La teologia del Novecento

 

 

Fulvio Ferrario, La teologia del Novecento, Carocci, 2011, pp. 304, € 24


 

Anche se il XX secolo ha conosciuto una crisi del rapporto tra Chiese e società — le grandi masse lontano dalle pratiche religiose, l’ateismo comunista al potere, la secolarizzazione — non si può dire che la teologia del Novecento sia stata debole, anzi. Quasi come una forza di reazione, essa ha saputo opporsi alle sfide del «secolo breve» e oggi ci accorgiamo che figure come Karl Barth o Dietrich Bonhoeffer, Hans Urs von Balthasar o Rudolf Bultmann restano indiscussi punti di riferimento. Quella del Novecento è stata una teologia che sino a una buona parte degli anni Sessanta ha parlato tedesco, poi ha preferito l’inglese, grazie anche ai mezzi messi a disposizione dagli istituti americani; inoltre si può dire che questa ricerca continua di Dio ha avuto alimentatori filosofici formidabili (primo fra tutti Martin Heidegger) o spazi nuovi di confronto (genetica o tecnologia), soprattutto si è trovata davanti una società che al trascendente ha chiesto soluzioni sulla terra. È insomma stato un pensiero che ha saputo riflettere sulla morte di Dio (tema già presente in Schiller e nell’Ottocento tedesco prima che in Nietzsche, divenuto però popolare nella seconda metà del Novecento) e infine sulle scoperte di Qumran e di Nag Hammadi. I testi qui ritrovati hanno avviato nuovi capitoli di storia dell’esegesi della Parola. Fulvio Ferrario ha tracciato con competenza l’avventura di questo universo ne La teologia del Novecento (Carocci, pp. 304, € 24), offrendoci un manuale utile e comprensibile.

È il ritratto dell’anima del secolo scorso, oltre che il registro di tanti pensieri sopravvissuti alle guerre e alle ideologie. Dieci decenni che con Freud hanno creduto che Dio potesse essere «un padre potenziato» (in Totem e tabù) e con Einstein si sono infine accorti che il Creatore non gioca mai a dadi con il mondo.


in “Corriere della Sera” del 5 luglio 2011

Solo la bellezza ci salverà

 

Il prossimo mese di luglio Benedetto XVI incontrerà di nuovo degli artisti, meno di due anni dopo il precedente incontro nella Cappella Sistina (vedi foto).

Che l’arte, assieme ai santi e più ancora della ragione, sia “la più grande apologia della fede cristiana” è una tesi che Benedetto XVI ha sostenuto più volte.

Per lui la bellezza è “la via più attraente ed affascinante per giungere ad incontrare ed amare Dio”.

Ma questa tesi non ha affatto vita facile oggi, cioè almeno da quando, un paio di secoli fa, “si è spezzato il filo dell’arte sacra”: come ha titolato lo storico dell’arte Timothy Verdon un suo saggio su “L’Osservatore Romano” del 28 marzo 2008.

Enrico Maria Radaelli, filosofo dell’estetica, nel suo ultimo libro pone una domanda paradossale:

“Che cosa imparerebbero i milioni di fedeli che visitano la Cappella Sistina se le sue nobili pareti e la sua celebre volta, invece che da Michelangelo, fossero state dipinte da un Haring, un Warhol, un Bacon, un Viola, un Picasso?”.

Il nuovo saggio di Radaelli ha per titolo: “La bellezza che ci salva”. E il sottotitolo è tutto un programma: “La forza di ‘Imago’, il secondo Nome dell’Unigenito di Dio, che, con ‘Logos’, può dar vita a una nuova civiltà, fondata sulla bellezza”.

Sono trecento pagine di alta metafisica e di teologia, avvalorate da una prefazione del filosofo del “senso comune” Antonio Livi, sacerdote dell’Opus Dei e professore alla Pontificia Università Lateranense.

Ma sono pagine anche di critica sferzante alla deriva che ha travolto un fecondo rapporto durato secoli tra arte e fede cristiana. Senza risparmiare le alte gerarchie della Chiesa, che Radaelli accusa di aver abdicato al loro ruolo magisteriale, di faro della fede e quindi anche dell’arte cristiana.

Per invertire la rotta, Radaelli scrive che non basta qualche sporadico incontro tra il papa e gli artisti. A suo giudizio è necessario convocare nella Chiesa “un dibattito universale, non meramente artistico, ma teologico, liturgico, ecclesiologico, filosofico, un simposio pluriennale e multidisciplinare, il cui nome potrebbe essere il semplice ma chiaro ‘Stati generali della bellezza’”.

Radaelli fa i nomi di coloro che da lui interpellati, in Vaticano e fuori, hanno aderito all’idea: il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio della cultura; il cardinale Mauro Piacenza, prefetto della congregazione per il clero; il cardinale Albert Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo ed ex segretario della congregazione per il culto divino; l’abate Michael John Zielinski, vicepresidente della pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa; Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani; Valentino Miserachs Grau, preside del pontificio istituto di musica sacra; Timothy Verdon, presidente dell’ufficio per la catechesi nell’arte dell’arcidiocesi di Firenze; Roberto de Mattei, storico, vicepresidente del Centro Nazionale delle Ricerche; Nicola Bux,  consultore della congregazione per il culto divino e dell’ufficio delle celebrazioni liturgiche pontificie; Ignacio Andereggen, membro della pontificia accademia di san Tommaso d’Aquino.

Con piglio polemico, Radaelli osserva che “ci vuole più coraggio” a organizzare questi “Stati generali della bellezza” che un Cortile dei Gentili. Perché – spiega – dialogare fuori del tempio col mondo profano sarà anche giusto e meritorio, ma prima ancora le gerarchie della Chiesa dovrebbero provvedere a far sì che la cattedrale della dottrina non vada in rovina, “piena com’è di inconsci ma non meno veri luterani, ariani, gnostici, pelagiani”.

Ma non è detto che nel Cortile dei Gentili la questione messa a fuoco da Radaelli sia taciuta. Nel primo di questi incontri di dialogo voluti da Benedetto XVI e attuati dal cardinale Ravasi, tenuto a Parigi nel marzo del 2011, c’è stato un oratore che l’ha proposta all’attenzione di tutti in forma bruciante.

Questo oratore è Jean Clair, storico dell’arte di fama mondiale, membro dell’Accademia di Francia e conservatore generale del patrimonio artistico francese.

Inoltre, il 2 giugno, festa dell’Ascensione di Gesù al Cielo, su “L’Osservatore Romano” il teologo Inos Biffi ha sviluppato il tema della “bellezza della verità di Dio” con accenti consonanti a quelli del saggio di Radaelli: altro segnale di attenzione autorevole alla questione.

Ecco qui di seguito alcuni passaggi degli interventi di Jean Clair e di Inos Biffi.

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CULTO DELL’AVANGUARDIA E CULTURA DI MORTE

di Jean Clair

Parigi, Cortile dei Gentili, 25 marzo 2011

[…] Ci sono nella storia della Chiesa episodi singolari come, nel XII e XIII secolo, la stupefacente moda dei Goliardi, chierici itineranti che scrivevano poesie erotiche e canzoni da taverna parecchio oscene, e che si dedicavano a fare parodie burlesche di messe e sacramenti della Chiesa. Ma i goliardi agivano così per criticare una Chiesa di cui denunciavano gli errori. Nulla di tutto ciò, oggi, negli artisti d’avanguardia, che non hanno rapporti con la Chiesa, e neanche voglia di burlarsene. Il movimento dei goliardi era legato a un’epoca di grande religiosità e di grande misticismo, non a una manifestazione di indifferenza.

Potrebbero essere solo le singolari deviazioni di qualche bello spirito, se la proliferazione di queste incursioni estetiche nelle chiese di Francia, e la comunanza della loro natura, esibizionista e spesso coprolalica, non inducesse a interrogarci sulla relazione che il cattolicesimo intrattiene oggi con la nozione di Bellezza.

Mi limiterò a pochi esempi:

– In una piccola chiesa della Vandea nel 2001, accanto alla cassa di un santo guaritore per il quale si viene da lontano in pellegrinaggio, si installa un’altra cassa colma di antibiotici.

– Più recentemente, nel battistero di una grande chiesa a Parigi si installa un’immensa macchina che fa colare liquido plastificante, lo sperma di Dio, su enormi certificati di battesimo, venduti sul posto a 1500 euro l’uno.

– A Gap, il vescovo presenta un’opera di un artista d’avanguardia, Peter Fryer, che rappresenta Cristo nudo con le braccia distese, legato su una sedia elettrica, come una Deposizione dalla Croce.

– Nel 2009, in una piccola chiesa di Finistère, una spogliarellista, Corinne Duval, nell’ambito di un happening di danza contemporanea, sovvenzionata dal ministero della cultura, termina danzando nuda sull’altare. […]

Quel che vedo rinascere e svilupparsi in questi culti libertini così simili a quelli che praticano certe sette gnostiche del secondo secolo mi sembra effettivamente una nuova gnosi, secondo la quale la creatura è innocente, il mondo è malvagio e il cosmo imperfetto.

Non sono un teologo, ma come storico delle forme sono colpito, in queste opere culturali dette “d’avanguardia” che oggi pretendono di far entrare nelle chiese la gioia della sofferenza e del male – mentre un tempo il culto tradizionale le combatteva con la sua liturgia –, dalla presenza ossessiva degli umori del corpo, privilegiando lo sperma, il sangue, il sudore, o il marciume, il pus nella frequente evocazione dell’aids. Naturalmente anche l’urina che – a proposito del “Piss Christ” dell’artista Andres Serrano, “imprescindibile star del mondo dell’arte e del mercato” secondo M. Brownstone – viene proclamata “portatrice di luce” in un’omelia del sacerdote, Robert Pousseur, allora incaricato di iniziare il clero francese ai misteri dell’arte contemporanea. […]

La Chiesa si è lasciata affascinare dalle avanguardie fino al punto di presumere che l’immondo e gli abomini offerti alla vista dai suoi artisti siano le migliori porte d’accesso alla verità del Vangelo. Nel frattempo sono state segnate diverse tappe che non oso definire come una deriva.

Negli anni ’70, la Chiesa non voleva conoscere dell’arte contemporanea altro che l’astrazione. Dopo le vetrate di Bazaine a Saint Séverin ci furono le vetrate di Jean Pierre Reynaud all’Abbazia di Noirlac, poi quelle commissionate a Morellet e a Viallat per Nevers, e di Soulages per l’abbazia di Conques, Il volto non esisteva più, il corpo non esisteva più, il crocifisso stesso fu allora sostituito da due pezzi di legno o di ferro saldati. Le lotte sanguinose dell’iconoclasmo sembravano non essere mai accadute. L’iconoclastia ormai era un fatto normale. […]

Quante sono, nei musei di Stato, le opere che riguardano l’iconografia cattolica? 60 per cento? 70 per cento? Dalle crocifissioni alle deposizioni nel sepolcro, dalle circoncisioni ai martiri, dalle natività ai San Francesco d’Assisi… Contrariamente agli ortodossi che si inginocchiano e pregano davanti alle icone, anche quando esse si trovano ancora nei musei, è raro, nella Grande Galleria del Louvre, vedere un fedele fermarsi e pregare davanti a un Cristo in croce o davanti a una Madonna. Bisogna rimpiangerlo? A volte lo penso. La Chiesa dovrebbe domandare la restituzione dei suoi beni? Mi capita di pensare anche questo. Ma la Chiesa non ha più alcun potere, contrariamente ai Vanuatu o agli Indiani Haida della Colombia Britannica, che hanno ottenuto la restituzione degli strumenti della loro fede, maschere e totem… La Chiesa si vergognerebbe di essere stata all’origine dei più prodigiosi tesori visivi che si siano mai avuti? Non potendo riaverli indietro, non potrebbe almeno prendere coscienza dell’obbligo che non li si può lasciare senza spiegazione davanti a milioni di visitatori dei musei? […]

La religione cattolica mi è apparsa per molto tempo come la più rispettosa del senso, la più attenta alle forme e ai profumi del mondo. È in essa che si incontra anche la più profonda e la più avvincente e sorprendente tenerezza. Il cattolicesimo mi sembra innanzitutto una religione non del distacco, né della conquista, né di un Dio geloso, ma una religione della tenerezza.

Non ne conosco altra che per esempio abbia a tal punto esaltato la maternità. […] Quale religione ha dipinto tante volte, da Giotto a Maurice Denis, il bambino in tutte le posizioni dell’infanzia, gesti, sguardi, passioni di bambino, con le sue golosità e curiosità, quando è in piedi sulle ginocchia della madre? Come la Chiesa attuale ha potuto voltare le spalle a una tale ricchezza? […]

Nell’opera d’arte nata dal cristianesimo c’è anche altro, rispetto alla felicità visiva e alla pietà. C’è anche un approccio euristico del mondo. […] L’artista è al servizio di Dio, non degli uomini, e se dipinge la creazione, conosce le meraviglie del creato, custodisce nel suo spirito il fatto che queste creature non sono Dio, ma la testimonianza della bontà di Dio, e che sono lode e canto di allegrezza. Mi domando dove questa allegria si possa ancora sentire, quella che si sentiva in Bach o in Haendel, in queste manifestazioni culturali, così povere e così offensive per l’orecchio e per l’occhio, alle quali ormai le chiese aprono il loro culto.

Qui senza dubbio è stata e rimane oggi la grandezza della Chiesa: essa è nata dalla contemplazione e dall’adorazione di un bambino che nasce, e si fortifica con la visione di un uomo che risuscita. Tra questi due momenti, la Natività e la Pasqua, non ha smesso di lottare contro la “cultura della morte”, come dice così giustamente.

Questo coraggio, questa ostinazione rendono ancor più incomprensibile la sua tentazione di difendere opere che, ai miei occhi, alle “porte della mia carne”, sanno soltanto di morte e di disperazione.

Un Dio senza la presenza del Bello è più incomprensibile di un Bello senza la presenza di un Dio.

(Traduzione di Flora Crescini ed Enrica Zaira Merlo, a cura del Centro Culturale di Milano).

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QUANDO SI RESPIRA IL SOFFIO DELLA BELLEZZA

di Inos Biffi

Da “L’Osservatore Romano” del 2 giugno 2011


[…] La teologia per definizione “dice Dio”. E questo “dire” la verità di Dio ha una sua bellezza. […] Ne era persuaso sant’Agostino che parlava di “splendore della verità”, e al quale faceva ripetuta eco Tommaso d’Aquino, […] attribuendo la prerogativa di essere “splendore e bellezza” al Verbo, che nel mistero della sua trasfigurazione e della sua ascensione l’ha effusa e riversata nella sua stessa umanità gloriosa, termine inesausto della contemplazione dei beati. […]

Si dice che i dogmi sono veri. Bisogna continuare, e dire che i dogmi sono belli. […] Occorre proseguire e osservare che la bellezza del mistero non è solo quella che traspare dal discorso teologico, come estetica intellettuale, tramite l’”ordinamento architettonico delle idee”, ma anche […] quella che si effonde dalle “cattedrali di pietra”, ossia nell’estetica della visibilità e, aggiungiamo, della poesia, della musica.

Si trovano allora attratte dalla divina bellezza la “sensibilità”, l’emotività, l’immaginario e l’estaticità che, sotto l’impulso attraente del mistero, a loro volta lo manifestano e lo espandono.

Richiamiamo gli inni di Ambrogio o di Manzoni, o le Laudi di Jacopone da Todi, ma soprattutto la “Divina commedia” di Dante, che non è un corso di teologia dogmatica, eppure equivale alla più alta, e si direbbe inarrivabile, versione poetica della fede e dei suoi dogmi: è il “bello” cristiano, portato ai vertici sublimi della poesia.

Con questo il dogma non è solo dichiarato e “affermato” come bello, e ad apparire tale non è solo la verità esposta e commentata, ma è diventato bello nel modo originale della poesia.

In questa linea dell’estetica, potremmo anche richiamare quanto il mistero sia stato e sia ancora reso “incantevole” dalla musica sacra, liturgica e non liturgica, che inizia al mistero stesso, proponendolo e facendolo gustare nella forma del canto e della melodia. I repertori musicali della Chiesa, un immenso patrimonio di messe, di oratori, di mottetti, sono a loro volta cattedrali musicali. […]

È quello che è sempre avvenuto nella tradizione cristiana, che ha guardato al mistero con “illuminati gli occhi del cuore” (Ef 1, 18). […] E proprio per l’esercizio della verità e della bellezza della fede è sorta la cultura cristiana, frutto più che di amabile e ossequioso dialogo, di sorprendente e inedita creatività. […]

 


Una proposta per i cinquant’anni del Vaticano II

LA VIA SOPRANNATURALE PER RIPORTARE PACE TRA PRIMA E DOPO IL CONCILIO

di Enrico Maria Radaelli

La discussione che si sta svolgendo sul sito internet di Sandro Magister tra scuole di diverse e opposte posizioni riguardo a riconoscere nel Concilio ecumenico Vaticano II continuità o discontinuità con la Tradizione, oltre che chiamarmi in causa direttamente fin dalle prime battute, tocca da vicino alcune pagine preliminari del mio recente libro “La bellezza che ci salva”.

Il fatto di gran lunga più significativo del saggio è la comprovata identificazione delle “origini della bellezza” con quelle quattro qualità sostanziali – vero, uno, buono, bello – che san Tommaso d’Aquino dice essere i nomi dell’Unigenito di Dio: identificazione che dovrebbe chiarire una volta per tutte il fondamentale e non più eludibile legame che un concetto ha con la sua espressione, vale a dire il linguaggio con la dottrina che lo utilizza.

Mi pare doveroso intervenire e fare così alcuni chiarimenti per chi vuole ricostruire quella “Città della bellezza” che è la Chiesa e riprendere così l’unica strada (questa è la tesi del mio saggio) che può portarci alla felicità eterna, che ci può cioè salvare.

Completerò il mio intervento con il suggerimento della richiesta che meriterebbe essere fatta al Santo Padre affinché, ricordando con monsignor Brunero Gherardini  che nel 2015 cadrà il cinquantesimo anniversario del Concilio (cfr. “Divinitas”, 2011, 2, p. 188), la Chiesa tutta approfitti di tale straordinario evento per ripristinare la pienezza di quel “munus docendi”, di quel magistero, sospeso cinquant’anni fa.

Riguardo al tema in discussione, la questione è stata ben riassunta dal teologo domenicano Giovanni Cavalcoli: “Il nodo del dibattito è qui. Siamo infatti tutti d’accordo che le dottrine già definite [dal magistero dogmatico della Chiesa pregressa] presenti nei testi conciliari sono infallibili. Ciò che è in discussione è se sono infallibili anche gli sviluppi dottrinali, le novità del Concilio”.

Il domenicano si avvede infatti che la necessità è di “rispondere affermativamente a questo quesito, perché altrimenti che ne sarebbe della continuità, almeno così come la intende il papa?”. E non potendo fare, come ovvio, le affermazioni che pur vorrebbe fare, padre Cavalcoli le gira nelle domande opposte, cui qui darò la risposta che avrebbero se si seguisse la logica “aletica”, veritativa, insegnataci dalla filosofia.


Prima domanda: È ammissibile che lo sviluppo di una dottrina di fede o prossima alla fede già definita sia falso?

Caro padre Cavalcoli, lei per la verità avrebbe tanto voluto dire: “Non è ammissibile che lo sviluppo di una dottrina di fede o prossima alla fede già definita sia falso”. Invece la risposta è: sì, lo sviluppo può essere falso, perché una premessa vera non porta necessariamente a una conclusione vera, ma può portare pure a una o più conclusioni false, tant’è che in tutti i Concili del mondo – persino nei dogmatici – si confrontarono le più contrastanti posizioni proprio a motivo di tale possibilità. Per avere lo sperato sviluppo di continuità delle verità rivelate per grazia non basta essere teologi, vescovi, cardinali o papi, ma è necessario richiedere l’assistenza speciale, divina, data dallo Spirito Santo solo a quei Concili che, dichiarati alla loro apertura solennemente e indiscutibilmente a carattere dogmatico, tale divina assistenza se la sono garantita formalmente. In tali soprannaturali casi avviene che lo sviluppo dato alla dottrina soprannaturale risulterà garantito come veritiero tanto quanto sono già state divinamente garantite come veritiere le sue premesse.

Ciò non è avvenuto all’ultimo Concilio, dichiarato formalmente a carattere squisitamente pastorale almeno tre volte: alla sua apertura, che è quel che conta, poi all’apertura della seconda sessione e per ultimo in chiusura; sicché in tale assemblea da premesse vere si è potuti giungere a volte anche a conclusioni almeno opinabili (a conclusioni che, canonicamente parlando, rientrano nel III grado di costrizione magisteriale, quello che, trattando di temi a carattere morale, pastorale o giuridico, richiede unicamente “religioso ossequio”) se non “addirittura errate”, come riconosce anche padre Cavalcoli contraddicendo la sua tesi portante, “e comunque non infallibili”, e che dunque “possono essere anche mutate”, sicché, anche se disgraziatamente non vincolano formalmente, ma “solo” moralmente il pastore che le insegna anche nei casi siano di incerta fattura, provvidenzialmente non sono affatto vincolanti obbligatoriamente l’obbedienza del fedele.

D’altronde, se a gradi diversi di magistero non si fanno corrispondere gradi diversi di assenso del fedele non si capisce cosa ci stiano a fare i gradi diversi di magistero. I gradi diversi di magistero sono dovuti ai gradi diversi di prossimità di conoscenza che essi hanno con la realtà prima, con la realtà divina rivelata cui si riferiscono, ed è ovvio che le dottrine rivelate direttamente da Dio pretendono un ossequio totalmente obbligante (I grado), tali come le dottrine loro connesse se presentate attraverso definizioni dogmatiche o atti definitivi (II grado). Sia le prime che le seconde si distinguono da quelle altre dottrine che, non potendo appartenere al primo gruppo, potranno essere annoverate al secondo solo allorquando si sarà appurata con argomenti plurimi, prudenti, chiari e irrefutabili la loro connessione intima, diretta ed evidente con esso nel rispetto più pieno del principio di Vincenzo di Lérins (“quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est”), garantendo così al fedele di trovarsi anch’esse dinanzi alla conoscenza più prossima di Dio. Tutto ciò, come si può capire, si può ottenere soltanto nell’esercizio più consapevole, voluto e implorato dalla e sulla Chiesa del “munus”, del magistero dogmatico.

La differenza tra le dottrine di I e II grado e quelle di III è data dal carattere certamente soprannaturale delle prime, che invece nel terzo gruppo non è garantito: forse c’è, ma forse anche non c’è. Quel che va colto è che il “munus” dogmatico è: 1) un dono divino, dunque 2) un dono da richiedere espressamente e 3) un dono la cui non richiesta non offre poi alcuna garanzia di assoluta verità, mancanza di garanzia che sgancia il magistero da ogni obbligo di esattezza e i fedeli da ogni obbligo di obbedienza, pur richiedendo loro religioso ossequio. Nel III grado potrebbero trovarsi indicazioni e congetture di ceppo naturalistico, e il vaglio per verificare se, depuratele da tali eventuali anche microbiche infestazioni, è possibile un loro innalzamento al grado soprannaturale può compiersi solo ponendole a confronto col fuoco dogmatico: la paglia brucerà, ma il ferro divino, se c’è, risplenderà certo in tutto il suo fulgore.

È ciò che è successo alle dottrine dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione, oggi dogmi, articoli cioè di fede appartenenti oggi di diritto al secondo gruppo. Fino rispettivamente al 1854 e al 1950 esse appartennero al gruppo delle dottrine opinabili, al terzo, alle quali si doveva nient’altro che “religioso ossequio”, pari pari a quelle dottrine novelle che, più avanti elencate qui in breve e sommario inventario, si affastelleranno nel più recente insegnamento della Chiesa dal 1962. Ma nel 1854 e nel 1950 il fuoco del dogma le circondò della sua divina e peculiare marchiatura, le avvampò, le vagliò, le impresse e infine in eterno le sigillò quali “ab initio” già erano nella loro più intima realtà: verità certissime e universalmente comprovate, dunque di diritto appartenenti al ceppo soprannaturale (il secondo) anche se fino allora non formalmente riconosciute sotto tale splendida veste. Felice riconoscimento, e qui si vuol appunto sottolineare che fu riconoscimento degli astanti, del papa in primo luogo, non affatto trasformazione del soggetto: come quando i critici d’arte, dopo averla esaminata sotto ogni punto di vista e indizio utili ad avvalorarla o smentirla – certificati di provenienza, di passaggi di proprietà, prove di pigmentazione, di velatura, pentimenti, radiografie e riflettografie – riconoscono in un quadro d’autore la sua più indiscutibile e palmare autenticità.

Quelle due dottrine si rivelarono entrambe di fattura divina, e della più pregiata. Se qualcuna dunque di quelle più recenti è della stessa altissima mano lo si riscontrerà pacificamente col più splendido dei mezzi.


Seconda domanda: Può il nuovo campo dogmatico essere in contraddizione con l’antico?

Ovviamente no, non può in alcun modo. Infatti dopo il Vaticano II non abbiamo alcun “nuovo campo dogmatico”, come si esprime padre Cavalcoli, anche se molti vogliono far passare per tale le novità conciliari e postconciliari, pur essendo il Vaticano II un semplice se pur solenne e straordinario “campo pastorale”. Nessuno dei documenti richiamati da dom Basile Valuet alla sua nota 5 dichiara un’autorevolezza del Concilio maggiore di quella da cui esso fu investito fin dall’inizio: nient’altro che una solenne e universale, cioè ecumenica, adunanza “pastorale” intenzionata a dare al mondo alcune indicazioni solo pastorali, rifiutandosi dichiaratamente e ostentatamente di definire dogmaticamente o di colpire d’anatema alcunché.

Tutti i maggiorenti neomodernisti o semplicemente novatori che dir si voglia i quali (come sottolinea il professor Roberto de Mattei nel suo “Il concilio Vaticano II. Una storia mai scritta”) furono attivi nella Chiesa fin dai tempi di Pio XII – teologi, vescovi e cardinali della “théologie nouvelle” come Bea, Câmara, Carlo Colombo, Congar, De Lubac, Döpfner, Frings col suo perito, Ratzinger; König col suo, Küng; Garrone col suo, Daniélou; Lercaro, Maximos IV, Montini, Suenens, e, quasi gruppo a sé, i tre maggiorenti della cosiddetta scuola di Bologna: Dossetti, Alberigo e oggi Melloni – nello svolgimento del Vaticano II e dopo hanno cavalcato con ogni sorta di espedienti la rottura con le detestate dottrine pregresse sullo stesso presupposto, equivocando cioè sull’indubbia solennità della straordinaria adunanza; per cui si ha che tutti costoro compirono di fatto rottura e discontinuità proclamando a parole saldezza e continuità. Che vi sia poi da parte loro e poi universalmente oggi desiderio di rottura con la Tradizione è riscontrabile almeno: 1) dal più distruttivo scempio perpetrato sulle magnificenze degli altari antichi; 2) dall’egualmente universale odierno rifiuto di tutti i vescovi del mondo tranne pochissimi a dare il minimo spazio al rito tridentino o gregoriano della messa, in stolida e ostentata disobbedienza alle direttive del motu proprio “Summorum Pontificum”. “Lex orandi, lex credendi”: se tutto ciò non è rigetto della Tradizione, cos’è allora?

Malgrado ciò, e la gravità di tutto ciò, non si può però ancora parlare in alcun modo di rottura: la Chiesa è “tutti i giorni” sotto la divina garanzia data da Cristo nei giuramenti di Matteo 16, 18 (“Portæ inferi non prævalebunt”) e di Matteo 28, 20 (“Ego vobiscum sum omnibus diebus”) e ciò la mette metafisicamente al riparo da ogni timore in tal senso, anche se il pericolo è sempre alle porte e spesso i tentativi in atto. Ma chi sostiene un’avvenuta rottura – come fanno alcuni dei maggiorenti anzidetti, ma anche i sedevacantisti – cade nel naturalismo.

Però non si può parlare neanche di saldezza, cioè di continuità con la Tradizione, perché è sotto gli occhi di tutti che le più varie dottrine uscite dal e dopo il Concilio – ecclesiologia; panecumenismo; rapporto con le altre religioni; medesimezza del Dio adorato da cristiani, ebrei e islamici; correzione della “dottrina della sostituzione” della Sinagoga con la Chiesa in “dottrina delle due salvezze parallele”; unicità delle fonti della Rivelazione; libertà religiosa; antropologia antropocentrica invece che teocentrica; iconoclastia; o quella da cui è nato il “Novus Ordo Missæ” in luogo del rito gregoriano (oggi raccattato a fianco del primo, ma subordinatamente) – sono tutte dottrine che una per una non reggerebbero alla prova del fuoco del dogma, se si avesse il coraggio di provare a dogmatizzarle: fuoco che consiste nel dar loro sostanza teologica con richiesta precisa di assistenza dello Spirito Santo, come avvenne a suo tempo con il “corpus theologicum” posto a base dell’Immacolata Concezione o dell’Assunzione di Maria.

Tali fragili dottrine sono vive unicamente per il fatto che non vi è nessuna barriera dogmatica alzata per non permettere il loro concepimento e uso. Però poi si impone una loro fasulla continuità col dogma per pretendere verso di esse l’assenso di fede necessario all’unità e alla continuità (cfr. le pp. 70ss, 205 e 284 del sopraddetto mio libro “La bellezza che ci salva”), restando così tutte in pericoloso e “fragile borderline tra continuità e discontinuità” (p. 49), ma sempre al di qua del limite dogmatico, che infatti, se applicato, determinerebbe la loro fine. Anche l’affermazione di continuità tra tali dottrine e la Tradizione pecca a mio avviso di naturalismo.

Terza domanda: Se noi neghiamo l’infallibilità degli sviluppi dottrinali del Concilio che partono da precedenti dottrine di fede o prossime alla fede, non indeboliamo la forza della tesi continuista?

Certo che la indebolite, caro padre Cavalcoli, anzi: la annientate. E date forza alla tesi opposta, come è giusto che sia, che continuità non c’è.

Niente rottura, ma anche niente continuità. E allora cosa? La via d’uscita la suggerisce Romano Amerio (1905-1997) con quella che l’autore di “Iota unum” definisce “la legge della conservazione storica della Chiesa”, ripresa a p. 41 del mio saggio, per la quale “la Chiesa non va perduta nel caso non ‘pareggiasse’ la verità, ma nel caso ‘perdesse’ la verità”. E quando la Chiesa non pareggia la verità? Quando i suoi insegnamenti la dimenticano, o la confondono, la intorbidano, la mischiano, come avvenuto (non è la prima volta e non sarà l’ultima) dal Concilio a oggi. E quando perderebbe la verità? (Al condizionale: si è visto che non può in alcun modo perderla). Solo se la colpisse d’anatema, o se viceversa dogmatizzasse una dottrina falsa, cose che potrebbe fare il papa e solo il papa, se (nella metafisicamente impossibile ipotesi che) le sue labbra dogmatizzanti e anatematizzanti non fossero soprannaturalmente legate dai due sopraddetti giuramenti di Nostro Signore. Insisterei su questo punto, che mi pare decisivo.

Qui si avanzano delle ipotesi, ma – come dico nel mio libro (p. 55) – “lasciando alla competenza dei pastori ogni verifica della cosa e ogni successiva conseguenza, per esempio del se e del chi eventualmente, e in che misura, sia incorso od ora incorra” negli atti configurati. Nelle primissime pagine evidenzio in specie come non si possono alzare gli argini al fiume di una bellezza salvatrice se non sgombrando la mente da ogni equivoco, errore o malinteso: la bellezza si accompagna unicamente alla verità (p. 23), e tornare a far del bello nell’arte, almeno nell’arte sacra, non si riesce se non lavorando nel vero dell’insegnamento e dell’atto liturgico.

Quello che a mio avviso si sta perpetrando nella Chiesa da cinquant’anni è un ricercato amalgama tra continuità e rottura. È lo studiato governo delle idee e delle intenzioni spurie nel quale si è cambiata la Chiesa senza cambiarla, sotto la copertura (da monsignor Gherardini nitidamente illustrata anche nei suoi libri più recenti) di un magistero volutamente sospeso – a partire dal discorso d’apertura del Concilio “Gaudet mater ecclesia” – in una tutta innaturale e tutta inventata sua forma, detta, con ricercata imprecisione teologica, “pastorale”. Si è svuotata la Chiesa delle dottrine poco o nulla adatte all’ecumenismo e perciò invise ai maggiorenti visti sopra e la si è riempita delle idee ecumeniche di quegli stessi, e ciò si è fatto senza toccarne in alcun modo la veste metafisica, per natura sua dogmatica (cfr. p. 62), per natura sua cioè soprannaturale, ma lavorando unicamente su quel campo del suo magistero che inferisce unicamente sulla sua “conservazione storica”.

In altre parole: non c’è rottura formale, né peraltro formale continuità, unicamente perché i papi degli ultimi cinquant’anni si rifiutano di ratificare nella forma dogmatica di II livello le dottrine di III che sotto il loro governo stanno devastando e svuotando la Chiesa (cfr. p. 285). Ciò vuol dire che in tal modo la Chiesa non pareggia più la verità, ma neanche la perde, perché i papi, persino in occasione di un Concilio, si sono formalmente rifiutati sia di dogmatizzare le nuove dottrine sia di colpire d’anatema le pur disistimate (o corrette o raggirate) dottrine pregresse.

Come si vede, si potrebbe anche ritenere che tale incresciosissima situazione andrebbe a configurare un peccato del magistero, e grave, sia contro la fede, sia contro la carità (p. 54): non sembra infatti che si possa disobbedire al comando del Signore di insegnare alle genti (cfr. Matteo 28, 19-20) con tutta la pienezza del dono di conoscenza elargitoci, senza con ciò “deviare dalla rettitudine che l’atto – cioè ‘l’‘insegnamento educativo alla retta dottrina’ – deve avere” (Summa Theologiae I, 25, 3, ad 2). Peccato contro la fede perché la si mette in pericolo, e infatti la Chiesa negli ultimi cinquant’anni, svuotata di dottrine vere, si è svuotata di fedeli, di religiosi e di preti, diventando l’ombra di se stessa (p. 76). Peccato contro la carità perché si toglie ai fedeli la bellezza dell’insegnamento magisteriale e visivo di cui solo la verità risplende, come illustro in tutto il secondo capitolo del mio libro. Il peccato sarebbe d’omissione: sarebbe il peccato di “omissione della dogmaticità propria alla Chiesa” (pp. 60ss), con cui la Chiesa volutamente non suggellerebbe sopranaturalmente e così non garantirebbe le indicazioni sulla vita che ci dà.

Questo stato di peccato in cui verserebbe la santa Chiesa (si intende sempre: di alcuni uomini della santa Chiesa, ovvero la Chiesa nella sua componente storica), se riscontrato, andrebbe levato e penitenzialmente al più presto anche lavato, giacché, come il cardinale José Rosalio Castillo Lara scriveva al cardinale Joseph Ratzinger nel 1988, il suo attuale ostinato e colpevole mantenimento “favorirebbe la deprecabile tendenza […] a un equivoco governo cosiddetto ‘pastorale’, che in fondo pastorale non è, perché porta a trascurare il dovuto esercizio dell’autorità con danno al bene comune dei fedeli” (pp. 67s).

Per restituire alla Chiesa la parità con la verità, come le fu restituita ogni volta che si trovò in simili drammatiche traversie, altra via non c’è che tornare alla pienezza del suo “munus docendi”, facendo passare al vaglio del dogma a 360 gradi tutte le false dottrine di cui oggi è intrisa, e riprendere come “habitus” del suo insegnamento più ordinario e pastorale (nel senso rigoroso del termine: “trasferimento della divina Parola nelle diocesi e nelle parrocchie di tutto il mondo”) l’atteggiamento dogmatico che l’ha sopranaturalmente condotta fin qui nei secoli.

Ripristinando la pienezza magisteriale sospesa si restituirebbe alla Chiesa storica l’essenza metafisica virtualmente sottrattale, e con ciò si farebbe tornare sulla terra la sua bellezza divina in tutta la sua più riconosciuta e assaporata fragranza.

Per concludere, una proposta

Ci vuole audacia. E ci vuole Tradizione. In vista della scadenza del 2015, cinquantesimo anniversario del Concilio della discordia, bisognerebbe poter promuovere una forte e larga richiesta al Trono più alto della Chiesa affinché, nella sua benignità, non perdendo l’occasione davvero speciale di tale eccezionale ricorrenza, consideri che vi è un unico atto che può riportare pace tra l’insegnamento e la dottrina elargiti dalla Chiesa prima e dopo la fatale assemblea, e quest’unico, eroico, umilissimo atto è quello di accostare al soprannaturale fuoco del dogma le dottrine sopra accennate invise ai fedeli di parte tradizionista, e le contrarie: ciò che deve bruciare brucerà, ciò che deve risplendere risplenderà. Da qui al 2015 abbiamo davanti tre anni abbondanti. Bisogna utilizzarli al meglio. Le preghiere e le intelligenze debbono essere portate alla pressione massima: fuoco al calor bianco. Senza tensione non si ottiene niente, come a Laodicea.

Questo atto che qui si propone di compiere, l’unico che potrebbe tornare a riunire in un’unica cera, come dev’essere, quelle due potenti anime che palpitano nella santa Chiesa e nello stesso essere, riconoscibili l’una negli uomini “fedeli specialmente a ciò che la Chiesa è”, l’altra negli uomini il cui spirito è più teso al suo domani, è l’atto che, mettendo fine con bella decisione a una cinquantennale situazione piuttosto anticaritativa e alquanto insincera, riassume in un governo soprannaturale i santi concetti di Tradizione e audacia. Per ricostruire la Chiesa e tornare a fare bellezza, il Vaticano II va letto nella griglia della Tradizione con l’audacia infuocata del dogma.

Dunque tutti i tradizionisti della Chiesa, a ogni ordine e grado come a ogni particolare taglio ideologico appartengano, sappiano raccogliersi in un’unica sollecitazione, in un unico progetto: giungere al 2015 con il più vasto, consigliato e ben delineato invito affinché tale ricorrenza sia per il Trono più alto l’occasione più propria per ripristinare il divino “munus docendi” nella sua pienezza.

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Il libro di Enrico Maria Radaelli “La bellezza che ci salva” (prefazione di Antonio Livi, 2011, pp. 336, euro 35,00) può essere richiesto direttamente all’autore (enricomaria.radaelli@tin.it) o alla Libreria Hoepli di Milano (www.hoepli.it).

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POST SCRIPTUM 1 / LA REPLICA DI FRANCESCO ARZILLO


L’appello del professor Enrico Maria Radaelli, accorato e sofferto, suscita simpatia ma anche qualche perplessità sia di contenuto sia di metodo.

Partirei dalla coda, ossia dai tempi. Radaelli pone l’anno 2015 quale orizzonte temporale di riferimento per un pronunciamento di carattere dogmatico sulle questioni pendenti. Tuttavia egli richiama quale esempio la proclamazione dogmatica dell’Immacolata, per la quale la Chiesa ha invece atteso non pochi secoli. Gli storici del dogma conoscono le resistenze dei domenicani, che solamente nell’Ottocento furono definitivamente superate: il plurisecolare lavoro teologico e spirituale favorì in tal modo una proclamazione quasi unanimemente condivisa nella Chiesa.

È da ammirare questo modo di procedere, che fa della Chiesa cattolica – per dirla paradossalmente – l’opposto di quella monarchia autoritaria che non pochi tra i non cattolici immaginano. Una cosa è infatti il potere del Magistero supremo, un’altra cosa è la questione del modo e dei tempi del suo esercizio, che sono soggetti a ovvi canoni prudenziali.

C’è quindi da chiedersi: se ci sono voluti secoli per una proclamazione dogmatica in un contesto caratterizzato ancora da una certa omogeneità di linguaggio e di formazione teologica, come si può pensare che le odierne dispute possano risolversi con atti dogmatici nel giro di pochi anni, in un contesto di radicale pluralismo culturale ed epistemologico? La definizione dogmatica presuppone infatti, di regola, una preparazione niente affatto semplice.

La linea di Benedetto XVI appare diversa: seminare – come nel caso del ripristino del rito antico – e attendere che la semina porti frutto a suo tempo.

Un secondo punto. Si potrebbe di certo – dopo attenta indagine – riconoscere che alcune delle nuove dottrine conciliari e postconciliari siano collocate nel II livello, come sostiene il padre Giovanni Cavalcoli. Ma anche se ciò non fosse, la cosa non dovrebbe turbare più di tanto il fedele cattolico, anche se teologo. È bene ribadire che lo Spirito Santo non assiste i pastori solamente nel momento della definizione (di I o di II livello, per esprimersi secondo la nota scala di durezza richiamata dal professor Radaelli). Lo Spirito li assiste sempre, anche nei pronunciamenti di III livello, ai quali, come Radaelli stesso riconosce, è dovuto un “religioso ossequio dell’intelletto e della volontà” (art. 752 del codice canonico).

La necessità di questo assenso anche interno è il punto più trascurato, oggi, sia dai neomodernisti sia dai tradizionalisti. Il fatto che si tratti di pronunciamenti non irreformabili non significa che i fedeli non debbano seguirli come espressione della via più sicura. Ciò non esclude la possibilità che le persone competenti sollevino qualche dubbio nelle forme e nei modi propri, tali da non turbare l’ordinato svolgimento della vita ecclesiale. Ma ciò non può di certo comportare l’instaurarsi di magisteri paralleli, neppure sul fronte tradizionalista: effetto che sarebbe paradossale, dopo le giuste polemiche contro il consolidato magistero parallelo dei teologi progressisti sui mass-media.

Un terzo punto, infine. Il bel dibattito in corso su www.chiesa e sul blog Settimo Cielo dimostra che è possibile approfondire la portata dell’ermeneutica della continuità solamente entrando nel merito dei singoli problemi. La discussione sulla libertà religiosa lo ha rivelato assai chiaramente. È evidentemente fruttuoso lo sforzo volto a capire e a individuare esattamente il nocciolo che attiene all’essenza della dottrina sotto la mutevolezza degli accidenti storici: fermo restando, ovviamente, che questo nocciolo ci deve essere e deve essere mantenuto fermo, per evitare il rischio di cadere nel relativismo.

Questo esame delle dottrine “al microscopio”, ma anche “al telescopio” della profondità storica, riserverebbe piacevoli sorprese, nel senso auspicato dall’ermeneutica della continuità. Esso potrebbe mostrare che lo Spirito Santo non ha abbandonato la Chiesa cinquant’anni fa. E che non è certo venuta meno la promessa del Signore:  “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 16-20).

Roma, 16 giugno 2011

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POST SCRIPTUM 2 / LA REPLICA DI GIOVANNI CAVALCOLI

Caro professor Radaelli,

ho letto con molto interesse le sue considerazioni e le sue proposte circa l’autorevolezza delle dottrine nuove del Concilio Vaticano II, che lei pone, con dom Basile Valuet, al III grado, mentre io, almeno per alcune, la porrei al II.

Il III grado contiene sia dottrine “de fide et moribus” che disposizioni pastorali. Qui il Magistero, trattando materia di fede o prossima alla fede, non intende definire che quanto insegna è di fede, per cui non definisce se si tratta di dottrine definitive o infallibili oppure no. La dottrina della fede è di per sé è infallibile perché assolutamente e perennemente vera, ma qui la Chiesa, pur trattando di materia di fede o prossima alla fede, non chiede, come Lei ben riconosce, un vero assenso di fede, ma un semplice “ossequio religioso della volontà” per il fatto che qui la materia trattata non appare con certezza essere di fede. Questo ovviamente non vuol dire che possa essere sbagliata.

Viceversa, al II grado la Chiesa richiede un vero e proprio atto di fede, benchè non si tratti ancora della fede divina e teologale con la quale aderiamo alle dottrine del I grado, che sono i veri e propri dogmi definiti. La fede richiesta al II grado si chiama “fede ecclesiastica” o anche semplicemente “cattolica” ed è quella fede che abbiamo nell’infallibilità del Magistero della Chiesa in quanto assistito dallo Spirito Santo.

Qui aderiamo con la fede, perchè qui appare con chiarezza, magari per mezzo di opportune dimostrazioni, che si tratta di materia di fede e, se si tratta di dottrine nuove, è possibile mostrarle come chiarificazione, esplicitazione o deduzione di o da precedenti dottrine definite o dati rivelati. È questo il caso delle dottrine nuove del Concilio, se non tutte, almeno di alcune, le principali, come per esempio la definizione della liturgia, della rivelazione, della Tradizione o della Chiesa.

Quanto alla “pastoralità” del Concilio, è vero, è stato un Concilio pastorale, ma non solo pastorale, bensì anche dottrinale e addirittura dogmatico: basterebbe citare il titolo di due suoi documenti, chiamati appunto “Costituzioni dogmatiche”. Questo i papi del postconcilio lo hanno detto più volte, anche se hanno detto con altrettanta chiarezza che il Concilio non ha definito dichiaratamente o esplicitamente nuovi dogmi, quindi è indubbio che la sua dottrina non si pone al I grado.

È importante questa distinzione tra il dottrinale e il pastorale, perché, quando un Concilio presenta un insegnamento dottrinale, attinente benchè indirettamente alla Rivelazione, non può sbagliare. Anche se si tratta di dottrine nuove, non può tradire o smentire la Tradizione. Viceversa, le direttive o disposizioni di carattere pastorale o lo stesso stile pastorale di un Concilio non sono mai infallibili, a meno che non si tratti di contenuti di fede concernenti l’essenza dell’azione pastorale, ed anzi sono normalmente mutevoli e rivedibili, possono essere meno opportune o addirittura sbagliate, per cui devono essere abrogate. Questa può essere la “paglia” del III grado, ma non certo eventuali pronunciamenti dottrinali! Questi, accostati al “fuoco” del dogma, splendono di maggiore bellezza!

Anche certe disposizioni pastorali del Concilio potrebbero essere “paglia”. Ed anzi, secondo me e non solo secondo me, lo sono state e lo sono per il fatto che, messe alla prova dei fatti, dopo quarant’anni, richiedono di essere riviste o corrette per i cattivi risultati che hanno dato. Mi riferisco per esempio a quanto anche lei dice: l’eccessiva indulgenza del Magistero nei confronti degli errori o l’eccessivo ottimismo nei confronti del mondo moderno, nonché l’eccessiva esaltazione dei valori umani e la debole esaltazione dei valori cristiani, soprattutto cattolici.

Ciò ha consentito la penetrazione dappertutto, anche nella gerarchia, di queste tendenze, ulteriormente esasperate da una ben concertata macchina pubblicitaria internazionale organizzata dal centro-Europa (per esempio la rivista “Concilium”). I vescovi, come osservò a suo tempo padre Cornelio Fabro, ne restarono intimiditi, sicchè oggi è assai difficile liberarsi da questa situazione, perché chi dovrebbe intervenire è egli stesso connivente con l’errore.

Altro errore pastorale del Concilio è stato quello di indebolire il potere del papa rafforzando eccessivamente quello dei vescovi, col risultato che si è verificata quella “breviatio manus” del papa, della quale parlava Amerio: il pontefice è rimasto isolato nello stesso episcopato. Ovviamente, grazie all’assistenza dello Spirito santo, egli conserva ed applica il suo ruolo di maestro della fede e nemico dell’errore; ma purtroppo spesso gli interventi della Santa Sede in questo campo – che non mancano affatto – hanno scarsa per non dire scarsissima eco nell’episcopato e fra i teologi, quando a volte non si hanno addirittura delle opposizioni, ora subdole, ora sfrontate.

Su questa materia occorre recuperare un certo stile precedente il Concilio, che portava buoni risultati, ovviamente senza cadere in certi eccessi di severità e di autoritarismo del passato. I papi del postconcilio sono papi crocifissi, abbandonati come Cristo dai suoi. Altro che “trionfalismo”! È uso dei prepotenti fare le vittime.

Sono d’accordo con lei nel sostenere o meglio nel constatare con Amerio che dall’immediato periodo postconciliare a tutt’oggi il Magistero dice sì la verità – e come non potrebbe? – ma non la dice tutta. Tace alcune verità per un eccessivo timore dei non-cattolici e di non apparire abbastanza moderno. Le preoccupazioni ecumeniche, e peraltro di ecumenismo troppo pacifista e accondiscendente, sembrano prevalere sul dovere di evangelizzare e di correggere chi sbaglia, invitandolo all’unità “cum Petro e sub Petro”.

Occorre allora recuperare verità dimenticate, delle quali dò solo qualche esempio, sapendo bene, con lei, di sfondare una porta aperta: il valore realistico della verità, il valore intellettuale-concettuale della conoscenza di fede, il valore sacrificale, espiativo e soddisfattorio della redenzione, la natura e le conseguenze del peccato originale, la congiunzione della giustizia e della misericordia divine, gli attributi divini dell’impassibilità e dell’immutabilità, la distinzione fra natura e grazia, la predestinazione, l’esistenza di dannati nell’inferno, la possibilità di perdere la grazia col peccato mortale, l’esistenza dei miracoli e delle profezie, il dovere di lavorare per la conversione dei non-cattolici al cattolicesimo.

Vorrei dirle, però, caro professore, che non deve credere che dottrine conciliari come quelle della prospettiva universale della salvezza, del dialogo con la modernità, dell’ecumenismo, della libertà religiosa o delle verità contenute nelle altre religioni contrastino con le precedenti verità, anche se si tratta di dimostrare la continuità. Si tratta solo di una migliore conoscenza o di aspetti nuovi di quelle medesime verità che vengono insegnate in quelle dottrine.

Il Concilio Ecumenico Vaticano II: contrasti nella storia del concilio

Dopo il Concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica ha fatto l’esperienza, nei paesi occidentali, di un profondo declino relativamente alla frequenza alla messa, alla decimazione degli ordini religiosi e alle vocazioni presbiterali, e di una seria crisi dell’autorità della Chiesa istituzionale, in seguito alla reazione alla Humanae Vitae.


Alcuni diedero la colpa di questo all’evidente rapporto del concilio con la modernità, che prima del concilio era stata chiaramente condannata. Un piccolo numero di questo gruppo alla fine promosse uno scisma, guidato dal defunto arcivescovo Lefebvre. Altri ritennero il collasso inevitabile, date le profonde correnti secolarizzatrici nelle culture occidentali. Altri ancora attribuirono il declino ad una mancata applicazione degli insegnamenti del concilio e all’azione dilatoria di “conservatori centralizzanti” che hanno bloccato la Chiesa ad una roccia premoderna, senza più credibilità né responsabilità.


Questo è solo un campione delle posizioni assunte sull’argomento, ma rende ampiamente evidente il fatto che l’interpretazione del Concilio Vaticano II (1963-1965) è ancora profondamente contestata.
I dibattiti sui lavori del concilio sono stati spesso dipinti come dibattiti tra “conservatori” e “liberal”, termini in un certo senso superati con cui sono stati definiti anche gruppi di studiosi impegnati nell’interpretazione del concilio. Agostino Marchetto, giustamente, deplora queste etichette, ma il suo libro può certamente essere letto come una seria critica “conservatrice”, storica e metodologica, di circa 20 anni di cultura “liberal” sul concilio.


Quando il cardinal Ruini presentò il libro dell’arcivescovo Marchetto ad un pranzo ufficiale a Roma, paragonò, come fa Marchetto, la recente storia del concilio scritta da vari autori ed edita da Giuseppe Alberigo, alla famosa storia del Concilio di Trento scritta da Paolo Sarpi. Nessuno disse che Sarpi era stato inserito nell’Indice dei Libri Proibiti – ma lo sapevano.

L’accusa fatta alla Scuola di Bologna, di cui Alberigo era un leader intellettuale, è che gli studiosi coinvolti nello studio della storia hanno letto i documenti e gli eventi vaticani del concilio con un atteggiamento di sistematica prevenzione.


La prevenzioni fondamentali erano: il fatto di non fidarsi soprattutto sui 62 volumi che presentano il modo di procedere dell’ambiente del concilio, e sui documenti stessi del concilio; il fatto di essere decisamente anti-curia; il fatto di sottolineare la novità e la differenza piuttosto che la continuità; il fatto di sminuire l’importanza dei documenti finali di tipo autoritario a favore del fatto di vedere il concilio come “evento” (ci sono diversi significati dati a questo termine, ma fondamentalmente sposta l’attenzione lontano dall’interpretazione testuale dei documenti conciliari, preferendo concentrarsi su diari privati, e teorie letterarie, storiche e sociologiche); il fatto di vedere una profonda separazione tra papa Giovanni XXIII, che aveva una visione positiva, e papa Paolo VI, che sempre più si allontanava dalla visione di papa Giovanni man mano che il concilio procedeva sotto la sua guida. A causa di queste prevenzioni, dichiara Marchetto, questa storia smisurata oscura gli insegnamenti del concilio.


Il libro di Marchetto è importante in quanto sviluppa la critica che papa Benedetto fa a varie interpretazioni del concilio. La maggior parte delle 723 pagine sono occupate nel passare in rassegna sotto vari titoli tematici le pubblicazione tra il 1992 e il 2003 che si occupano del concilio, della sua preparazione, delle sessioni effettive, delle storie alternative del concilio, dell’autorità episcopale e papale (trattate in uno dei precedenti libri di  Marchetto, uno dei suoi temi preferiti), una recensione di diari e fonti alternative e, alla fine, tre saggi che riassumono l’argomento base del libro.
Secondo Marchetto, che cosa costituisce una corretta interpretazione? Innanzitutto, l’accettazione della continuità della dottrina: riforma e cambiamento avvengono solo all’interno di quella continuità dottrinale. Marchetto cita spesso Newman, ma non sviluppa nei dettagli la visione di Newman rispetto allo sviluppo dottrinale. Né c’è discussione su ciò che costituisce una dottrina riformabile o una dottrina irriformabile, su quello che sono opinioni teologiche probabili o certe, talvolta viste come dottrine. In secondo luogo, la lettura dei testi del concilio e dei documenti ufficiali del modo di procedere nell’ambiente del concilio, così come dei commenti ufficiali ai testi, oltre ai documenti ufficiali emanati, come le lettere di papa Paolo durante il concilio. Questi sono i “fatti” che dovrebbero formare la base per la nostra comprensione del concilio, non gli eventi prima, durante e dopo, come costruiti da altre fonti.


Marchetto ha ragione nell’ammonire che abbiamo appena cominciato ad interpretare il concilio, d ato che i 62 volumi editi da Vincenzo Carbone sono stati conclusi solo recentemente. Ma questo ammonimento dovrebbe ugualmente essere applicato alla lettura di Marchetto dei documenti e del c ontesto del concilio, il che richiederebbe maggiore argomentazione di quella che egli talvolta presenta. Parla spesso di giudizi non equilibrati e di espressioni eccessive, presumendo che il lettore condivida questo modo di vedere. Anche se, per essere giusti, recensendo più libri, come scrive spesso Marchetto, si deve spesso rimanere entro limitazioni.


Alla fine, Marchetto indica alcuni segnali positivi di letture alternative rispetto alla tradizione dominante che ha criticato in alcuni punti. Indica Leo Scheffczyk, Annibale Zamberi, Vincenzo Carbone, il lavoro dell’Istituto Paolo VI di Brescia, J.-M. R. Tillard, Massimo Faggioli, Giovanni Turbanti e, in parte, Hermann J. Pottmeyer. Si potrebbero aggiungere i bei saggi editi da Matthew Levering e Matthew Lamb per l’ambito di lingua inglese.


È un libro importante in un dibattito che è appena iniziato. Il futuro della Chiesa cattolica sarà nutrito dal concilio solo se esso sarà correttamente interpretato.



in “The Tablet” del 9 giugno 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

La Francia e i frutti del Concilio


Sono diversi anni che la “ricezione” del Concilio è oggetto di dibattito tra i cattolici. Dopo 40 anni e una nuova generazione di storici, è venuto il momento di uno sguardo spassionato su quegli anni fecondi. Alla pubblicazione di “La crise catholique, 1965-1978” di Denis Pelletier (2002) hanno fatto seguito due convegni, i cui atti, recentemente pubblicati, rivelano l’ampiezza del cambiamento conosciuto dalla Chiesa cattolica in Francia. Vi scopriamo i dibattiti che, sulla scia del Vaticano II, hanno contribuito a costruire la Chiesa attuale.


Un nouvel âge de la théologie? 1965-1980 si pone l’obiettivo di decriptare le evoluzioni del pensiero religioso. In effetti, la generazione dei teologi post-conciliari si apre ampiamente agli apporti delle scienze sociali, delle esperienze militanti… Anche dei laici vi partecipano.
Questa disciplina sembra esplodere di fronte alla moltiplicazione delle proposte, perché il mondo cattolico accetta (temporaneamente) questo pluralismo. Il dialogo con il marxismo, a cui Témoignage chrétien ha partecipato, vive di diversi contributi, come la ricerca di un pensiero compatibile con gli impegni di sinistra. Gli autori non ignorano le resistenze al cambiamento, che trionferanno nella normalizzazione avvenuta dopo il 1980, ad opera di un certo Joseph Ratzinger.


L’église de France après Vatican II (1965-1975) si inscrive come complemento dell’opera precedente, sforzandosi di offrire un panorama ampio e rigoroso delle trasformazioni che hanno riguardato la Chiesa francese. Difficile per coloro che hanno vissuto quel periodo affrontarlo in maniera spassionata. Le testimonianze (abbastanza concordi) permettono di risentire il vigore dei dibattiti dell’epoca, appena attenuato.


Gli ambiti osservati sono insoliti ma si dimostrano pertinenti. Ad esempio la nascita della conferenza episcopale che era un’assoluta novità. Come i contributi relativi alla formazione dei preti, di cui si mostrano sia le sperimentazioni che le resistenze. Nel suo intervento sulla “tentazione gauchiste nella Chiesa francese”, François Grèzes-Rueff difende l’idea che i cristiani furono i “cofondatori” del gauchisme francese, e che la loro presenza avrebbe evitato la deriva verso una violenza politica (come in Italia o in Germania).

 



I contributi più originali trattano delle trasformazioni liturgiche, cioè le più visibili per i fedeli. La lettura parallela di queste due opere rivela la capacità di innovazione che è stata necessaria ai protagonisti dell’epoca. Capacità che oggi sembra spegnersi.

 

Un nouvel âge de la théologie ? 1965-1980, Karthala (2009)

L’Église de France après Vatican II, Parole et Silence (2011)

(traduzione: www.finesettimana.org)

 

in “www.temoignagechretien.fr” del 14 giugno 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

Per una corretta interpretazione del Concilio Vaticano II

 

 

Un ampio dibattito  sulla corretta interpretazione dei documenti del Concilio Vaticano II  ha coinvolto, in questi ultimi tempi, personalità significative, dell’area conservatrice e di quella progressista, del mondo cattolico.

 

Le critiche di alcuni tradizionalisti si concentrano in particolare su come Benedetto XVI interpreta il Concilio Vaticano II e il postconcilio. Il papa sbaglia – a loro giudizio – quando limita la sua critica alle degenerazioni del postconcilio. Il Vaticano II, infatti – sempre a loro giudizio –, non è stato solo male interpretato e applicato: fu esso stesso portatore di errori, il primo dei quali fu la rinuncia delle autorità della Chiesa ad esercitare, quando necessario, un magistero di definizione e di condanna; la rinuncia, cioè, all’anatema, a vantaggio del dialogo.

La stessa giornata di “riflessione, dialogo e preghiera” assieme a cristiani di altre confessioni, a esponenti di altre religioni e a “uomini di buona volontà” che Benedetto XVI presiederà ad Assisi il prossimo 27 ottobre dovrebbe  segnare una svolta e ripulire da ogni ombra di assimilazione della Chiesa cattolica alle altre fedi.
Un aspetto di quella più generale confusione che ha avuto origine dal Concilio Vaticano II e sta disgregando, secondo alcuni,  la dottrina cattolica.

Possiamo citare a questo proposito  il volume recentemente pubblicato dal professor Roberto de Mattei: “Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta”. Sul piano teologico, invece, il volume  “Concilio Vaticano II. Un discorso da fare”, di Brunero Gherardini, professore emerito della Pontificia Università Lateranense e direttore della rivista di teologia tomista “Divinitas”. Di Gherardini è uscito ora un nuovo libro intitolato: “Concilio Vaticano II. Il discorso mancato”.  A questi testi possiamo aggiungere  il saggio “Ingresso alla bellezza” del 2007, di Enrico Maria Radaelli, filosofo e teologo, discepolo del maggior pensatore tradizionalista del secolo XX, Romano Amerio. Di Radaelli è  uscito in questi giorni l’edizione di un secondo saggio altrettanto rimarchevole, dal titolo: “La bellezza che ci salva”.

Per tutti loto fonte di confuzione è la convocazione dell’incontro interreligioso ad Assisi e l’aver dato vita al “Cortile dei gentili”. La colpa maggiore addebitata a papa Ratzinger è quella di essersi “reso drammaticamente disponibile a essere anche criticato, non pretendendo alcuna infallibilità”, come ha scritto lui stesso nella prefazione ai suoi libri su Gesù. Errore, questo, capitale del Concilio Vaticano II: la rinuncia alle definizioni dogmatiche, a vantaggio di un linguaggio “pastorale” e quindi inevitabilmente equivoco. A queste voci si uniscono anche quelli di auterevoli presuli quali quelle del Cardinale, Albert Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo, di Mario Olivieri vescovo di Albenga-Imperia

Lo scorso dicembre si è tenuto a Roma un convegno, “per una giusta ermeneutica del Concilio alla luce della Tradizione della Chiesa” in cui sono intervenuti tra gli altri De Mattei, Gherardini, Radaelli ed  hanno tenuto relazioni anche il cardinale Velasio de Paolis, il vescovo di San Marino e Montefeltro Luigi Negri e monsignor Florian Kolfhaus della segreteria di stato vaticana. E un altro vescovo molto stimato, l’ausiliare di Astana nel Kazakistan, Athanasius Schneider, ha concluso il suo intervento con la proposta al papa di emanare un “Syllabus” contro gli errori dottrinali di interpretazione del Concilio Vaticano II.

Il vescovo Schneider, però, come quasi tutti i partecipanti al convegno non ritiene che vi siano nei documenti del Vaticano II effettivi punti di rottura con la grande tradizione della Chiesa. L’ermeneutica con la quale egli interpreta i documenti del Concilio è quella definita da Benedetto XVI nel suo memorabile discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005: “l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa”. È un’ermeneutica sicuramente compatibile con l’attaccamento alla tradizione della Chiesa. Ed è anche l’unica capace di vincere la contrarietà di alcuni tradizionalisti riguardo alle “novità” del Concilio Vaticano II.

 

Riportiamo di seguito una significativa documentazione del dibattito intercorso:

 

26.5.2011

Libertà religiosa. La Chiesa era nel giusto anche quando la condannava?

Nella disputa sul Concilio Vaticano II interviene il teologo benedettino Basile Valuet. Contro i tradizionalisti Gherardini e de Mattei. Ma anche contro il “ratzingeriano” Rhonheimer. Che in un Post Scriptum replica. E replicano anche Cavalcoli, Introvigne… Con la controreplica di Valuet

 

11.5.2011:  Benedetto XVI “riformista”. La parola alla difesa

Introvigne replica a de Mattei, capofila degli anticonciliaristi. E il professor Rhonheimer torna a spiegare come e perché il Vaticano II va capito e accettato. Nel modo indicato dal papa

 

5.5.2011: La Chiesa è infallibile, ma il Vaticano II no

E ha commesso errori, sostiene lo storico tradizionalista Roberto de Mattei. Continua la disputa pro e contro i papi che hanno guidato il Concilio e mettono in pratica le sue innovazioni

 

28.4.2011: Chi tradisce la tradizione. La grande disputa

Si infiamma la discussione su come interpretare le novità del Concilio Vaticano II, soprattutto sulla libertà di religione. I tradizionalisti contro Benedetto XVI. Un saggio del filosofo Martin Rhonheimer a sostegno del papa.

 

18.4.2011: I delusi hanno parlato. Il Vaticano risponde

Inos Biffi e Agostino Marchetto replicano su “L’Osservatore Romano” ai tradizionalisti Brunero Gherardini e Roberto de Mattei, che rimproverano all’attuale papa di non aver corretto gli “errori” del Concilio Vaticano II.

 

8.4.2011:I grandi delusi da papa Benedetto

Sono alcuni dei maggiori pensatori tradizionalisti. Avevano scommesso su di lui e ora si sentono traditi. Ultime delusioni: il Cortile dei gentili e l’incontro di Assisi. L’accusa che fanno a Ratzinger è la stessa che fanno al Concilio: aver sostituito la condanna col dialogo

 

 

 

 

 

Vite dei Grandi libri religiosi

 

Una nuova collana di Princeton University Press, “Lives of the great religious books”, è dedicata alle “biografie dei grandi libri” delle tradizioni religiose.

 

I libri hanno una vita: lunga, breve, brevissima, a volte abortita, vittima dei meccanismi del mercato della cultura più che di vizi di nascita. Vi sono poi libri che sono “classici” perché hanno dato forma ad una particolare cultura, portano significati in eccesso e in permanenza, resistono ad ogni interpretazione definitiva, e hanno un valore universale. Ricostruire la “biografia di un libro” è quindi importante per comprendere la cultura che lo ha fecondato, accolto, fatto viaggiare e tradurre, ampliare e rivedere, cambiare pubblico e recezione lungo i decenni e i secoli. Una nuova collana di Princeton University Press, “Lives of the great religious books”, è dedicata alle “biografie dei grandi libri” delle tradizioni religiose.

 

Nel programma della collana vi sono, tra gli altri, le Confessioni di Agostino, la Vulgata, Il libro tibetano dei morti, il Libro di Mormon, I Ching, la Bhagavad Gita.
I risultati del progetto editoriale sono di grande interesse, a giudicare dal volume dedicato a Resistenza e resa di Dietrich Bonhoeffer da uno dei grandi storici della teologia, Martin E. Marty della University of Chicago (Dietrich Bonhoeffer’s “Letters and Papers from Prison”. A Biography, Princenton UP, 288 pp.). Il volume degli scritti dal carcere del pastore luterano Bonhoeffer, condannato a morte dal regime nazista a pochi giorni dalla fine della guerra nella primavera 1945 per aver collaborato all’attentato a Hitler del 1944, è uno dei testi fondamentali della teologia cristiana del Novecento.

 

Non si stenta a riconoscere la necessità di scrivere una storia di Letters and Papers from Prison. Il pastore e amico di Bonhoeffer, Eberhard Bethge, si risolse a raccogliere in un volume quegli scritti scampati alla censura e alle distruzioni della guerra solo nel 1950, quando per non pochi tedeschi Bonhoeffer era un traditore della patria e fin troppo popolare nella comunista Ddr (una diocesi protestante in Germania occidentale arrivò a proibire di intitolare parrocchie al nome di Dietrich Bonhoeffer). Da allora in poi Resistenza e resa ha acquisito valore universale e ha avuto decine di traduzioni in diverse lingue, in edizioni accresciute (l’ultima delle quali pubblicata in tedesco nel 1998).
La parte più interessante di questa “storia dei libri” riguarda le diverse recezioni e letture – teologiche, ideologiche, politiche – a cui ogni grande testo religioso è stato soggetto nella sua vita.
Alcuni dei testi fondamentali per la storia religiosa d’Italia (come Le piaghe della chiesa di Rosmini, Chiesa e Stato di Jemolo, Lettera a una professoressa di don Milani) meriterebbero simili “biografie”.

 

in “Europa” del 28 aprile 2011


Solo uomini nuovi cambieranno i vecchi strumenti

È stato appena pubblicato l’Annale 2010 della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci),

dal titolo Un’economia per l’uomo. Ragioni dell’etica e provocazioni della fede, a cura di Luca Bilardo ed Emanuele Bordello (Roma, Edizioni Studium, 2011, pagine 199, euro 16). Pubblichiamo ampi stralci del contributo del presidente dell’Istituto per le opere di religione.

 


È da quando ho ultimato gli studi universitari, nel 1971, che, alla fine di una crisi economica – e personalmente ne ho viste tante – viene proposta come soluzione l’imposizione di nuove regolamentazioni e di nuovi controlli. La crisi in questo modo diventa ancora più complessa: quando si è in difficoltà e si stabiliscono sistemi di controllo si irrigidisce tutto il sistema. Resta poi una domanda che non trova mai risposta: chi controlla i controllori? Non è lo strumento che fa marciare i processi, ma è l’uomo. Max Weber distinse, in modo opportunistico e machiavellico, l’etica personale della responsabilità dall’etica della convinzione. Secondo il sociologo tedesco vi è quindi un’etica di chi ha la responsabilità di un determinato settore e quella di chi ne è veramente convinto. Come è possibile avere la responsabilità e praticarla, se non si è convinti? Il convincimento, cioè il riferimento a qualcosa di forte, di stabile, di vero, è determinante per poter ottenere risultati. Non esiste l’etica degli strumenti, l’etica del mercato, l’etica del capitalismo: esiste un uomo che dà senso etico ad ogni comportamento.
Le famiglie americane, a causa della crisi, hanno perso circa il 50 per cento dei propri investimenti, percentuale corrispondente al valore del crollo della ricchezza americana. Questo perché negli ultimi venticinque anni è stata gonfiata del 50 per cento tutta l’economia statunitense. Le famiglie hanno avuto il dimezzamento del valore della casa, dei risparmi, del fondo pensione, di fronte ora hanno un futuro fatto di debiti da pagare e di un alto rischio di disoccupazione.
Perché si è dovuto gonfiare per oltre dieci anni il Pil della più grande economia del mondo? La risposta corretta non la si trova di frequente, ma il Papa la fornisce nell’enciclica Caritas in veritate: perché trent’anni fa il sistema del mondo occidentale (Stati Uniti, Canada, Europa e Giappone) ha smesso di fare figli.
Quando si afferma che l’origine della crisi è nell’uso sbagliato di strumenti finanziari, nell’avidità dei banchieri o nella mancanza dei controlli si dicono falsità. Perché l’economia è stata costretta a espandere il credito senza controllarlo? Perché si era inceppata negli anni Ottanta la crescita economica, il Pil dei Paesi occidentali cresceva troppo poco ed era legato alla crescita zero della popolazione. Se la popolazione non cresce, non può crescere l’economia e quindi bisogna accontentarsi. Il mondo occidentale, ricco, avido di cose ed egoista, ha deciso di non accontentarsi e si è quindi inventata la crisi economica.
Benedetto XVI salverà il mondo: lo farà perché sta proponendo un radicale cambiamento culturale per l’uomo. Leggendo l’introduzione alla Caritas in ventate, si coglie come il Papa rimandi al primo comandamento del Decalogo, distinguendo esplicitamente e implicitamente verità e libertà.
Nella cultura dominante la libertà, che dall’Illuminismo si condisce con positivismo, relativismo, fino all’odierno nichilismo, precede la verità. L’uomo deve essere libero di trovare la verità, ma così facendo, non solo non la trova, ma la confonde con la libertà stessa. Benedetto XVI invece ribadisce che occorre cambiare gli uomini, e non gli strumenti. Saranno infatti gli uomini nuovi a cambiare gli strumenti vecchi. La verità precede la libertà e non esiste vera libertà responsabile che non si riferisca ad una verità assoluta. Il Papa distrugge il pensiero nichilista, che porta l’uomo ad essere un animale intelligente, il quale orienta il suo agire solo all’appagamento dei bisogni materiali.
Se l’uomo infatti vivesse solo di questo genere di soddisfazioni oggi dovrebbe esultare, perché le conquiste della scienza e della tecnologia lo hanno portato a livelli mai raggiunti in passato. Se l’uomo è solo figlio del caos o del caso, quale dignità potrà mai pretendere? Quella di vivere il più a lungo possibile, magari senza malattie, ma nulla più. Il Papa può salvare l’uomo, nel senso che gli riapre gli occhi sulla sua reale dignità di Figlio di Dio.
Gli strumenti, in generale, sono tutti neutri. Le grandi iniquità che sono state compiute nel mondo della finanza non sono dovute soltanto a cattive interpretazioni o applicazioni delle regole della finanza. In più occasioni anche i Governi hanno sostenuto l’infrazione di alcune regole. Gli abusi veri ci sono perché si è permesso che ci fossero, non perché mancavano le strutture di controllo. Esistono 23 boards, strutture di regolamentazione dei mercati finanziari, dal Financial stability board fino a quelle più periferiche che riguardano determinate aree geografiche. Un istituto finanziario oggi deve sottoporsi a 23 nuove regolamentazioni immediate con la minaccia di sanzioni fortissime.
Queste regole c’erano anche prima, ma non sono mai state rispettate. È l’uomo infatti che deve crescere da un’etica di responsabilità ad una nella quale crede veramente in quello che compie. Ecco perché oggi si parla di emergenza educativa, perché c’è bisogno di essere formati.
Nel sesto capitolo dalla Caritas in veritate troviamo un passaggio chiave, in modo diverso, ma con lo stesso spirito, già presente nella Sollicitudo rei socialis. Giovanni Paolo II si domandava come può l’uomo tecnologico, che cresce enormemente nella capacità di elaborare tecniche e strumenti sempre più sofisticati, gestire tali conoscenze nell’immaturità che lo caratterizza. Ancora una volta Benedetto XVI mette in guardia l’uomo del nostro tempo dalla deriva etica, la definitiva autonomia morale degli strumenti.

(©L’Osservatore Romano 1° maggio 2011)

Teologi e filosofi contro l’evoluzione

 

 

Le critiche mostrano un concetto inadeguato di azione creatrice, non considerano il tempo come struttura necessaria delle creature e valutano il loro divenire come un dato secondario. Non tengono conto che il fascino della teoria evoluzionista non sta tanto nelle molte prove documentarie accumulate negli ultimi secoli, quanto nella spiegazione che offre di molti fenomeni altrimenti inspiegabili.


 

 

In questa rubrica ho illustrato più volte la prospettiva evolutiva nella convinzione che oggi essa sia necessaria per una corretta formulazione della dottrina cristiana. Siccome non mancano gli oppositori dell’evoluzionismo e alcuni di loro si richiamano alle dottrine di fede, credo sia utile esaminare le argomentazioni con le quali essi negano la solidità della teoria evolutiva e fondano la loro credenza in un Dio creatore che opera in modo perfetto e interviene nei momenti cruciali.
Il 26 febbraio 2009 si è svolto a Roma un convegno a porte chiuse «per offrire un contributo scientifico al dibattito in corso nell’anno darwiniano». L’iniziativa era del Vice presidente del Consiglio Nazionale delle ricerche, lo storico Roberto De Mattei. Il volume che ne rende pubbliche le undici relazioni già nel titolo indica l’orientamento comune degli scienziati, scrittori e filosofi intervenuti: Evoluzionismo: il tramonto di una ipotesi (Cantagalli, Siena 2009).

Non esamino gli argomenti scientifici degli altri interventi. Mi limito alle prime due relazioni che presentano soprattutto riflessioni di tipo filosofico e teologico. De Mattei sostiene che il darwinismo non è «scienza» bensì una «cosmogonia capovolta». Mentre i miti di tutti i popoli considerano «perfetti» gli inizi del cosmo, della vita e della specie umana, gli evoluzionisti pongono «l’archetipo della perfezione non nel passato, ma nel futuro, non nelle sfere celesti, ma nel processo immanente della storia» (p. 30). La cosmogonia evoluzionista, quindi è una «narrazione fantasiosa di un passato, immaginato per sorreggere una radicale avversione ai principi metafisici di trascendenza e di causalità» (p. 30). Anche secondo gli evoluzionisti «nell’impresa scientifica l’onere della prova spetta allo sfidante» (Pievani T., Creazione senza Dio. n. 84). Ora. argomenta De Mattei «la ‘sfida’ di Darwin e dei suoi seguaci alla scienza tradizionale non è mai stata suffragata da prove» (p. 29). Per questo conclude: «il tramonto dell’ipotesi evoluzionista è un processo ormai irreversibile» (p. 30).
Se però si esamina come vengono affrontati i problemi che hanno stimolato la soluzione evoluzionista si resta delusi. De Mattei non dice nulla del disordine presente nei processi naturali, degli sprechi enormi che essi comportano, dei molti vicoli ciechi imboccati dalla vita nella sua diffusione sulla terra, dei suoi rami secchi e improduttivi, del male presente in tutte le fasi dei processi vitali, delle numerosissime catastrofi naturali che hanno fatto scomparire la stragrande maggioranza delle specie viventi, non dice nulla delle immani sofferenze e tragedie della storia. Non offre nessuna spiegazione di come tutto ciò possa attribuirsi a un Dio buono e provvidente. Propone una figura di Creatore senza alcuna spiegazione delle caratteristiche della sua azione. Non esamina nessuna riflessione dei teologi evoluzionisti su questi temi. Egli afferma solo che «le posizioni dei teoevoluzionisti sono confuse» (p. 24 n. 73). Scendendo ad alcuni nomi ricorda che: «antesignano degli evoluzionisti cattolici è il gesuita Vittorio Marcozzi (1908-2005)» e che «oggi si distinguono l’ex-sacerdote Francesco Ayala, il sacerdote paleoantropolgo mons. Fiorenzo Facchini e, in parte, il filosofo della scienza, Don Stanley L. Jaki (1924-2009)» (ib). Non menziona neppure Teilhard de Chardin (1882-1955), e il profondo influsso che egli ha esercitato anche nel mondo laico. De Mattei non sembra neppure ammettere la presenza di eventi «casuali», quelli cioè che non hanno alcuna finalità in ordine alla vita, ma che fanno parte dei processi e sono oltreché imprevedibili anche ineliminabili.
Per lui: «il ‘caso’ diviene la ‘spiegazione’ dell’inspiegabile, ossia dell’assurdo… La scienza diviene storia dove `tutto è permesso’ e dove «non vi sono più leggi divine che assegnino limiti all’esperimento» (Jacob F., La logica dei viventi, Einaudi, Torino 1971, p. 215)» (o. c. p. 27). De Mattei non sembra dare alcun rilievo al principio di indeterminazione dei processi fisici elementari e soprattutto non richiama il valore della libertà che Dio è in grado di suscitare nelle creature.
Molto più coerentemente il filosofo Robert Spaeman ha osservato nel Convegno Cei del dicembre 2009: «Dio agisce tanto attraverso il caso quanto attraverso leggi naturali» (La ragionevolezza della fede in Dio, in Dio oggi, Cantagalli, Siena 2010, p.75). Questa è una caratteristica del creatore: offre contemporaneamente diverse possibilità tra le quali scegliere.
Nello stesso volume Joseph Seitert, Direttore della Accademia internazionale di Filosofia del Liechtenstein, membro della Pontificia Accademia della Vita, propone una riflessione filosofica con alcuni cenni teologici: Riflessioni critiche sull’evoluzionismo come teoria scientifica o pseudscientifica e come ideologia atea (pp. 31-64). Egli presenta tre forme di l’evoluzionismo: atea, teista e limitata.
1.Circa la prima inanella una serie impressionante di affermazioni critiche: «non è una teoria scientifica, ma un’ideologia pseudo-metafisica» (p. 34). «Essendo falsa, non può passare il ‘test di realtà’, nel senso che non soddisfa i criteri propri per la conoscenza oggettiva e inoltre i test empirici contraddicono le sue false affermazioni scientifiche e filosofiche» (p. 35). «Tale evoluzionismo ideologico, materialista ed ateo non è solamente una tesi impossibile, ma realmente stupida, per non dire idiota» (p. 39). «Non esiste assolutamente alcuna prova né alcuna plausibilità che tutte le specie di animali, dalle amebe agli elefanti, si siano sviluppate l’una dall’altra tramite una qualche evoluzione» (p. 39). «Una delle obiezioni filosoficamente più importanti della teoria dell’evoluzione… consiste nella intuizione dell’assoluta irriducibilità della vita alla materia inerte» (p. 50); «l’essenza della vita è irriducibile a sistemi fisici di qualunque tipo» (p. 53). Il passaggio dagli animali all’uomo «per lo meno per quanto riguarda l’anima umana… è realmente impossibile metafisicamente» (ib. p. 38).
«Una promessa o qualsiasi atto libero è necessariamente impossibile, se non assurdo, se tale atto è identico a, o determinato da, un processo materiale o organico, o se è un semplice prodotto causale dello sviluppo evoluzionistico» (p. 56). E «la conoscenza contraddice la possibilità di essere un epifenomeno del cervello o delle sue funzioni» (p. 57).
2.Anche «l’evoluzionismo teista, o ‘deista’ (o cripto-atea essendo panteista)… è insostenibile in virtù del fatto che dimentica le differenze insuperabili tra le sfere e gli ordini di esseri che non potranno mai evolvere l’uno dall’altro: il vivente dal morto, il personale dall’impersonale, lo spirito dalla materia» (p. 40 si riferisce esplicitamente al paleontologo gesuita Pierre Teilhard de Chardin).
Seifert non sembra tenere conto della notevole differenza tra evoluzionismo ateo e teista. Chi crede in Dio ritiene che la perfezione iniziale contiene già tutte le qualità che nel tempo fioriranno nelle creature. Le sue difficoltà non considerano che nella prospettiva teista tutto il processo è alimentato e sostenuto da Dio, perfezione compiuta, per cui non è lo spirito a derivare dalla materia, ma viceversa questa deriva dallo Spirito. Quando le strutture materiali lo consentono il pensiero, la consapevolezza, la libertà possono emergere ed esprimersi perché già presenti alla radice di tutto.
Siefert si chiede: «Per quale motivo mai avrebbe Egli [Dio] usato leggi tanto primitive come `la sopravvivenza del più forte», la `selezione naturale’, ‘l’adattamento’, che in realtà sono del tutto prive di significato, e perché egli avrebbe impiegato un tempo senza fine per permettere a tali assurde cause di produrre il mondo, osservando e aspettando innumerevoli incidenti di percorso in tale processo?» (p. 42). Questo modo di argomentare suppone che le creature (cioè il vuoto o caos iniziale) siano in grado di accogliere la perfezione divina in modo istantaneo. Non tiene conto che l’azione creatrice alimenta il processo del divenire perché le creature non vengono prodotte o fatte, come l’artigiano
modella una statua da materia preesistente, bensì create: esse diventano nel tempo.
3.Della forma limitata di evoluzionismo egli ammette qualche possibilità, ma sempre condizionata dagli interventi puntuali di Dio. «È piuttosto probabile che abbia avuto luogo un qualche processo evolutivo limitato e sviluppo trans-specifico, ad es. dai lupi a certi tipi di cani, ed è certo che le pratiche di allevamento possono condurre a nuove razze canine, le cui caratteristiche sono trasferite alle generazioni successive» (p. 39; cfr p. 41).
In conclusione le critiche mostrano un concetto inadeguato di azione creatrice, non considerano il tempo come struttura necessaria delle creature e valutano il loro divenire come un dato secondario. Non tengono conto che il fascino della teoria evoluzionista non sta tanto nelle molte prove documentarie accumulate negli ultimi secoli, quanto nella spiegazione che offre di molti fenomeni altrimenti inspiegabili. In particolare dà ragione della casualità, del lungo tempo necessario ai processi cosmici e vitali, della distruzione della maggioranza delle specie un tempo viventi, della imperfezione cronica e del male smisurato che accompagna il divenire del creato e la storia umana.

 

in “Rocca” n. 7 del 1 aprile 2011

Albouazizi: La dignità Araba

Quello che sta succedendo nel mondo arabo sta a dimostrare che è terminato un periodo nel quale quasi tutti i paesi arabi hanno convissuto con la paura, con la repressione feroce, con sistemi autoritari, dittatoriali, dispotici, con una componente di corruzione molto evidente, con dei regimi che hanno escluso per anni buona parte della popolazione dalla partecipazione alla vita pubblica.
In conseguenza di tutto questo le manifestazioni di oggi sono caratterizzate da due elementi: da una parte la rivendicazione della libertà e dall’altra parte la richiesta di giustizia sociale e soprattutto di dignità.
Dopo la caduta del muro di Berlino, il mondo arabo è rimasto fuori da qualsiasi dialettica di cambiamento.
Questi giorni dimostrano che il clima di paura è terminato e siamo di fronte all’avvio di un nuovo processo.
Quali saranno le fasi, i traguardi, le interpretazioni della vita pubblica è tutto da vedere, ma intanto queste manifestazioni danno un segnale molto preciso: le popolazioni dei paesi arabi non sono più disposte a sopportare né le condizioni economiche né le condizioni politiche in cui vivevano da anni.
Vorrei utilizzare un’immagine per esplicitare meglio le condizioni in cui si sono trovati questi popoli: quella di un triangolo, che ha funzionato in tutti questi anni come un recinto di repressione e di dispotismo assoluto.
Un triangolo composto, per un lato, dall’ondata di un certo integralismo religioso che era privo di progettualità e chiarezza, di una reale interpretazione dei bisogni e delle esigenze delle popolazioni; per un altro lato dai sistemi di governi secolari, dispostici, familistici e spesso corrotti; come terzo lato, infine, l’ingerenza di potenze straniere che hanno sorretto quei regimi, un appoggio che certamente ha giocato un ruolo determinante nel favorire per lunghi decenni l’operato di combriccole autoritarie e violente.
Le potenze straniere che hanno sostenuto questi regimi spesso sono rimaste in silenzio rispetto alle violazioni di diritti elementari delle popolazioni.
Oggi, tutti questi elementi si trovano in crisi di fronte a quello che è avvenuto, ai movimenti di base che si sono ribellati alla loro condizione.
Sia nel caso egiziano sia in quello tunisino i partiti dell’opposizione ufficiale – un’opposizione spesso meno che decorativa – sono stati scavalcati.
Ma anche la stessa opposizione, quella reale, quella che ha vissuto per decenni in una situazione di repressione quasi totale, è stata a sua volta scavalcata da queste forze popolari che ora stanno rivendicando – pagando anche un alto prezzo – un accesso alla partecipazione politica e un nuovo ruolo dello Stato come garante delle esigenze di larga parte della popolazione.
Quel triangolo su cui si basavano questi regimi è ora in frantumi: sia i regimi, sia gli stessi movimenti integralisti, sia le potenze straniere si trovano in forte difficoltà di fronte agli avvenimenti attuali.
Occorre dire che questi movimenti non nascono dal nulla, come mera sollevazione spontanea per rivendicare il pane.
Stiamo parlando di popoli che hanno una storia millenaria, hanno una coscienza e un senso di sé come tanti altri popoli nel mondo, soprattutto hanno una storia di lotta di liberazione dal giogo del potere colonialista.
In alcuni periodi le popolazioni si sono mosse in termini di rivolta, di ribellioni, anche se, essendo disarmate e senza aiuti esterni, spesso sono state represse nel sangue.
Molti degli attivisti sono stati torturati, incarcerati, esiliati, però attualmnte sembra che la paura e la repressione non siano sufficienti ad arginare questo flusso “rivoluzionario” di rivendicazioni che chiedono la fine di regimi impopolari,  nella corruzione, del marciume, per ottenere giustizia sociale, libertà e dignità, evidenziando una consapevolezza politica molto matura.
Ritengo elementi determinanti la mancanza di libertà e l’insicurezza dei cittadini.
Il sentirsi perseguitati (perfino in casa propria) come persone umane, ha avuto un peso notevole.
Ricordiamoci inoltre che, se negli anni ’60 e ’70 questi Stati hanno avuto un percorso economico che ha garantito una redistribuzione del reddito e la creazione di un minimo di welfare, oggi questo è venuto meno, molte proprietà dello Stato sono state privatizzate, anzi in molti casi accaparrate, “familizzate” dai parenti di chi gestiva il potere, che agli occhi della gente è strapotere assoluto.
In regimi così repressivi non ci sono neppure luoghi dove la gente può ritrovarsi; spesso non ci sono né spazi né riferimenti per le organizzazioni della società civile.
Per questo strumenti come twitter, facebook, cellulari, sms sono diventati sussidi per scambiare informazioni, per far sapere cosa sta accadendo nei vari luoghi, nelle varie situazioni.
Oggi le connessioni sul piano telematico sono fortissime, accorciano le distanze, anche popolazioni lontane dai luoghi del potere sono in grado di connettersi, accedere alle informazioni, acquisire conoscenze.
Da decenni assistiamo anche all’evolversi di una società civile mondiale dove avviene uno scambio di linguaggi, di temi come la giustizia, la libertà.
Negli ultimi decenni questi processi sono divenuti più celeri.
La televisione Al Jazeera, ad esempio, è diventata un luogo virtuale dove le persone possono partecipare, riconoscersi in una serie di contenitori culturali e politici, dove si svolgono continuamente dibattiti su temi sensibili, delicati, in cui vengono presentati punti di vista completamente diversi.
Da metà dicembre AJ è stata censurata nel momento in cui il regime tunisino ha capito la capacità di questa televisione di seguire le rivolte nei diversi luoghi del Paese, il luogo dove i tunisini si informano sui loro accadimenti e sulle manifestazioni di sostegno delle altre popolazioni arabe.
Durante una trasmissione un cittadino tunisino intervistato ha detto che il 70% di quello che è avvenuto, il successo della rivolta è stato reso possibile grazie ad AJ, ma non perché essa la fomentava o la sosteneva, bensì perché documentava, faceva vedere quello che avveniva, mentre la televisione di Stato nascondeva tutto.
Le date del 14 ed 25 gennaio 2011 saranno incise nella profondità dell’immaginario delle genti arabe.
Popolazioni che da lunghi anni sono in attesa di riscatto per scrollarsi di dosso un orribile cumulo di fallimenti e di sconfitte sui tutti piani e specialmente il perpetuarsi delle sofferenze dei palestinesi e la drammatica situazione delI’Iraq.
Questa rivoluzione è nata dal basso, senza alcun sostegno esterno, a differenza delle “rivoluzioni a colori” sostenute da potenze straniere.
Sono manifestazioni non funzionali a nessun progetto di potenza grande, media o piccola, sono manifestazioni di disobbedienza civile, disarmate, quindi non violente e questo confuta il fatto che da anni si va sostenendo in Europa, che la società musulmana si identifica con la violenza.
La seconda quetione è che con queste manifestazioni non ci si muove per questioni religiose, ma per difendere la dignità dei cittadini.
Sono manifestazioni povere, dove si scrivono cartelli a mano, dove le parole d’ordine sono la libertà, la dignità, la democrazia, no al dispotismo (Istibdad), no alla corruzione (Fasad).
La forza di queste manifestazioni è che sono sostenute da esponenti dei ceti medi, dagli operai, dai contadini, dalle donne, dagli uomini, dagli anziani e dai giovani.
Sono movimenti popolari, non particolarmente ideologicizzati.
Questi movimenti non nascono, come si dice in Europa nel gergo politico, perché ci sono delle avanguardie che li guidano.
Le avanguardie, se ci saranno, nasceranno in seguito da questi movimenti.
Non è da trascurare la presenza di realtà politiche con un certo radicamento, perché queste manifestazioni non nascono dal nulla: ci sono state in passato mobilitazioni, rivolte e rivendicazioni che rappresentano dei riferimenti significativi per gli attivisti di oggi.
Oltre alle forze politiche a favore di un radicale cambiamento ci sono gruppi che hanno molti legami con vecchie e nuove potenze coloniali, ci sono personaggi che possono riciclarsi, possono usare un linguaggio liberale, possono fare delle aperture molto moderate, con aggiustamenti di facciata, ma stanno attendendo l’occasione per inserirsi nel gioco e controllarne gli effetti.
Certo le potenze esterne proveranno a trovare delle strategie per impedire, far abortire, stroncare, nel migliore dei casi trovare un  compromesso per aggiustamenti timidamente liberali sul piano politico e sul piano economico.
Ma non credo siano sufficienti per dare risposte alle esigenze di una società dove circa il 60% della popolazione è giovane, con livelli di istruzione e aspettative molto alti, diversi da quelli dei genitori.
Si ha a che fare con una nuova fascia della popolazione molto estesa che si sente totalmente esclusa, per cui gli aggiustamenti marginali non potranno reggere a lungo.
Ci sarà bisogno di riforme radicali sul piano sia politico che economico, perché la gente è stanca di vivere in condizioni inaccettabili e di subire il servilismo come ricetta per accedere a un nuovo progresso.
del 9 febbraio 2011 Adel Jabbar Sociologo e saggista

Il pantheon di Carlo Bo

Il pantheon di Carlo Bo di Gianfranco Ravasi A Milano abitavamo vicino, in due piccole strade a poca distanza dal Duomo: lui in via Maria Teresa, io in via Cardinal Federico, una laterale della Biblioteca Ambrosiana.
Ci incontravamo talora in quel dedalo di viuzze e ci scambiavamo poche parole.
Avevo conosciuto Carlo Bo durante una cena nella casa dello scrittore Luigi Santucci, amico carissimo a entrambi: era stato l’avvio di una conoscenza rarefatta che però aveva una sua intensità, soprattutto attorno a quei temi ecclesiali che avevano sempre appassionato e un po’ anche tormentato il pensiero e la fede del famoso scrittore, studioso e uomo pubblico.
L’ultimo incontro avvenne nella sua casa milanese tutta foderata di libri.
Alcuni amici della scrittrice Lalla Romano, che era allora da poco scomparsa e della quale avevo celebrato i funerali, si erano ritrovati per costituire un’associazione o una fondazione che ne custodisse il lascito culturale.
Bo assisteva e partecipava con quei silenzi “omerici” che erano divenuti quasi una sua sigla e che, quindi, alonavano di rilievo le sue poche parole.
Alla fine volli trattenermi e, da soli, parlammo dei temi che erano stati sollevati durante un’intervista radiofonica che avevo rilasciato quella stessa mattina.
Era il giugno 2001 e poche settimane dopo, il 21 luglio, egli sarebbe morto a Genova (era anche ligure la città della sua nascita avvenuta cent’anni fa, il 25 gennaio 1911, cioè Sestri Levante).
La sostanza di ciò che mi disse allora la ritrovai in un suo dialogo riferito da Sergio Zavoli nel suo Diario di un cronista (Rai-Eri/Mondadori, 2002): «Ho l’impressione che la voce di Dio passi nei nostri cuori e non lasci traccia.
Il consenso senza sofferenza che diamo a Dio è solo un modo, fra tanti, di non rispondergli».
Si intravedeva in quelle parole non solo la sua fede che vibrava degli stessi battiti di quella degli amati Pascal, Bernanos, Péguy, Claudel, Maritain (senza dimenticare Mallarmé e Rivière), ma anche il suo tormento per il passaggio spesso frustrato e frustrante di Dio nelle strutture ecclesiastiche da lui considerate troppo pesanti, opache e resistenti a quella voce.
Eppure egli era rimasto sempre un cattolico tout court, perché — per usare un’espressione del suo e mio amico padre Turoldo — non si inseriva né nel dissenso molto vivace nei decenni conciliari, né nel consenso, prevalente negli anni precedenti e successivi, ma semplicemente nella ricerca di senso.
E in questo sono emblematici i personaggi religiosi del suo ideale pantheon spirituale.
Al primo posto è collocata la figura di uno straordinario parroco di campagna, la cui voce fu così intensa da essere definita da un Papa, Giovanni XXIII, «tromba dello Spirito Santo» nella terra padana: era don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo (Mantova), «obbedientissimo in Cristo» alla sua Chiesa, ma così libero nella sua fedeltà al Vangelo da non esitare a far vibrare la sua parola contro ogni compromesso.
«Noi passeremo — scrive Bo che lo conobbe, lo ascoltò e lo lesse — col rumore dei nostri problemi, con tutti i cartoni dei ridicoli teatri spirituali che abbiamo messo insieme da letterati e don Primo resterà sulla porta della sua parrocchia con le braccia aperte, a ricevere tutti, senza mai chiedere il nome o la nostra piccola odissea».
Seguono i testimoni della carità e della società come Manzoni, Semeria, Orione e Sturzo.
C’è, poi, la teoria dei sacerdoti che seppero intrecciare fede e cultura, una delle sfide che resse l’intera esistenza di Bo, a partire da quella sorta di manifesto che fu il saggio Letteratura come vita, letto al congresso degli scrittori cattolici del 1938: «Rifiutiamo una letteratura come illustrazione di consuetudini e di costumi comuni, aggiogati al tempo, quando sappiamo che è una la strada più completa per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza…
Non esiste un’opposizione fra letteratura e vita.
Per noi sono tutt’e due, e in ugual misura, strumento di ricerca e quindi di verità: mezzi per raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi».
Ecco, allora, don De Luca, don Cesare Angelini, Rebora, lo storico Bedeschi, il mistico Divo Barsotti, il collega all’Università di Urbino Italo Mancini con la «ragnatela delle sue meditazioni» dai molteplici fili teologici, filosofici, sociali, culturali, la cui finestra illuminata nella notte urbinate diventava un simbolo di ricerca della verità.
Ma non sono mancate neanche pagine di forte suggestione dedicate ai papi della sua maturità e degli ultimi anni: dalla lezione d’amore di Giovanni XXIII all’umanesimo cristiano di Paolo VI fino alla «Chiesa di popolo» di Giovanni Paolo II .
In questo «nugolo di testimoni» sacerdotali, per ricorrere a un’espressione biblica (Ebrei 12,1),  raccolti in un unico coro dal volume Don Mazzolari e altri preti (La Locusta, Vicenza 1979), brilla un trittico fiammeggiante.
La prima a venirci incontro è una figura segno di contraddizione, quell’Ernesto Buonaiuti che non volle mai considerarsi ex sacerdote nonostante la censura ecclesiastica abbattutasi su di lui per il suo modernismo, convinto del tradimento che talora la Chiesa storica poteva consumare, ma ancor più convinto che la salvezza avviene proprio nella stessa Chiesa storica.
C’è poi l’amato don Milani, per molti versi simile a don Mazzolari, combattente per la verità naturale e soprannaturale da cristiano e da prete, nonostante «il lungo calvario» impostogli dalle autorità ecclesiastiche.
E, infine, ecco padre Turoldo nel quale la passione si fa parola, la fede poesia e la verità storia.
Sì, perché – sulla scia della concezione di un Teilhard de Chardin letto con entusiasmo appena pubblicato in Francia – Bo è certo che «il cristiano deve bagnarsi nel mare della storia», anche correndo il rischio di infangarsi, «rifiutando quella perniciosa opposizione tra cristianesimo e mondo degli uomini».
Qui si coglie uno dei nodi fondamentali del pensiero spirituale di Carlo Bo e della sua stessa storia personale, quella del dialogo tra fede e cultura, dell’incontro tra il cristiano e l’agnostico che s’interroga, tra il tempio e la strada, nella linea della lezione di Maritain al cui “stile” di pensiero è dedicata un’altra raccolta di saggi (Lo stile di Maritain, La Locusta 1981) nella quale scriveva con amarezza: «Per anni la Chiesa è rimasta immobile e quando finalmente ha sentito il dovere di intervenire, si è accorta di non avere più gli strumenti adatti e si è limitata a ripetere altre voci o ha taciuto».
I rischi in questa operazione di incrocio tra fede e altre visioni dell’essere e dell’esistere non sono mancati, soprattutto quando ci si muoveva in territori borderline, come nel caso del dramma Il Vicario di Rolf Hochhuth che ebbe una veemente e partecipe prefazione alla traduzione italiana firmata proprio da Carlo Bo.
Rimaneva, però, indiscutibile la sincerità della persona e delle sue interrogazioni e soprattutto la consapevolezza della necessità del confronto tra la Chiesa e il mondo.
Alle soglie della morte, in un’intervista, egli confessava che la magna quaestio del XXI secolo sarebbe stata il «ritrovare le ragioni ultime di quei valori che consentono una vita umanamente e umanisticamente motivata, che tenga conto non solo delle cose visibili ma anche e soprattutto di quelle invisibili…
Bisognerà insomma costruire insieme, credenti e no, un’altra civiltà che sappia finalmente ritrovare lo spirito della carità cristiana: cioè saper perdonare e cercare di risolvere problemi epocali, inevitabili e giganteschi, secondo uno spirito di carità».
Agli occhi di Carlo Bo il cristianesimo non era né stinto né estinto, ma aveva ancora in sé tutto il suo lievito di trasformazione della pasta della storia.
in “Il Sole 24 Ore” del 23 gennaio 2011