspicato che «… il suo profilo sacerdotale limpido, di alta umanità e di filiale fedeltà al messaggio cristiano e alla Chiesa, possa contribuire a una fervorosa celebrazione dell’Anno sacerdotale» tuttora in corso.
Questo audiolibro vuole anzitutto essere un contributo e uno strumento utile a quanto auspicato dal Papa.
I testi più significativi di don Primo Mazzolari sono qui legati da un filo conduttore ispirato a un suo libro, “Tra l’argine e il bosco”, e inseriti in una narrazione declamata da noti artisti.
Le prefazioni dell’audiolibro sono affidate a S.E.
Mons.
Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio della Cultura, e al prof.
Mino Martinazzoli, politico, già ministro della Repubblica italiana e profondo conoscitore di don Primo Mazzolari.
Il volume gode dell’apprezzamento e del sostegno della Fondazione don Primo Mazzolari di Bozzolo (Mn).
Prefazione 2 Don Mazzolari fu un capostipite.
Fu l’iniziatore di quella stagione di modernizzazione della presenza cristiana che maturò alla vigilia del concilio Vaticano ii.
La sua predicazione e i suoi scritti, già in vita, irradiavano ben al di là della sua piccola parrocchia e costituiranno, insieme ad altre avanguardie, una traccia per l’avvenire.
La sua era la capacità di stare sull’argine – per citare uno dei suoi libri più noti – non per costruire una difesa ma per attraversarlo: uno sguardo del cristianesimo oltre la frontiera.
Un cristiano fino in fondo, ma senza sacrificare la libertà di coscienza, senza tacere sulle cose che non condivideva, per il quale vale più che mai l’affermazione in veritate libertas.
Ma anche o soprattutto il suo ribaltamento in libertate veritas.
In questo senso, anche l’antifascismo gli fu naturale.
Mazzolari, come Bevilacqua, Gobetti e altri, identificò immediatamente la natura del regime.
E non era facile in quegli anni.
Fu un resistente della prima, non dell’ultima ora.
Compì gesti di rifiuto che lo resero pericoloso agli occhi della polizia del fascismo.
Non per niente negli ultimi anni, quando la guerra civile incrudelì, quando gli orizzonti si addensarono, la vita di Mazzolari fu in pericolo.
Poi nel secondo dopoguerra, Mazzolari che aveva immaginato, da sacerdote qual era, di dover stare lontano dalla politica, si impegna allo spasimo dentro il fuoco della politica, pagandone spesso gli alti costi.
Ma il suo interesse non è immediatamente politico: la politica è la proiezione del suo credo religioso, della sua opzione evangelica nella storia degli uomini.
È il tempo de La rivoluzione cristiana (altro libro famoso) o della nuova cristianità; concetti che si ritrovano anche in Maritain e in Bonhoeffer, che Mazzolari ben conosceva.
Ma è anche l’idea di Rossetti o di La Pira – grande amico di Mazzolari – cioè l’idea di un cristianesimo storicamente capace di permeare ogni giuntura della società civile.
La posizione di don Primo ha, però, una sua originalità, perché la rivoluzione cristiana di cui parla Mazzolari non è la pretesa di un’egemonia, di una imposizione.
Non pretende di cambiare il mondo.
Tutte le volte che si è voluto questo, si è illuso, ingannato, ucciso l’uomo.
La nostra rivoluzione, sostiene Mazzolari, è che vogliamo cambiare noi stessi.
In questo contesto nasce anche la difficile, costosa e appassionante operazione del suo settimanale “Adesso”, con un programma che è già tutto nell’intestazione e nella tremenda didascalia: “Ma adesso chi non ha una spada, venda il mantello e ne compri una”.
Era la spada della provocazione di un cristianesimo di battaglia, di combattimento.
Mazzolari è lì, sta sugli spalti della storia, nella fornace sempre incandescente della lotta per la libertà religiosa e civile.
Ma il suo ricordo sarà tanto più importante se accanto all’uomo della battaglia, della controversia, collocheremo l’uomo, il sacerdote della pietà.
Uno dei luoghi evangelici che Mazzolari frequentava con abitudine erano le beatitudini.
E la beatitudine più indagata fu senza dubbio quella dei giusti: giustizia è una parola che da sola potrebbe definire il pensiero e l’opera di Mazzolari.
Ma c’è un’altra beatitudine che forse ancor meglio rappresenta lo stigma, l’impronta che Mazzolari ha lasciato nella sua e nella nostra storia.
Fu un mite, non nel senso di accomodante, o accondiscendente, anzi.
Fu un mite come vuole il vangelo, perché sapeva che si può combattere contro l’errore, ma lo si deve fare in modo tollerante, perché al fondo della nostra radice, della nostra condizione umana, sta un’irriducibile incompiutezza, la quale non può non portare che alla pietà per la tribolazione fraterna.
Conosceva don Primo le pieghe amare della condizione umana e proprio per questo diceva: noi non andiamo né a sinistra né a destra; guardiamo in alto.
C’era in Mazzolari una eccedenza del cuore che molto spesso lo portava ad accettare un carico di sofferenza che non fu mai risarcito.
C’è insieme l’idea del cristiano che provoca e del cristiano che ha pietà della condizione umana.
Il talento che il cristiano può portare in questa storia altrimenti atroce della nostra umanità è proprio questa pietà, che nasce dalla profonda e consapevole accettazione della sua imperfezione, dell’impossibilità di un suo compimento totale e sereno.
(©L’Osservatore Romano – 24 marzo 2010) Prefazione 1 “Il cinquantesimo anniversario della morte di don Mazzolari sia occasione opportuna per riscoprirne l’eredità spirituale e promuovere la riflessione sull’attualità del pensiero di un così significativo protagonista del cattolicesimo italiano del Novecento.
Auspico che il suo profilo sacerdotale limpido di alta umanità e di filiale fedeltà al messaggio cristiano e alla Chiesa, possa contribuire a una fervorosa celebrazione dell’Anno sacerdotale”.
Mentre stava chiudendo la sua vita terrena il 12 aprile 1959, mai don Primo avrebbe immaginato che il suo nome sarebbe risuonato cinquant’anni dopo in piazza San Pietro sulla bocca di un Papa con parole così intense, in occasione dell’udienza generale di mercoledì 1° aprile 2009.
Certo, quando egli era ancora in vita, Giovanni xxiii lo aveva definito “tromba dello Spirito Santo”.
Una tromba che era echeggiata non solo nella sua parrocchia di Bozzolo e nella terra lombarda, ma in tutta l’Italia.
Ma in passato su don Mazzolari era spesso sceso il giudizio aspro e severo di varie autorità ecclesiastiche.
Questo, però, non aveva scalfito la sua obbedienza, anche se condotta “in piedi”, come amava dire.
Anzi, egli era convinto che “più il convoglio marcia rapido, più sicuri e docili occorrono i freni, i quali non sono fatti per non far camminare il convoglio, ma per evitare che deragli”.
Certe resistenze possono rallentare semplicemente il passo della Chiesa impedendole di percepire l’urgenza dei tempi e dei loro segni; ma altre reazioni sono necessarie, come accade ai freni, indispensabili se ben calibrati.
Con i “freni” si impedisce, infatti, la frenesia scalpitante che non solo non conduce prima alla meta, ma talvolta la perde per sempre, facendo deragliare dalla via maestra e dal suo approdo finale.
Tuttavia, non è possibile procedere tenendo sempre il freno tirato, impedendo alla vitalità dello spirito di agire.
In don Mazzolari si intrecciavano in modo mirabile due virtù apparentemente antitetiche: l’audacia profetica e la fedeltà evangelica.
Esclamava infatti: “Guai a chi ha paura della novità, di trovare un mezzo di apostolato più rispondente e più vivo! Santo quel cuore che serve le cause di Dio con audacia! Abbiate questa santa audacia che è espressione di fede!”.
Ma anche insegnava che “la forza della religione è la stabilità e solo le ininterrotte fedeltà generano i grandi amori e le grandi opere”.
Per ragioni cronologiche non ho mai incontrato questo straordinario sacerdote della diocesi di Mantova, anticipatore dello spirito del concilio Vaticano ii; l’ho conosciuto, però, in profondità attraverso i suoi amici più cari che sono diventati poi anche miei amici, come padre David Maria Turoldo, lo scrittore Luigi Santucci, padre Nazareno Fabbretti.
Da loro ho avuto la rappresentazione viva ed emozionante di un’esistenza costellata di prove soprattutto intra-ecclesiali, ma sempre condotta con intensità, libertà e fedeltà.
Suggestiva era la sua immagine della testa del Battista che parla ben più forte e ha più ragione quando è sul vassoio del martirio che non quando era sul suo collo.
Scriveva (e queste righe sono anche un emblema della sua prosa e dello stile della sua predicazione): “Non ci guadagna niente: anzi, ci perde tutto, il profeta.
In casa è guardato male; fuori, benché a volte lo citino, è temuto più degli altri.
E come gli costa ogni parola! Talora, proprio per superare questo costo, la fatica del dover dire, la parola può diventare un grido.
E c’è chi lo accusa di mancanza d’amore, quando egli grida per amore”.
È facile intuire in queste parole l’autoritratto stesso di don Primo, sia nell’esaltazione della testimonianza libera e disinteressata sia nella celebrazione dell’amore, consapevole com’era che “il cuore indurisce alla svelta, se non si dispone a dare”.
In questa luce è naturale che una delle attenzioni primarie egli le abbia riservate ai miseri, agli ultimi, ai peccatori sulla scia di Cristo.
Memorabile è la sua predica su Giuda, “prediletto di Gesù e nostro fratello”.
In un’altra occasione, alludendo al brano evangelico di Zaccheo (Luca, 19, 1-10), Mazzolari scriveva: “I poveri sono dappertutto e hanno il volto del Signore…
Ci si può arrampicare sopra un sicomoro per vedere il Cristo che passa, non sulle spalle della povera gente, come fa qualcuno, per darsi una statura che non ha”.
E qui entra in scena anche la giustizia.
Don Primo, infatti, ammicca a un altro “arrampicarsi”, quello che ha dato origine proprio al termine spregiativo “arrampicatori” sociali, coloro che senza decenza e umanità prevaricano sugli altri, usandoli per il loro successo e potere.
Il loro sicomoro è fatto di creature più deboli sulle quali si insediano per salire più in alto e dominare.
La parola di don Mazzolari si è sempre levata chiara e forte, anche in tempi rischiosi, per la denuncia di ogni ingiustizia, prevaricazione e arroganza.
Ma la sua evangelica apertura di cuore lo conduceva sempre all’appello, al dialogo e il suo messaggio diventa particolarmente significativo ai nostri giorni in cui impera lo scontro, il duello verbale e fisico con l’altro e col diverso, la chiusura integralistica e fondamentalistica.
Scriveva: “In ogni pensiero c’è un raggio di verità; in ogni ricerca un palpito di sincerità; in ogni strada un avviamento verso Dio.
Nulla è fuori del cristianesimo.
La redenzione ha acceso nel mondo una invincibile speranza che neanche l’inferno può spegnere”.
Egli era convinto, sulla scia delle stesse parole del Cristo giovanneo, che “il Calvario trascina l’umanità e la conduce verso l’infinito dei cieli”.
Ed è con tale spirito che don Primo ha percorso le strade di questo mondo e della storia: “Io cammino, cantando e piangendo, uomo libero tra uomini liberi, fratello tra fratelli verso la casa dell’Eterno”.
E tutta la sua esistenza umana e spirituale era da lui racchiusa autobiograficamente tra due estremi, in una confessione che potrebbe essere la sua ideale epigrafe: “La mia vita si svolge tra questi due momenti, come tra due poli opposti: la mia povertà e la tua sovrabbondante misericordia.
Donde il mio sospiro e il mio grido: Veni Domine, et noli tardare”.
(©L’Osservatore Romano – 24 marzo 2010)
don Peppe Diana
Nato a Casal di Principe il 4 luglio 1958, Diana entra giovanissimo – più per poter continuare a studiare che per vocazione – nel seminario di Aversa, dove frequenta la scuola media e il liceo.
Poi, dopo una brevissima parentesi romana, si iscrive alla Facoltà teologica meridionale di Napoli, retta dai gesuiti, al tempo guidati dallo spagnolo progressista Pedro Arrupe, e lì, grazie ad alcuni professori, respira l’aria della teologia della Liberazione e la predisposizione alla lettura critica della realtà sociale.
Sono gli anni a cavallo del 1980, quando in Salvador viene ucciso dagli squadroni della morte del regime militare, mentre sta celebrando la messa, Oscar Romero, il “vescovo fatto popolo” di San Salvador: un destino che sarà anche quello di don Diana.
Nel marzo del 1982 viene ordinato sacerdote e torna a Casal di Principe, dove inizia a seguire gli scout dell’Agesci.
Pochi mesi dopo, un avvenimento che segnerà profondamente la vita di don Diana: l’episcopato della Campania, il 29 giugno 1982, pubblica il documento Per amore del mio popolo non tacerò, una riflessione e un atto d’accusa contro la camorra, un appello ai credenti a partecipare attivamente alla vita civile, un’autocritica affinché la Chiesa vinca paure e convenienze e si schieri contro la criminalità organizzata.
È la prima volta che una Conferenza episcopale, benché regionale, pronuncia la parola “camorra”, infrangendo una mentalità e una prassi che la faceva considerare estranea alle preoccupazioni e alla prassi pastorale.
La nota dei vescovi campani resterà lettera morta per tanti, compresa la Cei che solo nel 1989 pubblicherà un documento ufficiale dedicato al mezzogiorno (Sviluppo nella solidarietà.
Chiesa italiana e Mezzogiorno) senza tuttavia mai scrivere “mafia” o “camorra”.
Non per don Diana però che, nominato viceparroco a Casal di Principe, alla pastorale ordinaria affianca un forte impegno sociale sul territorio che gli varrà l’etichetta di “prete anticamorra” e le accuse da una parte del clero e dei cittadini di essere un “prete comunista”, oltre che le intimidazioni della criminalità: una notte dell’autunno 1987, all’indomani di un convegno e di una marcia antiviolenza organizzati insieme ad altri due parroci di Casal di Principe, vengono sparati dei colpi di pistola alla finestra di casa sua.
Che però non fermano don Diana il quale anzi, insieme ad altri due preti di Casal di Principe, don Broccoletti e don Aversano, e ad alcuni giovani e gruppi di base, dà vita ad un comitato permanente anticamorra.
«È una seconda conversione provocata dal dolore e dalla violenza che lo circondavano», spiega Rosario Giuè, autore dell’unica biografia pubblicata di don Diana (Il costo della memoria, Paoline, 2007).
«Si è trovato dentro una situazione dura e non si è girato dall’altra parte, la vita reale lo ha cambiato più di ogni altra cosa.
Si è speso nel tentativo di fare prendere coscienza alla comunità dell’aversano che la camorra è una dittatura e voleva che tutta la Chiesa campana si coinvolgesse in un processo di liberazione e di profezia».
Nel 1989 viene nominato parroco di San Nicola, a Larino, uno dei quartieri più difficili di Casale, dove dà il via ad una piccola rivoluzione: il consiglio pastorale viene democraticamente eletto fra tutti i fedeli, le feste patronali esterne vengono abolite – anche per evitare sprechi di denaro e inquinamenti camorristici – viene aperto un centro di accoglienza per gli immigrati.
Intanto la guerra fra gli Schiavone e i De Falco si intensifica, anche in seguito alla scomparsa dei vecchi boss Antonio Bardellino e Mario Iovine: si moltiplicano i morti ammazzati, anche innocenti (un giovane testimone di Geova ucciso per sbaglio durante una sparatoria in strada fra camorristi nell’estate del 1991), i De Falco organizzano un corteo con decine di uomini armati e a volto scoperto che sfilano per le vie del paese fin sotto le finestre dei nemici, emerge il potere di Francesco Schiavone “Sandokan”.
In questa situazione don Diana riprende l’iniziativa e nel Natale del 1991 convince i parroci e i preti della foranìa di Casal di Principe a firmare e a diffondere nelle parrocchie un documento che condanna la camorra, denuncia della latitanza dello Stato e critica il silenzio della Chiesa.
«La camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura e impone le sue leggi», scrivono i preti.
«Il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli.
La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi».
La Chiesa deve recuperare il suo «ruolo profetico affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia».
Il testo ha una grande risonanza, e Casal di Principe finisce sotto i riflettori: aumenta la polizia, arrivano gli arresti, il Consiglio comunale viene sciolto per infiltrazioni mafiose e rimane commissariato per due anni e mezzo, fino al novembre 1993, quando le elezioni amministrative vengono vinte da una lista civica con una forte presenza del volontariato parrocchiale che tuttavia avrà vita breve.
Il confine è stato passato.
Bisogna dare un segnale, così come hanno fatto a Palermo i Graviano, ordinando l’omicidio di don Puglisi.
A Casal di Principe si colpisce don Giuseppe Diana, nel giorno del suo onomastico, in chiesa.
E si tenta di ucciderlo anche da morto, infangando il suo nome, distruggendo la sua immagine per demolire la sua azione di risveglio delle coscienze.
“Don Diana a letto con due donne”, “Don Diana era un camorrista”, titolano il Corriere di Caserta e altri giornali locali, imboccati dai soliti professionisti della disinformazione.
Poi i tribunali diranno come sono andate le cose: il prete è stato ucciso per il suo impegno antimafia.
E condanneranno esecutori materiali e mandante, Nunzio De Falco, difeso dall’avvocato berlusconiano Gaetano Pecorella, oggi presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, che ancora la scorsa estate metteva in dubbio la verità giudiziaria storica.
«Gli assassini di don Diana sono stati condannati ma restano impuniti i mandanti morali dell’omicidio», dice Sergio Tanzarella, docente di Storia della Chiesa e vicepresidente della Fondazione don Giuseppe Diana.
«I mandanti di allora e di oggi sono gli stessi.
Sono i sostenitori in giacca e cravatta di una mentalità camorristica che alimenta e sostiene la camorra che dicono a parole di combattere quando non ne negano l’esistenza.
Sono quelli che isolarono di fatto don Diana facendolo diventare un comodo bersaglio.
Ancora oggi occupano le istituzioni e dirigono l’economia.
Decine di migliaia di manifesti con le loro facce sorridenti presidiano con arroganza il territorio in vista delle elezioni.
E oggi come allora molti di loro saranno eletti in nome di un dominio assoluto verniciato da democrazia».
E monsignor Raffale Nogaro, vescovo emerito di Caserta assai vicino a don Diana (e presidente della Fondazione), chiede la beatificazione del prete “martire” della camorra: «Giuseppe Diana è il riscatto delle nostre terre sempre oppresse, è l’anima pulita delle nostre Chiese meridionali» che «non hanno voluto combattere il male della camorra» ma «si sono rassegnate a forme di convivenza e di opportunismo».
Ora «è giunto il momento di proclamarlo beato» perché «la Chiesa non potrà mai assumere il volto della purezza evangelica se non presenta i suoi martiri della libertà contro le presenze massacranti della camorra».
in “il manifesto” del 19 marzo 2010 Una Fiat Uno rossa si ferma davanti alla parrocchia di San Nicola, a Casal di Principe, poco dopo le sette del mattino.
Due uomini scendono, entrano in chiesa, si dirigono verso la sacrestia.
«Chi è don Peppe?», chiedono.
Poi sparano, quattro colpi di pistola e il parroco, don Giuseppe Diana, cade, ucciso.
È il 19 marzo 1994, Casal di Principe è il campo di battaglia su cui i De Falco e gli Schiavone si combattono per conquistare l’egemonia sul clan dei casalesi, e don Diana è un giovane parroco di 36 anni che parla, scrive, denuncia, incoraggia i fedeli e gli altri preti ad uscire dalla sacrestia, ad alzare la voce e a lottare contro il sistema della camorra per il riscatto sociale dei loro territori.
Per questo, 16 anni fa, viene ammazzato.
È la seconda volta in sei mesi che le mafie uccidono un prete che non abbassa la testa: a settembre era toccato a don Pino Puglisi, a Palermo, del quartiere Brancaccio dei fratelli Graviano.
Adesso tocca al parroco casertano.
Colpevoli, entrambi, di aver abbandonato il recinto del sacro, di aver preso la parola rompendo il muro di omertà e la cappa di rassegnazione, di aver organizzato la resistenza e la speranza.
«Non sono un prete anticamorra», diceva don Diana poco prima di essere ucciso, ma «un uomo di Chiesa che si limita a lottare, accanto alla gente che abita questi luoghi, nel tentativo di affermare quei diritti negati che il malgoverno e la camorra hanno sempre negato».
Nicola Mazza: un educatore nella Verona ottocentesca
Dal punto di vista politico, l’Ottocento – segnato dalla fine del potere temporale, dalla rottura con il liberalismo e la modernità, dall’avanzare dell’incredulità e della miscredenza – fu per la Chiesa cattolica il secolo forse più tragico di tutta la sua storia.
Una sequenza di sconfitte, di ritirate, di chiusure che isolarono la Santa Sede e la misero in rotta di collisione con tutto e con tutti.
Ma se consideriamo quel periodo sotto il profilo religioso e non politico, la prospettiva cambia e dobbiamo parlare di uno dei periodi più felici e innovativi di tutta la storia cristiana.
Fu nel corso dell’Ottocento, infatti, che la carità cristiana ebbe modo di esprimersi attraverso una straordinaria esplosione di creatività, se mi è permessa quest’espressione, di fronte ai nuovi, inediti bisogni materiali, morali ed educativi della civiltà postrivoluzionaria, caratterizzata anche in Italia, sia pure in ritardo rispetto al resto dell’Europa, dall’inizio dell’industrializzazione, dal cambiamento del volto delle città, dalla nascita del mondo borghese e di un nuovo pauperismo, dall’aumento della domanda di assistenza, di cultura e di istruzione.
Da Giovanni Bosco a Giuseppe Cottolengo, da Antonio Rosmini a Giuseppe Cafasso a Lodovico Pavoni a Ferrante Aporti, furono innumerevoli i religiosi, alcuni noti ma molti ancora sconosciuti o semisconosciuti, che nel campo educativo, pedagogico e assistenziale, trasformarono le tradizionali forme caritative del cattolicesimo, fondando istituzioni e nuovi ordini che vennero incontro, molto più di quanto non si immagini, ai bisogni sociali del nostro Paese negli anni precedenti e successivi all’unificazione.
Anche la storiografia accademica sta scoprendo questo mondo semisommerso ma vivacissimo, dal quale uscì trasformato soprattutto il ruolo femminile, con la nascita della figura della suora, cioè di un nuovo modello di donna consacrata: attiva, autonoma, presente nel secolo e attenta ai suoi infiniti bisogni, mentre prima esisteva quasi soltanto la monaca di clausura.
Il vecchio giudizio di Benedetto Croce, che nella Storia d’Europa (Editore Laterza, 1938) definiva il cattolicesimo ottocentesco “prevalentemente politico e incapace di generare nuove forme e persino nuovi ordini religiosi” non ha davvero nessun fondamento e deve essere non solo rivisto ma addirittura capovolto.
Verona è una delle città italiane in cui questo nuovo cattolicesimo dalla carità attiva e operosa fu più incisivo.
Tutti gli stranieri che vi transitarono non mancarono di notarlo, da Goethe, che fece in riva all’Adige la prima tappa del suo viaggio in Italia, all’austriaco Alois Schlör, che scrisse attorno al 1840 un libro intero sulla religiosità veronese e i suoi protagonisti, intitolandolo Filantropia della fede (Editrice Mazziana, Verona, 1992).
Una delle figure più caratteristiche di questa Verona ottocentesca ancora poco conosciuta fu don Nicola Mazza (1790-1865), il fondatore dei due istituti scolastici, uno maschile e uno femminile, che avevano l’obiettivo di fornire ai capaci e meritevoli, come diremmo oggi, ma sprovvisti di denaro, quella preparazione che da soli non avrebbero mai potuto raggiungere.
Cominciò nel 1828 con le ragazze e cinque anni dopo allargò l’iniziativa ai “soli giovinetti poveri” forniti di ingegno, moralità e buona volontà, con l’obiettivo di portarli fino ai gradi più alti dell’istruzione, cioè al titolo universitario da conseguirsi all’ateneo di Padova.
Mazza era uomo dell’Ottocento e viveva in una città compatta, ben lontana da quella che oggi chiamiamo interculturalità.
Pensando ad una missione in Africa sognava la cristianizzazione di un continente ancora vergine e non si poneva i problemi che sorgeranno dopo, quando i missionari cominciarono ad operare sul campo: lo sbalzo di civiltà fra l’Europa e l’Africa primitiva, il rapporto con l’islam, la difficoltà di comunicazione con popoli che usavano lingue sconosciute e senza una codificazione scritta, la difficoltà di trasmettere il cristianesimo a chi non l’aveva mai conosciuto.
Ma è indubbio che dalla sua intuizione nacquero impensabili e duraturi sviluppi, non solo in termini di cristianizzazione missionaria ma anche di scambio di civiltà, di culture, di conoscenze.
I missionari di Mazza entrarono in Africa – siamo a metà dell’Ottocento – attraverso l’unica “strada” allora percorribile: il corso del Nilo, che attraversava l’Egitto.
E così impattarono nell’islam.
L’islam egiziano ottomano non era certo quello fondamentalista e orgoglioso di oggi, ma i nostri missionari, che furono fra i primi europei a stabilire contatti stabili con il mondo islamico, ebbero ugualmente l’impressione di trovarsi di fronte ad una montagna tetragona e inespugnabile.
Nei rapporti che mandarono a Verona e alla Santa Sede – dove si avverte che in Africa la Chiesa cattolica deve “far presto”, altrimenti perderà definitivamente la partita africana, perché dove arriva l’islam non arriva più la croce – in questi rapporti c’è l’intuizione di un grandioso problema di incontro-scontro di civiltà e di culture di cui oggi, e solo oggi, siamo in grado di avvertire tutte le implicazioni.
Ma l’intuizione africana di Mazza portò ad un’altra imprevista conseguenza.
I missionari furono autorizzati dal governo egiziano a svolgere il loro proselitismo solo al di fuori dell’area islamizzata, cioè verso le popolazioni nere dell’attuale Sudan a sud di Khartoum.
Per raggiungerle dovettero improvvisarsi esploratori lungo il corso dell’Alto Nilo.
Percorsero così migliaia di chilometri nella regione che oggi sta a cavallo fra Sudan e Uganda proprio negli anni in cui in Europa esplodeva la febbre del Nilo e l’affannosa ricerca delle sue sorgenti ancora misteriose, che si pensava fossero la porta d’accesso al cuore dell’Africa nera.
Il mistero del Nilo divenne la più appassionante questione geografica del tempo, il porro unum degli infiniti misteri africani. Come si sa saranno gli inglesi a risolvere per primi il mistero giungendo alle sorgenti del fiume, ma ciò che non si sa, o che pochi sanno, è che furono i missionari del Vicariato apostolico dell’Africa Centrale, la circoscrizione ecclesiastica fondata dalla Santa Sede nel 1846 e nella quale si inserirono i sacerdoti mazziani, che fornirono all’Europa, con i rapporti dei loro viaggi di esplorazione lungo il fiume e sulle sue sponde, le informazioni di cui si avvarranno gli inglesi per arrivare alle sorgenti del fiume.
Furono in particolare i rapporti scritti da Ignaz Knoblecher (1819-1958), un missionario sloveno responsabile del vicariato, di cui esiste nel Museo etnologico di Lubiana un ricco fondo di reperti relativi alle popolazioni nilotiche, e da Angelo Vinco (1819-1853), il primo missionario mazziano giunto in Sudan, che diedero all’Europa le chiavi d’accesso alle mitiche sorgenti del Nilo.
Nelle memorie di Speke e Grant, i due ufficiali inglesi cui si attribuisce il merito della scoperta, il debito nei confronti dei due sacerdoti è ammesso, come è ampiamente riconosciuto in un celebre romanzo ottocentesco, Cinque settimane in pallone di Jules Verne, che nelle pagine iniziali sintetizza con grande precisione la questione della scoperta delle sorgenti del fiume.
E fra i missionari mazziani che si conquistarono fama e prestigio fra gli africanisti della prima ora va annoverato Giovanni Beltrame (1824-1906), uno dei pochissimi che riuscirono a sopravvivere al micidiale clima delle regioni nilotiche, che scrisse libri e rapporti allora molto apprezzati sulle sue esplorazioni ed esperienze d’Africa e che poi divenne, qualche anno prima di morire, superiore generale dell’Istituto mazziano.
Ma il più celebre e meritevole fra gli allievi di Mazza, fra i figli della sua pionieristica intuizione della missione in Africa, fu Daniele Comboni (1831-1881), il vero fondatore della missione in Sudan, nonché fondatore della congregazione missionaria tuttora prospera e attiva in ogni continente, soprattutto fra le popolazioni più diseredate e abbandonate.
Comboni fu interamente plasmato da Mazza, ma in Africa, di fronte ai mille problemi concreti cui dovette far fronte, ripensò e rivide l’idea del fondatore, spogliandola dei suoi aspetti romantici e utopici e trasformandola in un progetto concreto, sostenibile, realizzabile.
Negli ultimi anni della sua vita collaborò attivamente con il più celebre fra gli europei operanti allora in Sudan, Charles Gordon, il mitico Gordon pascia, allora funzionario del governo egiziano ma in realtà battistrada del colonialismo britannico, il quale, pur se frenato da pregiudizio anticattolico della sua rigida educazione anglicana, ebbe grande stima dell’operato di Comboni, benché fosse un sacerdote romano, ne favorì le opere e avrebbe voluto avvalersi dell’aiuto delle sue suore, se Comboni ne avesse avute a disposizione in numero sufficiente da poterne cedere all’amico inglese.
Un progetto, quello di Comboni, che ha superato la sfida del tempo, è sopravvissuto alla rivolta islamica della Mahdia, che infiammò il Sudan nell’ultimo quindicennio dell’Ottocento e poi al colonialismo anglo-egiziano, e ha dato vita all’attuale Chiesa sudanese.
Oggi in Sudan, una delle terre d’elezione, come ben sappiamo, del moderno fondamentalismo islamico, non esiste più nulla del passato coloniale, solo ricordi in via di estinzione.
L’unica istituzione giunta in quel Paese dall’Europa che è riuscita a sopravvivere, trasformandosi e incarnandosi fino a diventare una realtà locale, cioè un’istituzione interamente sudanese, con un episcopato nero, è la Chiesa.
Ciò è frutto della duttilità dell’istituzione ecclesiastica, un’istituzione che per sopravvivere ha dovuto, nel corso dei secoli, imparare a mutare conservando sempre lo stesso volto.
(©L’Osservatore Romano – 14 marzo 2010 Il suo metodo pedagogico, caratterizzato da una specie di classismo alla rovescia, largamente in anticipo sui tempi, per l’intransigente preferenza accordata al povero sul ricco, si fondava su una disciplina severa e su una straordinaria ampiezza culturale, che faceva largo posto alle lingue straniere – francese, inglese, tedesco, spagnolo, con l’obbligo per gli studenti di parlare tra di loro nella lingua che stavano studiando – e alle discipline geografiche. Perché la geografia? Perché gli anni in cui Mazza fonda i suoi istituti non sono soltanto quelli della Restaurazione, cioè del ritorno all’ordine e alla disciplina, che a Verona significavano il regno del Lombardo-Veneto incorporato nell’Austria asburgica.
Sono anche quelli in cui inizia la scoperta del mondo extraeuropeo e in particolare dell’Africa, che poi diventerà il mito di almeno tre generazioni di italiani.
Mito che all’inizio, con l’avvio dei primi grandi viaggi di esplorazione nelle remote regioni della Nigrizia, come si chiamava allora l’Africa nera, a sud del deserto, fu esplorativo, favolistico, avventuroso, ma che diventa poi una realtà ben più concreta, economica e commerciale, attraverso il progetto del taglio dell’istmo di Suez, cui si appassionò tutta l’Europa e, negli anni a cavallo della metà del secolo, soprattutto il governo viennese, ben consapevole del vantaggio che ne sarebbe derivato ai porti di Trieste e di Venezia.
Oggi nessuno ricorda più che il progetto esecutivo del taglio di Suez, l’opera tecnicamente più grandiosa compiuta nell’Ottocento, non si deve al francese Ferdinand de Lesseps ma ad un ingegnere veneto, direttore delle ferrovie austriache, Luigi Negrelli, che si avvalse dell’aiuto di Pietro Paleocapa, ingegnere padovano e anch’egli pubblico funzionario a Venezia, prima di emigrare a Torino e di diventare ministro dei Lavori pubblici del governo subalpino.
Di Suez, dell’Egitto che si stava modernizzando e aprendo all’Europa e dell’Africa che cominciava a svelare i suoi misteri si parlava molto, insomma, negli ambienti colti del Lombardo Veneto.
E se ne parlava anche a Verona, città molto meno chiusa e provinciale di quanto si potrebbe credere, pensando che sotto l’Austria fu trasformata nel perno del sistema militare e difensivo asburgico, diventando in pratica una città fortificata, una grande caserma.
Non è un caso se pochi anni dopo si sbriglierà proprio a Verona la fantasia dello scrittore Emilio Salgàri, che ambientò in Africa un intero ciclo dei suoi romanzi.
Mazza era certamente filoaustriaco – austriacante, si sarebbe detto una volta – ma era uomo complesso, ricco di fermenti e di intuizioni, interiormente libero.
Era amico di patrioti che sono entrati nella storia nazionale, alcuni dei quali saranno fra i martiri di Belfiore, era molto legato ad Antonio Rosmini.
Recepiva le idee nuove che circolavano nella città, una delle quali era appunto l’Africa, il continente del futuro, secondo le ottimistiche previsioni di allora dove, al Cairo, lavorava come diplomatico del governo viennese il figlio di una delle figure più in vista della Verona del tempo, il conte Carlo Scopoli.
E così il suo progetto educativo e culturale a favore dei giovani capaci e meritevoli ma privi di mezzi, come diremmo oggi, si arricchì di un capitolo nuovo: il capitolo che prevedeva l’apertura di una missione in Africa.
Non abbiamo tempo di seguire la complicata vicenda attraverso la quale quest’idea passò dalla fantasia alla realtà.
Basterà dire che Mazza, un uomo che sapeva esercitare sui suoi allievi un carisma fortissimo, convinse alcuni di essi che avevano scelto il sacerdozio – il suo collegio era aperto a laici che sceglievano le professioni liberali e a chierici che optavano per il sacerdozio – a farsi missionari in Africa.
È allora che lo studio della geografia divenne sistematico, mentre alle quattro lingue già insegnate si aggiunse l’arabo, che Mazza affidò ad un docente di madrelingua, cioè ad un egiziano reclutato a Milano.
)
Il dialogo tra un ateo e un credente
Sono curiosi l’uno dell’altro e diventano amici fin dall’incontro d’esordio, nel 1978, frequentandosi poi al di là dei vincoli di protocollo.
Pranzi segreti.
Telefonate dirette.
Colloqui privati e abbracci in pubblico.
Con schermaglie giocose, persino, tanto che in una visita di Stato li si vede baloccarsi su chi abbia la precedenza a varcare le porte dei saloni apostolici: «Prego, prima lei»; «No, prima lei… ubi maior, minor cessat»; «L’ospite è sempre maior, avanti».
Una familiarità che li spinge a scappare insieme dai rispettivi palazzi per una gita in montagna, come due studenti che marinano la scuola.
«Presidente, vuol venire a sciare con me?».
«Santità, non so sciare, mi spiace».
«Venga lo stesso, l’aria buona le farà bene».
Tre giorni dopo sono sull’Adamello, a tremila metri di altezza, e il vecchio ex partigiano grida al Papa che scende dalle piste: «Ma lei volteggia come una rondine».
Ecco come sono i rapporti tra Sandro Pertini e Giovanni Paolo II quando, tra il 31 marzo e l’8 aprile 1983, i due che hanno reso «più strette le sponde del Tevere» si scambiano un saluto pasquale.
L’iniziativa la prende il capo dello Stato, un ateo che, nella memoria della cattolicissima madre, ha «la tentazione della fede».
Prende carta e penna e prepara una lettera dove a ogni riga echeggia la questione polacca, aperta dalla prova di forza tra Solidarnosc e il regime comunista, e nella quale pesa molto l’Ostpolitik vaticana.
I suoi auguri sono un esorcismo.
Infatti, la ricorrenza che si avvicina, diversamente dalla promessa della Pasqua come «liberazione» (dalla schiavitù per gli ebrei d’Egitto, dalla morte a una vita nuova per i cristiani), sembra offrire allora solo incognite e paure.
Specie a Varsavia e dintorni.
Pertini scrive di getto, con poche correzioni: «Santità, sia pace all’animo suo, sempre proteso verso quanti soffrono perché privi del necessario per vivere o perché giacciono inermi sotto la prepotenza altrui.
Sia pace al suo coraggioso popolo, che tanto io amo e che oggi non è libero come liberi dovrebbero essere tutti i popoli e tutte le umane creature.
Non servi in ginocchio siano, ma uomini liberi, in piedi, padroni dei propri pensieri e dei propri sentimenti.
Sia pace, Santità, all’umanità intera: fratelli si sentano tutti i popoli, legati ormai dallo stesso destino: o vivere affratellati insieme da comune aiuto reciproco o insieme perire nell’olocausto nucleare…».
Risponde il Pontefice, una settimana più tardi, colpito dagli «accenti di intensa commozione » nel ricordo delle «persone e popoli che soffrono perché privi di questo bene umano fondamentale» che è la pace.
Quell’augurio, dice Karol Wojtyla, «ha suscitato in me eco profonda.
Ancora una volta nelle sue parole ho sentito vibrare la nobiltà di un animo che sa interpretare le ansie e le speranze insieme condivise.
Le sono grato per la sua sincera amicizia, che vivamente apprezzo.
E la ringrazio altresì per i sentimenti di simpatia e stima per la mia Patria…».
Il Papa sa che quella di Pertini, espressa con la retorica un po’ rétro dell’umanesimo socialista, è una vicinanza vera.
Da tempo il Quirinale, incurante delle prudenze diplomatiche, ha messo in mora il cosiddetto socialismo reale: lo testimoniano un’aspra missiva a Breznev in favore dei dissidenti sovietici e il messaggio di «deplorazione» alla Polonia per il golpe di Jaruzelski.
Così come è autentico il pacifismo del presidente, testimoniato dai suoi appelli per il disarmo («si svuotino gli arsenali, si colmino i granai»), a cavallo della crisi per gli euromissili.
Entrambi hanno visto il celebre film di Andrzej Wajda L’uomo di marmo, e ne hanno discusso considerandolo una premonizione per i Paesi dell’Est sotto il giogo di Mosca: «Un giorno saranno liberi».
Il Pontefice gli ha raccontato la sua esperienza di operaio e poi di sacerdote e vescovo perseguitato.
Il presidente la sua vicenda di antifascista, esiliato, incarcerato e condannato a morte.
Ora insieme si impegnano, ognuno dal proprio versante, a gettare ponti per dialoghi quasi impossibili tra Est e Ovest.
Grandi comunicatori, si battono per allargare i margini di speranza che la storia in quel momento concede.
E sarà anche questo modo di affrontare a viso aperto le tragedie dei totalitarismi a farli percepire dalla gente come due autorità morali.
A renderli icone del Novecento.
Al punto che un intellettuale abrasivo e fuori dal coro come Guido Ceronetti ironizza sulla «papagiovannificazione » del presidente della Repubblica eletto con la più larga maggioranza mai registrata: 832 voti su 995.
Calore umano, vitalità, fierezza, intransigenza e capacità di resistere, commuoversi e indignarsi.
Sentimenti che, nel caso di Pertini, riaffiorano oggi, a vent’anni dalla morte (24 febbraio 1990), da quell’inedito scambio epistolare conservato presso l’Associazione che porta il suo nome.
Alle soglie del nuovo millennio, un sondaggio Doxa lo aveva indicato come «l’italiano del XX secolo», con il triplo dei consensi attribuiti al suo persecutore Mussolini, che un certo revisionismo vorrebbe riabilitare alla stregua di un «buon dittatore».
In realtà, come spiegò lo scrittore argentino Osvaldo Soriano, «non è necessario essere italiani per essere orgogliosi di lui.
Basta appartenere al genere umano».
Francesco «cataro»? Anzi, era il contrario
Ln realtà, al di là dell’impostazione esoterica della presentazione del cristianesimo, si tratta di un elenco di rilievi estrapolati senza ordine alcuno dalle fonti e dalla bibliografia francescane e riordinate arbitrariamente in modo da consentire all’autore dell’escamotage di rispondere affermativamente alla questione se Francesco fosse cataro o se la sua dottrina avesse punti di contatto con quella catara (il che, palesemente, non è la stessa cosa).
Il tutto alla luce d’una conoscenza erudita piuttosto generica e schematica del catarismo e di pochissimi dati su Francesco, la sua personalità, il suo tempo, il contesto storico nel quale egli si mosse.
Oggi sappiamo bene – e su ciò v’è un’ampia concordia degli specialisti – che il catarismo fu il complesso risultato dell’incontro tra movimenti religiosi a carattere evangelico e sette cristiane d’origine balcanica (i «bogomili»), a loro volta eredi di una tradizione che attraverso il paulicianesimo anatomico si riallacciava al manicheismo.
I predicatori catari, che verso la metà del XII secolo ebbero un grande successo in un’ampia area tra Provenza, Renania, Lombardia e Toscana, si presentavano come buoni cristiani che proponevano una riforma morale della Chiesa e giungesse a rifondare la pura comunità delle origini.
Il catarismo corrispondeva però a una setta iniziatica, fondamentalmente basata su due livelli: al primo, quello dei «credenti», s’insegnava la «pura dottrina cristiana» soprattutto attraverso il Vangelo di Giovanni; al secondo, quello dei «perfetti», si riceveva una sorta di rito di iniziazione, il consolamentum (un «battesimo spirituale»).
Gli eretici «consolati» o «perfetti» erano obbligati a mostrarsi in pubblico austeramente vestiti di nero, a non assumere cibi carnei o derivanti dall’accoppiamento animale (uova, latte, eccetera) e – quando lo ritenevano opportuno – si suicidavano lasciandosi morire di fame («endura»).
Data la durezza della dottrina nella sua fase più alta, la maggior parte dei «credenti» riceveva il consolamentum solo in punto di morte.
La teologia catara, che ci è nota attraverso testi recentemente ripubblicati anche in Italia dal filologo Francesco Zambon, sosteneva che l’universo assiste a una lotta eterna tra Bene e Male, che Dio è sostanza spirituale purissima dal quale emanano il Cristo e gli angeli, che la materia è totale dominio del Male ed è stata creata da un Demiurgo corrotto che si può identificare con il satana dei cristiani.
L’uomo, in cui Spirito e Materia coabitano, deve liberare in sé il primo dalla seconda. Questa dottrina, di evidente origine manichea, ha difatti rapporti strettissimi con il mazdaismo persiano e con lo stesso buddismo, ma non ha nulla a che vedere con il cristianesimo.
D’altronde, dal momento che i catari avevano conquistato la Provenza, fu necessaria per sradicarli una vera e propria crociata (la «crociata degli albigesi», 1209-44), che fu episodio d’inaudita violenza.
Francesco visse appunto in questo periodo e fu pellegrino a Santiago de Compostela proprio negli anni in cui la crociata era in atto, attraversandone i luoghi.
Non ci dice nulla di ciò.
Egli non era certo un cataro «perfetto», in quanto sappiamo che mangiava tutto quel che gli veniva posto dinanzi, come recita anche la sua regola.
Poteva essere cataro «credente», o simpatizzante per i catari? No, in quanto sappiamo che tratto comune al catarismo era l’avversione al sacerdozio e alla Chiesa «corrotta»: Francesco, al contrario, raccomanda di rispettare i preti anche quando si sa che sono peccatori.
Tutta la sua predicazione è imperniata su temi che appaiono anche di propaganda anti-catara: non che lo facesse espressamente, ma quello era il suo tempo e quelli gli interlocutori che doveva contrastare.
Il Cantico delle creature è un vero e proprio manifesto anti-cataro, in cui la potenza e la misericordia di Dio si manifestano nel creato e tutte le creature tendono a Dio: se per Francesco è insensata l’accusa di «panteismo», ancora più lo è il sospetto di «catarismo».
Da dove risulta che Francesco ritenesse il creato un male, e vedesse in Satana il creatore dell’universo? Parimenti ridicole le altre argomentazioni.
«Disprezzo del corpo», detto «frate asino»? Siamo nella più semplice tradizione mistico-ascetica cristiana, e del resto Francesco disprezzava tanto poco il suo corpo che il suo ultimo pensiero, in punto di morte, fu di mangiare dei dolci…
Preferenza per la preghiera del Pater? Ma è la preghiera più comune di tutti i cristiani.
Predilezione per la vita eremitica e la tradizione itinerante: siamo nella più assoluta ortodossia! Scelta di non farsi sacerdote? Un atto di umiltà, che in ogni modo non gl’impedì di essere diacono, quindi inserito nella gerarchia ecclesiastica.
Assoluto rifiuto della ricchezza? Siamo ancora nella tradizione ascetico-mistica cristiana, con il fatto nuovo che Francesco non impedì mai a chi non appartenesse al suo ordine di arricchirsi e non parlò mai della ricchezza come di un male assoluto.
E così via.
I punti di contatto, se ci sono, sono tra catarismo e cristianesimo, non tra catarismo e Francesco.
Anche per l’immagine «serafica» del Cristo delle stimmate, portata come prova di adesione alla dottrina catara per cui Cristo era in realtà un angelo, anzitutto le fonti presentano l’episodio in vario modo e in secondo luogo il rapporto tra il Cristo e le forme angeliche ha una lunga tradizione nell’angelologia cristiana.
E quanto all’uso francescano dei vangeli apocrifi, come nell’episodio del presepio di Greccio, l’iconografia cristiana del medioevo è largamente ispirata agli apocrifi, mentre sono semmai proprio i catari che usano il solo Vangelo di Giovanni.
Ultimi e decisivi punti.
Primo: l’autore ignora quasi tutti gli scritti di Francesco, escluso il Cantico, e in particolare le sue preghiere e i piccoli trattati che rispettano la più rigorosa ortodossia latina.
Secondo: Francesco non ha mai disobbedito alla Chiesa; e questo è il suo tratto decisamente e definitivamente anti-cataro.
Non basta insomma conoscere qualche elemento di teologia e di filosofia per affrontare un tema come quello proposto da questo libro, l’assunto del quale è improponibile.
Si tratta di un lavoro senza fondamento scientifico e senza valore.
in “Avvenire” del 2 febbraio 2010 Che Francesco fosse vicino al catarismo, o simpatizzasse per i catari, o fosse addirittura cataro egli stesso, sono temi che ogni tanto riemergono in una letteratura che – senz’ombra di disprezzo – non solo non è specialistica (vale a dire non ha alcun connotato di specializzazione scientifica relativa ai temi che affronta), ma che in genere parte da una tesi: quella del «mistero», della «parola perduta», o semplicemente dell’«inganno» messo in atto dalla Chiesa per appropriarsi di qualcuno o di qualcosa.
Che poi tale letteratura possa annoverare tra i suoi esempi anche casi di libri ben scritti, frutto della fatica e dell’impegno di persone appassionate e dotate di buon livello di cultura generale, è abbastanza raro: ma può capitare.
Solo che non aggiunge nulla al fatto che si tratta di voci scientificamente irrilevanti.
Davanti a un libro di storia di un personaggio del primo Duecento importante sotto il profilo religioso, chi si trova tra le mani un nuovo libro deve anzitutto controllare se l’autore conosce tre cose: le fonti specifiche dell’argomento, la letteratura scientifica relativa, il contesto storico in cui collocare personaggio e vicenda di cui si parla.
Tali competenze non risultano dall’esame de L’albero del Bene, recente libro di Giuseppe A.
Spadaro che azzarda nel sottotitolo addirittura la definizione di «san Francesco teologo cataro» (Arkeios, pp.
292, euro 24,90).
I
Gli alberi della quaresima
Mercoledì, dopo la messa delle Ceneri nella valle, sono tornata a casa di notte, immersa nella nebbia.
La mia lampada illuminava appena quanto bastava per fare un passo dopo l’altro nella neve onnipresente.
Piccola e sola in questa lunga strada deserta che sale attraverso la foresta bianca e nera.
Per quaranta minuti, avanzando con passo regolare nel cuore del grande silenzio, con il rumore della slitta carica di viveri che trascino.
A questa altitudine, sono in una nuvola, una massa opaca e densa di minuscole gocce che mi inzuppano quanto la mia felice traspirazione, cancellando il segno delle ceneri sulla fronte.
Solitudine abitata, piena fede, azione di grazia del corpo che traccia con tutto se stesso il suo percorso nella notte, piedi solidi a terra, cammino verso il cielo, salendo pazientemente verso la casa: concreta penitenza, spogliazione incarnata, buon inizio di quaresima.
E la quaresima, è la festa.
Tra i suoi tre alberi: dono, digiuno, preghiera, sistemo, da ramo a ramo, la mia capanna tra cielo e terra, dove vegliare in una raddoppiata intimità con il cielo e la terra.
Donare, digiunare e pregare fanno parte di uno stesso movimento: privarsi, far posto dentro di sé grazie alla privazione, lo spazio intimo in cui può dispiegarsi la vita, l’incontro reale.
Un po’ come, nello tzsimtzum, Dio si ritira per permettere lo sviluppo del mondo.
Se mi dono, se mi privo, se mi affido, non faccio che offrirmi più che nuda all’amore che mi raggiunge, si dona, si priva, si affida, nel tu per tu donato, privato, offerto.
Se mi spoglio di ciò che non è essenziale, realizzo il mio cammino di essere umano, la mia gioia: andare all’Essenziale.
Come qualcuno che, nella notte e nella nebbia, avanza coraggiosamente verso la sua casa, e vede la notte e la nebbia trasformarsi in grazia.
Lassù, non ci sono né internet né televisione.
A volte mi dico: bisognerà che accenda la radio per le informazioni.
Ma mi dimentico sempre.
Perché mai essere sempre collegati con le miserie del mondo? Le miserie del mondo sono il divertimento nascosto dell’uomo moderno.
E nei divertimenti che manifesta, scoppia la miseria.
Non ho bisogno di riempirmi di informazioni per trovare il mondo, sentirlo, conoscerlo.
Al contrario, più mi riempio di informazioni, più esse fanno schermo ad una percezione profonda, ad una compassione reale.
Parlo di me o di voi, lo faccio per parlare di noi, al nostro cuore, dove siamo uguali.
Al nostro cuore troppo spesso nascosto o addirittura spento sotto mucchi di realtà ingombranti di cui la quaresima ci invita a liberarci.
Denudarci nei nostri rapporti con le cose, con i fatti, con gli uomini.
Nell’ascesi si impara ad accontentarsi.
Accontentarsi di poco, saggezza universale.
Ma non solo.
L’ascesi di quaresima, in particolare, è tesa verso un compimento, un incontro, una resurrezione dell’essere.
È un cammino, un movimento, un desiderio di progressione.
Si tratta di essere capaci di andare al vero, e non di spegnere il desiderio né di morire di fame.
L’abbondanza e la facilità ci divertono e ci paralizzano, ci rendono incapaci di andare fino al fondo dell’amore.
L’ascesi ci libera dalla nostra impotenza liberandoci dalla paura del rischio.
Privarsi, per un po’, di divertimenti, di carni, di dolciumi, di alcolici, si crede che sia difficile, ma basta abbandonare questa credenza, abbandonarsi a farlo, per accorgersi che non è niente.
Per accorgersi che si è guadagnato molto in libertà, e quindi in possibilità di amare veramente.
Ogni mattina, alzandomi, getto nella neve la cenere del giorno prima.
Scia nera nella china bianca sotto la mia casa, che la prossima neve cancellerà.
Quel che è passato è passato, ma già la brace rosseggia di nuovo, tutta la notte il fuoco cova sotto la cenere in fondo alla stufa, tutto il giorno si leva e brucia: allo stesso modo l’amore cova sotto l’ascesi, poi, purificato, si innalza e brucia.
Di giorno cammino, porto la spesa, metto in casa la legna, tolgo la neve davanti alla casa, rompo il ghiaccio…
L’ascesi è fisica – ed è per questo che anche l’amore fisico può essere un’ascesi, se è vissuto come umile, bruciante e innamorata intimità con Dio.
Non c’è spiritualità senza ascesi, non c’è ascesi senza fisico, non c’è amore compiuto senza spiritualità fisica.
“Non sono piccolo, sono lontano”, dice uno dei miei amici montanari.
L’ascesi, è il prendere la giusta distanza.
Distanza necessaria al desiderio, che simultaneamente si annulla e si esaudisce nell’estrema vicinanza che è l’intimità con l’essenziale.
Con l’esercizio della mancanza, l’ascesi abolisce la mancanza.
Abolisce la separazione tra il desiderio e il suo compimento.
Nell’ascesi il mio desiderio non è ciò che mi possiede o ciò che io domino – in un caso come nell’altro ne sarei sempre schiavo.
È ciò che sono: non un essere che gode del suo desiderio (sia che lo idolatri, sia che si applichi a dominarlo, questa situazione è un abisso), ma un essere nella gioia, il cui desiderio è ad immagine del desiderio e della parola di Dio: proprio mentre si esprime, si realizza, come nel Fiat lux! Imparare questo nell’ascesi, questa relazione di desiderio e d’amore con Dio, significa imparare a viverla anche nelle relazioni umane, e nella relazione amorosa.
Accompagniamo Cristo verso la resurrezione.
Veramente, si tratta di tenere a distanza le forze della morte che dobbiamo attraversare.
Quelle forze di divertimento, quelle forze seduttrici, quelle forze falsamente consolatrici, che vogliono farci dimenticare l’uccisione che operano su di noi, solo una grande intimità con Dio può permetterci di tenerle a distanza, anche nel momento in cui si abbattono su di noi, gelose della nostra ribellione alla loro potenza.
Ecco come le affronteremo fino in fondo, ecco come sembreranno vincerci esponendoci nudi e morti d’amore, ecco come ci lasceranno in verità imbattuti, ecco come ci resusciteranno con Cristo.
Vinti, lo siamo, non dagli uomini, ma da Dio in noi stessi.
“Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” (San Paolo).
in “Le Monde” del 28 febbraio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org) Alina Reyes, autrice di “Souviens-toi de vivre” (Presses de la Renaissance, 2010) e di “Boucher” (Points, 1997)
il mondo di domani sarà anche piú bello di quello di oggi
Pubblichiamo il discorso di Giovanni Bachelet in ricordo del padre Vittorio, assassinato 30 anni fa dalle Brigate Rosse, pronunciato il 12 febbraio nell’Aula Magna dell’Università La Sapienza di Roma, in occasione del convegno «Vittorio Bachelet testimone della speranza», cui ha partecipato il presidente della Repubblica Napolitano.
“Saluto e ringrazio il Presidente della Repubblica, il Magnifico Rettore, le tre associazioni che hanno promosso questa commemorazione di papà, i vecchi colleghi della Sapienza e i nuovi colleghi della Camera: vorrei ringraziarli uno per uno.
Nella disgrazia è una fortuna avere tanti amici che anche dopo trent’anni vogliono ricordare papà.
Non tutti hanno la stessa fortuna.
Di alcuni morti di quegli anni lontani è rimasto solo un nome una foto e una data, come testimonia il libro che il Presidente della Repubblica ha curato due anni fa, in occasione della prima giornata della memoria dedicata alle centinaia di vittime del terrorismo e delle stragi.
Nel ricordare mio padre torna sempre alla mente la folla di vittime di quegli anni, che meriterebbero di essere ricordate una per una; solo qui alla Sapienza, oltre ai docenti elencati dal Rettore, ho per esempio davanti agli occhi il maresciallo Oreste Leonardi: sorridente, bello, giovane, in attesa di Moro davanti a un’aula, insieme a papà che aspetta perché deve farci lezione nell’ora successiva.
Si può godere di maggiore o minore memoria e, come dirò fra un momento, si può anche discutere il testo di una lapide; ben piú drammatico è poi il caso in cui, dopo l’assassinio di un giovane disarmato, i suoi condomini rifiutino per decenni il permesso di usare il muro per la lapide; che poi, affissa ad un palo, viene periodicamente rimossa o sfregiata.
E’ successo anche questo.
L’ho appreso due anni fa, collaborando al progetto memoria di un gruppo di studenti trentini che ha prodotto il volume “Sedie vuote”; alcuni brani sono stati letti lo scorso maggio al Quirinale, nella seconda giornata della memoria dedicata alle vittime del terrorismo e delle stragi.
La lapide ricordava Graziano Giralucci, pioniere del rugby in Italia (due squadre da lui fondate sono oggi in serie A), papà di una bambina di tre anni, morto nel 1974.
Sembra incredibile, ma solo da poco le istituzioni civili sono riuscite a sottrarre la sua memoria all’odio di parte e restituirla alla città di Padova, dove Giralucci, prima vittima delle Brigate Rosse, aveva l’unica colpa di aver simpatizzato per il Movimento Sociale e di trovarsi in una sua sezione nel momento sbagliato.
In quel tempo terribile si poteva uccidere senza pietà un innocente solo perché simbolo di un partito o dello Stato, ma anche allora i piú erano contro la violenza e la guerra.
Una canzone di Luigi Tenco che piaceva a papà diceva E se ci diranno che per rifare il mondo c’è un mucchio di gente da mandare a fondo, noi che abbiamo troppe volte visto ammazzare per poi sentire dire che era un errore, noi risponderemo, noi risponderemo: no no no no! Oggi quel tempo terribile è definitivamente finito.
Non solo molti, ma praticamente tutti sottoscriverebbero la canzone di Tenco: grazie al cielo fra chi studia e lavora non si trova piú traccia, nemmeno ultraminoritaria, di furore idelogico e simpatia per chi spara che, all’epoca dei miei vent’anni, convogliò ragazzi sprovveduti verso la violenza politica.
Nell’Italia di oggi ci sono certo molti altri guai; ma non quello.
Stasera a me spettano ricordi personali e familiari di papà; pensavo di illustrarne alcuni attraverso poesie e brani di autori a lui cari, ma grazie ai saluti iniziali me ne sono venuti in mente due fuori programma, che però illustrano un aspetto importante di papà: la capacità di ridere, anzitutto di se stesso e del proprio mondo.
Nel salutare il Magnifico Rettore mi sono ricordato che al momento della mia iscrizione alla Sapienza avevo chiesto a papà: che senso hanno, ormai, appellativi come “Magnifico”? Non è ridicolo per lo stesso Rettore? Non sarebbe ora di abolire questa roba medievale? Mi rispose: non so, secondo me alcuni Rettori si fanno eleggere, anche oggi, proprio per farsi chiamare Magnifico.
Risi di cuore con lui.
Il secondo ricordo ridanciano me l’ha stimolato la varietà dei mondi qui presenti o rappresentati: successori di papà alla presidenza dell’azione cattolica e molti dirigenti e soci, successori di papà alla vicepresidenza del Consiglio Superiore, magistrati e giuristi, universitari.
Una volta papà mi disse: nella vita associativa e professionale ho avuto a che fare con preti, professori universitari, e da ultimo anche magistrati; a volte mi chiedo in quale dei tre gruppi accada piú rapidamente che, quando qualcuno si allontana, gli altri comincino a parlar male di lui.
Papà me lo diceva ridendo, come se con i mondi in cui era vissuto prendesse in giro un po’ anche se stesso.
Ma non amava il potere e non l’ho mai sentito parlar male di nessuno.
Una volta, su mia richiesta, mi disse che il segreto per non parlar male degli altri era semplice: bastava non pensare male degli altri.
Bastava ammettere onestamente che in analoghe condizioni ci comportiamo spesso nello stesso modo, e a volte peggio.
Il terzo ricordo riguarda l’importanza del lavoro.
L’ultima volta che vidi papà fu il 3 agosto 1979, quando partii per andare a lavorare nel New Jersey, ai laboratori di ricerca Bell.
Né lui né io lo sapevamo, ma quella fu l’ultima volta che ci parlammo.
Papà richiamò la centralità del lavoro come vocazione primaria, come modo principale, per un cittadino e per un cristiano, di contribuire al bene comune e alla costruzione di un mondo piú libero e piú giusto.
Mi disse con chiarezza che le tante cose buone di cui mi ero occupato fino alla laurea –associazionismo cattolico, musica, politica– erano importantissime, ma avrebbero perso ogni valore se fossero servite a mascherare o compensare una scarsa capacità, o, peggio, diligenza nel proprio lavoro.
Mi consigliava dunque, almeno per qualche anno, di occuparmi esclusivamente e con tutte le energie della mia vocazione professionale, la fisica, affinare le mie capacità: solo in questo modo i miei ideali sarebbero rimasti credibili.
Questa esortazione, per lui davvero rara (non credo mi abbia fatto piú di due o tre prediche in tutta la mia vita) veniva rafforzata dalla citazione di due autori a lui molto cari.
Uno era Gandhi: Se quando si immerge la mano nel catino dell’acqua, se quando si attizza il fuoco col soffietto, se quando si allineano interminabili colonne di numeri al proprio tavolo di contabile, se quando, scottati dal sole, si è immersi nella melma della risaia, non si realizza la stessa vita religiosa di quando ci si trova in preghiera in un monastero, il mondo non sarà mai salvo.
L’altro brano l’ho da poco citato rispondendo a un articolo del Tempo, che criticava l’assenza dell’indicazione dei colpevoli dalla lapide di papà che è qui alla Sapienza.
L’articolo trovava riduttiva la frase “ucciso nell’adempimento del proprio dovere”; a me invece, ricordando questo brano di Martin Luther King caro a papà, sembrava per lui il migliore degli epitaffi.
Il brano diceva: Noi siamo sfidati da ogni parte a lavorare instancabilmente per raggiungere l’eccellenza nel nostro lavoro.
Non tutti gli uomini sono chiamati a lavori specializzati o professionali; anche meno sono quelli che si elevano alle altezze del genio nelle arti e nelle scienze: la maggior parte è chiamata a lavorare nei campi, nelle fabbriche o sulle strade.
Ma nessun lavoro è insignificante.
Ogni lavoro che fa crescere l’umanità ha la sua dignità e la sua importanza, e dovrebbe essere intrapreso con diligenza e perfezione.
Se un uomo è chiamato ad essere uno spazzino, egli dovrebbe pulire le strade proprio come Michelangelo dipingeva, o Beethoven componeva musica, o Shakespeare scriveva poesia.
Dovrebbe pulire le strade cosí bene che tutte le legioni del cielo e della terra dovrebbero fermarsi per dire: qui è vissuto un grande spazzino, che faceva bene il suo lavoro.
Il quarto ricordo di papà riguarda la capacità di ascoltare di papà come padre, di guardare e rispettare noi figli, di considerare insomma la libertà come l’unico terreno nel quale potesse davvero crescere il bene e la verità.
Diceva che la nostra Chiesa aveva variamente interpretato il difficile rapporto fra verità e libertà; con l’ultima enciclica di Giovanni XXIII, Pacem in Terris, ne aveva da ultimo riscoperto la centralità (la pace tra tutte le genti è fondata sulla verità, sulla giustizia, sull’amore e sulla libertà), e poi, soprattutto col Concilio, la cifra stessa del rapporto di Dio con le sue creature e di Gesú con i suoi discepoli: amare, accompagnare, aiutare i figli a rialzarsi, ma rispettandone la libertà e godendo della loro progressiva autonomia.
Ci ho ripensato quando Giovanni Paolo II a Parigi, nel 1996, dichiarò solennemente che libertà, uguaglianza e fraternità erano valori evangelici.
Papà amava la libertà di noi figli.
Io come padre temo di essere molto meno bravo nell’ascolto e nella discrezione della guida e degli interventi educativi.
Mi resta almeno un modello cui tentare di assomigliare un po’.
L’ atteggiamento educativo di papà è ben espresso da una poesia che gli piaceva molto, tratta dal libro “Il Profeta”, di Khalil Gibran.
I vostri figli non sono i vostri figli: essi sono i figli e le figlie della vita che anela a proseguire.
Essi vengono attraverso voi, ma non da voi, e anche se sono con voi, non vi appartengono.
Voi potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri, perché essi hanno i loro pensieri.
Voi potete dare una casa al loro corpo, ma non alla loro anima, perché la loro anima abita nella casa del domani, che voi non potrete visitare, nemmeno nei vostri sogni.
Voi siete gli archi da cui i vostri figli, come frecce viventi, sono lanciati.
L’Arciere vede la mira sulla via dell’infinito, ed Egli vi piega con la sua forza perché le sue frecce vadano veloci e lontane.
Che la vostra curvatura, nella mano dell’Arciere, sia gioiosa: perché, come ama la freccia che vola, Egli ama l’arco che è stabile.
E’ difficile indovinare quel che direbbe oggi papà: dell’Italia, della Chiesa, del mondo.
Aver privato l’Italia e la Chiesa di voci come la sua le ha rese decisamente piú brutte, e rende piú difficile il nostro discernimento.
Tuttavia, in un un tempo nel quale anche molti progressisti e molti cristiani hanno indossato l’abito dei profeti di sventura cui Giovanni XXIII invitava a non dar retta aprendo quasi cinquant’anni fa il concilio, io sono quasi sicuro che papà non si unirebbe al coro delle cornacchie; che ci inviterebbe, invece, a notare in quanti aspetti il mondo di oggi sia piú ricco, piú comunicativo e piú libero di quello di ieri e l’altroieri, e ad essere certi che, col nostro impegno e con l’aiuto di Dio, il mondo di domani sarà anche piú bello di quello di oggi”.
13 febbraio 2010 in “www.unità.it” del 14 febbraio 2010
Testimoni del nostro tempo: Vittorio Bachelet
Ad “avere attenzione alla realtà dell’uomo di oggi senza chiudersi nell’alterigia del fariseo (…) ed essere non fazione tra fazioni, non organizzazione di potere, ma sale e luce del mondo”, come diceva nel 1966 ai presidenti diocesani, lo aiutava la piena intesa col Papa e con l’assistente nazionale, monsignor Franco Costa, ispiratori di un’intera generazione di preti e laici innamorati della libertà e della democrazia e, dopo la guerra e la Resistenza, della Repubblica, della Costituente e della Costituzione.
Solo a un presidente e un assistente tanto concordi nella distinzione di compiti fra clero e laici, quanto refrattari a ogni faziosità e favoritismo, poteva riuscire il miracolo di accompagnare l’emersione di diversi punti di vista, fisiologicamente associati all’avvento della democrazia associativa, con la “continua crescita di uno stile di fraternità e di libertà, di uno sforzo di costruzione”, che mio padre registrava con gioia nel suo ultimo discorso all’Azione cattolica nel 1973.
Molte di queste cose le ho capite meglio dopo.
Allora, fra elementari e liceo, don Costa era per me un prete genovese col quale si andava in montagna insieme ad altre famiglie; un vescovo che scherzava volentieri e, per esempio, impediva a noi bambini di baciargli la mano, improvvisando un esilarante, inatteso braccio di ferro.
Sapevo che era assistente nazionale dell’Azione cattolica e che c’era un concilio in fase di attuazione; tuttavia in quel gruppo di montanari cambiare lingua dal latino all’italiano e introdurre tre letture, il segno della pace o la chitarra, parevano cose altrettanto naturali che il mio passaggio dalle elementari alle medie al liceo; solo da grande mi resi conto che, altrove, quegli stessi passaggi conciliari erano stati vissuti con minor naturalezza e talora con forti resistenze.
Solo da grande, grazie ai racconti di mamma, appresi ad esempio che Bruno Paparella, segretario generale dell’Azione cattolica mentre mio padre era presidente, spesso a pranzo a casa nostra e noto a noi bambini soprattutto per i suoi scherzi, non era proprio entusiasta del nuovo cammino conciliare.
Evidentemente in quegli anni, dietro il fraterno e pacifico cammino conciliare dell’Azione cattolica (e con essa gran parte della Chiesa italiana), c’era molta fede, ma anche molta capacità di ascolto, intesa coi pastori, umiltà nell’accettare un progresso fatto di piccoli passi.
La consegna era quella di portarsi appresso tutti: trasferire gradualmente e senza strappi all’intero popolo di Dio “privilegi” anticamente riservati al clero e, fino al concilio, accessibili al massimo a universitari o laureati cattolici, come la preghiera delle ore, la lettura e il commento della Bibbia, la comprensione e la partecipazione piena alla liturgia eucaristica.
Il senso dell’umorismo spingeva spesso mio padre a sorridere, anziché piangere, sulla lentezza e l’ansietà nella realizzazione del dettato conciliare.
Sorrideva quando un vecchio parroco concluse l’omelia con una postilla a sorpresa, del tutto avulsa dalle letture del giorno: “Io la moglie per i preti non ce la vedo! Sia lodato Gesù Cristo”.
Sorrideva nel ricordare sommessamente a un amico vescovo che “in democrazia non basta aver ragione, ma occorre anche farsela dare dal 51 per cento degli elettori”.
Sorrideva anche quando i vescovi italiani fissavano una riunione plenaria della loro conferenza proprio alla vigilia di una scadenza elettorale, malgrado la distinzione conciliare fra comunità politica e Chiesa: dopo secoli di trono e altare – diceva – ci vuole almeno qualche decennio a cambiare abitudini…
Sulla centralità della competenza e della conoscenza, sulla legittima pluralità di vedute in molti campi dell’agire umano, sulla chiara distinzione di ruoli fra comunità politica e Chiesa della Gaudium et spes si basava la “scelta religiosa” dell’Azione cattolica.
“Nel momento in cui l’aratro della storia scavava a fondo rivoltando profondamente le zolle della realtà sociale italiana che cosa era importante? Era importante gettare seme buono”, diceva papà.
Dunque la Chiesa, e con essa l’Azione cattolica, dovevano concentrarsi sulla propria missione primaria: evangelizzare o rievangelizzare il mondo in rapido mutamento.
Ma questa scelta non implicava affatto il ritorno dei laici nelle sacrestie e il disprezzo per la politica: al contrario, si fondava sul rispetto della sua autonomia e sull’apprezzamento della sua insostituibile funzione, tanto che Paolo VI la definì addirittura “la più alta forma della carità”.
Per carattere e vocazione, però, mio padre amava molto l’università e l’Azione cattolica, meno la politica e la Democrazia Cristiana.
Certo votava per quel partito, convinto che “i pochi che ci assomigliano sono lì”, ma credo che, pur non immaginando che quattro anni dopo gli sarebbe costata la vita, nel 1976 papà abbia vissuto la candidatura nella “nuova Dc” di Moro e Zaccagnini più come dovere che come piacere.
Fu eletto al Comune di Roma e poco dopo il Parlamento lo designò per il Consiglio Superiore della Magistratura, dove fu eletto vicepresidente.
In quegli anni alcuni politici, tuttora vispi e attivi, avevano coniato lo slogan “né con lo Stato né con le Brigate Rosse”; c’era anche chi tramava nell’ombra, fra logge e bombe sui treni.
Stare con la magistratura richiedeva coraggio.
Come poi si vide.
Don Abbondio sosteneva che il coraggio, uno, non se lo può dare.
Il cardinale Borromeo lo sgridava chiedendo: “Non pensate che (…) c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio?” (I promessi sposi, xxv).
Mio padre trovava coraggio e forza nel Signore, come Gedeone, come Bonhoeffer da lui citato all’ultima assemblea del 1973: “Io credo che Dio, in ogni situazione difficile, ci concederà tanta forza di resistenza quanta ne avremo bisogno.
Egli però non la concede in anticipo, affinché ci abbandoniamo interamente in lui e non in noi stessi.
Ogni paura per il futuro dovrebbe essere superata con questa fede”.
Questa fede a noi figli è apparsa, fin da piccoli, nella preghiera dei genitori, papà e mamma insieme.
In loro la preghiera appariva un bisogno primario come il cibo o il sonno: preghiera antica e moderna, salmi e rosario e compieta, italiano e latino.
La mattina, la sera, prima di mangiare, in viaggio.
In uno dei ricordi più dolci dell’infanzia ci sono papà e mamma inginocchiati vicino al mio letto e, prima che il sonno prevalga, sento le parole di una delle loro preghiere della sera: Oremus pro pontifice nostro Ioanne…
da allora abbiamo pregato per Paolo, per Giovanni Paolo, e, oggi, per Benedetto; abbiamo amato e amiamo il Papa non perché, come disse una volta papà, si chiama Giovanni o Paolo, ma perché si chiama Pietro.
Qualche giorno fa mamma mi ha detto di aver trovato in casa un libretto che in trent’anni non aveva mai notato: Fede e futuro, che Papa Benedetto ha scritto da giovane, pochi anni dopo la fine del concilio.
Due brani erano sottolineati a matita da papà.
Il primo diceva: “Solo chi dà se stesso crea futuro.
Chi vuol semplicemente insegnare, cambiare solo gli altri, rimane sterile”.
L’altro brano, nell’ultimo paragrafo intitolato Il futuro della Chiesa, diceva: “Il futuro della chiesa (…) non verrà da coloro che prescrivono ricette (…) o invece si adeguano al momento che passa (…) o criticano gli altri e ritengono se stessi una misura infallibile (…) o dichiarano sorpassato tutto ciò che impone sacrifici all’uomo (…) Anche questa volta, come sempre, il futuro della chiesa verrà dai nuovi santi”.
La fede, l’amore e l’obbedienza risultano purtroppo incomprensibili a molti di quelli che guardano alle vicende della Chiesa dal di fuori e credono di vederci dentro solo una gigantesca partita a scacchi.
Papà era invece convinto che “cristiani franchi e liberi possano vivere nella Chiesa di oggi e di domani nell’obbedienza e nella pace, proprio come Angelo Roncalli, prete, vescovo e Papa libero e fedele, perché ha avuto fede non nella sua forza ma in quella dello Spirito che guida la Chiesa”.
Ne sono convinto anch’io, e, a trent’anni dalla morte di mio padre, chiedo al Signore per me e per i miei figli, per i laici e per i preti della mia Chiesa fede e coraggio, obbedienza e pace.
(©L’Osservatore Romano – 12 febbraio 2010) ”Il Signore disse a Gedeone: “La gente che è con te è troppo numerosa, perché io metta Madian nelle sue mani; Israele potrebbe vantarsi dinanzi a me e dire: La mia mano mi ha salvato.
Ora annunzia davanti a tutto il popolo: Chiunque ha paura e trema, torni indietro”” (Giudici, 7, 1-3).
Con mia madre e mia sorella scegliemmo questi versetti, molto cari a papà, per accompagnare la sua foto.
Gedeone, seguendo le istruzioni del Signore, rimanda a casa trentaduemila uomini e ne tiene con sé solo trecento.
Con loro, armati di brocche, trombe e fiaccole accese – e grande coraggio, fondato sulla parola del Signore – irrompe di notte nel campo dei madianiti, che, presi dal panico, fuggono in disordine.
Ci voleva coraggio e fede per accettare a trentatré anni, da Giovanni xxiii, e a trentotto, da Paolo VI, la vicepresidenza e poi la presidenza dell’Azione cattolica, col formidabile mandato di attuare in Italia il concilio.
Per far entrare la Bibbia e la nuova liturgia in ogni famiglia e in ogni parrocchia.
Per trasformare l’Azione cattolica in un laboratorio della Chiesa di domani, un’inedita combinazione di democrazia interna (con capi eletti dai soci e non rinnovabili per più di due mandati) e serena fedeltà ai Pastori (titolari anche nel nuovo statuto di un ruolo decisivo nelle scelte importanti).
Per concentrarsi sul Vangelo e sulla formazione cristiana, restituendo l’impegno politico – e lo sport, e altre cose buone per le quali l’Azione cattolica aveva fino a quel momento svolto una preziosa opera di supplenza – all’autonoma responsabilità dei laici.
Per voltare pagina rispetto a quelli che Mario Rossi aveva definito “i giorni dell’onnipotenza”, al prezzo di una dolorosa cura dimagrante numerica e finanziaria.
Ci volevano il coraggio e la fiducia che nel Signore aveva avuto Gedeone.