L’annuncio, fatto da Benedetto XVI dopo l’Angelus di Capodanno, di un suo viaggio ad Assisi, il prossimo ottobre, per un nuovo incontro tra le religioni per la pace, ha rinfocolato le controversie non solo sul cosiddetto “spirito di Assisi”, ma anche sul Concilio Vaticano II e il postconcilio.
Il professor Roberto de Mattei – fresco autore di una riscrittura della storia del Concilio che culmina nella richiesta a Benedetto XVI di promuovere “un nuovo esame” dei documenti conciliari per dissipare il sospetto che abbiano rotto con la dottrina tradizionale della Chiesa – ha firmato assieme ad altre personalità cattoliche un appello al papa affinchè il nuovo incontro ad Assisi “non riaccenda le confusioni sincretiste” del primo, quello convocato il 27 ottobre 1986 da Giovanni Paolo II nella città di san Francesco.
In effetti, nel 1986, l’allora cardinale Joseph Ratzinger non si recò a quel primo incontro, contro il quale era critico.
Partecipò invece a una sua replica tenuta sempre ad Assisi il 24 gennaio 2002, alla quale aderì “in extremis” dopo essersi assicurato che gli equivoci dell’incontro precedente non si ripetessero.
L’equivoco principale alimentato dall’incontro di Assisi del 1986 è stato quello di equiparare le religioni come sorgenti di salvezza per l’umanità.
Contro questo equivoco la congregazione per la dottrina della fede emanò nel 2000 la dichiarazione “Dominus Iesus”, per riaffermare che ogni uomo non ha altro salvatore che Gesù.
Ma anche da papa, Ratzinger è tornato a mettere in guardia dalle confusioni.
In un messaggio al vescovo di Assisi del 2 settembre 2006 ha scritto: “Per non equivocare sul senso di quanto, nel 1986, Giovanni Paolo II volle realizzare, e che, con una sua stessa espressione, si suole qualificare come ‘spirito di Assisi’, è importante non dimenticare l’attenzione che allora fu posta perché l’incontro interreligioso di preghiera non si prestasse ad interpretazioni sincretistiche, fondate su una concezione relativistica.
[…] Perciò, anche quando ci si ritrova insieme a pregare per la pace, occorre che la preghiera si svolga secondo quei cammini distinti che sono propri delle varie religioni.
Fu questa la scelta del 1986, e tale scelta non può non restare valida anche oggi.
La convergenza dei diversi non deve dare l’impressione di un cedimento a quel relativismo che nega il senso stesso della verità e la possibilità di attingerla”.
E in visita ad Assisi il 17 giugno 2007, ha detto nell’omelia: “La scelta di celebrare quell’incontro ad Assisi era suggerita proprio dalla testimonianza di Francesco come uomo di pace, al quale tanti guardano con simpatia anche da altre posizioni culturali e religiose.
Al tempo stesso, la luce del Poverello su quell’iniziativa era una garanzia di autenticità cristiana, giacché la sua vita e il suo messaggio poggiano così visibilmente sulla scelta di Cristo, da respingere a priori qualunque tentazione di indifferentismo religioso, che nulla avrebbe a che vedere con l’autentico dialogo interreligioso.
[…] Non potrebbe essere atteggiamento evangelico, né francescano, il non riuscire a coniugare l’accoglienza, il dialogo e il rispetto per tutti con la certezza di fede che ogni cristiano, al pari del santo di Assisi, è tenuto a coltivare, annunciando Cristo come via, verità e vita dell’uomo, unico Salvatore del mondo”.
Tornando alla controversia sul Concilio Vaticano II, va segnalato un importante convegno tenuto il 16-18 dicembre scorso a Roma, a pochi passi dalla basilica di San Pietro, “per una giusta ermeneutica del Concilio alla luce della Tradizione della Chiesa”.
È finita sotto il giudizio critico dei relatori soprattutto la natura “pastorale” del Vaticano II, con gli abusi avvenuti in suo nome.
Tra i relatori c’erano il professor de Mattei e il teologo Brunero Gherardini, 85 anni, canonico della basilica di San Pietro, professore emerito della Pontificia Università Lateranense e direttore della rivista di teologia tomista “Divinitas”.
Gherardini è autore di un volume sul Concilio Vaticano II che si conclude con una “Supplica al Santo Padre”.
Al quale viene chiesto di sottoporre a riesame i documenti del Concilio, per chiarire “se, in che senso e fino a che punto” il Vaticano II sia o no in continuità con il precedente magistero della Chiesa.
Il libro di Gherardini ha la prefazione di Albert Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo ed ex segretario della congregazione vaticana per il culto divino, fatto cardinale nel concistoro dello scorso novembre.
Ranjith è uno dei due vescovi ai quali www.chiesa ha dedicato recentemente un servizio con questo titolo: > I più bravi allievi di Ratzinger sono in Sri Lanka e Kazakhstan E il secondo di questi vescovi, l’ausiliare di Karaganda, Athanasius Schneider, era presente al convegno romano del 16-18 dicembre, come relatore.
Qui sotto è riportata la parte finale della sua conferenza.
Che si conclude con la proposta di due rimedi agli abusi del postconcilio.
Il primo è l’emanazione di un “Syllabus” contro gli errori dottrinali di interpretazione del Vaticano II.
Il secondo è la nomina di vescovi “santi, coraggiosi e profondamente radicati nella tradizione della Chiesa”.
Ad ascoltare Schneider c’erano cardinali, dirigenti di curia e teologi di rilievo.
Basti dire che tra gli stessi relatori c’erano il cardinale Velasio de Paolis, l’arcivescovo Agostino Marchetto, il vescovo Luigi Negri e monsignor Florian Kolfhaus della segreteria di stato vaticana.
Tra gli ascoltatori c’era una folta schiera di Francescani dell’Immacolata, una giovane congregazione religiosa sorta nel solco di san Francesco, fiorente di vocazioni e di orientamento decisamente ortodosso, agli antipodi del cosiddetto “spirito di Assisi”, promotrice dello stesso convegno.
Categoria: Storia e Teoria
Fede politica e ragione spirituale possono convivere in noi
Tempo di Natale, tempo dello spirito.
Magari buono per riflettere su grandi temi come il seguente: viviamo davvero— come si sente dire da parte di molti — in un periodo «contro secolare» ? No, non spaventatevi alla vista di una parola cosi complicata.
In fondo, come dicono i dizionari, «secolare» vuol dire semplicemente il contrario di religioso o spirituale.
Con tutte le conseguenze istituzionali del caso, prima fra tutte la separazione netta tra i destini dello Stato e quelli della Chiesa.
E con gli effetti che tali conseguenze apportano alla vita delle persone, per cui chi vive nel chiostro — in un’età secolare— si vede preclusa la vita pubblica.
Detto questo, parlare di «controsecolare» significa né più né meno che queste separazioni, virtuali o reali che siano, non hanno più molto senso nel periodo in cui viviamo e che proprio per questo bisogna rifiutarle.
Il pensatore tedesco Habermas ha parlato da tempo, e con maggiore prudenza, di «post-secolare» , alludendo in questo modo a una fase preliminare a quella di cui stiamo parlando.
In fondo, «post-secolare» equivale rozzamente a pluralistico, per cui non si può puntare su una sola narrativa trionfante, come lo era quella laica e illuministica della modernità.
E bisogna piuttosto scommettere su una sana ma complicata convivenza di forme di vista plurime e differenti (i temi del sacro e della politica saranno trattati nella Biennale Democrazia 2011, che si terrà a Torino nel prossimo aprile).
Insomma, il «post-secolare» ci vede affiancati gli uni agli altri nella relativa incertezza metafisica e morale che contraddistingue il tempo nostro.
Da questo punto di vista, il «post-secolare» habermasiano addomestica nel dialogo paritario la fantasiosa temperie post-moderna.
Quest’ultima, che abbiamo visto nella versione French thought eternamente obbligata a ripetere il mantra dell’incommensurabilità delle grandi narrative si è, nel tempo, auto-divorata negando le premesse teoriche stesse su cui poggiava.
Ma se il post-secolare habermasiano fotografa un percorso di dubbi addolciti dalla certezza finale per cui alla fine della corsa — come nei vecchi bei film americani — la saggezza della ragione finirà per prevalere, cosi non è per il più recente «contro-secolare» .
Questa ultima temperie dello spirito si presenta, infatti, più aggressiva e critica.
Non si accontenta di regalare all’individuo religioso la pari dignità con quello laico nella sfera pubblica, ma pretende di più.
Pretende che la parola di dio abbia un valore più profondo, autentico e vero di quanto non ne abbiano le ragioni dei laici.
Al contrario di quanto sosteneva Giorgio Guglielmo Federico Hegel, la teologia— da questo punto di vista— non è più l’ancella della filosofia, ma piuttosto il contrario.
Papa Benedetto XVI, che di queste cose si intende per antichi studi oltre che per saggezza pastorale, d’altronde ha insistito sul fatto che il vantaggio dell’uomo di fede sta nel potere mettere talvolta da parte la pari pretesa delle ragioni in nome dell’unicità del vero.
Questo è un modo per entrare nel merito del contro-secolare, che lo stesso papa — nel suo discorso alla Sapienza — ha voluto rilanciare in rispettosa polemica con il più discorsivo dei filosofi liberal democratici, quel John Rawls di Harvard da molti giudicato il più grande teorico della politica dai tempi di Machiavelli e Hobbes.
In questo modo, oggi Rawls è entrato a pieno diritto nel «cortile dei gentili» così come la chiesa di Roma chiama il luogo in cui i laici discutono coi non-laici delle cose divine.
L’interesse per questi temi sembra assai notevole, senza distinzione per classi di età.
Nel convegno su «Rawls and Religion» , tenutosi la scorsa settimana presso la Università Luiss di Roma, studiosi di molte nazioni e continenti si sono predisposti in dialogo a discutere di questi temi.
E, come appare del resto ovvio, la liberal-democrazia— impersonata da Rawls— non si confrontava solo con la tradizione cristiana ma anche con quella islamica e hinduista.
È interessante notare come i protagonisti del discorso si muovano, in questi casi, in maniera convergente.
Con gli studiosi occidentali di liberal democrazia a cercare di capire le ragioni degli altri, e gli studiosi islamici e indiani ansiosi di coniugare antiche saggezze con il pensiero critico dell’Occidente.
Alla fine, nonostante l’infuriare del dibattito, sotto la schiuma delle onde l’incontro prende piede.
Gli occidentali laici sono portati ad ammettere, sia pure con nostalgia, che l’esperienza di fondo da cui partono, e cioè l’Illuminismo, al termine della corsa ha fallito: (I) la teologia non sarà mai solo filosofia della religione perché la parola di dio non è mai completamente addomesticabile; (II) scienza e industria non sostituiranno mai a pieno titolo la fede.
I non-occidentali si accorgonoinvece che l’addormentamento mistico del passato li ha portati a dover abitare una società meno libera e meno eguale.
In questo modo, l’infelicità di destini contrapposti conduce a un cocktail originale di fede politica e ragione spirituale.
Questo cocktail costituisce in qualche modo il vissuto collettivo dell’esperienza contro-secolare da cui sono partito.
Dopo averlo assaggiato, ognuno di noi sente qualcosa di antico.
Un gusto di grandi narrative del passato piene di senso e verità ritorna.
Nell’altalena mai ferma della vita spirituale si assaggia lo shock di un sapore forte e riconoscibile.
Con tutte le certezze sue là, ben allineate.
Forse, questo sapore è l’essenza del contro-secolare.
Un’essenza che sola può ricacciare indietro la frenesia critica del post-moderno col suo puzzo di morte, malamente truccato da ironia.
Così va avanti il pendolo della storia spirituale.
Mentre noi, vecchi liberali, contempliamo e speriamo che prima o poi le incessanti oscillazioni tra il pre dell’affidarsi a dio e il post dell’abbandonarsi al nulla torni ad affermarsi la saggezza piena del moderno.
Che si risolva in un tutt’ora improbabile nuovo equilibrio tra io e es, fede e ragione, speranza e realtà, senso della vita ed efficienza.
professore di Filosofia politica, Università Luiss di Roma in “Corriere della Sera” del 24 dicembre 2010
La centralità della questione morale
La questione morale è la questione, argomenta Roberta De Monticelli, filosofa di statura europea con anni di insegnamento a Ginevra e ora a Milano al San Raffaele, nel suo nuovo libro (La questione morale, Raffaello Cortina).
Sostenendo che la morale non è un´applicazione secondaria ma il punto da cui tutto dipende, l´autrice si pone in pieno contrasto col pensiero dominante in Italia, che concepisce la morale come traduzione pratica di un primato assegnato ad altro, a una dimensione vuoi politica, religiosa, economica, scientifica, teoretica.
Chi assegna il primato alla morale può stare sicuro oggi in Italia di ricevere l´antipatica etichetta di «moralista», sinonimo nel linguaggio comune di persona noiosa e pedante, incapace di fare i conti con la vita concreta.
Contro questo cinismo che conosce solo la logica del potere, De Monticelli scrive pagine di vera passione intellettuale attaccando il potere politico («l´interesse affaristico che si fa partito e prostituisce il nome di libertà»), mediatico («facce patibolari»), ecclesiastico («nichilismo morale»), intellettuale («disprezzo ardente per tutto ciò che è comune»).
Arriva anche alla piaga più dolorosa: «Una sorprendente maggioranza degli italiani che approva, sostiene e nutre» tale logica del potere.
Alla denuncia segue però una proposta costruttiva («tornare a respirare»), dove lo scetticismo pratico viene confutato proprio in base al suo punto forte, cioè il freddo utilizzo della ragione, perché esercizio della ragione ed esperienza dei valori sono strettamente legati: «Alla base della logica c´è l´etica… alla base dell´etica c´è la logica».
Ritrovandomi pienamente d´accordo con la mia illustre collega, intendo onorare il suo pensiero approfondendo il nodo radicale del nostro Paese, cioè la «sorprendente maggioranza di italiani che approva, sostiene e nutre» lo scollamento tra etica e politica.
Il problema è politico nel senso radicale del termine, riguarda cioè la raccolta del consenso.
Come si raccoglie il consenso? Giocando sulle passioni e sugli interessi, quasi per nulla sul senso di giustizia (a meno di farlo diventare a sua volta una passione e un interesse, trasformando così però la giustizia in iniquo giustizialismo).
Da qui una sorta di primordiale conflitto di interessi: da un lato la morale che vive della solitudine della coscienza perché la vita ci mostra che sollevare problemi morali nel nome della coscienza significa spesso rimanere soli; dall´altro la politica che non può permettersi la solitudine.
Da un lato la morale che si gioca in una impolitica solitudine, dall´altro la politica che si gioca nella capacità di raccogliere il consenso, operazione eminentemente sociale e quindi basata di necessità sugli interessi e le passioni (rimando d´obbligo il grosso animale della Repubblica di Platone e le indimenticabili pagine di Simone Weil al riguardo).
La coscienza impone di essere giusti, ma l´essere giusti non paga in termini di fascino sociale e di raccolta del consenso.
In particolare non paga in Italia, dove gli elettori da anni premiano un uomo che sanno bene non essere lo specchio della morale (ma è ricco, fortunato, abile, “tanto simpatico”).
La questione morale quindi, politicamente intesa, è altamente drammatica.
Il problema che essa pone si chiama traducibilità dell´etica a livello politico, o meglio non-traducibilità.
Fate una campagna elettorale all´insegna della giustizia e del rispetto e sarete ricompensati con il minimo dei voti.
È innegabile quanto scrive De Monticelli: «L´imbarbarimento morale e civile si combatte risvegliando le coscienze alla serietà dell´esperienza morale».
Ma purtroppo è altrettanto innegabile che una raccolta del consenso politico oggi in Italia sulla base della serietà dell´esperienza morale è destinata a non oltrepassare la soglia di sbarramento: con quel programma lì si entra in monastero, non nel Parlamento italiano.
Il problema non è etico, è fisico, di quella fisica della politica che Simone Weil attribuiva a Machiavelli.
Ovvero: perché l´aggregazione sociale non avviene nel nome della giustizia e della morale, ma degli interessi e delle passioni, e quindi molto spesso a scapito della giustizia e della morale? Di fronte a questo immenso problema, qui mi limito a dire che a mio avviso lo si può affrontare solo mediante i partiti e i professionisti della politica (la cui importanza vitale appare in particolare oggi, con le nostre classi dirigenti quasi del tutto prive di veri professionisti della politica).
Il partito politico, nella misura in cui è veramente tale e non un semplice cartello elettorale, media gli interessi e le passioni della moltitudine attraverso un progetto più ampio, rivolto al bene comune.
Il partito politico è il luogo in cui gli interessi e le passioni dei singoli vengono veicolati al servizio di un progetto più ampio, lo stato.
Senza la mediazione dei partiti si ha il corto circuito tra leader e interessi e passioni della moltitudine, ovvero il populismo.
Oppure l´altro estremo, il moralismo, che non vede l´inspiegabile ma reale distanza tra la morale e la politica e crea tra le due un impossibile passaggio diretto, finendo per generare costrizioni e violenza, il contrario della morale.
Occorre coltivare insieme il primato della morale e il richiamo della dura realtà.
Una società (e prima ancora una persona) è matura quando ospita dentro di sé il gioco di queste due forze, quando sa porre il primato dell´etica e quando sa mediarlo con l´opacità del reale.
E al riguardo il ruolo dei partiti e dei veri politici è insostituibile.
in “la Repubblica” dell’11 dicembre 2010
Le memorie senza volto del comunismo
Nelle statistiche preparate della Commissione nuovi martiri per il Grande Giubileo del 2000 si contano 12.692 martiri, così ripartiti: dall’Europa 8.670, dall’Asia 1.706, dall’Africa 746, dall’America del nord e del sud 333, dall’Oceania 126.
Un gruppo particolare è dato dai 1.111 martiri dell’Unione Sovietica.
Nella statistica della vecchia Europa si contano 3.970 preti diocesani, 3.159 religiosi e religiose, 1.351 laici, 134 seminaristi, 38 vescovi, 2 cardinali, 13 catechisti.
In totale in Europa abbiamo avuto 8.667 testimoni di Cristo.
Nel contesto mondiale tra i martiri si annoverano 5.173 preti diocesani, 4.872 religiosi e religiose, 2.215 laici, 124 catechisti, 164 seminaristi, 122 vescovi, 4 cardinali e 12 catecumeni.
Il XX secolo è stato il periodo dei totalitarismi, delle due guerre mondiali, delle rivoluzioni, dei tragici genocidi e delle infinite persecuzioni religiose.
Tra tutte le tragedie sopra accennate, la persecuzione più grande fu la battaglia organizzata contro il cristianesimo dal comunismo internazionale.
Solo il Libro nero del comunismo curato da Stéphane Courtois offre una provvisoria statistica di 85 milioni di morti causati dal totalitarismo comunista.
In Russia vivevano da secoli anche altre confessioni cristiane, oltre a ebrei e musulmani; ma chiunque non condividesse la nuova ideologia atea dei comunisti doveva essere allontanato con forza dalla società.
Nascono così i cosiddetti Gulag, dal russo “Direzione principale dei campi di lavoro correttivi”.
Il numero di morti nei Gulag è ancora oggetto di indagine: una stima provvisoria parla di tre milioni.
L’incredibile persecuzione dei numerosi oppositori politici è ben nota anche grazie alle pubblicazioni scritte dagli stessi detenuti, il più famoso dei quali fu Aleksander Solzenicyn, che nel suo Arcipelago Gulag ha raccontato la tragedia dei detenuti, ha fatto conoscere la parola Gulag e l’esistenza stessa di questi campi.
La Chiesa ortodossa russa contava nel 1917 circa 210.000 membri del clero, 100.000 monaci e oltre 110.000 preti diocesani.
Circa 130.000 furono fucilati nel periodo 1917-1941.
Dei 300 vescovi presenti nel 1917 in Russia, 250 di loro furono fucilati.
Gli altri membri del clero sopravvissero in diverse prigioni e campi di concentramento, sottoposti a ogni genere di persecuzione.
Nel 1941, nel primo periodo della guerra con la Germania, si trovavano in libertà solo quattro vescovi.
È difficile presentare un numero preciso delle vittime, secondo le valutazioni il numero totale oscilla tra 500.000 e un milione.
Sul territorio dell’Unione Sovietica c’erano anche altre confessioni cristiane.
Tra loro i cattolici di rito romano e bizantino.
Nel 1917 vivevano in Russia circa 2 milioni di cattolici con circa 1.000 sacerdoti e 6.400 chiese.
I cattolici romani sono stati perseguitati come minoranza straniera.
La maggior parte dei cattolici presenti su questo territorio erano cittadini di origine polacca.
Nel periodo 1917-1939 subirono persecuzioni sia per motivi politici che religiosi, ma la situazione peggiorò dopo il 17 settembre 1939, quando i comunisti russi invasero la Polonia e sterminarono l’intellighenzija cattolica.
La popolazione di origine polacca fu deportata in Siberia e in Kazakhstan, dove dovette iniziare una vita in diaspora insieme con altri popoli.
Il gesuita Walter Ciszek fu arrestato nel 1941 e condannato ai lavori forzati; deportato nei campi di lavoro in Siberia vi rimase per 23 anni, subendo ogni sorta di vessazione solo per il fatto di essere sacerdote cattolico.
Dopo la sua liberazione fu scambiato dai comunisti con due spie sovietiche, arrestate in Europa occidentale.
Dopo il 1963 visse negli Stati Uniti, fino alla morte, avvenuta nel 1984.
Le sue memorie sono raccolte nel libro With God in Russia.
La sua causa di beatificazione è stata avviata nel 1990.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale e la caduta del nazionalsocialismo, il sistema comunista trovò terreno fertile in Europa.
Lo schema era ben collaudato: la Chiesa cattolica con le sue strutture rappresentava il vecchio sistema da cui liberarsi; la religione fu declassata a strumento di manipolazione da parte dei preti e delle loro istituzioni.
Il nuovo sistema ateo doveva liberare la società dall’influenza della Chiesa.
Il marxismo-leninismo diventa il nuovo sistema politico-economico.
Nel 1945 l’esercito russo liberò dal nazionalsocialismo tedesco grandi territori dell’Europa: Albania, Austria, Bulgaria, Cecoslovacchia, Germania, Polonia, Romania, Ungheria.
Nei Paesi dove i precedenti governi erano nazionalsocialisti come Austria, Germania, Slovacchia e Ungheria l’Armata rossa entrò come il vincitore con il diritto del bottino di guerra.
Moltissime furono le vittime di queste rappresaglie e tra queste numerosi sacerdoti e suore.
Per l’esercito russo anche i rappresentanti della Chiesa furono responsabili delle tragedie causate dai nazionalsocialisti e per questo molti sacerdoti uccisi nei primi giorni dopo la liberazione furono dichiarati pericolosi nemici del comunismo.
I vescovi europei – rappresentati dai presidenti di tutte le conferenze episcopali del continente, radunati il 3 ottobre 2010 a Zagabria alla quarantesima sessione plenaria del Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (Ccee) – hanno dedicato attenzione a grandi vescovi dei Paesi del blocco comunista come Alojzije Stepinac (1898-1960) in Croazia, József Mindszenty (1892-1975) in Ungheria e Stefan Wyszynski (1901-1991) in Polonia.
Il cardinale Peter Erdö ha citato la figura del porporato incarcerato per cinque anni a causa della sua fedeltà a Dio, il cardinale József Mindszenty, e uno dei membri della Chiesa che fu vittima del comunismo, il cardinale Stefan Wyszynski.
Questi grandi uomini della Chiesa furono pronti a testimoniare la loro fedeltà fino al martirio.
Il porporato ungherese ha definito il periodo del comunismo, senza entrare nei dettagli, come tempo difficile e complesso.
I santi e i beati come Alojzije Stepinac portano nel buio la luce di Cristo e sono nostri esempi e nostri patroni celesti.
Non mi sembra necessario raccontare qui i dettagli della vita del beato cardinale Stepinac, perché prima e dopo la beatificazione sono stati pubblicati numerosi libri che offrono un ampio profilo biografico in una storia politicamente complicata come quella della Croazia.
Alla fine della guerra, dopo la fuga di Ante Pavelic e del suo governo, Stepinac rimase al suo posto a Zagabria.
I comunisti avevano già iniziato a perseguitare la Chiesa.
Nel marzo 1945, la Chiesa croata pubblicò una lista di sacerdoti uccisi con 149 nomi.
Tito cercò di convincere l’arcivescovo Stepinac a staccarsi da Roma e fondare una Chiesa cattolica indipendente dalla Santa Sede.
Ma Stepinac si oppose con forza: “Nessun cattolico, anche a costo della vita, può eludere il suo foro supremo, la Santa Sede, altrimenti cessa di essere cattolico”.
Le vicende di due sacerdoti dell’arcidiocesi di Vienna in Austria sono illuminanti della situazione: Johann Wolf (1892-1945) parroco a Kaltenleutgeben e Rudolf Frank (1902-1945) da Niedersulz vicino Vienna, ambedue uccisi dall’esercito russo.
Johann Wolf era un prete apprezzato, orgoglioso testimone di Cristo.
Dopo la partenza dei tedeschi la popolazione locale cercò di nascondersi dove poteva: i russi cercavano alcol e oggetti di valore da portare con loro come bottino di guerra, ma, soprattutto, cercavano vendetta per le gravi perdite subite in battaglia, bruciando le case e uccidendo civili.
Anche il parroco Wolf fu ucciso nella canonica insieme con sua sorella e alcuni profughi che cercavano di nascondersi.
Rudolf Frank si diede da fare per difendere e nascondere le donne che subivano stupri dai soldati russi, ubriachi: infatti nella zona di Niedersulz in Bassa Austria ci sono moltissime vigne e grandi cantine e i soldati vi trovarono grandissime quantità di vino.
Domenica 15 aprile 1945 la popolazione aspettava l’arrivo dei russi.
Si raccontava della particolare brutalità dei nuovi occupanti e in modo particolare le famiglie pensavano a un luogo dove nascondere le donne.
Il sacerdote riunì nella canonica circa 300 donne, sperando di poter organizzare meglio la protezione.
I soldati russi arrivarono in canonica il 16 aprile, ma il parroco chiuse le porte e si rifiutò di aprire.
Un comportamento del genere era intollerabile per i nuovi padroni: il prete fu picchiato, ma i soldati andarono via.
Il giorno seguente, martedì 17 aprile, tornarono di nuovo e il sacerdote nuovamente bloccò la porta sperando di poter proteggere le donne nascoste nella canonica ma questa volta un soldato sparò due volte e ferì mortalmente il parroco.
L’Albania fu il primo Paese europeo a dichiararsi ateo e a essere governato secondo l’ideologia comunista.
Nel 1967 fu ufficialmente introdotto l’ateismo come fondamento per la vita della società e fu proibita ogni forma di culto religioso.
Il governo dichiarò con orgoglio che l’Albania era diventato il primo Stato ateo del mondo.
Nella nuova costituzione del Paese, approvata nel 1976, all’articolo 37 recitava “lo Stato non riconosce alcuna religione e sostiene la propaganda atea per infondere alle persone la visione scientifico-materialista del mondo”.
Il governo procedette alla confisca di moschee, chiese, monasteri e sinagoghe.
Gli edifici di culto furono trasformati in musei o uffici pubblici, magazzini, cinema, stalle per animali.
Ai genitori fu proibito dare ai figli nomi con riferimenti religiosi.
In seguito furono uccisi a Tirana i primi due sacerdoti, Lazër Shantoja e Mark Gjani.
Nel 1947 fu ucciso a Scutari il gesuita Ndoc Saraci.
Un anno dopo, nel 1948, furono fucilati i vescovi Gjergj Volaj e Frano Gjini e, nel 1949, dopo terribili torture, morì in prigione l’arcivescovo di Tirane-Durrës Vincenz Nikollë Prennushi.
Colpire duramente la comunità cattolica significava cancellare la lunga e tollerante tradizione del Paese per far posto alla nuova e aggressiva ideologia comunista.
In Albania furono uccisi 5 vescovi, 60 sacerdoti, 30 religiosi francescani, 13 gesuiti, 10 seminaristi e 8 suore.
La lista non è ancora completa, mancano i martiri laici uccisi durante il periodo comunista.
Tra le figure di spicco della resistenza religiosa va in primo luogo ricordato coraggioso padre Mikel Koliqi (1902-1997), creato cardinale da Giovanni Paolo II nel 1994.
Padre Mikel Koliqi era stato condannato ai lavori forzati già nel 1945, con la banale accusa di ascoltare le stazioni straniere della radio.
In Romania numerosi vescovi, monaci e preti furono arrestati dalla polizia segreta e molti laici vennero reclusi nei campi di lavoro.
Come esempio di persecuzione ricordo la vita di monsignor Anton Durcovici (1888-1951), eroico vescovo della diocesi di Iasi in Romania al confine con la Repubblica Moldava.
Nel 1948 la Chiesa romano-cattolica in Romania era organizzata in cinque diocesi, 694 parrocchie, 1.225 chiese e 835 sacerdoti.
La Chiesa greco-cattolica aveva cinque diocesi, 2.536 chiese, 1.794 parrocchie, 1.788 sacerdoti.
La pacifica convivenza delle varie nazionalità e culture che da secoli vivevano in pace e tolleranza fu improvvisamente distrutta dal nuovo sistema politico del dopo guerra.
I comunisti per principio non volevano condividere il potere con nessun altro gruppo politico o religioso.
Già dall’inizio le organizzazioni religiose erano oggetto di un’organizzata persecuzione da parte del governo comunista.
Centinaia di sacerdoti furono arrestati e in seguito portati nei campi di lavori forzati, dove, maltrattati, molti morivano in poco tempo.
Il 26 giugno 1949 Durcovici fu arrestato mentre viaggiava su un tram insieme con un altro sacerdote, Rafael Friedrich.
In quel periodo furono arrestati tutti i cinque vescovi e la Chiesa rimase senza guida, a parte alcuni sacerdoti ancora in libertà.
Il vescovo dovette subire terribili maltrattamenti, privato del cibo e nel totale isolamento, senza bagno.
Per farlo soffrire ancora di più i poliziotti gli tolsero i vestiti.
Un sacerdote prigioniero, incaricato della pulizia del corridoio, poté avvicinarsi alla porta della cella senza destare sospetti e dire qualche parola a voce bassa al suo vescovo.
Lui riconobbe la sua voce e lo informò in lingua latina, sconosciuta ai poliziotti, che stava soffrendo molto ed era ormai prossimo alla morte per la fame e per le ferite; sdraiato sul pavimento tra la sporcizia e gli escrementi, per lui non era più possibile muoversi.
Alla fine del brevissimo colloquio chiese al sacerdote prigioniero di dargli l’assoluzione dei peccati in caso di morte e anche la sua benedizione.
Probabilmente già il 10 dicembre il coraggioso vescovo e martire Anton Durcovici morì nella sua cella.
Secondo le informazioni fornite dagli studiosi rumeni, nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, dei circa 3.331 sacerdoti cattolici, di ambedue i riti, ne furono uccisi circa 1.405.
In Slovenia la storia ebbe lo stesso percorso.
Anton Vovk (1900-1963) venne nominato vescovo (e poi arcivescovo) di Ljubljana il 26 novembre 1959.
Giovanni XXiii lo definì “martire del XX secolo”.
Dopo la seconda guerra mondiale vescovi, sacerdoti e fedeli subirono una dura repressione.
Alla fine della guerra circa 300 sacerdoti e religiosi sloveni furono espulsi dal partito comunista.
Alcuni furono uccisi senza processo, altri ancora furono condannati dai tribunali popolari senza nessuna ragione, spesso patirono lunghi anni di prigione.
Nel solo maggio 1945 furono arrestati 50 preti.
Negli anni 1945-1961 furono condannati senza processo 425 sacerdoti.
Lo stato comunista ridusse pesantemente la libertà di culto e proibì ogni attività fuori dalle parrocchie.
Il vescovo Anton Vovk era solito viaggiare con i mezzi pubblici, accompagnato, per motivi di sicurezza, da altri sacerdoti.
Anche il 20 gennaio 1952 viaggiava in compagnia di altre persone da Ljubljana a Nové Mesto per la benedizione dell’organo nella chiesa parrocchiale di Stopice.
Sullo stesso treno si trovavano anche agenti della polizia, che avevano progettato un attentato ai suoi danni.
Appena il treno entrò in una galleria, sulle vesti del vescovo fu gettato un liquido maleodorante e infiammabile.
Alla stazione di Nové Mesto il vescovo scese dal treno, ma fu subito assalito da un gruppo di persone che lo costrinsero a risalire, non prima però di aver gettato della benzina sulla sua veste e aver appiccato il fuoco.
La folla, invece di intervenire in suo aiuto, gridava con furore: “brucia diavolo, crepa diavolo!”.
Anche la polizia non intervenne.
Il vescovo non perse il sangue freddo e si liberò dai vestiti in fiamme.
Il fuoco aveva provocato gravi ferite sul volto e sulla gola, dove il collarino di plastica gli procurò una cicatrice che gli rimase per tutta la vita.
Quando le fiamme si spensero un poliziotto lo accompagnò nel vicino edificio della stazione, dove fu di nuovo aggredito da un gruppo di attivisti comunisti.
Con la scusa di espletare le formalità fu ritardata l’opera del medico.
Portato finalmente nell’ospedale fu medicato sommariamente e rimandato subito a Ljubljana con il primo treno disponibile.
Dopo una grave malattia, l’arcivescovo Anton Vovk morì il 7 luglio 1963.
L’inchiesta diocesana della causa di beatificazione si è conclusa il 12 ottobre 2007 e il 26 ottobre i documenti sono stati portati in Vaticano.
Uno dei più grandi desideri irrealizzati di Giovanni Paolo II fu quello di poter visitare la Russia, ma riuscì solo a visitare alcuni Paesi della dissolta Unione Sovietica.
La visita in Ucraina fu un’occasione per pregare insieme a un milione di fedeli, ma anche per commemorare, quel 27 giugno 2001, il sacrificio di 27 martiri, di cui 9 vescovi, sacerdoti e laici elevati alla gloria degli altari.
Le persecuzioni in Ucraina iniziano con l’arrivo dell’Armata rossa, nel marzo 1944.
L’arcivescovo Andrej Szeptickyi, già vecchio e malato, morì il 1° novembre 1944.
I comunisti, ancora negli ultimi giorni della guerra, arrestarono tutti i vescovi greco-cattolici sul territorio nazionale.
Il loro destino fu contrassegnato da numerose prigionie, processi farsa o inesistenti, totale isolamento nei campi di lavoro, lontani dalle loro comunità.
Il beato vescovo di Mukachevo, Theodore Romzha (1914-1947) fu il più giovane vescovo della Chiesa greco-cattolica.
Nel 1946 lo Stato sovietico incorporò le diocesi greco-cattoliche nel patriarcato ortodosso di Mosca.
Solo la diocesi greco-cattolica di Mukachevo funzionava ancora.
I servizi segreti cercavano da tempo un modo per uccidere il vescovo Theodore Romzha.
In Unione Sovietica i sacerdoti non avevano diritto di spostarsi senza autorizzazione della milizia così anche il vescovo chiese un permesso per poter visitare una parrocchia.
Questa informazione fu usata dai persecutori per organizzare un falso incidente stradale e uccidere il vescovo senza destare sospetti, temendo una reazione della popolazione.
Il 27 ottobre 1947 l’auto del vescovo fu investita da un pesante camion ma il vescovo, vedendo gli attentatori armati con spranghe di ferro, ancorché ferito, riuscì a fuggire e venne ricoverato in gravissime condizioni all’ospedale di Mukachevo.
Con il passare dei giorni le sue condizioni stavano migliorando.
Ma un’infermiera, il 1 novembre 1947, lo uccise avvelenandolo con il curaro.
Il 27 giugno 2001, Theodore Romzha è stato proclamato beato da Giovanni Paolo II a Leopoli.
La vita di Josyf Ivanovyc Slipyj illustra al meglio la situazione ucraina.
Il 22 dicembre 1939 fu consacrato arcivescovo con diritto di successione, diventò capo della Chiesa Cattolica Ucraina il 1 novembre 1944.
Slipyj fu arrestato l’11 aprile 1945.
Dopo un processo farsa nel 1946, venne condannato per attività antisovietica a otto anni di prigionia, che scontò nei diversi Gulag.
Nel 1954 venne di nuovo riportato in Siberia, questa volta per quattro anni.
Nel 1959 sopportò un secondo processo e una nuova condanna, questa volta a sette anni di Gulag.
Fu nominato cardinale in pectore fin dal 1960 e il 22 febbraio 1965 arcivescovo maggiore da Paolo VI.
Slipyj morì il 7 settembre 1984.
Anche in Ungheria l’arrivo dell’Armata rossa segna l’inizio delle persecuzioni.
Il sacrificio del vescovo di Gyor, Vilmos Apor, e la lotta per i diritti umani fatta da József Mindszenty, sono solo i due esempi più noti.
La rottura con la Santa Sede si consumò il 4 aprile 1945, con la partenza del nunzio monsignor Angelo Rotta da Budapest.
I comunisti russi portarono in Ungheria un gruppo di comunisti ungheresi, preparati a Mosca, con il compito di prendere il potere politico nel Paese.
La Chiesa cattolica in Ungheria fu dichiarata un’organizzazione contraria agli interessi dei sovietici.
Nel 1948 fu proclamata la separazione fra Stato e Chiesa e i sacerdoti dovettero restringere le loro l’attività all’interno delle chiese.
Il Partito comunista ungherese desiderava con tutti mezzi prima di tutto diffondere l’ideologia materialista fra i giovani e la classe operaia.
Pio xii nominò il 15 settembre 1945 József Mindszenty nuovo arcivescovo di Esztergom.
Mindszenty si impegnò a difendere le posizioni della Chiesa, i suoi diritti e la stabilità delle sue istituzioni senza compromessi politici.
Il nuovo potere intensificò la campagna diffamatoria contro Mindszenty e la Chiesa cattolica.
I comunisti speravano di riuscire a far spostare Mindszenty dall’Ungheria, con l’aiuto del Vaticano.
Visto che questi tentativi fallirono, decisero di arrestarlo a Esztergom il 26 dicembre 1948.
In un processo farsa, l’8 febbraio 1949, fu condannato all’ergastolo ma venne liberato durante la rivoluzione nel 1956.
Il 4 novembre 1956 si rifugiò nell’ambasciata americana, dove restò fino al 1971, quando gli fu consentito di recarsi a Vienna.
Nelle trattative ebbe un ruolo importante l’arcivescovo di Vienna, il cardinale Franz König.
Vilmos Apor nacque il 29 febbraio 1892 ad Alba Julia.
Nel 1894 la famiglia si trasferì a Vienna dove Vilmos frequentò la scuola; successivamente completò i suoi studi tra l’Ungheria e l’Austria.
Il 24 agosto 1915 venne ordinato sacerdote.
Nell’agosto 1918 venne nominato parroco di Gyula: aveva 26 anni e fu il più giovane parroco d’Ungheria.
Consacrato vescovo il 24 febbraio, prese possesso della diocesi il 2 marzo 1941.
Nello stesso anno l’Ungheria entrò in guerra a fianco della Germania.
Quando in Ungheria furono introdotte le leggi razziali, Apor prese posizione in favore delle vittime dell’ingiustizia e tentò tutto ciò che era in suo potere per proteggere gli abitanti della sua diocesi.
Quando il 19 marzo 1944 le truppe tedesche invasero l’Ungheria, Apor condannò in cattedrale il razzismo antiebraico.
Si oppose, in una lettera del 28 maggio 1944, diretta al ministro degli Interni, alla costruzione di un ghetto a Gyor, pur conoscendo le conseguenze a cui sarebbe andato incontro.
Iniziata la deportazione in massa, creò gruppi di soccorso lungo il percorso dei convogli, salvando da morte migliaia di ebrei.
Nel frattempo l’avanzata dell’Armata rossa era preceduta da terrificanti notizie circa il comportamento dei soldati.
Egli aprì il suo palazzo a tutti coloro che cercavano rifugio.
Nel Natale del 1944, le truppe sovietiche iniziarono l’invasione, stuprando donne e uccidendo chiunque si opponesse.
Il 28 marzo 1945, Mercoledì santo, Apor andò incontro ai primi soldati russi: li accolse con calma dichiarando che quanti si trovavano nel castello erano posti sotto la sua protezione.
Non si allontanò dall’ingresso e vegliò giorno e notte per proteggere i trecento rifugiati.
Verso la sera del Venerdì santo si presentarono all’ingresso dei sotterranei alcuni soldati russi, guidati da un maggiore, e cercarono di trascinare fuori le ragazze.
Il vescovo si oppose e i soldati spararono, colpendolo con tre proiettili.
Fu subito trasportato in ospedale dove, nonostante l’operazione, il 2 aprile 1945 morì.
Il 9 novembre 1997, Vilmos Apor è stato proclamato beato da Papa Giovanni Paolo II.
La storia della Polonia è da sempre legata alla storia del cristianesimo.
La Chiesa e la Nazione dovettero spesso dimostrare la loro forza contro il tragico destino degli ultimi secoli.
La posizione geografica tra la Germania a Ovest e la Russia a Est ha spesso determinato la difficile storia del Paese.
Il sistema comunista propagato dai Russi non ha trovato, nonostante grandi sforzi e persecuzioni d’ogni tipo, terreno fertile.
Nel 1944 con l’Armata rossa viene instaurato da Mosca un governo polacco comunista, imposto da Stalin.
Quando arrivavano i soldati russi non c’era più salvezza per tutti coloro che non condividevano quella visione della società, fossero essi persone o istituzioni.
Dopo la tragedia di Katyn, dove morirono 22.000 ufficiali polacchi, uccisi dai servizi segreti per ordine di Stalin, solo un piccolo gruppo della società polacca diede il benvenuto ai soldati russi, che liberarono il Paese dai nazionalisti tedeschi.
Dopo milioni di morti nei campi di concentramento sul territorio polacco – organizzati da Berlino nel centro geografico del nuovo Reich per economizzare sui costi per l’annientamento di quelli che Adolf Hitler considerava popoli senza diritto alla vita – si passava adesso al criminale sistema dell’Unione Sovietica, con migliaia di campi di concentramento ben funzionanti anche dopo la seconda guerra mondiale.
Mentre a Norimberga l’Unione Sovietica condannava i crimini di guerra commessi dalla Germania, milioni di persone vivevano e lavoravano in condizioni disumane nei numerosi Gulag in Siberia.
Dall’inizio, oltre all’intellighenzija del Paese, la Chiesa cattolica con i suoi sacerdoti costituiva un obiettivo primario del potere comunista.
Questi, appena tornati da un campo di concentramento speciale a Dachau in Germania, dovettero subire altri atti di violenza da parte del nuovo governo.
Non tutti i rappresentanti della Chiesa ebbero il coraggio di resistere ancora.
Dalle recenti ricerche degli storici emerge che non tutti ebbero un comportamento eroico come Stanislaw Suchowolec un sacerdote di 31 anni, picchiato dagli agenti segreti e poi finito soffocato nella sua casa, alla quale qualcuno in una notte del 1989 aveva appiccato il fuoco.
O come Stefan Niedzielak, un prete di 75 anni, rapito e ammazzato brutalmente a Varsavia.
Un esempio particolare di fedeltà e coraggio è quello dimostrato da un giovane sacerdote, Jerzy Popieluszko, sequestrato dagli agenti dei servizi segreti dello Stato, torturato e infine gettato nella Vistola nel 1984.
La lista dei sacerdoti polacchi perseguitati dai sevizi segreti del ministero degli Interni è lunga, anche se il vero numero delle persone discriminate probabilmente non si saprà mai: resteranno nella memoria solo i personaggi più famosi o quelli uccisi in odium fidei.
I grandi protagonisti della Chiesa in quel difficile periodo furono i cardinali Stefan Wyszynski a Varsavia e il futuro Papa, Karol Wojtyla, a Cracovia.
L’apparato dello Stato, messo in movimento per controllare e frenare le attività della Chiesa, si mostra oggi, dopo la conoscenza di tanti dettagli, veramente impressionante.
Alcuni nuovi aspetti li possiamo conoscere dai documenti del processo diocesano di beatificazione di Popieluszko.
Per un lungo tempo la polizia segreta preparò una relazione giornaliera sullo stato delle attività della Chiesa.
Queste relazioni finivano sui tavoli dei personaggi più importanti nel Paese, come il generale Wojciech Jaruzelski e i membri del comitato centrale del Partito comunista polacco e del governo.
Le oppressioni contro la Chiesa cattolica vengono sistematizzate con una legge del 1962.
In questo stesso anno Stefan Wyszynski, insieme con altri vescovi polacchi, pubblicò un’importante lettera pastorale contro l’ateismo.
Dall’agosto del 1980 Popieluszko era diventato un leader del movimento dei lavoratori Solidarnosc, collaborando con numerosi oppositori del governo polacco e nello stesso momento un avversario del governo.
Ben presto le sue parole divennero popolari e spesso ripetute in varie occasioni sindacali: “per rimanere un uomo libero bisogna vivere nella verità.
Non ci possiamo far governare dalla menzogna”.
Popieluszko svolse in questo difficile periodo per tutto il movimento Solidarnosc un’ampia opera di sostegno materiale e spirituale dei lavoratori e si mantenne in stretto contatto con gli intellettuali dell’opposizione e con le strutture clandestine di Solidarnosc.
Le autorità politiche in Polonia temevano la sua influenza e si fecero sempre più frequenti le proteste alla Curia e al nuovo primate di Polonia, l’arcivescovo di Varsavia Józef Glemp.
Nel telegiornale del 20 ottobre tutta la Polonia seppe ufficialmente, grazie alle notizie raccontate da alcuni ben informati oppositori, che don Popieluszko era stato rapito.
Nella chiesa di San Stanislao a Varsavia, dove abitava il sacerdote accorsero migliaia di persone a pregare per la sua libertà.
Non si sapeva ancora che il sacerdote era già stato ucciso e che il suo corpo si trovava sul fondo del lago vicino a Wloclawek.
Il 30 ottobre la stessa televisione polacca diffuse la notizia del ritrovamento del corpo di don Popieluszko.
Il cardinale Joseph Ratzinger ha visitato la sua tomba a Varsavia, nel prato verde presso la chiesa di San Stanislaw Kostka, il 25 maggio 2002.
Sulla libro che raccoglie le frasi lasciate dalle persone che visitano la tomba dell’eroico sacerdote Ratzinger ha scritto in italiano le seguenti parole: “Il Signore benedica la Polonia, dando sacerdoti con lo spirito evangelico di Popieluszko”.
Dal 1984 circa diciotto milioni di pellegrini si sono recati a pregare su quella tomba.
Il processo di beatificazione di don Jerzy Popieluszko fu aperto l’8 febbraio 1997 a Varsavia.
La fase diocesana durò 4 anni e furono raccolti numerosi documenti e interrogati 44 testimoni.
Il 3 maggio 2001 ebbe inizio in Vaticano il processo super martyrio.
Il 19 dicembre 2009 il Pontefice ha firmato il decreto del martirio del Servo di Dio don Jerzy Popieluszko.
La beatificazione fu celebrata a Varsavia, sulla piazza centrale della città, il 6 giugno 2010.
Le nuove generazioni dei giovani cattolici del mondo intero conosceranno il suo martirio per mano dei comunisti.
La Chiesa non solo è sopravvissuta alle sanguinose persecuzioni perpetrate dal regime comunista ma, grazie al sangue dei martiri, è stata rafforzata per affrontare con rinnovato vigore il XXI secolo.
Talvolta i persecutori hanno potuto toglierle la voce, ma mai la memoria.
E la memoria trasmessa di bocca in bocca diventa storia, e la storia rende sovente giustizia ai perseguitati.
Sono uomini e donne, vecchi e bambini, laici e sacerdoti, spose e consacrate, zar e contadini.
Ciascuno con un nome da ricordare.
Perché è dovere di ogni cristiano fare memoria, e non solo della frazione del pane, che è il corpo di Cristo, ma anche della frazione di quel corpo mistico, che è la Chiesa.
(©L’Osservatore Romano – 29-30 novembre 2010) Attraverso l’esperienza maturata come responsabile dell’Ufficio cause di beatificazione dell’arcidiocesi di Vienna e curatore della redazione del nuovo Martirologio della Chiesa austriaca per l’anno 2000 e la collaborazione col Comitato nuovi martiri, che si occupava di elaborare le statistiche dei martiri cristiani per il grande Giubileo, ho potuto avere una visione mondiale delle persecuzioni del XX secolo.
Il 24 giugno 2010 è stato aperto nell’Archivio dell’arcidiocesi di Vienna il “Kardinal-König-Archiv”.
Agli studiosi sono stati messi a disposizione 2.000 cartoni, contenenti il prezioso materiale riguardante la vita del cardinale fino al 1958.
Oltre alla biblioteca privata del porporato sono stati messi a disposizione documenti personali, fotografie e lettere.
Il XX secolo, caratterizzato dai grandi totalitarismi – il comunismo e il nazionalsocialismo – ha lasciato fino a oggi prove tangibili del grande coraggio nella fede dimostrato da numerosi martiri che, col sangue, dimostrarono il loro legame con Cristo e con la Chiesa.
Noi oggi tenteremo di dare un volto e un nome a qualcuno di questi testimoni ridotti al silenzio con brutalità.
Giovanni Paolo II ha sottolineato la necessità di riscoprire la memoria dei martiri e la loro testimonianza.
I martiri cristiani sono coloro che hanno annunciato il Vangelo dando la vita per amore.
Questa testimonianza dei martiri cristiani doveva essere riscoperta di nuovo dalla Chiesa proprio adesso, quando il XX secolo, così ricco di grandi eroi della fede, volgeva al tramonto.
Il martire è un grande testimone di Cristo e, soprattutto ai nostri giorni, è segno visibile di quell’amore che riassume ogni altro valore.
La sua richiesta fu ben accolta e le Chiese nazionali e gli ordini religiosi iniziarono a preparare le liste e a raccogliere i documenti ancora esistenti sui propri martiri.
Bauman: così la solidarietà ci può salvare
Bauman: così la solidarietà ci può salvare di Randeep Ramesh in “la Repubblica” del 25 novembre 2010 Benché abbia lasciato il suo incarico di docente di sociologia alla Leeds University nel 1990 per andare ufficialmente in pensione, l’ottantaquattrenne Bauman continua ad essere un autore prolifico, sfornando un libro l’anno dalla sua dimora nel verde dello Yorkshire.
L’ultimo saggio, intitolato 44 Letters from the Liquid Modern World, raccoglie una serie di articoli scritti su vari fenomeni, da Twitter all’influenza suina alle élite culturale.
Bauman ha il pubblico di una vera star: quando è stato inaugurato l’istituto di sociologia che l’università di Leeds ha intitolato a suo nome, a settembre, più di 200 delegati stranieri sono venuti a sentirlo.
Nonostante il plauso che riscuote, pare proprio che Bauman sia profeta ovunque meno che in Inghilterra.
Forse dipende dal fatto che finora non si è prodigato a fornire ai politici teorie superiori per giustificare il loro operato e le loro motivazioni – a differenza di Lord (Anthony) Giddens, il sociologo autore della teoria politica della “terza via”, sposata dal New Labour di Tony Blair.
Ma tutto è cambiato da quando alla guida del Labour c’è Ed Miliband che ha mutuato da Bauman la tesi secondo cui il partito aveva perso di umanità convertendosi al mercato.
Così per il sociologo il nuovo leader offre una possibilità di “risurrezione” alla sinistra a livello morale.
«Mi sembra molto interessante la visione della collettività di Ed.
La sua sensibilità ai problemi dei poveri, la consapevolezza che la qualità della società e la coesione della comunità non si misurano in termini statistici ma in base al benessere delle fasce più deboli», racconta Bauman.
Il rapporto tra Bauman e i Miliband è di lunga data.
Il padre di Ed, Ralph, e Bauman strinsero una profonda amicizia negli anni ’50 alla London School of Economics.
Entrambi erano sociologi di sinistra e ebrei polacchi d’origine.
Entrambi fuggiti da regimi tirannici: Ralph Miliband scappò dal Belgio ai tempi dell’avanzata tedesca nel 1940 e Bauman fu espulso dalla Polonia quando i comunisti locali attuarono una purga antisemita nel 1968.
Decisiva fu la scelta di Ralph Miliband di entrare a far parte, nel 1972, del dipartimento di scienze politiche dell’università di Leeds, dove Bauman insegnava sociologia.
La casa di Bauman a Leeds divenne una tappa fissa per i figli di Milliband.
Ed e David crebbero guardando i due accademici discutere del futuro della sinistra.
Bauman afferma che i fratelli Miliband già da piccoli erano «validi interlocutori… affascinanti e di straordinaria intelligenza per la loro giovane età».
(…) Neal Lawson, direttore del think tank della sinistra laburista Compass, afferma che l’appello di Ed Miliband a mobilitarsi «per chi crede che nella vita non contano solo i guadagni» e la sua energica difesa della «collettività, dell’appartenenza e della solidarietà» era in puro stile Bauman.
Anche perché a differenza di quanto accade per altri sociologi l’opera di Bauman è accessibile, intellettuale e spesso polemica.
La sua biografia – dalla fede comunista allo status di minoranza perseguitata all’analisi scientifica della quotidianità – rende difficile inquadrarlo.
La sua teoria si fonda sul concetto che sono i sistemi a fare gli individui, non viceversa.
Bauman sostiene che non è questione di comunismo o di consumismo, comunque gli stati vogliono controllare l’opinione pubblica e riprodurre le loro élite (…).
La sua opera si incentra sulla transizione ad una nazione di consumatori inconsapevolmente disciplinati a lavorare ad oltranza.
Chi non si conforma, dice Bauman, viene etichettato come “rifiuto umano” e depennato come membro imperfetto della società.
Questa trasformazione «dall’etica del lavoro all’etica del consumo» preoccupa Bauman.
Egli ammonisce che la società è passata dagli «ideali di una comunità di cittadini responsabili a quelli di un’accolita di consumatori soddisfatti e quindi portatori di interessi personali».
Non c’è da stupirsi che i critici dipingano Bauman come un “pessimista”.
Ma davanti ad una tazza di tè e a un assortimento infinito di pasticcini il canuto professore è il fascino in persona – per quanto pessimista sia.
A suo giudizio è emerso tutto un vocabolario politico come “paravento” per intenti occulti.
Così il termine mobilità sociale, ad esempio, è «menzognero, perché gli individui non sono in grado di scegliere la propria collocazione nella società».
L’equità non è che una copertura per «lo spettro dell’assistenza concessa solo negli ospizi».
(…) Talvolta le scelte di Bauman risultano inquietanti.
Dichiara di aver mutuato l’idea fondamentale del suo importantissimo saggio sull’Olocausto da Carl Schmitt, un politologo considerato vicinissimo a Hitler.
Bauman sostiene che l'”esclusione sociale” di cui oggi si discute non è che un’estensione del postulato di Schmitt secondo cui l’azione più importante di un governo è “identificare un nemico”.
Questo portò Bauman nel 1969 a sostenere che l’omicidio di milioni di ebrei non era il risultato del nazismo né l’azione di un gruppo di persone malvagie, ma frutto di una moderna burocrazia che premiava soprattutto la sottomissione e in cui complessi meccanismi nascondevano l’esito delle azioni della gente.
L’Olocausto, afferma, non è che un esempio criminale del tentativo dello stato moderno di perseguire l’ordine sfruttando il timore degli “stranieri e degli emarginati”.
«Una volta escluse dai governi le persone non sono più protette.
Le società iniziano a manipolare il timore nei confronti di determinati gruppi.
Nelle fasi di crisi del welfare state dobbiamo preoccuparci di questa caratteristica della società».
Oggi Bauman è comunque ottimista sulla capacità della sua disciplina di trovare soluzioni per questi problemi.
Con il calo degli iscritti al corso di laurea e la mentalità insulare la sociologia britannica si dibatte tra statistica e filosofia, ma, ammonisce Bauman: «Il compito della sociologia è venire in aiuto dell’individuo.
Dobbiamo porci a servizio della libertà.
È qualcosa che abbiamo perso di vista», dice.
Nonostante abbia la reputazione di criticare senza offrire soluzioni, Bauman è stato una voce importante nei dibattiti sulla povertà.
La sua proposta di garantire un “reddito del cittadino”, fondamentalmente il denaro sufficiente a condurre una vita libera, è stata una delle poche voci non conformiste nel dibattito sulle politiche di reimpiego (welfare-to-work).
L’erogazione di denaro ai poveri, scriveva Bauman nel 1999, eliminerebbe «la mosca morta dell’insicurezza dall’unguento odoroso della libertà».
Dieci anni dopo il reddito minimo garantito è entrato nel comune dibattito politico ed è una causa sostenuta da Ed Miliband.
Bauman si è sempre interessato di politica: il suo primo scontro con l’autorità pubblica ebbe luogo quando criticò il partito comunista polacco negli anni ’50 per la sua burocrazia fossilizzante e la spietata repressione degli oppositori.
«La mia tesi era che il comunismo era animato solo dalla necessità di restare al potere».
Un decennio di simili eresie gli guadagnò l’espulsione dal suo paese a danno della Polonia e a beneficio dello Yorkshire.
Oggi Bauman non mostra amarezza.
È arrivato al punto di ignorare l’articolo di una rivista polacca di destra che nel 2007 lo accusò di essere stato per un periodo al soldo dei servizi segreti polacchi e di aver avuto parte nella purga degli oppositori politici del regime.
«L’accusa si basa su un ragionamento deduttivo.
Poiché da adolescente ero membro di un’unità interna dell’esercito polacco devo necessariamente essere colpevole di qualcosa.
Non c’è traccia di prove.
Semplicemente non è vero», dice Bauman.
Nonostante l’esperienza maturata in decenni di attività intellettuale Bauman non si pone volentieri nel ruolo di vate, dice di non aver intenzione di “calcare i corridoi del potere” dispensando gemme di saggezza.
Augura successo al Labour e resta profondamente pessimista circa il tentativo del governo di coalizione di dare un volto umano ai tagli alla spesa pubblica.
«Ci siamo già passati con Reagan e la Thatcher», ammonisce.
(Traduzione di Emilia Benghi) ZYMUNT BAUMAN, 44 Lettere dal mondo liquido moderno, Polity, 2010, ISBN: 978-0-7456-5056-2, pp.208 Questo nostro mondo liquido moderno, come tutti i liquidi, non può stare fermo e mantenere la sua forma a lungo. Tutto continua a cambiare – le mode che seguiamo , gli eventi che in modo intermittente catturano la nostra attenzione, le cose che sogniamo e abbiamo paura. E noi, gli abitanti di questo mondo in trasformazione, sentiamo il bisogno di adeguarci al suo ritmo per essere ‘flessibili’ e sempre pronti a cambiare.
Vogliamo sapere cosa sta accadendo e ciò che è probabile che accada, ma ciò che otteniamo è una valanga di informazioni che rischia di sopraffarci.
Come possiamo vagliare le informazioni che contano davvero dai mucchi di spazzatura inutile e irrilevante? Come possiamo derivare messaggi significativi dal rumore senza senso? Ci troviamo di fronte l’arduo compito di cercare di distinguere l’importante dal non sostanziale, distillare le cose che contano dai falsi allarmi.
Nulla sfugge al controllo come le cose ordinarie della vita quotidiana, nascoste nella luce della familiarità ingannevole e fuorviante. Per trasformarli in oggetti di attenzione devono prima essere strappate da quella routine quotidiana: l’apparentemente familiare deve essere presentato come nuovo.
Questo è precisamente ciò che Zygmunt Bauman cerca di fare in queste 44 lettere: ognuna racconta una storia presa dalla vita ordinaria, ma al fine di rivelarne la straordinarietà che altrimenti potrebbe sfuggire.
Il testo si rivolge a un pubblico vasto a cui, attraverso istantanee di vita quotidiana, cerca di rivelare gli aspetti più sconcertanti del nostro mondo liquido moderno
Il pellegrinaggio dei musulmani a La Mecca
I musulmani di tutto il mondo si apprestano a celebrare l’hajj, quinto pilastro dell’islam, ovvero l’annuale pellegrinaggio a La Mecca, in Arabia Saudita.
Per domani, primo dei cinque giorni del rito, è atteso l’arrivo di circa due milioni e mezzo di pellegrini.
Le autorità di Riyadh, custodi dei principali luoghi santi dell’islam (La Mecca e Medina), hanno schierato un impressionante apparato di sicurezza e di soccorso per evitare attentati ma soprattutto la serie di incidenti mortali avvenuti negli ultimi anni per le situazioni di panico createsi a causa del grande affollamento.
Una delle grandi novità di quest’anno è l’Al Mashaar al-Muqadassah, o “metropolitana dei luoghi santi”, che entrerà in funzione domenica e grazie alla quale i fedeli potranno spostarsi con maggiore facilità e rapidità.
Alleggerirà il traffico intorno ai principali siti di almeno trentamila veicoli, stima il Governo saudita, ed è considerata uno dei progetti più significativi del regno nel settore dei trasporti pubblici.
Quest’anno correrà al 35 per cento delle sue capacità, con dieci treni che viaggeranno coprendo il tragitto con corse di circa sette minuti, trasportando a pieno carico 72.000 pellegrini.
L’itinerario si snoderà da Mina, valle dove i musulmani si raccolgono in preghiera, al monte della Misericordia, dove Maometto pronunciò il suo ultimo discorso, fino a Muzdalifah, ultima tappa del pellegrinaggio prima del ritorno a La Mecca.
L’hajj si svolge tra l’ottavo e il tredicesimo giorno del Dhu l-hijjah, dodicesimo e ultimo mese del calendario islamico, che è un calendario lunare, il che spiega perché la data del pellegrinaggio a La Mecca – che i musulmani devono compiere almeno una volta nella propria vita – varia di anno in anno.
Si tratta di un evento fondamentale, in quanto rappresenta il più grande mezzo di purificazione: nel viaggio verso e attorno la Ka’aba, la “casa di Dio”, il fedele chiede perdono per i suoi peccati e viene purificato attraverso il suo pentimento e la celebrazione dei riti.
Il pellegrinaggio comincia infatti con la proclamazione delle sue intenzioni di compiere il rito spirituale e, quando giunge in un perimetro fissato attorno a La Mecca, la persona deve purificarsi attraverso un lavacro: l’uomo deve indossare l’ihram, un indumento bianco privo di cuciture fatto di due pezzi di stoffa, la donna un semplice abito che lascia scoperti il viso e le mani.
Ognuno procede quindi con circonvoluzioni facendo sette volte il giro della Ka’aba, la costruzione a forma di cubo che si trova al centro de La Mecca e che costituisce il luogo più sacro dell’islam, in direzione della quale i musulmani pregano cinque volte al giorno.
Se può, tocca e bacia la pietra nera incrostata in uno degli angoli della Ka’aba, per l’occasione ricoperta dalla tradizionale kiswa.
In seguito i pellegrini si recano, raccolti in preghiera, nella valle di Mina, un piccolo villaggio disabitato a est della città.
Quindi lasciano Mina per ritrovarsi nella piana di Arafat per il wuquf, il rito centrale dell’hajj, il più intenso, caratterizzato da un’immobile meditazione.
In molti si riversano sul vicino monte della Misericordia, dove Maometto pronunciò il suo sermone d’addio.
Poi, tra Mina e Muzdalifah, si celebrano il rito del sacrificio (Aid al-Adha) – un montone, o una pecora, viene immolato a Dio ricordando l’obbedienza di Abramo pronto a uccidere uno dei figli pur di adempiere alla volontà del Creatore – e quello della lapidazione di Satana, attraverso il lancio di sette sassolini.
Il ritorno alla Ka’aba conclude il pellegrinaggio.
(©L’Osservatore Romano – 14 novembre 2010)
La “rivoluzione demografica”
Per il professor Ettore Gotti Tedeschi, economista e banchiere, presidente dell’Istituto per le Opere di Religione, la banca del Vaticano, la causa prima della crisi economica dell’Occidente è il crollo della natalità.
Gotti Tedeschi sostiene questa tesi da tempo, con molto vigore.
E la argomenta in frequenti conferenze ed articoli su “L’Osservatore Romano”.
Alcuni continuano però a pensare che a bloccare lo sviluppo economico non sia la diminuzione ma l’aumento incontrollato delle nascite.
Uno dei più accesi propagandisti di questa tesi neomalthusiana è un celebre professore di scienza della politica, con cattedra per molti anni a New York, il professor Giovanni Sartori, editorialista di spicco del maggior quotidiano italiano, il “Corriere della Sera”, dalle cui colonne attacca ripetutamente la Chiesa cattolica in quanto paladina di “una crescita demografica dissennata”, foriera solo di disastri.
Le due tesi sono opposte e del tutto inconciliabili.
A parere di Gotti Tedeschi, non è sufficiente a risolvere la crisi economica nei paesi occidentali neppure una compensazione del crollo della natalità tramite gli immigrati.
Su questo punto, però, non tutti sono d’accordo in tutto con lui.
Non solo tra i demografi, ma neppure in quel “think tank” della Santa Sede che è “La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti di Roma le cui bozze, per statuto, sono lette e controllate prima della stampa dalla segreteria di stato vaticana.
Su “La Civiltà Cattolica” del 2 ottobre il direttore dell’autorevole rivista, il gesuita GianPaolo Salvini (nella foto), ha dedicato undici pagine a presentare un libro di due demografi i quali sostengono, cifre alla mano, che in Italia la popolazione non è affatto in declino, ma vive anzi una nuova “rivoluzione demografica”, nella quale le forti immigrazioni, l’aumento della durata della vita, la ripresa della natalità, la tenuta dei legami fra genitori e figli interagiscono tra loro in modo positivo.
Gli autori del libro sono Francesco C.
Billari, dell’Università Bocconi di Milano, e Gianpiero Dalla Zuanna, dell’Università di Padova.
Di quest’ultimo, www.chiesa ha recensito lo scorso settembre un saggio sul controllo delle nascite nella pratica pastorale della Chiesa.
Il libro recensito con evidente favore da padre Salvini è il seguente: F.C.
Billari, G.
Dalla Zuanna, “La rivoluzione nella culla.
Il declino che non c’è”, Università Bocconi Editore, Milano, 2009. L’Italia è un caso di studio di prima importanza, tra i paesi occidentali, riguardo agli andamenti demografici e ai flussi migratori.
Il 27 ottobre, commentando sul “Corriere della Sera” l’ultimo rapporto annuale della Caritas-Migrantes sull’immigrazione, diffuso il giorno precedente, il professor Dalla Zuanna ha scritto: “Oggi vivono in Italia cinque milioni e mezzo di stranieri, undici volte di più rispetto al 1990.
Questa crescita ha conseguenze profonde su demografia, economia, società e cultura.
L’invecchiamento è rallentato, perché gli stranieri hanno in media 30 anni, contro i 45 degli italiani.
Oggi i giovani stranieri sostituiscono i figli che i genitori italiani non hanno voluto o potuto avere”.
Ma subito dopo ha aggiunto, prudentemente: “È difficile dire in che misura gli stranieri influenzano lo sviluppo economico”.
Quanto a padre Salvini, a riprova della sua competenza in materia, è uscito la scorsa primavera un libro a tre voci da lui scritto assieme a un economista dell’Università di Chicago e al direttore editoriale del Gruppo Il Sole 24 Ore: GianPaolo Salvini, Luigi Zingales, Salvatore Carrubba, “Il buono dell’economia.
Etica e mercato oltre i luoghi comuni”, Università Bocconi Editore, Milano, 2010. Verso la fine della sua recensione al saggio di Billari e Dalla Zuanna, il direttore della “Civiltà Cattolica” sostiene che per far progredire l’economia la crescita demografica dovrebbe essere comunque “moderata”, col ricorso alla “procreazione responsabile” raccomandata dal magistero della Chiesa e da ultimo dall’enciclica “Caritas in veritate”.
Ecco qui di seguito un estratto della recensione di padre Salvini, uscita sul quaderno 3847 della “Civiltà Cattolica”, con la data del 2 ottobre 2010.
__________ DECLINO DEMOGRAFICO E IMMIGRAZIONE IN ITALIA di GianPaolo Salvini La tesi di fondo [dei demografi Francesco C.
Billari e Gianpiero Dalla Zuanna] è che la popolazione italiana, nel suo complesso, non è affatto in declino, neppure statisticamente, grazie alla massiccia immigrazione dall’estero.
[…] Nel giugno 2008 in Italia (calcolando anche gli stranieri in attesa di regolarizzazione) vivevano 60 milioni e 300.000 persone, cioè quasi tre milioni in più rispetto a dieci anni prima.
In alcune città, come Milano, Torino e Firenze, la fecondità è del 40-50 per cento più alta che a metà degli anni Novanta.
“Nell’ultimo decennio, la rapidità dell’invecchiamento è diminuita, malgrado il continuo aumento della sopravvivenza degli anziani, grazie all’ingresso di tre milioni di nuovi giovani cittadini, provenienti spesso da paesi lontani.
[…] Ciò che sta accadendo oggi e le tendenze per l’immediato futuro suggeriscono che è nata, e cresce oggi nella culla, una vera e propria rivoluzione demografica.
Proprio così: rivoluzione, non declino.
Almeno per i prossimi venti o trent’anni saranno attivi potenti meccanismi che permetteranno alla popolazione italiana di rinnovarsi, senza invecchiare in maniera socialmente insostenibile.
[…] Come mai invece la maggioranza degli osservatori continua a parlare di declino demografico e a sottolineare l’inevitabile squilibrio che si va producendo tra persone in età lavorativa e i pensionati? Anzitutto perché ci si basa su previsioni sbagliate, cominciando da quelle della divisione dell’ONU per la popolazione.
[…] Secondo i due demografi le proiezioni indicate non sono attendibili, in primo luogo perché la popolazione di partenza è largamente sottostimata, poiché non si tiene conto degli stranieri irregolari ma stabilmente presenti in Italia.
Questi, si voglia o no, saranno prima o poi quasi tutti regolarizzati, come è sempre avvenuto negli ultimi 15 anni.
Ma inoltre l’ONU suppone che nei prossimi 20 anni entreranno in Italia 140.000 immigrati ogni anno, mentre nel periodo tra il 1999 e il 2004 gli ingressi in Italia sono stati di circa 300.000 all’anno, e si sono mantenuti su questa cifra anche nel triennio successivo.
Se la tendenza continuasse, non diminuirebbero né i lavoratori né i minori di 20 anni, anche se gli anziani continuerebbero ad aumentare a causa del progressivo allungamento della vita media, e del fatto che arriveranno alla pensione i molti figli del baby boom, nati tra il 1950 e il 1970.
[…] Per molti perciò l’immigrazione è un freno allo sviluppo economico o, al massimo, un rimedio, insufficiente, per compensare l’incepparsi dei normali meccanismi di ricambio della popolazione, cioè natalità e mortalità, che in molte lingue sono tuttora considerate le sole due componenti “naturali” dell’evoluzione demografica.
Ma quando gli studiosi “parlano di ricambio naturale o di ricambio migratorio, più o meno consapevolmente formulano un giudizio di valore (‘per la demografia un nato è meglio di un immigrato’), scherzando con il fuoco del pregiudizio razzista e nazionalista”.
[…] È bene rievocare anche la storia passata dell’Italia, che ha sempre conosciuto profondi rimescolamenti di popolazione sia da una regione all’altra, sia provenienti dall’estero: tedeschi in varie valli delle Alpi, greci e albanesi al sud ecc.
Tesi del libro che presentiamo è che “una popolazione chiusa ai modelli migratori, con meno di due figli per donna, è destinata inevitabilmente a invecchiare e – alla lunga – a scomparire, anche quando la mortalità è molto bassa”.
A quanto detto si può aggiungere che in Italia il fenomeno dell’immigrazione dai paesi poveri non solo si è verificato più tardi che in altri paesi europei (alcuni già abituati, fra l’altro, a reclutare manodopera non qualificata nelle loro colonie), ma è avvenuto con una velocità del tutto imprevista, il che costituisce un vero primato.
Nell’ottobre 1981 erano stati censiti 210.000 stranieri residenti in Italia, dei quali solo 60.000 nati in paesi più poveri dell’Italia.
A metà del 2008 vivevano stabilmente in Italia più di 4 milioni di stranieri, quasi tutti provenienti dai paesi poveri.
[…] Le zone con forte flusso di immigrati sono spesso quelle [economicamente] più dinamiche, ed è un dinamismo destinato a protrarsi.
Un terzo dei nuovi assunti nel Veneto nel 2007 era straniero.
Non occorre molto per capire che nelle aree dove ci sono molti benestanti viene richiesta una manodopera che si occupi delle attività che il benessere acquisito consente di evitare, ma che sono indispensabili per vivere bene: pulire le case, fare da mangiare, lavare i vestiti ecc.
Anche se il fenomeno può essere deplorato sotto molti aspetti, è probabile che gli italiani continuino a fare pochi figli, cioè meno di 1,5 per ogni donna.
[…] Il rinnovo della popolazione italiana, lo si voglia o meno, sarà perciò assicurato dagli immigrati stranieri.
[…] Il problema che si pone è di sapere se questo flusso continuerà anche nel prossimo ventennio.
Non manca chi pensa a soluzioni alternative alle immigrazioni, o almeno complementari ad esse.
Ad esempio, innalzando di vari anni l’età della pensione, oppure agevolando il rientro nel mercato del lavoro delle donne anche dopo la nascita dei figli, oppure aumentando drasticamente la produttività (cioè la quantità di prodotto per ogni lavoratore), in modo da diminuire il fabbisogno di manodopera da parte delle imprese.
Ma, secondo i demografi, queste tre ipotesi, tutte da non trascurare, non saranno sufficienti a supplire alla mancanza di lavoratori.
Oltre al fabbisogno delle imprese c’è il problema sociale del pagamento delle pensioni in un sistema dove esse vengono pagate dagli attuali lavoratori.
I pensionati aumenteranno certamente e in modo rilevante, e questo renderà indispensabile allargare la base dei lavoratori attivi, poiché non è ragionevole ipotizzare un drastico abbassamento del livello delle pensioni.
A invecchiare infatti è il corpo elettorale, che reagirebbe energicamente a una decurtazione sostanziosa delle proprie pensioni.
Naturalmente si può sempre sperare in una ripresa della natalità a breve scadenza, ma questo incremento non modificherebbe il quadro dei prossimi anni, caratterizzato da una drammatica riduzione della popolazione italiana in età lavorativa.
I nuovi nati infatti arriverebbero in ogni caso sul mercato del lavoro dopo il 2030 e, nel frattempo, potrebbero anzi essere necessari nuovi lavoratori stranieri se la ripresa delle nascite distogliesse un numero rilevante di donne dal lavoro, o facesse aumentare la richiesta di lavoro domestico.
Da quanto abbiamo detto, sembra inevitabile che per i prossimi due decenni l’Italia dovrà accogliere ogni anno quasi 300.000 immigrati in età tra i 20 e i 59 anni, cioè quanti ne sono entrati annualmente nell’ultimo decennio.
[…] Se l’arrivo di lavoratori stranieri è inevitabile – a parte le considerazioni umanitarie e cristiane a cui il papa e molti vescovi hanno più volte accennato – sarà quindi bene essere previdenti.
Per questo abbiamo cercato qui di fare un discorso “laico”.
Certo non si tratta di accogliere tutti coloro che vogliono arrivare, o di consentire che si formino ghetti all’interno del nostro paese.
Tanto meno che si accolgano o si sia tolleranti verso persone che non si adeguano al nostro ordinamento, che non osservano le leggi civili e penali del paese o non ne vogliono parlare la lingua.
Ma, se intendono restare, è bene che vengano aiutati a integrarsi nel modo migliore possibile.
[…] C’è certamente il problema umano e sociale della riduzione del numero di figli, a cui, ad esempio, il prof.
Ettore Gotti Tedeschi ha fatto molte volte allusione.
Si tratta certamente di una componente che ha modificato profondamente la struttura umana e produttiva della nostra società.
Nel clima di una polemica con l’economista, il prof.
Giovanni Sartori ha negato, un po’ troppo drasticamente, ogni correlazione tra crescita demografica e crescita economica.
Sembra invece esistere, anche in base all’esperienza storica passata e attuale, un certo consenso tra i demografi e gli economisti nell’affermare una correlazione fra la crescita economica e una costante, ma moderata, crescita demografica.
Non per nulla l’enciclica “Caritas in veritate”, certamente a favore della vita, parla della necessità di “prestare la debita attenzione a una procreazione responsabile ” (n.
44), cioè non fatta a casaccio.
Un drastico e inarrestabile calo demografico ha sempre accompagnato le epoche di declino delle varie civiltà.
A meno che – qualora un grande paese non riesca a trovare in se stesso la speranza nel futuro e le condizioni che portano a fare più figli, almeno per conservare l’equilibrio demografico – non si apra in modo umano e corretto alle immigrazioni da altri popoli, come sta avvenendo in Italia in modo per ora alquanto contraddittorio e spontaneo.
Ma anche questa soluzione non è indolore, come abbiamo cercato di dimostrare, e richiede lungimiranza e coraggio, che sinora in Italia non sembra siamo stati capaci di trovare.
__________ La rivista dei gesuiti di Roma su cui è uscita la recensione: > La Civiltà Cattolica E il testo integrale della stessa, riprodotto per gentile concessione della rivista: > Declino demografico e immigrazione in Italia
Uomini di Dio
Una risposta per chi si chiede se il desiderio di Dio sia ancora presente nel nostro tempo.
Se sia ragionevole per un uomo del Terzo Millennio credere in Dio, riconoscerlo come familiare.
La riuscita del film sui monaci di Tibhirine, che tanta attenzione sta suscitando ovunque nel mondo, sembra a me riflettere il desiderio ardente del cuore di donne e uomini di ogni latitudine di incontrare il volto di Dio.
Quindi del bisogno vivo in tutti noi di testimoni autentici, che ci aiutino a tenere alto lo sguardo.
L’autentica testimonianza infatti non è riducibile al “dare il buon esempio”.
Essa brilla in tutta la sua integrità come metodo di conoscenza pratica della realtà e di comunicazione della verità.
È un valore primario rispetto ad ogni altra forma di conoscenza e di comunicazione: scientifica, filosofica, teologica, artistica, ecc.
Un esempio luminoso di questo metodo è offerto proprio dalle parole del testamento spirituale di Padre Christian de Chergé, priore del monastero trappista di Notre-Dame de l’Atlas in Tibhirine, Algeria, da lui scritto ben tre anni prima di venir trucidato con i suoi monaci: «Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di chiedere il perdono di Dio e quello degli uomini miei fratelli, perdonando con tutto il cuore, nello stesso momento, chi mi avesse colpito… Non vedo infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che io amo venisse accusato del mio assassinio.
Sarebbe pagare un prezzo troppo alto ciò che verrebbe chiamata, forse, “la grazia del martirio”, il doverla a un Algerino, chiunque sia, soprattutto se egli dicesse di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’Islam alla fin fine io sarò stato liberato dalla curiosità più lancinante che mi porto dentro: affondare il mio sguardo in quello del Padre per vedere i suoi figli dell’Islam come lui li vede: tutti illuminati della gloria di Cristo, anche loro frutto della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà di ristabilire la comunione e la somiglianza giocando con le differenze.
Di questa mia vita perduta, totalmente mia e totalmente loro, io ringrazio Dio che sembra l’abbia voluta tutta intera proprio per questa gioia, contrariamente a tutto e malgrado tutto.
E anche tu, amico dell’ultimo istante, che non saprai quello che starai facendo, sì, anche per te voglio io dire questo grazie, e questo a-Dio, nel cui volto io ti contemplo.
E che ci sia dato di incontrarci di nuovo, ladroni colmati di gioia, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, Padre di tutti e due».
In questa che è una delle pagine più belle mai scritte nel ‘900 si coglie in pienezza come nel martirio cristiano trovi compiuta manifestazione la narrazione che Dio fa di Sé e quella che permette a noi di fare su di Lui e a Suo nome.
Il martirio, grazia che Dio concede agli inermi e che nessuno può pretendere, è un gesto insuperabile di unità e di misericordia.
E’ la sconfitta di ogni eclissi di Dio, è il Suo ritorno in pienezza attraverso l’offerta della vita da parte dei Suoi figli.
Una consegna di sé che vince il male, perfino quello «ingiustificabile», perché ricostruisce l’unità, anche con colui che uccide.
Come Gesù prende il nostro male su di Sé perdonandoci in anticipo, così il martire, come Padre Christian, abbraccia in anticipo il suo carnefice in nome del dono di amore di Dio stesso, da tutti riconoscibile almeno come assoluto trascendente.
Solo la testimonianza degna di fede com-muove la libertà dell’altro e lo invita con forza alla decisione.
Come ha ricordato efficacemente Benedetto XVI, si diventa testimoni quando «attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica».
I monaci di Thibirine destano e commuovono perché nella loro testimonianza Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell’uomo.
in “La Stampa” del 22 ottobre 2010 Il fascino quotidiano del bene di Enzo Bianchi Lo straordinario successo che sta avendo il film di Xavier Beauvois sui monaci di Tibhirine merita forse qualche considerazione che scavi un po’ in profondità sulle ragioni di un’accoglienza così favorevole.
Come mai la critica è rimasta subito colpita e ora gli spettatori – artefici di un passaparola che dilata gli echi positivi che si rincorrono ovunque, a partire dalla laicissima Francia, avamposto delle proiezioni per il grande pubblico – paiono commossi e affascinati? Penso che un elemento tutt’altro che secondario sia stata la capacità del regista di mostrare che una vocazione rara e particolare come quella monastica – vissuta da una esigua porzione dei credenti che professano una fede a sua volta non più maggioritaria – sia in realtà una scelta umanissima, fatta di gesti quotidiani, di limiti e di paure, di ritmi e vicende addirittura quasi banali, di non apparizione, di quotidianità ripetitiva.
E sia una scelta operata da persone normalissime, magari profondamente diverse tra loro per cultura, formazione, sensibilità, ceto sociale: persone nelle quali ciascuno si può riconoscere, a prescindere dalla condivisione della medesima fede.
Il monachesimo, nelle sue espressioni più genuine, è sempre stato una scelta di controcultura, di volontaria e libera marginalità: non nel senso di un’opzione elitaria, di un consesso esclusivo di puri e duri, ma nel suo voler cercare il senso di ciò che si vive, nell’anelare a tradurre in scelte quotidiane nella loro ordinarietà le convinzioni più profonde che lo animano, nel non lasciarsi condizionare dai comportamenti della maggioranza quando questi si discostassero dalle esigenze evangeliche.
Un fenomeno marginale, dunque, sovente periferico persino rispetto alla chiesa stessa – non si dimentichi la sua natura fondamentalmente non clericale – ma non autoescludentesi: un modo «altro» per essere al cuore dell’umanità, là dove pulsano le energie vitali di ogni convivenza.
Oggi, in una società in cui dimensioni come il silenzio, l’interiorità, la discrezione, la condivisione, l’obbedienza a istanze etiche, la ricerca della pace e della solidarietà paiono ignorate se non addirittura irrise, la semplice vita quotidiana di un pugno di uomini può destare nei cuori di chi li incontra – anche solo attraverso lo strumento della finzione cinematografica – una spontanea «simpatia», può richiamare alla memoria desideri sopiti, aneliti a una vita più umana e pacata.
Nel devastante dominio dell’apparire, della ricerca ossessiva dell’interesse personale a scapito degli altri e della collettività, della soddisfazione degli impulsi più incontrollati può suonare come una salutare boccata d’aria fresca la semplice testimonianza di chi liberamente decide di tener conto degli altri nel proprio comportamento, di chi accetta di condividere i doni – materiali come intellettuali e spirituali – che possiede, di chi affronta la sofferenza, il dolore e la morte come parti integranti di una vita che vale la pena di essere vissuta.
Sovente nasce così una paradossale «simpatia» verso c hi si comporta in modo tanto diverso da noi: il suo semplice restare lì, fedele nel poco, fa sorgere una nostalgia profonda per i piccoli gesti quotidiani, il ricordo di come a volte basta uno sguardo, un tocco delicato, una parola sommessa, un pasto preparato con cura per farci riscoprire la grandezza delle nostre vite, l’umile bellezza di vivere non solo gli uni accanto agli altri, ma gli uni con gli altri, solidali nel condividere la comune umanità.
Non abbiamo forse bisogno – oggi come sempre, e forse più che mai – di riscoprire l’antico senso della fedeltà alla parola data, dell’onorare gli impegni assunti, dell’alimentare incessantemente di senso i gesti più banali che compiamo ogni giorno per sottrarli all’asfissiante monotonia della routine? Apparentemente saldezza e perseveranza non godono oggi di molto credito eppure, se ci interroghiamo in sincerità, cos’altro ci attendiamo dalle persone che ci stanno accanto? Cos’altro desideriamo se non che le persone amate restino fedeli a se stesse e a noi nel mutare di eventi e stagioni? Forse ci manca la consapevolezza che affinché questo sia possibile è necessaria una dinamica molto più profonda della volubilità cui siamo abituati, dell’affannoso rincorrere nuove prospettive, dell’infantile inseguire l’ultima emozione di un momento: la fedeltà infatti esige una capacità di mutare atteggiamento, di adattarsi alle situazioni che cambiano, di adeguarsi all’altro che accanto a me cresce, cambia, lavora, riposa, soffre, si rallegra, invecchia, muore, in una parola: vive.
Credo sia proprio questo uno dei messaggi più eloquenti di «Uomini di Dio», un messaggio non riservato ai monaci né ai cristiani o ai credenti: aver saputo mostrare la quotidianità del bene, le normali umanissime potenzialità che ciascuno di noi porta in sé, la capacità di amare e di essere amati senza calcoli, la possibilità di vivere con dignità anche nell’angoscia e nella paura, il faticoso discernimento su come affrontare situazioni drammatiche, cercando non come venirne fuori a tutti i costi, ma piuttosto come poterle attraversare tutti insieme.
in “La Stampa” del 24 ottobre 2010
“Mi vietate di parlare però io non vi odio”
Il giugno 1989 ha segnato il punto di svolta nella mia vita.
Prima, la mia carriera era stata una tranquilla cavalcata dal liceo al dottorato alla cattedra all’Università di Pechino, dov’ero popolare e ben accetto agli allievi.
Contemporaneamente ero un intellettuale pubblico.
Negli Anni 1980 avevo pubblicato articoli e libri di impatto, ero spesso invitato a parlare qua e là ed ero ospitato come visiting professor in Europa e negli Stati Uniti.
Avevo però un impegno con me stesso: vivere con onestà, responsabilità e dignità.
Di conseguenza, tornato dagli Stati Uniti per partecipare al movimento del 1989, sono stato incarcerato per «propaganda contro-rivoluzionaria e incitamento al crimine», e da quel momento non sono mai più stato autorizzato a pubblicare o parlare in Cina.
Per il semplice fatto di aver espresso opinioni diverse da quelle ufficiali e aver preso parte a un movimento pacifico e democratico, un professore perde la cattedra, uno scrittore il diritto di pubblicare e un intellettuale la possibilità di parlare in pubblico, il che è ben triste, sia per me come individuo sia per la Cina dopo tre decenni di riforme e aperture.
Le mie più drammatiche esperienze dopo il 4 giugno 1989 sono tutte legate ai tribunali; le due opportunità che ho avuto di parlare in pubblico mi sono state fornite dai due processi contro di me, quello del 1991 e quello attuale.
Sebbene le accuse fossero diverse, nella sostanza erano identiche: reati di opinione.
Vent’anni dopo, le anime innocenti del 4 giugno non riposano ancora in pace e io, spinto sulla strada della dissidenza dalle passioni di quei giorni, dopo aver lasciato nel 1991 il carcere di Qincheng, ho perso il diritto di parlare apertamente nel mio Paese e l’ho potuto fare solo sui media stranieri, controllato da vicino per anni, rieducato con i lavori forzati e adesso ancora una volta portato in tribunale dai miei nemici dentro il regime.
Ma ancora una volta voglio dire a quel regime che mi priva della mia libertà, che io rimango fermo a quanto dissi vent’anni fa nella mia «Dichiarazione del 2 giugno sullo sciopero della fame»: non ho nemici e non ho odio.
Nessuno dei poliziotti che mi hanno controllato, arrestato e controllato, nessuno dei giudici che mi hanno processato e condannato, sono miei nemici.
Mentre non posso accettare che mi abbiate sorvegliato, arrestato, processato o condannato, rispetto le vostre professioni e le vostre personalità.
L’odio corrode la coscienza di una persona; la mentalità del nemico può avvelenare lo spirito di un Paese, istigarlo a una vita brutale e a lotte mortali, distruggere la tolleranza e l’umanità di una società, bloccare il progredire di una nazione verso la libertà e la democrazia.
Spero perciò di saper trascendere le mie vicissitudini personali replicando all’ostilità del regime con l’amore…
Aspetto con ansia il momento in cui il mio Paese sarà terra di libera espressione, dove i discorsi di tutti i cittadini siano trattati allo stesso modo; dove valori, idee, opinioni politiche competano l’una con l’altra e coesistano pacificamente; dove le opinioni della maggioranza e della minoranza abbiano le stesse garanzie, in particolare siano pienamente rispettate e difese le idee politiche diverse da quelle di chi detiene il potere; dove tutti i cittadini possano esprimere le loro idee politiche senza paura e non siano mai perseguitati per le loro voci di dissenso.
Spero di essere l’ultima vittima dell’inquisizione letteraria cinese e che dopo di me nessun altro sarà più incarcerato per aver detto quello che ha detto.
Discorso pronunciato il 23 dicembre 2009 in apertura del processo per «incitamento alla sovversione del potere dello Stato» in “La Stampa” del 9 ottobre 2010
“Il perdono non è scordare ma dare fiducia”
L’intervista «Dimenticare le colpe? Quello lo può fare solo Dio.
Il perdono non può essere cancellazione, né oblio, né gesto di vanità o di arroganza.
È un percorso arduo, faticoso.
È un dono elargito senza opportunismo, nel nome della fiducia nei confronti dell’uomo».
Un’assunzione di responsabilità condivisa, per costruire una giustizia davvero al servizio di una società fondata sui valori più alti: la solidarietà, la pace, la pietà.
È una sfida intellettuale impegnativa quella che lancia padre Enzo Bianchi dal palcoscenico di Torino Spiritualità, dove ieri mattina, nel Cortile di Palazzo Carignano, ha dialogato con Gustavo Zagrebelsky sull’idea del perdono, del perdono concesso al “nemico”, inteso come realizzazione estrema della gratuità.
«Il perdono non è un patteggiamento di pena — dice il priore di Bose — ma è il fondamento dei rapporti più limpidi e profondi.
È reciprocità.
È la riconciliazione, è l’andare oltre che offre una possibilità di futuro.
E che si applica all’intera vicenda umana, dal privato di un tradimento tra marito e moglie a una grande vicenda storica come il conflitto tra Israele e Palestina».
Padre Bianchi, come distinguere il perdono dall’impunità? «Il perdono non cancella la colpa ma è il riconoscimento che la persona è più grande del male che ha compiuto.
È un atteggiamento costruttivo, che porta a sfuggire il rancore e rinunciare alla vendetta».
Zagrebelsky teme che la deresponsabilizzazione produca una società di eterni bambini erennemente ricondotti allo stato di fanciullezza, che dalla storia dei loro errori non sono in grado di imparare nulla.
È d’accordo? «Questa idea non mi convince e credo non aiuti il futuro.
Non è la fanciullezza la malattia della nostra società, ma l’illegalità.
In questo paese da almeno dieci anni è accettato come un fatto naturale che abbiano diritto di esistenza il sopruso e la mancanza di regole.
È questa la causa dell’imbarbarimento».
Può esistere felicità senza responsabilità? «No.
Se parliamo della beatitudine evangelica, essa non può che realizzarsi nella responsabilità non solo di sé ma anche dell’altro, dell’altro che è mio fratello.
Questa condivisione di responsabilità è la strada che fa crescere tutti e realizza una società matura».
Lei sostiene che una vera “communitas” contrassegnata dalla qualità della convivenza sociale e dalla solidarietà non può escludere “ciecamente” il perdono dal concetto e dalla prassi della giustizia.
Come distinguere questa idea dall’iper-garantismo? «La giustizia contiene in sé il concetto di perdono.
La filosofia del diritto lo sta elaborando.
L’idea di perdono non esclude quella di memoria.
La colpa va ricordata, non dimenticata né cancellata.
Il fine di una società umana costruita sull’amore deve lavorare per la riconciliazione e per la riabilitazione di chi ha peccato».
Riconciliazione in Sudafrica, in Israele.
E qui, in Italia, tra carnefici e vittime del terrorismo.
È possibile? «Il cammino della riconciliazione è difficile.
Nel privato è affidato alla coscienza e ai sentimenti dei parenti delle vittime.
Ma a livello politico mi pare che lo Stato abbia già perdonato, attraverso l’indulto o gli sconti di pena.
Il che non significa annullare la responsabilità ma offrire a chi ha commesso un delitto una via d’uscita per non essere identificato con la propria colpa e ricominciare una vita con dignità.
C’è una virtù in tutti gli uomini, che la Bibbia chiama “immagine e somiglianza di Dio”, che nessun misfatto può cancellare del tutto».
Non crede che il buddismo, che quest’anno a Torino Spiritualità è stato protagonista con tre grandi maestri tibetani, abbia riposte più efficaci del Cristianesimo ai disagi interiori dell’uomo contemporaneo? «Credo che la religione cristiana abbia qualcosa da imparare dal buddismo in materia di compassione e il buddismo dalla religione cristiana sul tema del perdono.
Ma mi pare che l’approccio alle discipline orientali sia più intellettuale che autenticamente spirituale.
È effetto della globalizzazione.
Tutti vogliono conoscere un po’ di tutto.
Ma non credo al bricolage dell’anima.
Prendere sulle bancarelle un po’ di questo e un po’ di quello non può produrre che una spiritualità omologata e superficiale.
Un pizzico di tutto non fa la buona cucina».
in “la Repubblica” del 26 settembre 2010