Il deserto fiorito di fratel Carlo

 «Avevo fatto del treno il “luogo” della mia preghiera.
Facevo il pendolare per motivi di lavoro e tu sai cos’è un vagone ferroviario che parte e arriva in città, al mattino e alla sera, stracarico di operai e di studenti.
Chiasso, risate, fumo, trambusto, pigia-pigia.
Io mi sedevo in un angolo e non sentivo nulla.
Leggevo il Vangelo.
Chiudevo gli occhi.
Ascoltavo Dio.
Che dolcezza, che pace, che silenzio! La potenza dell’amore superava la dispersione che cercava di penetrare nella mia fortezza».
Secoli fa correvano nelle aspre solitudini del deserto egiziano, eppure gli eremiti si accorgevano spesso che la città li aveva seguiti col suo frastuono e le sue seduzioni.
Ora forse è possibile il movimento inverso, diventare monaci urbani, creando aree di silenzio nel fragore assordante della modernità.
È ciò che testimoniava autobiograficamente già nel titolo Il deserto nella città, oltre che nel brano sopra citato, Carlo Carretto, una delle figure suggestive della spiritualità italiana contemporanea.
Lo rievochiamo anche noi nel centenario della sua nascita, affidandoci a due suoi ritratti biografici pubblicati proprio per questo anniversario.
La sua vicenda è, per certi aspetti, la  rappresentazione della Chiesa italiana del Novecento in alcuni suoi ambiti rilevanti.
Presidente nazionale della Gioventù Italiana di  Azione Cattolica nel periodo effervescente post-bellico, egli si batterà poi per la “scelta religiosa” di questa associazione, in quegli anni ancora poderosamente influente nel tessuto civile, e la sua Lettera a Pietro divenne una sorta di manifesto per coloro che sostenevano tale opzione, da altri contrastata come rinunciataria e passiva.
In realtà, la presenza di Carretto nell’agorà sociale ed ecclesiale era tutt’altro che arrendevole: le sue scelte talora si scostarono dalla linea ufficiale della Chiesa italiana, come nel caso del referendum sul divorzio, quando aderì al gruppo dei “cattolici per il No”.
Tuttavia il suo itinerario aveva ormai imboccato un’altra direzione, emblematicamente illustrata proprio dal deserto.
Infatti egli si era avviato sulle orme di Charles de Foucauld, il mistico del Sahara algerino, incontrato attraverso la biografia e gli scritti del discepolo René Voillaume, fondatore della congregazione religiosa dei Piccoli Fratelli del Vangelo.
Così, Carretto divenne fratel Carlo, aderendo a quella comunità che egli trapiantò anche in Italia nella Spello umbra, immersa nell’atmosfera francescana.
Da quel momento la sua vita, la sua parola, i suoi scritti furono un riferimento per molti cattolici italiani che sostanzialmente condividevano la famosa esclamazione della citata Lettera a Pietro: «Quanto sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo!».
Cercare una sigla riassuntiva per questo eremita nel mondo risulta difficile, proprio per il suo attestarsi sul crinale tagliente tra fede e storia, tra mistica e impegno civile, tra contemplazione e azione.
Si potrebbe accostare fratel Carlo – pur nelle molteplici distanze culturali e spirituali – alla francese Madeleine Delbrêl che si fece assistente sociale per vivere un’esperienza di “mistica quotidiana” nella tormentata banlieue di Ivry, nella cintura parigina, ove morirà sessantenne nel 1964.
Essa scriveva nei suoi Poemetti di Alcide: «Coloro che amano Dio hanno sempre sognato il deserto; per questo a coloro che lo amano Dio non può rifiutarlo».
È il deserto del treno affollato, del quartiere operaio, del romitorio incastonato nella politica e nella vita sociale.
In questo senso può essere adottata per fratel Carlo la definizione che appare già nel titolo della biografia di Gianni Di Santo, Il profeta di Spello.
Certo, è un po’ abusata e crea qualche equivoco, ma la profezia biblica è per eccellenza l’incrocio tra spiritualità e storia, senza il timore di impolverarsi il mantello nelle strade della città degli uomini.
Questa classificazione è, comunque, sostenuta da un’analisi accurata della vicenda personale di Carretto, della sua corrispondenza e delle relazioni che egli intratteneva con le più diverse personalità e tutti coloro che rendevano Spello un crocevia di incontri, sempre però alonati dal silenzio dell’adorazione e della contemplazione.
A questo riguardo è significativa l’altra biografia, affidata a un giornalista, Alberto Chiara, il quale propone una sorta di galleria di testimonianze di figure che hanno avuto la loro vita segnata dall’ascolto di Carretto, pur procedendo poi su percorsi più ramificati: Oscar Luigi Scalfaro, Rosy Bindi, Gian Carlo Sibilia, ma anche curio Colombo e Gianni Vattimo.
Certo, l’eredità di fratel Carlo è custodita da un filone minoritario del complesso panorama dell’attuale cattolicesimo italiano e può rivelare anche profili datati.
Rimane, però, ancor vivo il suo appello alla fedeltà pura e nuda al Vangelo, all’attaccamento sincero alla Chiesa senza però ipocrisie, all’aderenza alla lezione del Concilio Vaticano II ma soprattutto all’amore per Dio e per il prossimo.
L’oasi del silenzio non isola ma feconda la città degli uomini.
E così possiamo ritornare alla scena del treno da cui siamo partiti.
«Ero veramente uno con me stesso e nulla mi poteva distrarre.
Sotto la presa dell’amore divino ero in pace.
Sì, doveva essere proprio l’amore a creare l’unità in me.
Difatti gli innamorati che si trovavano sul treno bisbigliavano tra di loro in perfetta armonia, senza preoccuparsi di ciò che capitava attorno.
Io bisbigliavo col mio Dio».

Gianni Di Santo, «Carlo Carretto il profeta di Spello», San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), pagg. 174, € 12,00;

Alberto Chiara, «Carlo Carretto. L’impegno, il silenzio, la speranza», Paoline, Milano, pagg. 168, € 16,50.

 

in “Il Sole 24 Ore” del 26 settembre 2010

Ritorna il politeismo, attenzione

«Il vantaggio più grande del politeismo è nel fatto che il singolo si eriga il suo proprio ideale e derivi da esso la sua legge, le sue gioie e i suoi diritti», superando l’imperio di un’unica norma imposta da un’unica divinità e facendo sì che «un dio non sia più la negazione o la bestemmia di un altro dio!».
Era stato Nietzsche, con queste parole della Gaia scienza (1882), a inaugurare il revival del politeismo che, in un certo senso, aveva i suoi prodromi nella relativizzazione della verità propugnata dalla celebre parabola dei tre anelli incastonata nel poema drammatico Nathan il saggio (1779) di Lessing: uno solo dei tre anelli d’oro è autentico, ma è indistinguibile perché il padre, non volendo privilegiare nessuno dei suoi tre figli, ha clonato l’anello ereditario vero.
Su questa scia si era collocato Max Weber con la formula Polytheismus der Werte, che Francesco Ghia ha recentemente usato come titolo per una raccolta antologica di testi diversi del famoso sociologo tedesco (Max Weber, Il politeismo dei valori, Morcelliana, Brescia, pagg.
160, €14,00).
È curioso che in esergo alla sua introduzione lo studioso dell’Università di Trento abbia posto un distico dello scrittore viennese Erich Fried che recita: «Getta pure il tuo anello/ anche qui ci sono gli dèi».
La tesi di Weber è nota: il “disincanto del mondo”, che la razionalità moderna ha prodotto, ha sciolto la norma universale che tutelava i valori nella loro identità oggettiva e ha così creato un delta ramificato in cui ogni corrente porta il suo valore.
Nella società attuale non c’è più un solo Dio che proclama l’unicità dei valori morali, ma un pantheon di dèi che emettono oracoli diversi, creando inesorabilmente conflitti etici, proprio a causa della pluralità dei legislatori, delle leggi e dei codici di riferimento.
Le stesse sfere sociali – dalla politica all’economia, dall’arte alla scienza, dalla famiglia alle associazioni, fino alle stesse religioni – non sottostanno più al “monoteismo” di una sorgente unitaria, ma ciascuna è retta da un suo dio e «il conflitto tra gli dèi che presiedono ai singoli ordinamenti e valori è inconciliabile», anche se positiva è l’indipendenza degli statuti di ogni settore.
La celebrazione del neopoliteismo (che può avere tante iridescenze, come quella “cristologica” di Salvatore Natoli o quella più ingenua e ironica del recupero mitologico operato dall’attuale scrittore finlandese di culto, Arto Paasilinna, o la più tradizionale e generica apologetica della tolleranza propugnata nel Génie du paganisme dell’antropologo Marc Augé del 1982, opera apparsa in italiano nel 2002 presso Bollati Boringhieri) ha avuto vari liturghi ai nostri giorni, talora solo come evocazione gloriosa e nostalgica del passato classico: penso alle pagine raffinate delle Nozze di Cadmo e Armonia (1988) di Roberto Calasso.
Altre volte si è accusato il monoteismo di “dualismo”, avendo creato un baratro tra la trascendenza divina, unica, solitaria e intangibile, e l’immanenza mondana e umana, limitata e caduca.
È questo il capo d’accusa contro le religioni monoteistiche avanzato dal filosofo della nouvelle droite, Alain de Benoist, che invita la cultura contemporanea a «guarire il mondo dalla rottura monoteistica», restituendogli quella sacralità e “divinità” che il paganesimo politeista gli assicurava e che il cristianesimo gli ha sottratto.
Per dirla con un altro intellettuale che si è interessato al tema, Francesco Remotti, «il politeismo – così connessionista, possibilista, pluralista – non sarebbe niente male per la “modernità” e la voglia di “modernizzazione”».
Ebbene, se vogliamo risalire alle sorgenti del monoteismo, non possiamo non rimandare al cosiddetto “comandamento principe” decalogico: Lo’ jihjeh-leka ‘elohim ‘aherim ‘al-panaj, «non avrai altri dèi di fronte a me» (Esodo, 20,2), frase tutt’altro che facile nella sua formulazione apparentemente “enoteista” più che “monoteista” (si ha, infatti, un appello a una scelta “esclusiva” nei confronti delle altre divinità).
Essa sarà precisata non tanto in sede teorica, piuttosto ardua per la mentalità semitica che ama il procedimento gnoseologico simbolico, quanto in ambito pratico come “jahvismo”, ossia con l’affermazione dell’unicità personale di Dio, dotato quindi di una personalità espressa nel nome (JHWH), al contrario dell’idolo che è solo illusorietà divina, simile al miraggio o all’equivoco.
Ora, attorno alla radice biblica del monoteismo s’è recentemente impegnato in modo particolare un egittologo di Heidelberg, Jan Assmann, che, alla maniera di Freud ma con ben altro spessore filologico e con ben diverse finalità, incrocia il politeismo egizio con l’unicità divina dell’ebraismo.
Il suo Dio e gli dei (Il Mulino, Bologna, pagg.
214, €15,00; si vedano anche i precedenti Mosè l’egizio, Adelphi, 2000 e Non avrai altro Dio, Il Mulino, 2007), un testo tutto sommato breve ma denso e suggestivo, insegue l’evoluzione della novità radicale e rivoluzionaria del monoteismo proprio a partire dalla vetta sinaitica che si erge sull’immensa pianura politeistica egizia.
E giustamente fa notare che in realtà l”unicità” di Dio non è una categoria adatta a spiegare l’anima profonda della visione teologica ebraica; lo è invece il concetto di “differenza”, di alternativa fondamentale rispetto agli altri dèi.
Per questa via, che egli illustra in un continuo contrappunto dialettico con la religione e la cultura faraonica – la quale in verità non era biecamente politeistica, ma si orientava verso una sorta di monoteismo evolutivo e inclusivo per cui “tutti gli dèi erano uno” o almeno facce diverse dell’unica divinità -Assmann intravede non solo l’originalità di Israele, ma anche le ricadute sociali e politiche di un tale “monoteismo” jahvistico.
Esse riguardano la separazione tra stato e religione e la funzione “assiale” di una simile concezione (la terminologia, come è noto, è desunta da Jaspers che aveva parlato di «età assiale» da collocare attorno al 500 avanti Cristo, vera e propria svolta capitale della civiltà).
C’è, però, da notare che la «distinzione mosaica» (la differenza a cui sopra si accennava) agli occhi di Assmann rappresenta un rischio, cioè che si costituisca in «controreligione», esclusiva nei confronti delle altre e intollerante.
Si spiega così il «linguaggio biblico della violenza» che ha nel herem, ossia nell’anatema anti-idolatrico il suo emblema.
L’egittologo, perciò, in alcuni suoi scritti, senza divenire come altri intellettuali un apologeta del politeismo, preferisce solo attenuare le pretese veritative monoteistiche aggrappandosi al minimo comune denominatore di una pallida e pluralistica «religione universale valida per tutti gli uomini».
Con l’estenuazione, però, della trascendenza della verità e della sua “oggettività” strutturale, si corre il rischio di una dispersione babelica che non assicura di per sé la convivenza pacifica: è ciò che si sperimenta ai nostri giorni proprio con una religione apparentemente “politeista” com’è l’induismo.
Bisogna poi riconoscere che l’uso di categorie come “monoteismo” e “politeismo” è di genesi occidentale ed è tutto sommato recente (i termini sono stati coniati nel Seicento): siamo, quindi, in presenza di uno stampo ermeneutico che non riesce a contenere e a coagulare l’incandescenza delle concezioni simboliche poste alla base della teologia.
Per questo, come suggerisce Assmann, non di rado ciò che a livello popolare e sociale è una molteplicità della divinità, a livello radicale può essere un modo simbolico per parlare delle differenti qualità della divinità.
Detto in altri termini, si tratta spesso di un politeismo relativo, linguistico e immaginifico, più che di un politeismo assoluto e metafisico.
Si deve, così, ritornare piuttosto al concetto “differenziale” della divinità, come appunto ribadiva Assmann.
Ma ritorniamo al monoteismo biblico.
In questa concezione, Dio non è un’energia cosmica né un’oscura entità indefinibile né una vaga galassia divina, bensì una persona che comunica e si comunica.
Il monoteismo è, perciò, un atto di svelamento personale di quel Dio che dichiara attraverso Isaia e Paolo: «Io mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche a quelli che non mi invocavano» (Romani, 10, 20).
Affermava il filosofo ebreo Emmanuel Lévinas in un intervento raccolto nel suo volume collettaneo La difficile libertà (Jaka Book, 2004): «Il monoteismo non è un’aritmetica del divino.
E’ piuttosto il dono, forse soprannaturale, di vedere l’uomo simile all’uomo sotto la diversità delle tradizioni storiche che ognuno porta avanti: è una scuola di xenofilia e di antirazzismo».
La considerazione del pensatore francese coglie un elemento rilevante.
L’unico Dio significa l’unico uomo, ssia la radicale uguaglianza delle creature uscite dalle mani dell’unico Creatore.
Non ci sono “figli di un dio minore”, là dove unico è il Signore di tutti, amoroso verso tutti i suoi figli.
Significative sono le parole di Paolo al discepolo Timoteo: «Dio nostro salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità, perché uno solo è Dio» (1 Timoteo 2,3-5) Il monoteismo è, perciò, strutturalmente compaginato col tema dell’uguaglianza umana e, come suggeriva ulteriormente Lévinas, «obbliga l’altro a entrare nel discorso che lo unisce a me», essendo comune il tessuto umano che ci unisce, che ci affratella e che ci rende anche tutti indigenti sia di Dio sia dell’altro.
C’è, però, un’ulteriore considerazione da fare.
Già la tradizione giudaica affermava che Dio, a differenza di quanto accade col conio monetario, ci ha “coniati” tutti con lo stesso stampo (l’umanità, l”‘ adamicità” comune, l’identica dignità) ma ci ha anche fatti tutti diversi.
È significativo che Paolo, dopo aver esaltato in quel passo «l’unico Dio», introduca lo specifico cristiano: «uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo».
Anche per il monoteismo unità e pluralità sono due poli necessari che devono essere in interazione e in contrappunto e non in dialettica e opposizione.
Se viene meno questo equilibrio, si precipita o nell’esclusivismo integralistico o nell’anarchia relativistica.
L’unico Dio che ha creato l’unica umanità assicura l’uguaglianza; il Dio infinito che crea la ricchezza sempre nuova degli uomini e della donne tutela la variegata bellezza della diversità.
Come diceva Gandhi, «la verità è come il diamante: è una, ma ha molte facce».
La stessa teologia dovrebbe ritrovare la comunione nell’unico Dio e Salvatore, pur procedendo su percorsi diversificati, in attesa che “Dio sia tutto in tutti” (1 Corinzi 15, 28).
Capitale è allora il dialogo in cui l’armonia può nascere tra voci di timbro diverso, dotate di un’identità unica e non cancellabile nella vaghezza del sincretismo.
L’unico Signore ci svelerà alla fine la piena verità nascosta che la creaturalità fragile e peccatrice dell’uomo incrina e offusca.
Ce lo ricorda anche il Corano in un passo suggestivo: «Se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una comunità unica, ma non ha fatto questo per provarvi in quello che vi ha dato.
Gareggiate, dunque, nelle opere buone perché a Dio tutti tornerete e allora egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia» (5, 48).
In attesa di quel giorno supremo, dobbiamo ritrovare la “lingua sacra” del dialogo e della comunione, che si può perdere col politeismo babelico.
È ciò che suggerisce rabbi Pincas in uno dei famosi Racconti dei Chassidim raccolti nel 1950 dal filosofo Martin Buber: «Prima della costruzione della torre di Babele tutti i popoli avevano una lingua sacra in comune, in più ciascuno aveva il proprio linguaggio…
Ciò che Dio fece quando li punì, fu di togliere loro la lingua santa».
Da un lato, c’è un “linguaggio proprio”, specifico di ogni comunità religiosa, ma d’altro lato, c’è quel “linguaggio sacro” che è la lingua materna dei tre monoteismi, quella insegnata dal Dio padre comune.
Nella storia delle religioni entrambe sono necessarie.
in “Il Sole 24 Ore” del 29 agosto 2010

Panikkar: il sacerdote filosofo

Non un’etica globale ma un’etica “condivisa”.
Raimundo Panikkar: Non un’etica “globale”, che sarebbe una sorta di tentazione neocolonialista, ma un’etica dialogica, condivisa, contemplativa, frutto di un disarmo culturale dell’Occidente e dell’incontro con le culture e le fedi religiose “altre”.
È questa, in sintesi, la proposta di Raimundo Panikkar, teologo e filosofo per metà spagnolo e per metà indiano, da anni impegnato nel confronto interreligioso.
Ecco alcuni passaggi tratti da una sua relazione intitolata “Dall’etica globale all’etica condivisa” (Testo integrale riportato da “Adista” 26 febbraio 1994).
“La mia tesi si potrebbe così riassumere: non c’è un’etica globale.
E il suo corollario è che non ci può essere, perché se ci fosse ridurrebbe gli uomini ad una uniformità totale, e l’etica ad un’etica di deduzione dei principi.
L’etica, invece, è qualcosa di vissuto e non soltanto frutto di una deduzione di principi.
Non si può attuare eticamente costruendo sillogismi e traendone conseguenze.
L’etica è una spinta personale, che viene più dal cuore che dalla mente.
Non è soltanto una deduzione ragionevole di principi sublimi.
Trovare una struttura formale o comune per fondare un’etica è impossibile.
Tutti siamo d’accordo che si deve fare il bene: il problema comincia quando si vuol delimitare cosa è il bene e cosa è il male.
Un’etica unica, in un mondo multiculturale e multietnico, implicherebbe che l’etica in quanto tale è sovra-culturale, e sovra-religiosa, mentre il fondamento che ogni cultura ed ogni religione pongono alle rispettive etiche è diverso.
Per alcune culture le differenze tra quelli che noi chiamiamo uomini e gli altri animali non sono così essenziali.
Ragione per cui un’etica mondiale dovrebbe essere al di sopra di qualsiasi altro fondamento etico che hanno le diverse culture e le diverse religioni.
Ma ciò coincide con il colonialismo che è, appunto, la credenza secondo cui è possibile avere, con parametri sufficientemente depurati e cesellati, una percezione e una soluzione a tutti i problemi dell’umanità.
Dopo le lusinghe coloniali occorre passare al disarmo di una siffatta cultura che si autoproclama universale e che pretende anche di fondare un’etica universale.
L’unica forma di etica che abbia qualche forza, oggi, dev’essere un’etica interculturale.
L’imperativo è pragmatico, perché non è fondato su un “a priori”, ma semplicemente sul fatto che se non ci fosse un’etica alternativa per il mondo attuale si andrebbe alla mutua distruzione dell’umanità, allo sterminio tra gli uomini e ai disastri ecologici.
Non ci facciamo illusioni: il mondo, anche politicamente parlando, non tollererà più per molto tempo queste ingiustizie istituzionalizzate: e se uno dovrà far ricorso all’incendio dei pozzi di petrolio o al ricatto atomico, lo farà.
Quindi l’imperativo è pragmatico, perché l’alternativa è la distruzione.
Non è l’imperativo a priori: “perché così deve essere”.
L’etica non può essere globale: ma deve essere oggi un’etica accettata nel mondo attuale e si costituisce soltanto – o si scopre – nel dialogo interculturale.
E qui ritengo utile tratteggiare un decalogo dell’etica del dialogo.
Primo: l’altro esiste “per” ciascuno di noi.
E l’altro è il musulmano, l’altro è l’emarginato, l’altro è il marito, l’altro è il bambino, il              mondo ecc.
Una specie di superamento inconscio del solipsismo.
Secondo: l’altro esiste come soggetto e non soltanto come oggetto.
Esiste a sé stante e non mi ha chiesto il permesso di esistere.
                  Neanche la pietra, gli alberi, gli animali.
In altre parole: non si possono trasformare le pietre in pane.
Terzo: l’altro non è oggetto di conquista, di conversione, di studi: è (s)oggetto con diritti propri, con lo stesso diritto di interpellarmi, di             interrogarmi, che ho io.
La relazione è, quindi, biunivoca: il dialogo è dialogo perché non è monologo.
Non è soltanto            domandare, ma lasciarsi anche interpellare.
Per questo c’è una necessità di ascolto, di umiltà, di uguaglianza.
Quarto: anche se io penso che l’altro (e l’altro può essere un sistema religioso o culturale) sbaglia, devo entrare in contatto con lui,              altrimenti non c’è dialogo e senza dialogo non c’è pace.
Quinto: la disposizione a dialogare è il principio etico supremo.
Se ci si nega al dialogo, si finisce con il divorzio, con la guerra, con la               bancarotta, con il disastro.
Sesto: il dialogo deve essere totale.
Come dicono gli inglesi: non c’è niente di “non-negocial”.
Tutto deve essere messo sul tappeto,             altrimenti non è dialogo dialogale, non è dialogo umano, è dialogo diplomatico.
Si mira a vincere.
Settimo: l’etica è collegata al politico, dipende dal religioso ed è frutto di una cultura.
Tutto ciò relativizza l’etica, ma la rende concreta                ed efficace.
Ottavo: l’etica scaturisce dal dialogo religioso e allo stesso tempo ne è la sua causa.
È un circolo vitale come tutte le cose ultime.
Nono: nessuno ha il diritto di promulgare un’etica.
L’etica non si promulga.
Si scopre.
E si scopre nel dialogo.
Inoltre in un contesto             mondiale qual è quello di oggi a nessuno viene riconosciuto il diritto di promulgare un’etica universale ed assoluta.
Decimo: l’etica contemporanea deve confrontarsi con un “novum” che non si era mai verificato nella storia: il “novum” di tanta gente                 che muore di fame, di sete, di stenti, di violenza.
E che attende una redenzione concreta: non annuncio di principî etici, ma                 un comportamento operativamente salvifico, purificato di ogni pretesa messianica”.
from:  http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/raimonpanikkar/eticacond.htm domenica, novembre 02, 2008 un’etica condivisa   Panikkar non era un pensatore convenzionale e ha infranto molti schemi, convenzioni e pregiudizi.
Filosofo sacerdote  era nato il 3 novembre 1918 a Barcellona da padre indiano induista e da madre catalana cattolica ed è deceduto il 26 agosto in Spagna all’eta di 91 anni. Fu ordinato sacerdote nel 1946 anno in cui conseguì il dottorato in filosofia; nel 1958 ottenne la laurea in scienze all’Università di Madrid e nel 1961 la laurea in teologia all’Università Laterana di Roma.
È vissuto in India, a Roma (dove è stato libero docente dell’Università), e negli Stati Uniti.
Nel 1966 fu chiamato ad Harvard in qualità di visiting professor e per tutto il periodo dal 1966 al 1987 alternò la sua docenza negli Usa per un semestre con la sua ricerca in India.
Dal 1971 al 1987 ha coperto la cattedra di filosofia comparata delle religioni all’Università di California, a Santa Barbara, di cui era professore emerito.
Nel 1987 è tornato in Catalogna dove ha continuato a tenere corsi, seminari e incontri su temi filosofici, religiosi, culturali e di approfondimento delle diverse tradizioni dell’umanità.
Ha pubblicato una cinquantina di libri, per la maggior parte in catalano, castigliano italiano e inglese, e tradotti in varie lingue.
A sua volta, nel corso di circa dieci anni, ha tradotto un’antologia di mille pagine dei testi dei Veda.
Panikkar ha tenuto corsi nelle università di tutto il mondo e conferenze prestigiose.
Ha collaborato al progetto dell’opera Classics of Western Spirituality che ha pubblicato sino ad oggi 76 volumi e all’opera Western Spirituality, che consta di 25 volumi, i cui tre ultimi sono sotto la sua direzione.
Era fondatore e direttore del Center for Cross-Cultural Religious Studies di Santa Barbara in California) e di Vivarium, Centre d’Estudis Intercultural di Tavertet in Catalogna.
Una sintesi del suo pensiero «Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindù e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano».
Questa la frase che apre il sito internet di Raimon Panikkar,  Il suo pensiero propone una visione dell’armonia, della concordia, che vuole scoprire «l’invariante umano» senza distruggere le diversità culturali che mirano tutte alla realizzazione della persona in continuo processo di creazione e di ricreazione.  Il dialogo, non quello  meccanico o informativo, ma il «dialogo dialogico»  porta a riconoscere le differenze e anche quanto si ha in comune, e spinge alla fine a una mutua fecondazione.
In particolare il dialogo religioso nel quale si cerca la collaborazione dell’altro per la mutua realizzazione, dal momento che la saggezza consiste nel sapere ascoltare.
La grande sfida per questa civiltà dominante, così poco capace di ascoltare la parola degli altri, è quella di superare i dualismi sui quali è fondamentalmente strutturata e recuperare l´armonia, ‹‹che non equivale né all´unità né al compromesso››.
Panikkar adopera il termine greco ontonomia, la legge interna dell´essere, per indicare che ogni cosa può trovare il suo posto nella realtà senza fratture e senza conflitti.
L´armonia, però, ‹‹implica un superamento del pensare, perché include all´interno del pensare anche l´amore›› R.
Panikkar dal sito http://panikkar.splinder.com/

Johanan Ben Zakkai

Per quanto oscuri e incerti possano apparirci i nostri tempi, certamente non lo sono quanto lo fu per il regno di Giuda il primo secolo dell’era cristiana: il mondo descritto nei Vangeli, oltre che nelle fonti rabbiniche e in quelle storiche, un paese sotto il dominio dei romani, dilaniato dalle lotte tra sadducei, farisei ed esseni.
Gli anni in cui il cristianesimo si separava e distingueva dall’ebraismo, quelli della guerra scatenata dagli zeloti contro i romani e dell’abbattimento del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C., con cui la tradizione fa iniziare la diaspora ebraica.
Un momento per gli ebrei catastrofico, tanto da essere ancor oggi commemorato con il digiuno nel giorno della distruzione del Tempio, il 9 del mese ebraico di Av.
Eppure, da quella catastrofe il mondo ebraico seppe rinascere, sia pur a prezzo di una profonda trasformazione.
Fu una vera e propria resurrezione e chissà che non possa ancor oggi insegnarci qualcosa, nella crisi generale che viviamo? L’autore di questa resurrezione non fu né un politico né un sovrano, ma un semplice studioso, Johanan ben Zakkai.
Una figura storica, anche se le uniche fonti che ne parlano, i testi talmudici, lo avvolgono in un’aura mitica.
Nasce intorno all’inizio dell’era cristiana, contemporaneo quindi di Gesù, ma anche di Flavio Giuseppe, di Vespasiano e di Tito.
Era uno dei leader della comunità farisaica, di coloro cioè che i Vangeli paragonano a “sepolcri imbiancati”: intellettuali, maestri della Legge, rigorosissimi dal punto di vista dell’osservanza ma aperti alle interpretazioni della Legge orale.
Erano espressione delle classi medie urbane, mentre i sadducei erano espressione del ceto più elevato ed erano numerosi tra i sacerdoti impegnati nel culto del Tempio.
Vicini ai farisei dal punto di vista dottrinale, ma contrari ad ogni impegno nel mondo,  che consideravano irrimediabilmente corrotto, erano gli esseni.
A questi conflitti, al tempo stesso religiosi e sociali, si aggiungeva quello, interno anche agli stessi farisei, tra quanti ritenevano che si dovesse vivere in pace sotto la dominazione romana e gli zeloti, che nel 66 scatenarono la guerra contro Roma.
Certamente, ben Zakkai non condivideva la posizione estremista degli zeloti, dato che durante l’assedio romano di Gerusalemme, tra il 68 e il 70 d.C., egli riuscì, fingendosi morto e facendosi trasportare dentro una bara dai suoi discepoli, a uscire dalla città e a passare nel campo dei Romani.
Portato dal loro comandante, Vespasiano, gli avrebbe profetizzato l’ascesa al trono imperiale, chiedendogli al tempo stesso la possibilità di fondare una sua scuola a Yavne, città in mano ai romani e divenuta all’epoca rifugio dei giudei filo-romani.
Nella sua trilogia su Flavio Giuseppe, il romanziere Lion Feuchtwanger lo descrive a colloquio con Vespasiano come «un giudeo vecchissimo, molto piccolo, molto ragguardevole, i cui occhi azzurri spiccavano con strana freschezza nel suo volto tutto rughe incorniciato da una barbetta stinta».
Fu così, nascosto in una bara, che il rabbino Ben Zakkai passò dalla parte dei romani, anche se motivato dalla volontà di salvare non se stesso ma il giudaismo.
Fu da quella bara che risuscitò il giudaismo distrutto.
Un altro personaggio, in quegli stessi anni, fece qualcosa di molto simile: Flavio Giuseppe.
Anch’egli sfuggì alla guerra, di cui era uno dei capi, passando dalla parte dei romani, e ottenne salva la vita profetizzando a Vespasiano la sua assunzione all’impero.
Visse a Roma, nell’orbita dei Flavi, e fu uno dei massimi storici dei suoi tempi.
Nell’opera di Flavio Giuseppe, ben Zakkai non è mai nominato, come Flavio Giuseppe non lo è nei testi rabbinici.
Due profezie, dunque, due diserzioni, una rimasta nella memoria ebraica come un tradimento, l’altra come una redenzione; l’uno, ben Zakkai, amato quanto odiato fu l’altro, Flavio Giuseppe.
Che fu poi, sia detto per inciso, il vero autore della famosa profezia, che i testi rabbinici hanno attribuito, mutandone il segno, a Johanan ben Zakkai.
Ambedue operarono per preservare il giudaismo: Flavio Giuseppe, senza troppo riuscirci, con i suoi scritti; ben Zakkai con la sua scuola, che ben presto divenne molto più che un centro di studi, ottenendo dai vincitori il riconoscimento d’importanti funzioni giudiziarie e amministrative.
Yavne divenne la culla dell’autonomia ebraica.
E anche, scrive uno storico di oggi, «una fortezza contro l’oblio».
«Da allora in poi – scrisse Freud in un brano di uno dei suoi libri più intriganti, Mosè e il monoteismo – furono la Sacra Scrittura e l’impegno intellettuale ad essa dedicato che mantennero unito il popolo disperso».
È questo il giudaismo che si è tramandato nei duemila anni successivi, un giudaismo che deriva in linea diretta dalla scelta di ben Zakkai e dei suoi seguaci: la sostituzione di un culto fondato sui sacrifici del Tempio con un culto fondato sulla lettura e l’interpretazione del testo sacro, sull’insegnamento.
La sostituzione del sacerdote con il saggio, il rabbino.
Un giudaismo, aggiungiamolo, che non sopravvisse soltanto alla distruzione del suo stato e alla dispersione del suo popolo, ma anche alla concorrenza della nuova religione, il cristianesimo, che si affermava con grande forza in seno all’antica.
La strada scelta da Johanan ben Zakkai era una strada molto stretta.
Se Vespasiano non gli avesse concesso Yavne, sarebbe stato dimenticato o al massimo sarebbe passato alla storia come una versione un tantino meno spregiudicata di Flavio Giuseppe.
Ma anche la concessione di Yavne da parte di Vespasiano non garantiva che la sua iniziativa avrebbe portato alla sopravvivenza dell’ebraismo e non ne avrebbe invece soltanto accompagnato il declino.
A portare il suo progetto al successo furono innanzitutto la sua straordinaria consapevolezza che il vecchio mondo stava per essere distrutto.
Dico straordinaria, perché intorno a lui nessuno lo aveva capito, neanche quelli che, come gli esseni, da quel vecchio mondo si erano tenuti lontani e che ora ne accusavano le colpe nella caduta.
No, il vecchio rabbino, preferì rischiare di perdere la faccia passando al nemico piuttosto che chiudersi in una torre d’avorio a piangere sul passato, rinunciando a combattere.
Conoscete qualcuno, oggi, in questo nostro mondo, che di fronte al perdersi di tutti i valori in cui è nato e cresciuto sia davvero capace di guardare avanti senza recriminazioni o fughe dalla realtà? Ma ciò che più rende la storia di Johanan ben Zakkai esemplare anche per noi è il fatto che la ricostruzione a cui diede impulso fu tutta fondata sull’interiorità: lo studio, la morale, il pensiero, la preghiera.
Il rinnovamento del giudaismo dopo il 70 fu, innanzitutto, un rinnovamento interiore.
Implicò una ricostruzione delle coordinate mentali, culturali, religiose.
Una rivoluzione culturale, se ci è lecito adoperare questa locuzione per un rivolgimento sommesso e pacifico, non tanto diversa da quella rappresentata dal cristianesimo.
Certo, ben Zakkai pianse la distruzione del Tempio, la cui notizia lo raggiunse a Yavne, e si strappò le vesti insieme ai suoi discepoli in segno di lutto.
Ma se avesse potuto ricostruirlo, rimettere in piedi il sacrificio rinunciando al Libro, non sono sicura che lo avrebbe fatto.
In fondo, e questo anche raccontano i testi rabbinici, aveva più volte profetizzato la caduta del Tempio ancor prima che la guerra la rendesse ipotizzabile.
Forse, pensava davvero che non ci fosse scelta.
E se la strada intrapresa dai suoi contemporanei, con gli scontri feroci tra i partiti e l’affermarsi del fondamentalismo zelota, gli sembrò distruttiva, allora il suo volgersi allo studio e all’interiorità può essergli apparsa come l’unica, e l’ultima, possibilità di salvare il suo mondo.
Credo che sotto questo aspetto la lezione del rabbino di Yavne sia davvero ancora attuale: guardarsi dentro, e ancor più insegnare a guardarsi dentro, prima di guardare all’esterno.
Cambiare se stessi, prima di cambiare il mondo.
Non aver paura del cambiamento e nel farlo non scegliere il percorso più facile o più veloce.
E guardare al futuro in una prospettiva di lungo respiro.
Per imparare a riconoscere, per dirla con un altro grande maestro, Giambattista Vico, che quelle che ci paiono traversie sono talvolta opportunità.
LA VITA Il rabbino Johanan ben Zakkai nasce nel I secolo d.C.
in Galilea e diventa presto una personalità influente nel periodo che segue la distruzione del Secondo tempio.
È uno dei leader della comunità farisaica, di coloro cioè che i Vangeli paragonano a “sepolcri imbiancati”: intellettuali, maestri della Legge, rigorosi dal punto di vista dell’osservanza ma aperti alle interpretazioni della Legge orale.
Discepolo del rabbino Hillel, è favorevole alla resa di Gerusalemme assediata ai romani, anche se gli zeloti non sono d’accordo.
Viene portato fuori dalla città dai suoi seguaci, chiuso in una bara, fingendosi morto, e portato davanti al comandante romano Vespasiano.
Johanan chiede che l’accademia rabbinica di Yavne venga risparmiata dai romani.
Quando il Tempio cade in rovina (nella foto sopra, il Muro del Pianto), lui e i suoi colleghi ricostruiscono il giudaismo: la sua attenzione verso lo studio e l’interiorità gli appare come l’unica, e l’ultima, possibilità di salvare il suo mondo.
Muore a Yavne intorno all’80 d.C.
e oggi sulle colline di Tiberiade (la capitale della Galilea) si può visitare la sua tomba (nella foto sotto), non troppo lontano da quella di Mosè Maimonide e dei rabbini Ben Akiva e Meir Ba’al Ha-Nes.
LA TRADIZIONE Il nome ebraico Johanan ben Zakkai in italiano è Giovanni figlio di Zaccheo.
Il significato del nome Giovanni è “grazia di Yahweh”, mentre Zaccheo, in aramaico antico, significa il giusto.
Secondo il Talmud (nella foto sotto, una pagina di un libro sacro ebraico) il rabbino visse 120 anni, dal 40 a.C., fino all’80 d.C.
La sua vita sarebbe suddivisa in tre improbabili periodi di quarant’anni ciascuno, e solo nell’ultimo periodo avrebbe predicato.
Sempre secondo il Talmud, aveva sei discepoli (principali): Hanina ben Dosa, Eliezer ben Hyrcanus, Joshua ben Hananiah, Yosi, Schiméon ben Nathanel ed Eleazar ben Arakh.
Suo figlio morì prima di lui.
LE TEORIE Molte teorie sono state avanzate sull’identità del rabbino, anche se le prove a sostegno sono scarse o inesistenti.
Per esempio Zakkai è stato identificato con Zaccaria, padre del Battista; altre volte con Giovanni Battista e con l’apostolo Giovanni Evangelista.
Ma sono molti i riferimenti che non coincidono.
in “Il Sole 24 Ore” del 12 agosto 2010

Il diritto alla libertà e il suo rovescio

In vista del trentunesimo “Meeting per l’amicizia fra i popoli” che si svolgerà a Rimini dal 22 al 28 agosto, anticipiamo stralci di un articolo a firma del cardinale arcivescovo di Esztergom-Budapest che sarà pubblicato sul prossimo numero di “Atlantide”, quadrimestrale della Fondazione per la Sussidiarietà diretto da Giorgio Vittadini.
  Oltre venti anni dopo il crollo del Muro di Berlino giova ripensare alla situazione della nostra religione e dei credenti in un’Europa in cui si parla molto di laicità.
L’Europa è un continente complicato, dalle mille facce, con diversi popoli e diverse eredità culturali, diverse sensibilità, diverse posizioni sociali della religione in generale e della Chiesa cattolica nei singoli Paesi.
Riflettendo sulla situazione attuale, tenendo presenti gli elementi culturali e sociologici, possiamo identificare alcune realtà, e forse alcune possibilità, di ulteriore sviluppo riguardo al rapporto tra Chiesa e Stati nel nostro vecchio continente.
La parola laicità è molto comune nei Paesi di tradizione latina e cattolica:  Italia, Francia, Spagna e Portogallo.
Essa è storicamente collegata con un processo di secolarizzazione della politica avvenuto in questi Paesi durante l’epoca moderna.
Come tutti sappiamo, questa storia fu contrassegnata da aspri conflitti e da fenomeni anche violenti, le cui vittime erano spesso non soltanto i portatori delle antiche strutture politiche, ma anche la gente semplice, tra cui molti credenti.
Oggi comunque, in tutti questi Paesi, vige un sistema di netta separazione tra Stato e Chiesa, la cosiddetta “laicità dello Stato”.
In un’altra regione del continente, precisamente nel Nord-Europa, dove la religione di Stato durante l’epoca moderna era qualche forma del protestantesimo, la separazione non si è manifestata in forma tanto violenta, ma il processo di secolarizzazione è stato comunque continuo, e ha condotto all’esaurimento delle istituzioni e dei legami religiosi.
Le forme istituzionali religiose non sono state rifiutate in modo radicale, ma, con la secolarizzazione della società, pur conservando alcuni simboli religiosi, o magari, anche un ruolo istituzionale interno a qualche comunità religiosa – come nel caso della Chiesa di Inghilterra – è stata permessa sempre di più anche la libertà delle altre religioni, e il funzionamento pienamente secolare delle istituzioni pubbliche.
Un terzo gruppo dei Paesi europei è rappresentato dai cosiddetti “Paesi dell’Est”.
In questi Paesi la lunga oppressione comunista ha separato in modo brutale la religione dallo Stato.
Ufficialmente non si annunciava la neutralità dello Stato, ma piuttosto il suo collegamento istituzionale con l’ideologia marxista-leninista, chiamata visione scientifica del mondo, oppure socialismo scientifico, oppure materialismo dialettico e storico.
In realtà, tale ideologia aveva pienamente il ruolo di una religione di Stato, fino al punto che in alcuni Paesi la stessa costituzione dichiarava che “la forza guida della società è il partito marxista-leninista della classe operaia”.
Ciò significava che quelli che non si professavano marxisti-leninisti, avevano meno diritto di partecipare alla direzione della società.
Vent’anni dopo il crollo di questo sistema i popoli dei Paesi ex-comunisti hanno attraversato uno sviluppo istituzionale, sociologico e ideologico.
La prima novità in questo contesto è stata la libertà di religione, espressa in diverse leggi più o meno fondamentali in questi Paesi.
La Chiesa cattolica, da parte sua, aveva attraversato il periodo del rinnovamento conciliare, aveva precisato il vero senso cattolico della libertà religiosa, e cominciava ad affrontare la sfida del secolarismo con questo atteggiamento.
Da parte cattolica, quindi, malgrado alcune nostalgie storiche, provenienti generalmente non dalla Chiesa stessa, ma piuttosto da altri gruppi della società, non ci fu nemmeno un tentativo di ottenere una posizione di religione di Stato.
Nei Paesi di tradizione ortodossa, parallelamente al risveglio di queste Chiese, si poté osservare anche una notevole riservatezza da parte degli organi statali, riguardo a un collegamento completo e ufficiale tra Stato e Chiese nazionali.
Occorre notare che, specialmente in Russia, la distruzione della religione e la secolarizzazione erano talmente profonde che un tale collegamento, indipendentemente dalle intenzioni, non sembrava troppo realistico.
In questi ultimi Paesi del Centro-Est europeo, esistevano anche altri fatti culturali più o meno oppressi durante l’epoca comunista.
L’elemento etnico o nazionale era uno di questi.
Dopo il crollo del sistema si manifestarono più liberamente anche questi elementi di identità.
Tale svolta era stata poco preparata anche dal punto di vista psicologico.
Perciò scoppiarono conflitti nazionali ed etnici, come nel Caucaso, nei Paesi Baltici, nella ex-Iugoslavia, e, in una forma meno violenta, anche altrove nella regione.
Tutto ciò fu confermato dalla nascita o rinascita di molti Stati nazionali che ottennero la loro sovranità dopo il crollo di Stati federali comunisti.
Tale fenomeno nazionale si collegava in alcune parti con elementi religiosi, essendo stata la religione una parte integrante della cultura specifica delle diverse nazioni.
Altri elementi specifici di queste culture spesso non potevano svilupparsi sufficientemente per la pressione dell’internazionalismo comunista.
L’Europa conosce diversi modelli di rapporti tra Stato e Chiesa.
Ma conosce anche diversi tipi di Stato.
Oggi il modello prevalente è ancora lo Stato nazionale, prodotto tipico dell’epoca moderna.
Ma costituisce una realtà fondamentale dell’Europa di oggi la presenza dell’Unione Europea che comprende una moltitudine di Stati nazionali, e che sembra influire notevolmente sulla vita interna degli Stati membri e anche dei cittadini.
Stati grandi con la massima varietà di popoli, di regioni geograficamente ben diverse con profonde differenze economiche, linguistiche, culturali e religiose hanno contrassegnato per lunghe epoche la storia del nostro continente.
Negli ultimi duemila anni i periodi senza grandi imperi in Europa sono stati molto più brevi di quelli nel segno di tali imperi.
Cronologicamente possiamo cominciare con l’impero persiano, il quale sin dall’epoca di Dario i (522-486 prima dell’era cristiana) comprendeva anche Tracia e Macedonia, e quindi, quella terra che oggi si considera europea.
Come è noto, l’impero persiano all’epoca della sua fioritura rappresentava uno Stato governato secondo princìpi quasi moderni.
In esso i diversi popoli avevano una notevole libertà di espressione della loro cultura e della loro religione, anzi rispetto al fatto culturale e religioso, avevano anche una cospicua autonomia giuridica per organizzare la vita secondo le proprie tradizioni.
Questa situazione ha la sua precipitazione classica in diversi libri dell’Antico  Testamento.
L’impero romano, da parte sua, era portatore di una coscienza di missione storica del popolo romano, ma incorporava nella sua struttura organizzativa elementi dell’eredità delle monarchie universali ellenistiche.
Già Cicerone identifica l’imperium romanum con l’Orbis Terrarum.
I tentativi di introdurre una concezione assolutistica dell’impero furono sconfitti.
Lo spazio notevole per l’autogoverno politico e culturale delle città nei primi due secoli dell’era cristiana cedeva il suo posto gradualmente alle forme aperte della monarchia militare nel III secolo.
Da Diocleziano in poi si verificò una tendenza al decentramento del potere che produsse la tetrarchia, ma non nel senso del riconoscimento delle proprietà culturali ed economiche dei diversi popoli e delle diverse regioni.
Nella tarda antichità era così pesante la pressione tributaria che la lealtà dei sudditi cominciava a vacillare già per questo motivo.
Problema che accompagnò poi anche la storia bizantina.
All’alba del medioevo nacquero degli Stati posti sotto il potere di diversi popoli chiamati barbari, come il regno visigoto e quello dei franchi.
In queste forme di Stato era un fenomeno fondamentale la duplicità della popolazione, cioè, il gran numero degli abitanti aventi cultura romana da una parte, e dall’altra parte, le comunità germaniche dalle quali proveniva la classe dirigente.
Tale duplicità culturale condusse diversi re a promulgare varie leggi, diversi codici per le varie comunità viventi nello stesso Stato.
Anche nell’impero romano-germanico, chiamato in certi periodi Sacro romano impero della nazione tedesca, sopravvisse la pluralità dei diritti popolari e tribali anche nelle raccolte di diritto consuetudinario.
Dal risveglio della conoscenza del diritto romano, dalla fine del xi e poi dal XII secolo, i testi del diritto romano giustinianeo cominciarono a influenzare gli alti livelli della vita giuridica, a partire dall’insegnamento universitario.
Sebbene questo diritto sia stato rispettato soprattutto come ratio scripta, e non tanto come diritto pienamente vigente in tutte le relazioni della vita sociale, esso ha influenzato lo sviluppo del diritto europeo, e ha avuto in molte parti del continente la funzione di diritto sussidiario che aiutava a colmare le lacune delle leggi.
Fu nel tardo medioevo che anche il diritto canonico, sviluppato in base alle antichissime tradizioni anch’esso nel quadro dell’insegnamento universitario, cominciò a formare una certa unità culturale e teorica ma anche effettiva, per esempio nei dettagli del processo giudiziario o dei princìpi generali, con il diritto romano.
Un’altra logica morfologicamente più antica vigeva nell’impero ottomano, in cui i diversi popoli o le diverse comunità etnico-religiose godevano di grande autonomia anche giuridica e dove queste comunità portavano il nome di millet.
Quanto ai cristiani va precisato che ancora all’inizio del XX secolo circa il 35 per cento dell’intera popolazione era di religione cristiana.
Riguardo alla funzione del Patriarca di Costantinopoli all’interno di quell’organizzazione imperiale, si ricorda la drammatica uscita solenne del Patriarca con il suo clero nel campo dell’imperatore Maometto ii (Mohammed al Fatich, 1444-1446; 1451-1481), nell’anno storico 1453.
Il sultano accettò l’atto di sottomissione del Patriarca, anzi lo riconobbe come capo dei cristiani del suo impero.
Così accadeva che nel XVI e XVII secolo persino i principi protestanti della Transilvania, che in quell’epoca dipendeva come vassallo dall’impero ottomano, dovessero recarsi a Costantinopoli e ottenere il consenso del Patriarca, prima di chiedere il riconoscimento dell’imperatore turco.
Un capitolo meno remoto è costituito dall’esempio dell’impero sovietico, Stato federale composto da molte repubbliche, il quale aveva però anche una serie di altri Stati un po’ meno strettamente dipendenti, ma legati a sé nel quadro del Comecon (Consiglio di mutua assistenza economica) e del Patto di Varsavia.
La possibilità dei popoli e gruppi di conservare la propria lingua, cultura e religione fu diversa nei diversi periodi della storia sovietica, e differente nei diversi stati satelliti.
Cittadini ungheresi negli anni Settanta guardavano per esempio con grande ammirazione i molti ordini religiosi esistenti legalmente in Polonia.
Anche se la religione costituiva durante la storia un elemento determinante dell’identità etnica dei diversi popoli, nel quadro dei diversi imperi, nella storia si osserva una lunga serie di modalità di trattare questo fenomeno.
Trattarlo, per esempio, in modi anche giuridicamente diversi, a seconda delle diversità dei popoli, dei Paesi, delle regioni autonome, delle tradizioni culturali, riconosciute in settori identificabili secondo criteri territoriali e personali.
Nello specchio della storia, quindi, un elemento tipico e molto europeo dei rapporti tra Stato e Chiesa sembra essere proprio la diversità.
Prescindendo dalla stragrande diversità nella storia, dobbiamo osservare anche un altro fatto più o meno costante.
In grandi imperi o in larghe e organizzate comunità di popoli, si dimostrava sempre necessario un denominatore comune riguardo alla visione del mondo.
Tale denominatore comune poteva essere in alcuni imperi la personalità sacralizzata del sovrano, oppure, insieme con essa, il culto di alcuni dei comuni.
Se un popolo, una religione, rifiutava questo elemento di culto della comunità, poteva esporsi a violente persecuzioni.
Tale situazione è fin troppo conosciuta dalla storia della Chiesa.
Eppure, lo ius gentium era rispettato già all’epoca romana.
Alcuni principi cristiani erano accettati in tutti i Paesi dell’Europa medievale fino al punto che si poteva parlare di res publica christiana.
Il cardinale Nicola da Cusa poteva scrivere con altri teorici della società della sua epoca che l’impero è il corpo, ma la Chiesa è lo spirito della res publica christiana.
Non soltanto alcuni principi della fede quindi, ma la Chiesa come tale e il suo diritto erano tra questi elementi di unione della comunità medievale delle nazioni europee.
Nell’epoca moderna poi, cominciò a ricevere nuovi accenti il diritto naturale, interpretato comunque partendo dalla tradizione cristiana, per sfociare poi, all’epoca dell’illuminismo, nei diritti umani classici.
Se oggi il contenuto e le basi dei diritti umani cominciano a perdere i loro chiari contorni, allora è giustificata la preoccupazione per le basi comuni, a livello di visione del mondo, della comunità dei popoli europei.
Sorge la domanda tecnica della gestione della libertà e della pluralità.
La pluralità non può comprendere senz’altro qualsiasi atteggiamento di violenza o di terrore, la libertà, come vediamo in questi tempi di crisi, può causare la distruzione dei più deboli, e può aprire la strada alle ingiustizie più gravi, se non viene regolata dal principio del bene comune.
Ma per identificare un bene comune ci vogliono principi comuni antropologici.
Ci vuole una qualche visione comune su che cosa è buono per l’essere umano.
E oltre a questo, ci vuole anche una autorità non sprovvista di forza che possa far valere le esigenze del bene comune.
La dottrina sociale della Chiesa, arricchita recentemente dall’enciclica Caritas in veritate, è sempre attuale.
Il dilemma del liberalismo classico dell’inizio del XX secolo è ritornato in dimensioni globali.
Il mondo, il nostro vecchio continente specialmente, dovrebbe imparare dalle esperienze dell’ultimo secolo.
Una ribellione volontarista e violenta contro i problemi dell’egoismo sfrenato nell’economia può avere facilmente per effetto dittature sanguinose che risultano poi tentativi falliti di soluzione di un problema destinato a ritornare.
Ma quanti milioni di vite umane sono il prezzo di questi tentativi! Non rimane dunque altra strada che quella della ricerca paziente e generosa delle forme regolate dal diritto e fedeli ai principi di sussidiarietà e di solidarietà che realizzano il bene comune, impegnandosi – come dice Benedetto XVI – “alla realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità”.
La visione del mondo e quella dell’essere umano non dev’essere opera degli Stati, né delle autorità politiche.
Nel senso di una giusta sussidiarietà, la visione del mondo costituisce un fatto personale, ma anche comunitario, trasmesso e condiviso da altre persone, da diversi gruppi, o anche dall’intera società.
Le comunità religiose sono portatori eminenti della visione comunitaria del mondo.
Quindi, la sana laicità dello Stato significa proprio che le autorità statali e politiche, anche quelle internazionali o continentali, non possono pretendere di definire la visione del mondo dei cittadini, ma devono fare riferimento agli elementi portatori di questi valori della società, nel quadro di una chiara sussidiarietà.
Ma è possibile arrivare in base a questa visione del mondo a un denominatore comune che possa offrire il minimo necessario per la coesistenza e la collaborazione delle persone e dei popoli? Secondo la convinzione cristiana, tutti gli uomini possono conoscere le verità essenziali su Dio attraverso la realtà creata.
Crediamo quindi nella forza conoscitiva umana anche riguardo ai principi fondamentali della vita.
Questa è la base anche della morale rivelata.
La grazia, anche in questo ambito, presuppone la natura.
La condizione di una sinfonia riguardo ai principi fondamentali della moralità nei diversi Stati è quindi, la conoscenza e il riconoscimento – aperto anch’esso verso il progresso delle ricerche e del ragionamento – della piena realtà delle cose oggettivamente esistenti.
La verità, quindi, ci libera anche riguardo alla vita sociale.
Così si delinea la possibilità di un equilibrio tra una “sana” laicità dello Stato, basata sulla sussidiarietà, nelle questioni della visione del mondo, e la possibilità di un consenso largo circa diversi principi fondamentali.
Proprio questa ricerca di equilibrio può essere un compito storico dell’Europa multiculturale.
E in questo contesto, i cristiani del continente che vent’anni or sono ha ritrovato molti valori della propria unità, sono chiamati a rendere testimonianza della piena verità di Cristo, della speranza che vuol aprirsi a tutti e che invita tutti a una comune riflessione.
Nuova evangelizzazione quindi, nel contesto della pluralità, del mutuo rispetto, e soprattutto, dell’apertura ecumenica, la quale deve rendere più forte la voce del Vangelo con la comune testimonianza e che deve essere una palestra del dialogo che ci prepara anche al dialogo con le altre religioni e con i non credenti nello spirito della carità e nella verità.
(©L’Osservatore Romano – 21 agosto 2010)

Il paradosso di Dio

Il testo che anticipiamo in questa pagina verrà letto dall’autore domani alla Milanesiana, la rassegna di letteratura, musica, cinema e scienza curata da Elisabetta Sgarbi (Teatro Dal Verme di Milano, ore 21).
La serata ha per tema «I paradossi del tempo» e prevede anche la partecipazione di Fiorenzo Galli, direttore del Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, del matematico Wendelin Werner e dello scrittore Lawrence Osborne, con un concerto finale della cantante Noa.
Shalom Auslander è nato a New York 40 anni fa.
In Italia è conosciuto soprattutto per il memoir Il lamento del prepuzio (Guanda), dove ha raccontato con umorismo spietato i mille divieti in mezzo ai quali è cresciuto nel quartiere ebraico ortodosso di Monsey e i condizionamenti che ne sono derivati.
Di recente, sempre da Guanda, ha pubblicato la raccolta di racconti A Dio spiacendo.
La Yeshiva di Spring Valley era una scuola ebraica ultraortodossa.
I nostri rabbini erano onniscienti, e padroneggiavano tale conoscenza con assoluta certezza.
Sapevano che la Terra aveva 6.000 anni.
Sapevano che Dio aveva creato il Cielo e la Terra, e sapevano che successivamente aveva creato le piante, e che poi aveva creato gli alberi, e che poi aveva creato l’uomo, e che poi si era preso un giorno di vacanza.
Sapevano che la Terra sarebbe arrivata a una fine, e sapevano cosa sarebbe successo a tutti noi dopo che il mondo fosse finito.
Ci osservavano attentamente.
Osservavano come parlavamo, cosa mangiavamo, come pregavamo, quali preghiere di ringraziamento recitavamo.
L’unico posto in cui si poteva sfuggire all’occhio sempre vigile dei rabbini era il bagno al secondo piano; i rabbini preferivano il bagno al primo piano, dove fumavano sigarette e si lamentavano della pigrizia dei loro studenti mentre, soltanto al piano di sopra, noi eravamo indaffarati a scoprire i segreti del mondo che loro cercavano disperatamente di nasconderci.
E così, una mattina, quando Avi Tuchman mi disse di seguirlo nel bagno al secondo piano, sapevo che mi aspettava qualcosa di interessante.
Avi controllò i cubicoli, e poi ispezionò gli orinatoi dietro l’angolo.
«Che c’è?», chiesi.
Lui si inclinò verso di me, unì le mani a forma di coppa sotto il mento e mi sussurrò all’orecchio.
«Se Hashem riesce a fare qualsiasi cosa», disse, «riesce a creare un masso talmente pesante da non riuscire a sollevarlo?».
Hashem è il nome ebraico con cui ci si riferisce a Dio.
Non eri tenuto a usare il Suo nome senza una buona ragione, e di certo non eri tenuto a cercare di trovare dei modi per contestarlo.
Avi fece un passo indietro, incrociò le braccia e sorrise.
«Me l’ha detto mio cugino», disse.
«Hashem riesce a fare qualunque cosa», risposi.
«Ah sì?», esclamò Avi.
«Riesce a creare un masso talmente pesante da non riuscire a sollevarlo?».
«Certo che riesce».
«Allora ecco qualcosa che non riesce a fare».
«Cosa?».
«Sollevarlo».
«Allora riesce a sollevarlo».
«Allora ecco ancora qualcosa che non riesce a fare».
«Cosa?».
«Creare un masso che non riesce a sollevare».
Avi sorrise.
«Hashem riesce a fare qualunque cosa», dissi, alzando i tacchi e uscendo dal bagno.
La rivista porno aveva destato meno perplessità.
Avi Tuchman non mi piaceva granché, tuttavia la sua sembrava una gran bella domanda.
Un trucco, un trabocchetto, un filo allentato di un maglione che, se tirato, avrebbe disfatto tutta quella dannata maglia.
Non riuscivo a togliermelo dalla testa.
E così quel giorno, alla fine della lezione, dopo che il rabbino Brier ci aveva illustrato come Dio avesse trasformato l’acqua dell’Egitto in sangue, e come avesse fatto piovere rane, e diviso il mare in due parti e come fosse in grado di fare qualunque cosa – io alzai la mano.
«Che c’è?», chiese il rabbino Brier.
Brier era il rabbino della scuola che incuteva più timore, non per la sua intelligenza, bensì per le sue mani.
Una volta aveva schiaffeggiato uno dei ragazzi più grandi con una tale violenza da rompergli il naso, e aveva afferrato un altro studente per il braccio con una tale forza che per i due mesi successivi il ragazzo aveva dovuto portare il braccio al collo.
«Se Hashem riesce a fare qualunque cosa», dissi, «riesce a creare un masso talmente pesante da non riuscire a sollevarlo?».
Credevo non ci fosse niente di male nel fare una semplice domanda.
Dopo tutto, probabilmente c’era una semplice risposta; meglio chiarire queste cose velocemente prima che sfuggissero di mano.
«Chochemel», disse in yiddish il rabbino Brier con un certo sarcasmo – «Tu, saputello» – e mi mollò un ceffone in faccia.
«Hashem», ringhiò, «riesce a fare qualunque cosa», e poi mi disse di andare nell’ufficio del rabbino Greenbaum.
Questi era il preside e il capo dei rabbini della Yeshiva.
«Digli», disse il rabbino Brier, «che tu sai più di Hashem».
Che era esattamente l’opposto del nocciolo della questione.
Lo ammetto – la domanda mi faceva star bene.
Ma ciò che mi regalava una tale sensazione non era il pensiero di aver ingannato Dio, o di saperne di più di Lui.
Sicuramente allora non sarei stato in grado di riconoscerlo, ma ciò che di quella domanda faceva sentire talmente bene non era il pensiero di sapere qualunque cosa; piuttosto, era la chiara e distinta gioia di non sapere.
A quei tempi, sembrava che tutti credessero di sapere tutto.
Ultimamente, la situazione non ha fatto che peggiorare.
Tutti sanno tutto.
Sanno qual è il problema dell’America, qual è il problema del mondo, della letteratura, delle arti.
I blogger sono peggio dei giornalisti, gli utenti di Twitter sono peggio dei blogger.
Se esisteva un’arte del non sapere, l’abbiamo perduta.
«L’unica cosa che so», disse Socrate, «è che non so nulla».
Magari non è stato il primo a dirlo, ma comincio a sospettare che sia stato l’ultimo.
Il rabbino Greenbaum mi convocò nel suo ufficio, invitandomi a sedermi.
Mi accomodai con qualche difficoltà sulla sedia di fronte alla sua e mi fissai le scarpe.
«Dimmi», disse il rabbino Greenbaum, «credi che Hashem ti ami?».
«Sì», risposi.
«E credi che Hashem voglia che tu Lo ami?».
«Sì», risposi.
«E allora come credi che si senta Hashem quando affermi che non riesce a fare qualcosa?».
«Male», risposi.
«Naturalmente», disse il rabbino Greenbaum.
«E tu sai che Lui riesce a fare qualunque cosa».
Annuii.
«Ma se Lui non riesce a sollevarlo…», dissi.
«Certo che riesce a sollevarlo».
«Ma allora non riesce a farlo così pesante…».
«Certo che ci riesce».
«Ma allora…».
«Shalom», disse il rabbino Greenbaum, attorcigliandosi la barba, «sono più intelligente di te?».
Annuii.
«Sono più dotto di te?».
Annuii.
«Hashem riesce a fare qualunque cosa», disse.
«Okay?».
Annuii.
«Ora torna in classe», disse il rabbino Greenbaum.
Mi alzai avviandomi verso la porta.
La sua risposta non era una risposta.
Adesso la questione più importante era perché lui insisteva che lo fosse.
Raggiunsi la porta del suo ufficio e mi voltai verso di lui.
«Rabbino Greenbaum?», dissi.
«Sì?» \ «Mi dispiace di aver messo in dubbio Hashem», dissi.
Lui sorrise.
«Sei un bravo ragazzo», rispose.
Mi incamminai lungo il corridoio in direzione della mia classe.
Alle mie spalle, udii la porta dell’ufficio del rabbino Greenbaum richiudersi – il cigolio dei cardini logori, lo scatto della maniglia d’acciaio della porta, e poi la serratura, pesante, bloccare la porta scorrendo vigorosamente.
(Traduzione di Licia Vighi) in “La Stampa” del 13 luglio 2010

Etudes: La Compagnia di Gesù nella città degli uomini

Chi si ricorda di Ivan Gagarin? Probabilmente, ben poche persone.
Questo oscuro segretario dell’ambasciata di Russia a Parigi, in carica intorno al 1850, ha però contribuito alla creazione di uno dei pilastri della vita intellettuali francese.
Proprietario terriero non privo di risorse, l’uomo si convertì al cattolicesimo durante il suo soggiorno parigino.
Spinto dalla sua nuova fede, si fece prete ed entrò nella Compagnia di Gesù.
Ma la sua conversione personale non gli basta, e l’ex diplomatico si impegna per riportare l’intera Russia ortodossa nell’ambito del cattolicesimo.
Per far questo, fonda nel 1856 una rivista annuale dedicata agli “studi di teologia, di filosofia e di storia”.
Era nata “Etudes”.
Il primo numero, un grosso volume di diverse centinaia di pagine ingiallite, è devotamente conservato con la sua rilegatura nell’attuale sede della rivista gesuita, in rue d’Assas, a Parigi.
Perché la Compagnia di Gesù, pur non condividendo l’ossessione personale di Padre Gagarin, comprese presto l’utilità di poter disporre di una rivista di formazione delle menti cristiane.
Sul modello della Civiltà cattolica italiana, fondata nel 1850 dai gesuiti, la Compagnia, famosa per il suo ruolo nell’educazione delle élite cristiane, recupera la rivista.
La ribattezza Etudes religieuses, historiques et littéraires, e la pubblica in forma mensile, “al fine di esporre la vera dottrina cattolica di fronte agli errori che minano le società moderne”, come spiegherà un gesuita in occasione del cinquantenario della rivista.
Da allora, a seconda dei suoi capiredattori e del contesto politico-religioso, gli Etudes hanno alternato periodi di apertura e di irrigidimento intellettuale, tuttavia con una costante: l’accoglienza nelle sue colonne, fin dal primo anno, di argomenti anche non religiosi.
“Sullo sviluppo della Cina e dell’India, ad esempio, la rivista ha avuto un notevole anticipo grazie alla presenza missionaria di gesuiti sul posto”, commenta Jean-Claude Guillebaud, lettore e collaboratore della rivista.
Desiderosi di lasciare a Etudes la strada aperta alla scienza, alla tecnica, alla cultura, alla letteratura e ai dibattiti di società, i gesuiti crearono del resto, nel 1910, un’altra rivista, Recherches de science religieuse.
Una maniera anche di proteggere Etudes dall’eventuale censura romana sulle questioni teologiche…
Oggi, Etudes tratta un solo argomento religioso al mese e fa dell’eclettismo il suo marchio di fabbrica.
Durante un primo periodo, che finirà con la cessazione della rivista nel 1870, la Compagnia di Gesù offre una lettura cristiana piuttosto aperta e liberale di argomenti allora principalmente teologici, trattati nella rivista.
Anche se, parallelamente, difende un approccio tradizionalmente conservatore dell’ordine stabilito.
La pubblicazione della rivista a Lione, interrotta con l’espulsione dalla Francia della Compagnia di Gesù nel 1880, conoscerà nel suo secondo periodo un irrigidimento intellettuale sotto la direzione di padre de Scoraille, un realista dichiarato.
L’anticlericalismo della Terza Repubblica alimenterà come risposta un antirepubblicanesimo ed un antimodernismo virulenti.
Nel 1910, la rivista pubblica la condanna del movimento sociale cattolico Le Sillon da parte di Pio X.
Nel corso degli anni 30, pur mostrandosi critica nei confronti dell’ascesa del nazismo, la rivista non è tuttavia stata “anti-antisemita”, secondo l’espressione di Jean-Yves Calvez, uno dei suoi capiredattori, nel 2000.
Una analoga discrezione caratterizzerà gli anni della decolonizzazione e della guerra d’Algeria, mentre il periodo del dopoguerra è stato segnato da una apertura al cristianesimo sociale.
Parallelamente la rivista ha fatto delle innovazioni introducendo della scienza dura nelle sue pagine.
“Secondo i periodi, il livello era anche particolarmente esigente”, rileva il fisico Etienne Klein, consigliere della redazione.
“Fin dal 1900, vi si trovano articoli sulla relatività, talvolta con qualche errore!” Nel 1907 la rivista pubblica uno schizzo di un futuro tunnel sotto la Manica, accompagnato da un articolo fustigante la stampa inglese per le sue “prevenzioni” su quel progetto! Decisamente “conciliare” durante il Vaticano II (1962-1965), la rivista si è stabilizzata negli anni ’70 in una “concezione umanista e cristiana” dei dibattiti di società, “articolando ragione e fede”.
“Etudes oggi può essere senza dubbio collocata al centro-sinistra da un punto di vista di Chiesa, e al centro-destra dal punto di vista della società!”, riassume Padre de Charentenay.
Senza essere in contrasto con Roma, la rivist aha coltivato la sua indipendenza proclamata nei confronti del Vaticano.
“Roma non ha mai convocato uno dei capo redattori di Etudes, anche quando nel 1974 non è piaciuta una interpretazione “aperta” delle posizioni della Chiesa sulla contraccezione, presentate nel 1968 nell’enciclica Humanae Vitae.” Negli anni ’70 e ’80, la rivista non sfugge al movimento generale di ripiegamento.
I lettori lasciano allora Etudes, considerata una “istituzione”, così come i fedeli disertano le chiese.
Da 15000 nel 1968, il numero di lettori crolla a 7000 nel 1980.
Simbolo di questo movimentato periodo, padre Bruno Ribes, capo redattore considerato “progressista”, lascia la rivista nel 1975.
In seguito uscirà dalla Compagna di Gesù e poi dalla Chiesa.
Rivendicando il suo statuto di rivista di opinione e non di dibattito, Etudes si è ormai stabilizzata attorno agli 11 000 abbonati.
Più “consensuale” che in certe epoche, secondo alcuni osservatori, la rivista evita pochissimi argomenti.
Esempio di uno di questi buchi neri: l’ordinazione delle donne nella Chiesa cattolica.
in “Le Monde” del 14 luglio 2010 (traduzione: ww.finesettimana.org)

Le venuzelas di Mandela

La vuvuzelas, é l’argomento per eccellenza extra-tecnico dei Mondiali sudafricani:  una tromba da stadio lunga non più di un metro da tempo in voga tra i tifosi locali, chiamata vuvuzela.
C’è chi le paragona al barrito di un elefante e chi a uno sciame d’api inferocite.
  C’è chi le ha elette a simbolo di Sudafrica 2010 e chi, per il loro infernale frastuono, le ha bollate come strumento del diavolo.
Eppure, secondo il sito boogieblast, la tromba, oggi «soccer horn» per eccellenza e oggetto sempre più di culto tra i tifosi.
Fu introdotta in Sudafrica come un giocattolo per bambini che dovevano soffiarci dentro per puro gioco.
Non ebbe granché successo, fino a quando non furono i supporters locali del soccer a scoprire e realizzare l’effettivo potenziale dell’invenzione, il cui primo prototipo sarebbe stato ‘importato dagli Stati Uniti.
Sull’origine del nome, e su cosa veramente significa, sono state fatte molte ipotesi.
Di fatto le vuvuzelas appartengono ai supporters, come se i tifosi in qualche modo ne detenessero i diritti.
Nella versione messa a disposizione da un sito specializzato la vuvuzela misura 65×13 centimetri e pesa 120 grammi.
In commercio ne sono attualmente reperibili almeno un paio di versioni, a costi tutto sommato limitati.
Si parte da circa otto euro l’una, e si può anche arrivare ai 50, ma scegliendo una versione particolarmente «pretenziosa».
Maggiore il risparmio se si compra direttamente in Sudafrica: la tromba a Johannesburg costa la modica cifra di 25 rand, circa due euro e cinquanta centesimi.
Gli «strumenti del demonio» si appresterebbero a invadere gli stadi europei con il loro frastuono che può raggiungere i 150 decibel, anche se l’uso dei tappi può ridurlo di 30 decibel.
Oggetto di una semplicità arcaica, la vuvuzela produce una limitata ma potente gamma di suoni.
Anche se l’origine del nome non è chiara, sembra abbia ascendenze zulu: potrebbe significare “far rumore” ma anche “ronzio di uno sciame d’api”.
Suonarla è tutt’altro che alla portata dei profani e richiede una tecnica adeguata.
Debitamente illustrata in un apposito sito, il supplier boogieblast (www.boogieblast.com).
Che così spiega: «Introducete le labbra nell’imboccatura e provate a riprodurre il suono di una scoreggia (pudicamente, l’inglese farting è messo tra virgolette).
Rilassate le guance e fate vibrare le labbra nell’imboccatura.
Non appena il suono comincia ad uscire, soffiate con maggior forza».
Con risultati che sono stati ampiamente e assordantemente sperimentati.
Il modello di plastica, oggi il più diffuso negli stadi sudafricani dei mondiali, si è affermato nel corso degli anni Settanta tra i tifosi che seguivano le partite di calcio in Messico.
La vuvuzela aveva guadagnato l’attenzione dei cronisti sportivi già durante la Confederation Cup della FIFA dello scorso anno.
Valutato l’effetto del continuo e incessante ronzio causato dalle migliaia di trombette presenti negli stadi e la potenziale pericolosità dello strumento nel caso di tafferugli, la FIFA aveva deciso di vietarne l’utilizzo nel corso dei mondiali.
La SAFA, la South African Football Association, ha però presentato un ricorso a difesa della vuvuzela, risorsa indispensabile per regalare al mondo una vera esperienza sudafricana delle partite di calcio.
La FIFA è così tornata sui suoi passi, permettendo l’utilizzo dei modelli di vuvuzela di plastica che non superino il metro di lunghezza.
Sicuramente uno dei motivi per cui verranno ricordati questi mondiali sono le vuvuzelas, le trombette usate negli stadi che ospitano le partite dei mondiali in Sudafrica, e il forte rumore che queste provocano.
Il loro suono continuo infatti disturba i tantissimi telespettatori che assistono ai mondiali da tutto il mondo.
I primi a correre al riparo sono state le emittenti tedesche Zdf e l’Ard, che hanno deciso di introdurre alcuni accorgimenti durante le telecronache: utilizzeranno microfoni labiali e meglio direzionati per ridurre il fastidiosissimo rumore e impiegheranno un filtro audio inventato da Tobias Herre. Oltre alla Germania, anche la Bbc ha annunciato di aver preso degli accorgimenti per limitare il rumore prodotto dalle vuvuzelas.
Un funzionario ha dichiarato: “Stiamo monitorando la situazione.
Se le vuvuzelas continuano ad avere un impatto sonoro elevato, siamo pronti a prendere degli ulteriori accorgimenti”.
E un “commento” di un tifoso furioso(allegro e spiritoso) Ste trombette, quelle trombe lunghe un metro che fanno da sfondo ai campionati del mondo in Sudafrica, le Vuvuzela, hanno francamente rotto i coglioni.
Almeno a me ecco.
Cioè hanno un suono fastidioso e monocorde che alle mie orecchie risulta molto irritante.
Detto questo, la scorsa settimana ho seguito una discussione su Twitter, di un amico (del quale non dico il nome) ed una tipa che non conosco, che non seguo e che non ho intenzione di seguire dopo aver letto le stronzate che diceva.
In pratica sosteneva che i Sudafricani sono degli incivili, che ci vorrebbe uno sterminio, una bomba atomica o al minimo un Tzunami, per spazzare via un popolo di aborigeni che fanno un rumore simile con le trombette.
La simpatica amica in questione si accalorava nel dire cose come “non capisco come i calciatori accettino di giocare li” e cose di questo genere, senza risparmiare bestemmie e ataviche maledizioni ai “negri” africani.
L’amico di cui parlavo sopra, con grande freddezza e simpatia è anche riuscito ad interloquire e le ha detto qualcosa come “faranno casino si ma da li a augurare loro lo sterminio…” e li si è scatenata la parte migliore della signorina delirante.
Ha detto che “voi segaioli comunisti (…) con la vuvuzela” e bla bla bla, riferendosi a tutti quelli che non sono evidentemente idioti come lei.
Ora, l’assioma “vuvuzelacomunista” è una cosa che mi intriga da morire: come mai questa donna è arrivata a pensare che tutti quelli che NON sterminerebbero un popolo intero solo perché suona delle trombe allo stadio, debbano essere comunisti? Come mai il non essere un assassino di massa è considerato una cosa comunista da sta povera persona? E sopratutto, può il non essere un folle che augura Tzunami a milioni di persone, essere definito comunista con accezione negativa quando invece essere un folle sanguinario è una cosa positiva? E se positiva che nome ha? Fascista? Nazista? No, dico solo per capire eh.
Ultima cosa, se non essere matti vuol dire essere comunisti, non è meglio essere comunisti? Ma se così è allora il termine “comunista” non può essere considerato un temine negativo.
Insomma, vorrei tanto che sta tipa passasse di qua e leggesse, e poi mi spiegasse anche cosa le passa per l’insano e contorto cervello.
Ma dubito che passi di qua e anche che riesca a spiegarsi.
Vediamo ed aspettiamo… Bandire Le Vuvuzelas? ”No, è La Nostra Cultura”  Polemiche sul rumoroso strumento che i sudafricani suonano in strada e negli stadi, disturbando giocatori e trasmissioni tv: c’è chi lo vorrebbe vietare, ma i sudafricani sono contrari: “Troppo tardi, non possono più vietarla, è troppo tardi ormai”.E ancora: “Questo è un Mondiale in Africa e appartiene a noi.
Dobbiamo suonare le vuvuzelas, dobbiamo soffiare e soffiare e soffiare fino alla fine della Coppa” .
Una posizione quindi che va oltre il tifo e diventa difesa culturale: “Perché dovrebbero bandirla? E’ parte del Sudafrica, parte di Capetown.
E’ il nostro modo di tifare, non dovrebbero vietarla” ( fonte: repubblica.it) Mondiali 2010: le vuvuzelas sono l’incubo di tutti Se in queste sere vi siete sintonizzati su Rai 1 ma anche su sky o sui canali radio per seguire le partite dei mondiali sudafricani avrete sicuramente notato qualcosa di strano.
Più che notato, udito forse, un piccolo rumorino di sottofondo.
Neanche tanto piccolo e poco fastidioso se pensate che qualcuno ha anche richiesto il modo per evitarlo.
Di cosa stiamo parlando? Di quelle simpaticissime trombette, le vuvuzelas, che vengono regalate all’ingresso dello stadio e che producono un rumore assurdo.
Alla fine della partita il mal di testa è assicurato.
Pensate che secondo alcuni quotidiani sudafricani si scrive che il presidente abbia fatto un appello ai tifosi già prima dell’inizio del mondiale perché si conosceva la possibilità di un problema simile.
In effetti queste trombette sarebbe così dannose da poter addirittura provocare problemi all’udito.
I tifosi però non sembrano aver accolto quest’appello.
Anche i giocatori hanno dichiarato che le trombette disturbano parecchio ma sembra se ne debbano fare una ragione.
Il suono di queste utilissime trombette sembra esser destinato a diventare la colonna sonora di questi mondiali.
Ogni vuvuzela produce un suono di 127 decibel, una cosa incredibile se si pensa che si tratta di un semplice strumento a fiato eppure è così.
Dopo le proteste la casa produttrice delle fantastiche trombette ha deciso di abbassare il numero di decibel che resta comunque altissimo.
Ecco come si è giustificato un dirigente della società produttiva Masincedane Sport: “Abbiamo modificato il boccaglio, le Vuvuzelas avranno un suono di 20 decibel inferiore rispetto a quelle prodotte fino ad ora“.
Queste le sue parole prima del mondiale.
Non sembra però che questa modifiche abbiamo portato risultati ottimali.
Il disturbo c’è ancora e si vede.
E’ vero che in molti casi è meglio sentire questo spiacevole rumore invece delle telecronache assurde di cui ci omaggiano alcuni giornalisti.
Ma se fosse possibile preferiremmo evitarlo…Sembra un’ipotesi comunque difficile questa! La soluzione? Togliete l’audio… E- mi auguro- che essendo uno strumento semplice, possa essere usato da quanti oggi sono oppressi nel mondo e vogliono liberarsi, cioè essere uomini e donne felici nella propria società.
 Non sono una tifosa di calcio, però quando ho sentito mio marito che telefonava al figlio per sapere come eliminare quel fastidioso ronzio, simile a quello di uno sciame grossissimo di api, ho cominciato a ridere, a ridere e rido tuttora quando c’è una partita del Mondiali di calcio 2010.
Dio- ho pensato- anche stavolta Mandela farà conoscere al mondo intero qualcosa della sua cultura, di quella cultura che ha permesso a certi politici di individuare le strade della tolleranza, della comprensione e del perdono, della convivenza  tra le varie  etnie, anche se sussistono problemi gravissimi di povertà, sanità, e religiosità.
Per un attimo solo ho sognato che le vuvuzelas dei popoli sudafricani che le usavano per tenere lontano i nemici e gli animali feroci, potessero diventare uno strumento di lotta pacifica contro tutti i soprusi di cui oggi noi occidentali siamo vittime: politica, economia, rischi ambientali( come mi piange il cuore nel vedere il mio giovane presidente Obama stretto nella morsa del disastro ambientale che ha ereditato dal suo predecessore e nella incapacità dell’ONU nel dover ancora realizzare minimamente gli obiettivi che insieme 192 Paesi si erano riproposti di raggiungere nel 2015 per vincere la povertà, la malattia, la discriminazione di genere….).
Ma forse, la curiosità, la stupidità che acceca molti dei nostri contemporanei che a migliaia si sono gettati a comprare queste “trombette monocorde”, riusciranno a diventare un simbolo pacifico seppure fastidiosissimo,  dell’insofferenza  della gente verso i troppi, esagerati soprusi che stanno prevaricando in ogni dove da cui- sembra- sia scomparso ogni segno di democratica convivenza.
Un gruppo che protesta o vuole inneggiare a questo o quello che fa il bene del suo Paese, non è qualcosa da scartare o da irridere.
Nelson Mandela, ancora una volta, ci ha indicato una via serena per sospingere i deputati al Bene Comune, a non desistere, perché- prima o poi- la civiltà della convivenza prevarrà sul turpe mercato economico che sta imbrigliando il globo intero nella sua morsa mefitica.
Forse- ancora una volta- dobbiamo credere che sia stato un “segno” dell’Altissimo far sì che il campionato mondiale di calcio che è quello che inchioda più milioni di persone davanti alle TV, attraverso le vuvuzelas di un popolo umile, povero, vivo e geloso della sua cultura, possa riprendersi dal torpore mortale in cui vive e che ammette ogni infamia a discredito di tantissimi  che cercano di convivere nella amicizia e nella giustizia.
Evviva Mandela, evviva il Sudafrica! Però ora, se mi permettete, desidero riportare alcuni brani – a volte- tecniche, altre  furiose- sulle vuvuzelas che disturbano il ben sentire i commenti alle partite di calcio.
Eccole: Cosa sono le Vuvuzelas? i più risponderanno “delle trombette che si suonano agli stadi dei mondiali del Sudafrica”.
Ma per dare una risposta concreta bisogna cercare notizie che risalgono a più di 40 anni fa. Ci sono testimonianze di questo tipo di corno o di tromba di plastica negli stadi messicani dal 1970.
Originariamente fatta di latta, la Vuvuzela divenne popolare in Sud Africa nel 1990.Il noto Freddie “Saddam” Maake supporter di una squadra di calcio locale, Kaizer Chiefs, sostiene di aver inventato la vuvuzela, creando una versione in alluminio già nel 1965. Più tardi ha perfezionato il prodotto collegandolo a un tubo per renderlo più lungo. Maake ha foto che attestano quanto dice, foto che risalgono agli anni 1970 e 1980 a livello locale e ai giochi del Sud Africa e giochi internazionali nel 1992 e nel 1996 e in Coppa del Mondo 1998 in Francia.
Nel 2001 c’è chi vede una fonte di guadagno in questo oggetto particolarissimo e compie una vera e propria azione di Marketing.
Tutto cambia: l’oggetto leggendario viene brevettato, pubblicizzato, viene creato un uso del prodotto e viene prodotto in serie grazie a van Schalkwyk.
E’ la Masicendane Sport, società sudafricana, che lancia le vuvuzela su scala internazionale, ben tre anni prima che il Sudafrica si aggiudichi il Mondiale 2010.
Quando la Fifa sceglie Johannesburg per la Coppa del Mondo, van Schalkwyk ha già regalato 250 vuvù al Comitato organizzatore, convinto i ministri sudafricani delle Finanze e dello Sport a suonarle in pubblico e stretto accordi commerciali con gli organizzatori dei prossimi Mondiali in Brasile.
La vera magia delle vuvù, insomma, sembra essere quella di portare soldi.
Un euro e mezzo per una trombetta, oltre un milione quelle già vendute per un totale di un milione e mezzo di euro già nelle casse della Masicendane Sport.
Altri due milioni dovrebbero essere incassati nei mesi immediatamente successivi al Mondiale.Il suono delle vuvù sembra piuttosto stimolare la creatività, e il business.
Vuvuzela per iPhone, di casa Apple, è al momento l’applicazione gratuita più scaricata in Sudafrica e nel Regno Unito: oltre 750 mila download per riprodurre il fastidiosissimo suono sul proprio cellulare.
Craig Marias, un altro imprenditore sudafricano, ha assunto 80 operai per produrre copri- vuvuzuela e ha detto di aspettarsi introiti milionari nei prossimi sei mesi, mentre aziende come la Allding Ltd o boogieblast hanno creato siti internet che, oltre alla vendita di trombette, raccontano curiosità sullo strumento o insegnano a soffiarci dentro.
Insomma, più che il ronzio di uno sciame d’api, le vuvuzela suonano musica milionaria.
Disturbata da copie più potenti o meno potenti (Kuduzela) e ancor peggio dal mercato cinese, che pare abbia già messo in commercio trombette senza marchio registrato a un prezzo di vendita molto più basso.
Ulteriore pericolo per questo oggetto cult di questi mondiali di calcio è il suo rumore assordante durante le partite. Guerra alle ‘vuvu’ quindi.
Il mondo del calcio e’ infatti in rivolta contro i rumorosissimi ‘corni’ di plastica, suonati continuamente durante le partite dei Mondiali di Sudafrica 2010.
Messi da parte i tradizionali tappi alle orecchie e le ‘suppliche’ di intervento respinte dalla Fifa, mezzo mondo sta disperatamente cercando soluzioni per zittire le vuvuzelas sudafricane.
I più agguerriti sono i telespettatori che sul web si lasciano andare a commenti ‘arrabbiatissimi’.
Ma c’e’ chi non si arrende e propone soluzioni, a volte anche stravaganti, per poter seguire ‘in pace’ le partite come il tedesco Tobias Herre, che, sulla propria pagina web, ha pubblicato le istruzioni per eliminare il fastidiosissimo sottofondo dalle telecronache delle partite.
“Il rumore mi dava un fastidio enorme.
In realtà, eliminarlo è molto semplice”, ha detto all’agenzia Dpa.
La soluzione, a quanto pare, è costituita da un software speciale che intercetta e cancella determinate frequenze dei suoni creati dalle terribili trombette di plastica.
Lasciando, al tempo stesso, il rumore dei tifosi e la telecronaca dei commentatori.
Herre ha creato un tutorial..
A sostegno dei ‘tormentati’ dalle vuvu, come sono amichevolmente chiamate le vuvuzelas in Sudafrica, scende in campo la tecnologia.
Sui blog c’e’ chi propone di filtrare con un software le frequenze che compongono il ”suono del corno”.
Su alcuni post ci si spinge oltre e si suggerisce di riprocessare l’audio attraverso un computer e bloccare la banda dei 233, 466, 932  1864 Hz.
Stesso suggerimento per chi ha un televisore con equalizzatore o per chi ha un sistema ‘home theatre’.
(source: ilPost Leggo Wikipedia Boogieblast).

“Dialogo con i fratelli musulmani”

«Questo fatto non può essere attribuito alla Turchia e ai turchi, e non deve oscurare il dialogo».
In viaggio verso l’isola di Cipro divisa fra greci e turchi, il Papa toglie qualsiasi possibile responsabilità di Ankara nell’omicidio di monsignor Luigi Padovese, ucciso l’altro ieri a coltellate dal suo autista a Iskenderun, e anzi rilancia il rapporto con l’Islam.
«Non si tratta – spiega Benedetto XVI in volo, prima di scendere all’aeroporto di Paphos e concludere la giornata nella capitale Nicosia – di assassinio politico o a sfondo religioso.
L’atto sembra legato a questioni personali.
Aspettiamo nuove informazioni.
Ma l’omicidio di monsignor Padovese non ha nulla a che fare con il viaggio apostolico a Cipro, né con il fondamentalismo islamico; soprattutto, non getta ombra alcuna sulla prosecuzione del dialogo con l’Islam».
Un messaggio chiaro, dunque, lanciato alla Turchia e al mondo islamico, nel primo giorno della delicata visita apostolica nell’isola, la prima di un Pontefice a Cipro.
Delicato doppiamente, perché giunge pochi giorni dopo il clamoroso blitz israeliano contro le navi dirette a Gaza e partite proprio dai porti turchi e da Cipro; e perché svolto poche ore dopo il giallo tuttora aperto dell’assassinio di Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia.
Il Papa ha anzi espresso il suo «incoraggiamento al dialogo con i fratelli musulmani».
«Il nostro impegno – ha proseguito – è quello di continuare con una visione comune e nonostante tutti i problemi nel dialogo con loro».
E circa le tensioni innescate dalla vicenda della flottiglia bloccata da Israele verso Gaza, il Pontefice ha invitato tutti «alla pazienza» e «al coraggio di ricominciare».
Joseph Ratzinger è stato accolto nel grande spiazzo delle rovine di Paphos dall’arcivescovo Chrysostomos II.
E il capo della comunità ortodossa greco cipriota, nel suo discorso, si è lanciato davanti al Pontefice in un duro attacco ad Ankara.
«La Turchia – ha detto l’alto prelato ortodosso – sta realizzando un piano di distruzione nazionale.
Ha espulso tutti i cristiani e ha portato e continua a portare migliaia di coloni dall’Anatolia.
Nel concludere la sua orazione parlando del «martirio» a cui sarebbe sottoposta oggi la sua Chiesa, Chrysostomos ha poi chiesto un intervento diretto del Vaticano: «Cipro e la sua Chiesa – ha invocato – stanno vivendo il loro momento storico più difficile.
Santità, il nostro popolo che soffre e lotta sotto la guida dei governanti, chiede a voi una cooperazione attiva.
Riponiamo molte speranze nel vostro aiuto».
Ma il Papa è rimasto in silenzio, e non ha risposto in pubblico all’appello lanciando, piuttosto, un’esortazione per l’ecumenismo tra i cristiani.
Così qualche imbarazzo diplomatico potrebbe ora suscitare l’intenzione di Ratzinger di incontrare, come anticipato ieri da Repubblica, i rappresentanti della comunità turco-cipriota, non riconosciuti a livello internazionale.
Nei giorni scorsi, alcuni vescovi ortodossi oltranzisti avevano usato termini caustici nei confronti del Papa cattolico in arrivo, tacciandolo addirittura come «eretico».
La Segreteria di Stato vaticana ha dunque attentamente considerato l’opportunità di un eventuale incontro con il capo dello Stato del Nord di Cipro, il neo eletto Dervis Eroglu, dopo la richiesta pervenuta alla Santa Sede sia dalla capitale turco cipriota Lefkosa, con l’incoraggiamento del governo di Ankara e l’interessamento dell’ambasciata turca presso il Vaticano.
Alla fine la decisione è che non esistono motivi per chiudere la porta in faccia ai turco ciprioti, tanto più in questo momento delicato nelle relazioni fra Ankara e Santa Sede.
Difatti ieri sera, nel briefing conclusivo della giornata, il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, ha detto che vi è una «concreta possibilità» che Benedetto XVI incontri, fra oggi e domani, anche i rappresentanti politici e religiosi musulmani, cioè il Presidente e il Gran Muftì locale, della comunità turco-cipriota.
Ratzinger non andrà nell’autoproclamata Repubblica del Nord ma, ha spiegato chiaramente Lombardi, «egli prega, parla e pensa a tutta la popolazione dell’isola».
in “la Repubblica” del 5 giugno 2010