“Nuove tecnologie, nuove relazioni”

Pubblichiamo ampi stralci della relazione del direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali e sottosegretario della Conferenza episcopale italiana, tenuta presso la Pontificia Università Lateranense nell’ambito del convegno “Nuove tecnologie, nuove relazioni”.
”Quando nel 1854 il commodoro Perry regalò una locomotiva a vapore allo shogun Ieyasu per celebrare l’apertura ufficiale degli scambi commerciali americano-nipponici – racconta Derrick De Kerckhove ne La pelle della cultura lo shogun mandò il suo artista di corte perché riproducesse la locomotiva su un dipinto dato che gli era impossibile andare a vederla di persona.
L’artista giapponese trovò così difficile rappresentare il nuovo oggetto che aggiunse un poscritto per l’imperatore: “Temo di avere fatto molti errori nel mio schizzo”.
Noi tendiamo a trovare sorpassati o buffi questi episodi che avvengono al punto di incrocio di culture diverse, ma non va dimenticato che quando una nuova tecnologia viene introdotta, essa ingaggia una guerra sotterranea con la cultura preesistente”.
L’ammissione dell’artista giapponese sembra fotografare l’incertezza diffusa che si sperimenta di fronte all’incalzante cambiamento che la tecnologia sta producendo sotto i nostri occhi.
Un ritmo che diventa insostenibile per chi proviene da ben altre velocità e che rischia di trasformarsi in un handicap culturale perché impedisce la descrizione esatta di questo oggetto misterioso dalle dimensioni e dalle prospettive indefinite.
Non si riesce a fare senza errori uno schizzo del mondo, ai tempi del web 2.0, perché la realtà della comunicazione sembra sfuggire da ogni lato, quasi che ogni sua rappresentazione sia carente.
L’uscita di sicurezza da questo imbarazzante stato di cose è – come sempre – dissimulare tutto: atteggiandoci a ingenui spettatori o a critici pregiudiziali, apocalittici o integrati.
In entrambi i casi, non dovendo esprimersi in modo circostanziato perché o già d’accordo o solo contrari, si manifesta la sostanziale incapacità di reagire all’altezza delle sfide.
Ma non è questo, a mio parere, il danno più cospicuo.
Quel che è più grave e che sfugge la questione decisiva che è poi sempre la stessa e cioè: ogni cambio tecnologico ha qualcosa di “gattopardesco” nei suoi esiti.
Cambia tutto in effetti, ma per rispondere agli stessi bisogni di sempre dell’uomo.
La guerra che si ingaggia prelude a un modo nuovo di rispondere ai bisogni di sempre.
Questa convinzione, che dà corpo a un atteggiamento né ingenuo né pregiudiziale ma criticamente aperto, mi pare ben interpretata da Benedetto XVI, per il quale le nuove tecnologie rispondono al desiderio fondamentale delle persone di entrare in rapporto le une con le altre.
Questo desiderio di comunicazione e amicizia è per altro radicato nella nostra stessa natura di esseri umani.
Anzi scrive in uno dei passaggi-chiave del suo Messaggio per la xliii giornata mondiale delle comunicazioni sociali: “Il desiderio di connessione e l’istinto di comunicazione, che sono così scontati nella cultura contemporanea, non sono in verità che manifestazioni moderne della fondamentale e costante propensione degli esseri umani ad andare oltre se stessi per entrare in rapporto con gli altri”.
Niente di nuovo sotto il sole? Non propriamente, perché il cambio è epocale; tuttavia potrebbe anche solo trattarsi dell’ennesima trasformazione che cambia la pelle, ma non il cuore che va comunque alla ricerca dei bisogni di sempre.
Una cosa è certa: il dialogo, il rispetto e l’amicizia sono valori assolutamente antichi che oggi chiedono di essere vissuti in forme inedite a motivo dell’ambiente mass-mediale che è stato così radicalmente trasformato.
Per attenuare l’impatto del nuovo che rischia di annullare le nostre capacità di reazione, dobbiamo forse rimuovere anche un diffuso pregiudizio che fa del virtuale l’equivalente di ciò che non è reale.
La ricorrente guerra tra virtuale e reale rischia di inscenare una farsa che allontana dalla vita spicciola della gente, specie dei giovani, in nome di un fatale fraintendimento.
Forse ci può essere di aiuto Pierre Lévy che nei suoi studi – prima ancora dell’esplosione del web 2.0 – nel volume intitolato Il virtuale definisce come segue questa realtà: “La parola virtuale proviene dal latino medievale virtualis, derivato a sua volta, da virtus, forza, potenza.
Nella filosofia scolastica virtuale è ciò che esiste in potenza e non in atto.
Il virtuale tende ad attualizzarsi, senza essere tuttavia passato a una concretizzazione effettiva o formale (…) il virtuale non si contrappone al reale ma all’attuale: virtualità e attualità sono solo due diversi modi di essere”.
Dunque il virtuale – o se si preferisce alludervi mediante la sua controparte tecnica, il digitale – non crea una nuova umanità (o sociologia, o antropologia, o biofisiologia), ma amplifica e potenzia quella esistente.
Ciò significa che approssima le capacità agli obiettivi, e assottiglia il legame che sempre esiste tra possibile e reale: in altri termini, rende approcciabile tutto ciò che confiniamo abitualmente nella sfera del desiderio (usando questo termine come sinonimo di “onirico” e quindi, spesso, di puramente fantastico, evanescente, irraggiungibile e irreale), rende “capaci di ciò che si spera” e, in questo senso, rende la speranza – forse ogni speranza, anche la più ardita e utopica – in un certo senso più solida, più credibile, più vera.
Questa possibilità che è il virtuale spiega pure perché ancora una volta il discorso da intraprendere non sia asettico o puramente tecnologico, ma sempre legato a doppio filo alla libertà e alla responsabilità dell’uomo.
È l’uomo quello che fa la differenza e che decide del passaggio dal virtuale al reale, sta nella scelta di ciascuno rendere possibile questo slittamento.
Per questa ragione – se è lecita una piccola digressione – nel manifesto per la prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (24 maggio) che viene recapitato in questi giorni a tutte e 26.000 le parrocchie italiane si è scelto di mettere al centro un giovane scalatore di fronte a una parete.
Accessoriato come si deve: scarpette e un sacchetto di magnesio per facilitare le mani nude nella presa.
E soprattutto proteso visibilmente nel suo sforzo fisico.
Al di là delle tecniche e degli ausilii tecnici, che sono certo un grosso potenziale, di cui non si potrebbe fare a meno, ciò che conta è la forza di volontà che si trasforma in energia, resistenza, agilità.
E rende possibile la scalata.
Accanto a questa possibilità così intesa c’è pure una possibilità problematica da considerare con realismo.
Non vi è dubbio infatti che le nuove tecnologie informatiche possono deformare, possono causare dipendenza, possono creare effetti di ritorno nel momento in cui – cessato il loro effetto di alterazione – sbalzano il soggetto nel mondo reale e ne lasciano percepire, per contrasto, la durezza e la limitatezza; possono in questo senso indurre distorsioni percettive e perdita del controllo nelle fasi critiche.
Ma al di là di tutte queste possibilità, la domanda valida in tutti i casi esplicativi della relazionalità umana non è se questa cosa sia buona o cattiva, ma se siamo in grado di controllarla o se rischiamo di esserne sopraffatti.
Siamo consapevoli dei suoi effetti collaterali o al pari di un drogato o di un ubriaco ce ne accorgiamo solo a sbornia o a effetto finiti? Come si intuisce resta all’uomo il compito di colmare il divario tra virtuale e reale, trasformando il potenziale tecnologico in una effettiva crescita umana.
Non senza tenere conto, nel caso di internet, la sua estrema versatilità, che “si presta in egual misura a una partecipazione attiva e a un assorbimento passivo in un mondo di stimoli narcisistico e autoreferenziale, sì da poter essere utilizzata per rompere l’isolamento degli individui e dei gruppi oppure per intensificarlo” (Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Etica in internet, 22 febbraio 2002, 7).
Venendo ora nello specifico ai tre grandi valori che Benedetto XVI evoca per declinare l’umano da risvegliare dentro il nuovo contesto massmediale, l’amicizia si impone da subito come una sfida esigente.
La questione si gioca attorno al rapporto tra connettività e riconoscimento dell’identità.
Nessuno può negare che le protesi informatiche fungano da facilitatori dell’amicizia, ma si può anche dire che Msn, Facebook, Linkedin, riconoscano e facciamo realisticamente conoscere tra loro i partner? O sono solo espedienti e catalizzatori di un incontro più accelerato, agevole (in quanto abbattono le barriere comunicative e i preliminari classici della relazionalità) ma non per questo esente da ambiguità? In altre parole: i media offrono amicizia, o solo nuove opportunità di amicizia? Sono ovviamente per la seconda possibilità.
E non solo per realismo, ma per rispetto dei linguaggi che non possono sostituirsi alla libera elezione umana che fa dell’amicizia non una scelta semplicemente indotta, ma una scelta gelosamente personale.
Così è sempre stato e credo che non si possa fare diversamente neanche oggi.
Nel concreto, mentre da un lato la multimedialità è in grado di metterci in comunicazione con tanti volti che altrimenti non avremmo mai incontrato, dandocene una rappresentazione immensamente più efficace di qualunque strumento di comunicazione, dall’altro è proprio l’essenziale – cioè la forza spiazzante – del volto che rischia di essere eliminato o ridotto a inoffensivo spettacolo.
Tornino i volti e non semplicemente le facce, vuol dire confrontarsi con l’altro da sé e non semplicemente con una sua riproduzione addomesticata.
Occorre di conseguenza guardarsi da facili scorciatoie che tendono a esasperare false intimità in relazioni virtuali e rispettare invece i tempi e le forme reali dell’amicizia.
Quello del tempo è obiettivamente un indicatore con cui fare i conti per non essere sopraffatti dalla velocizzazione che toglie al ritmo interpersonale la sua condizione di possibilità.
Se ciò accade non è impossibile allora “promuovere l’amicizia” secondo l’auspicio del Papa.
Infatti nelle tipologie estremamente varie di comunità che nascono in rete, la condivisione più importante è il self sharing.
Al di là degli interessi infatti la motivazione più forte alla base delle relazioni virtuali sembra essere quella di condividere emotivamente i propri vissuti.
Si tratta di un’urgenza accresciuta dall’assenza del corpo, per cui alla fine lo strumento di espressione sono le parole che in rete si trasformano in atti.
Forse per questo, secondo Manuel Castells, internet costituisce un mezzo attraverso cui si va diffondendo un nuovo modello di socialità, la cui nascita è anteriore a quella della rete e va rintracciata nelle trasformazioni che hanno segnato la fine della modernità.
La nuova forma di socializzazione che internet permette di rappresentare è definita dal sociologo spagnolo, trapiantato in America, networked individualism.
Si tratta di un nuovo modello di interazione sociale che ha come cellula minima non più il gruppo, ma l’individuo e che si struttura attraverso la messa in rete di singoli soggetti che sempre meno hanno una comunità tradizionale di riferimento, ma non per questo vivono in maniera isolata.
Il pontificato di Benedetto XVI coincide di fatto con una evoluzione ulteriore del mondo della rete: la sua decisa trasformazione in un network sociale.
Internet non è più un agglomerato di siti web isolati e indipendenti tra loro, ma sempre più un luogo di partecipazione e di condivisione.
Tutta la grande stampa ha enfatizzato l’approccio positivo del Papa nel suo Messaggio, rafforzato anche dall’annuncio del suo “sbarco” su “youtube”.
Probabilmente non ha colto a sufficienza che tra psychè e tèchne, tra reale e virtuale non c’è necessariamente uno scontro, se di mezzo si inserisce la persona umana, cioè quella tensione etica a essere se stessi, senza lasciarsi manipolare.
Sarà per questo che con fiducia Papa Ratzinger si rivolge proprio ai giovani, cui affida il compito di evangelizzare il continente digitale, consapevole che la comunicazione ben fatta è una via per avvicinarsi a Dio, anzi – per dirla con le sue stesse parole: “Un riflesso della nostra partecipazione al comunicativo e unificante amore di Dio, che vuol fare dell’intera umanità un’unica famiglia”.
(©L’Osservatore Romano – 25 aprile 2009)

C’è bisogno di maestri, non di facilitatori

Giorgio Israel, ordinario di matematica alla Sapienza di Roma, intervenendo al IX Forum del Progetto culturale dedicato all’emergenza educativa, ha messo a nudo il ruolo e la figura attuale dell’insegnante nel suo rapporto umano con gli alunni.
Vi è una concezione del ruolo del docente, secondo Israel, che “sembra volerli trasformare sempre più in facilitatori, in animatori culturali, quasi non si avesse più bisogno di maestri, di testimoni della società in cui i giovani stessi si apprestano ad entrare”.
La scuola non sembra essere consapevole del rischio di una visione meccanicistica dell’apprendimento.
L’intervento del prof.
Israel assume maggiore rilievo in considerazione del fatto che egli è coordinatore del gruppo di lavoro costituito con decreto 30 luglio 2008 dal ministro Gelmini per definire requisiti e modalità per la formazione iniziale del personale docente delle istituzioni scolastiche, l’attività procedurale per il suo reclutamento, nonché per definire gli ordinamenti didattici universitari per la formazione degli insegnanti.
Nel documento generale del gruppo, emerge il pensiero del prof.
Israel laddove si afferma che “il futuro insegnante, oltre a possedere sicure e imprescindibili conoscenze delle discipline da insegnare, deve avere l’opportunità di riflettere sulle modalità di trasmissione delle conoscenze e di acquisizione delle competenze e sulle complesse e articolate problematiche della mediazione didattica.
La sua formazione socio-psico-pedagogica deve renderlo capace di orientarsi nelle diverse fasce di età e permettergli di operare al meglio sia nell’ambito dei problemi legati alle relazioni interpersonali a scuola (lavoro di gruppo, rapporti tra studenti, rapporti con le famiglie, ecc.) sia all’individuazione delle modalità educative (motivazioni allo studio, partecipazione, ecc.) adeguate a promuovere il successo didattico”.
tuttoscuola.com

Rappresentazione sociale dell’infanzia in TV

1.
Introduzione Il processo di tutela del minore include le conoscenze, le idee, le credenze socialmente condivise che concorrono alla costruzione di una realtà comune in un insieme sociale (Jodelet, 1992).
Le rappresentazioni sociali, con la duplice funzione di organizzare la percezione del mondo e di servire da codice condiviso per la comunicazione sociale, possono portare spesso alla creazione di un’immagine non reale, distorta, dell’infanzia, anche perché frutto di schemi culturalmente condivisi, lontani, il più delle volte dalla realtà.
La complessità della formazione delle credenze e la profondità delle ragioni sociali della loro organizzazione escludono che se ne possa attribuire l’origine a una sola causa (Chombart de Lauwe, 1989).
Le rappresentazioni sociali sono costruzioni mentali di cui ci serviamo per comprendere gli eventi del mondo: per «ordinare» le esperienze.
Nella nascita di una nuova rappresentazione sociale, di un nuovo oggetto condiviso tra gli attori sociali, quel che assume importanza è il successo cognitivo di un emergente modo di vedere la realtà.
Per misurare il successo cognitivo di una nuova rappresentazione, la modalità più semplice e immediata è la misura della sua diffusione nella collettività: si parla di opinioni quando le rappresentazioni non superano la dimensione della soggettività; di atteggiamenti quando le rappresentazioni vengono assunte come proprie da un gruppo sociale; di stereotipi quando esse giungono alla collettività (Moscovici, 2005).
C’è un equilibrio non definitivo tra stabilità, irrigidimento e cambiamento delle rappresentazioni.
La rappresentazione però è chiaramente visibile solo dall’esterno, in quanto i soggetti che la condividono agiscono all’interno di essa e ne sono «dominati».
Arruda (2003) sostiene che una rappresentazione sociale è costituita da ragione ed emozione; è un processo attraverso il quale si associa la memoria con l’aspirazione ed esprime sia la nostra curiosità che la nostra ambizione; qualcosa in divenire, che si basa sia sul bagaglio culturale, accumulato da chi la produce, che sulle influenze esterne.
Tutti i ricercatori che si sono occupati di questo argomento hanno messo in evidenza che la rappresentazione di qualcosa è anche la rappresentazione di chi le dà vita (Bijmolt, Claasen e Brus, 1998).
Da un punto di vista strettamente metodologico, questo significa che il «costruttore di rappresentazioni» basa la sua costruzione su tutta una serie di simbolismi ed esperienze di vita, che provvedono alla creazione della sua interpretazione del mondo (Brucks, Armstrong e Goldberg, 1988; Buijzen e Valkenburg, 2003).
La condivisione che alimenta la rappresentazione sociale è causa ed effetto sia della sua vitalità che del suo cambiamento.
Il passaggio del nuovo oggetto «rappresentato» attraverso i singoli soggetti è fonte infatti di trasformazioni che infinitamente piccole all’inizio del processo, cresceranno attraverso i molteplici legami sociali con esiti mano a mano di coesistenza di barriere e limitazioni che insieme vanno a costruire un nuovo equilibrio (Moscovici e Farr, 1984).
L’ipotesi che le rappresentazioni sociali siano presenti nei mezzi di comunicazione di massa è condivisa da molti studiosi.
Sembra che in televisione si proponga una sorta di simulazione delle interazioni socialmente fondate presenti nella vita quotidiana.
È come se si vivesse in un ambiente in cui i soggetti scelti (casalinghe, bambini ecc.), si facciano di volta in volta sostenitori di credenze al posto degli spettatori, facendosi portatori delle rappresentazioni sociali moderne (Buijzen e Valkenburg, 2000; D’Alessio e Laghi, 2006).
Lo sforzo dei media è quello di agire come se fosse possibile farsi capire da tutti allo stesso modo (D’Alessio, Laghi e Froio, 2007).
Di fatto quel che succede all’interno dei programmi televisivi, non è altro che il tentativo di alimentare un serbatoio di senso comune in cui si propongono di volta in volta modelli «giovanili», «familiari», «infantili», «femminili» e così via: rappresentazioni a loro volta condivise o meglio, condivisibili (Atoum e Al-Simadi, 2000).
Lo slittamento tra condiviso e condivisibile è lo spazio che, privo dell’esperienza personale, della luce dei valori sociali, realizza spesso il più famoso «salto nel buio».
Quei modelli si cristallizzano come null’altro che luoghi comuni, perché si trovano rappresentati in un contesto in cui sono privi di esperienza «reale» e sono presentati in un’esperienza «mediatica» che non è oggettiva, e, al contrario, produce un argomento di uso corrente e per questo, dozzinale.
I bambini, spesso considerati poco competenti, o addirittura «adultizzati», non vengono quasi mai considerati spettatori da tutelare, essendo inseriti nella categoria “pubblico” (D’Alessio, 1990; Miljeteig, 1994).
Le ricerche svolte (D’Alessio, 2003; D’Alessio, Baiocco e Laghi, 2007) mettono in evidenza, inoltre, due atteggiamenti fondamentali dei telespettatori: 1) insoddisfazione e scetticismo sulla qualità dei programmi televisivi; 2) incapacità a riconoscere gli atteggiamenti e i comportamenti a rischio per l’infanzia all’interno dei programmi.
Anche genitori consapevoli, iscritti ad associazioni di telespettatori, hanno difficoltà a riconoscere l’ammiccamento sessuale, la volgarità, la rozzezza, la manipolazione dell’infanzia.
Nessuna trasmissione, in particolare quelle che contengono bambini, annuncia un intento di manipolazione, disconferma, frustrazione e mancanza di rispetto (Buckingham, 1997).
Così il telespettatore non potendo tornare indietro, rivedere, confrontare ed esaminare va avanti con la visione ricevendo alla fine al massimo un sentimento di frustrazione e di disagio.
Questi sentimenti sono difficili da elaborare perché richiedono un costante distacco da quanto è trasmesso.
Il più delle volte il telespettatore è spinto dalle caratteristiche del mezzo a partecipare.
L’interazione di questi fattori può portare spesso, nello specifico, a una immagine del bambino determinata da stereotipi, credenze e opinioni anche fortemente in contrasto tra loro.
Può accadere che i bambini siano giudicati poco competenti (Qvortrup, 1990; Archard, 1993; D’Alessio, Laghi e Baiocco, 2007), piccoli e tuttavia messi in situazioni ambigue e difficili da interpretare e gestire.
Inoltre, tali convinzioni non sono costruite su base oggettiva, ma ideologica: la rappresentazione sociale dell’infanzia è in buona parte frutto di schemi culturalmente condivisi, spesso lontani dall’effettiva realtà, risultato di processi culturali, sociali e economici che hanno dato origine a modelli di allevamento del bambino che si sono alternati e sovrapposti nel corso della storia dell’umanità (Casas, 1997).
Tali schemi sono poco sensibili all’esperienza, ma spesso a essa precedenti (pregiudizi).
Anche la legge e i codici non aiutano il monitoraggio televisivo.
È vero che essi lo prevedono ma sulla base di segnalazioni: le autorità interpretano il loro ruolo come arbitri delle segnalazioni che il telespettatore dovrebbe far notare.
1.1.
Obiettivi della ricerca La ricerca ha l’obiettivo di esplorare le rappresentazioni sociali di avvocati, giudici, genitori, ecclesiastici e insegnanti in relazione alla tutela del minore rispetto alla programmazione televisiva e agli spot pubblicitari.
Sono state scelte categorie di soggetti in cui l’elaborazione della “norma” non è un caso, ma piuttosto l’obiettivo della professione: gli avvocati e i giudici, rappresentativi di come i soggetti si rapportano con la “norma giuridica”; gli ecclesiastici con la “norma ideologica” e i genitori e gli insegnanti con la “norma socio-educativa”.
L’obiettivo principale della presente ricerca è indagare le rappresentazioni sociali di categorie di soggetti che si trovano ad elaborare una linea di condotta che collega il modello ideale dell’ infanzia con i comportamenti e le esperienze quotidiane e verificare come essi risolvano il problema della norma e della rappresentazione individuale in termini di concordanza/discordanza tra norma reale e ideale.
Ci proponiamo, inoltre, di verificare se avvocati, giudici ed ecclesiastici con differenti anni di servizio e con un diverso livello di competenza riguardo al Codice di autoregolamentazione Tv e minori (2002) e alla recente Legge Gasparri (2004) abbiano una rappresentazione condivisa della televisione e dei modelli cognitivi e affettivi proposti.
2.
Metodo e tecniche 2.1.
Soggetti e procedura La ricerca è stata condotta su un campione totale di 614 soggetti: 214 avvocati (M=124 e F=90), 100 giudici (M=70 e F=30), 100 ecclesiastici (M=60 e F=40) impegnati in attività di catechesi per bambini, 100 genitori (M=45 e F=55) con figli di età compresa tra gli otto e i dieci anni e 100 insegnanti di scuola elementare (M=25 e F=75), con un’età media di 35,6 (ds=0.84).
A tutti i soggetti è stata somministrato il questionario La TV e l’infanzia; la durata media di ogni somministrazione è stata di 35 minuti.
2.2.
Descrizione dello strumento Lo strumento di indagine, La TV e l’infanzia (D’Alessio e Laghi, 2006), è un questionario costituito da: A.
21 item con scala Likert a 5 passi (da1= Per nulla a 5= Moltissimo) che misurano: a) la valutazione dell’utilità o del danno per i bambini che partecipano alle trasmissioni e per quelli che guardano la TV a casa; b) la rappresentazione sociale del bambino protagonista o destinatario delle trasmissioni; c) la presenza di contenuti espliciti (sesso, violenza, volgarità) nella fascia oraria protetta di programmazione televisiva; d) la rappresentazione e la complessità dei sentimenti infantili e delle competenze cognitive infantili in relazione agli spot pubblicitari; B.
due stralci in versione cartacea di programmi televisivi per bambini: “Genius”, condotto da Mike Buongiorno, e “Chi ha incastrato Peter Pan” condotto da Paolo Bonolis; C.
8 domande aperte che consentono di valutare: a) la capacità del soggetto di riconoscere le dimensioni stereotipiche all’interno dei programmi presentati; b) la capacità di individuare la presenza di contenuti televisivi nocivi per i bambini; c) la consapevolezza e il grado di conoscenza del Codice di autoregolamentazione in materia di tutela del minore e della sua immagine.
2.3.
Metodologia statistica utilizzata Le elaborazioni statistiche effettuate sono state eseguite con il pacchetto statistico SPSS 11.0 per Windows, calcolando i parametri di statistica descrittiva Curtosi e Asimmetria e il Coefficiente di Variazione per verificare il carattere gaussiano della distribuzione dei dati.
La struttura fattoriale della prima sezione del questionario (item 1-21) è stata indagata mediante l’Analisi delle Componenti Principali (ACP) e la rotazione Oblimin degli assi fattoriali.
L’attendibilità delle dimensioni emerse dall’ACP è stata verificata mediante il coefficiente Alfa di Cronbach.
Per verificare la presenza di differenze statisticamente significative ai punteggi medi delle diverse dimensioni della scala, è stata condotta un’Analisi della Varianza Multivariata (con metodo Wilks di Lambda) considerando come variabile indipendente il gruppo (avvocati, giudici, ecclesiastici, insegnanti e genitori) e come variabili dipendenti i punteggi alle singole sottodimensioni della scala.
Per verificare la presenza di differenze statisticamente significative tra i giudici e avvocati con diversa anzianità di servizio e livello di competenza ai punteggi medi delle diverse dimensioni della scala, è stato computato un disegno di analisi della varianza fattoriale 2x3x2.
Le risposte alle domande aperte sono state indagate mediante il programma NUDIST VIVO; sono state individuate in ogni singolo item delle unità di analisi definibili come simboli-chiave caratterizzati da pregnanza semantica e in seguito sono state calcolate le frequenze differenziate per categoria (avvocati, giudici, genitori e insegnanti).
Dopo aver individuato le categorie è stata verificata la concordanza tra giudici con la statistica Kappa, utilizzata per valutare l’accordo tra siglatori con variabili categoriali.
Tale statistica è stata applicata alle assegnazioni fatte da tre valutatori al fine di individuare l’eventuale accordo o disaccordo nell’attribuire ogni aspetto caratteristico a una determinata categoria oppure no.
Per verificare le differenze tra i gruppi rispetto alle variabili categoriali emerse dall’analisi del contenuto sono state computate analisi del Chi2.
3.
Risultati 3.1.
Analisi delle Componenti Principali La matrice di correlazione relativa ai primi 21 quesiti del questionario è stata sottoposta ad analisi fattoriale mediante l’Analisi delle Componenti Principali (ACP) al fine di individuare eventuali dimensioni latenti.
La misura dell’adeguatezza (indice di Kaiser) della matrice di correlazione è .86; la matrice può quindi ritenersi appropriata per l’analisi fattoriale.
Successivamente all’analisi dello scree test e a considerazioni di natura teorica, è stato deciso di estrarre cinque fattori che spiegano il 59,44 % della varianza totale.
Numerose prove con diversi algoritmi di estrazione e rotazione, hanno evidenziato una struttura fattoriale stabile; poiché alcuni fattori estratti mostrano tra loro una correlazione si è deciso di applicare la rotazione obliqua Oblimin.
La struttura fattoriale evidenziata coincide con la definizione operativa che si è fornita per le dimensioni indagate: gli item afferenti a ognuna delle cinque dimensioni hanno infatti (nella maggioranza dei casi) una saturazione elevata su un unico fattore e saturazioni vicino allo zero sugli altri fattori (Tab.
1).
per la consultazione dei dati vedi allegato La rappresentazione sociale dell’infanzia in TVi risultati della ricerca Lo studio indaga le rappresentazioni sociali dell’infanzia in TV.
La ricerca si è svolta su un campione di 614 soggetti (214 avvocati, 100 giudici, 100 ecclesiastici, 100 insegnanti e 100 genitori).
Metodo: lo strumento utilizzato indaga la rappresentazione sociale del bambino protagonista o destinatario delle trasmissioni e degli spot pubblicitari.
Risultati: sono state riscontrate differenze statisticamente significative tra i gruppi ai punteggi medi delle dimensioni Carattere educativo dei programmi, Contenuto degli spot inadatti ai bambini, Accordo sulla presenza dei bambini negli spot.
Sono emerse differenze anche tra avvocati e giudici differenziati in base al livello di competenza e all’anzianità di servizio.
Conclusioni: i risultati emersi suggeriscono la necessità di approfondire la relazione tra le diverse variabili implicate nella rappresentazione sociale dell’infanzia nei programmi televisivi e negli spot pubblicitari.

Il disegno complessivo del Governo e del Ministro Gelmini

Credo che l’editoriale di questo numero di OP sia quasi scontato e che si debba concentrare sui cosiddetti «decreti Gelmini».
Sarebbe, però, riduttivo limitarsi solo a queste misure che, tra l’altro, non sono una riforma ma solo una razionalizzazione dell’esistente, promossa peraltro anche dall’intero governo di cui il ministro Gelmini fa parte; pertanto, farò riferimento a tutto il disegno complessivo del Governo e del Ministro, stando anche a quello che emerge dalle sue dichiarazioni programmatiche del 10 giugno del 2008.
Trattandosi di un editoriale mi concentrerò sulle problema-tiche essenziali, rimanendo nei limiti dello spazio a esso concesso nella nostra rivista.
Nel suo intervento programmatico, il Ministro correttamente richiamava tutti a superare vi-sioni ideologiche contrapposte, a lasciare lo scontro politico fuori della scuola, ad adottare soluzioni condivise.
Al contrario ci si dovrebbe far guidare dal pragmatismo e puntare sulla buona ammini-strazione e sul buon governo.
L’invito a una politica della scuola «bipartisan» e al buon senso è senz’alto giusto perché è in gioco il futuro della nostra gioventù, la risorsa più importante del Paese; sfortunatamente il Ministro sembra averlo dimenticato appena qualche mese dopo, proprio in occa-sione dell’approvazione delle misure estive sulla scuola, anche se non si può ignorare che l’opposizione non è stata da meno e ha preferito il muro contro muro.
Un clima più “bipartisan” si è creato nell’iter di approvazione delle misure sull’università, anche se è intervenuto dopo un periodo di grandi manifestazioni di piazza e di violenta contestazione: in questo caso diversi emendamenti dell’opposizione sono stati accolti, sebbene il suo voto finale sia stato negativo perché il provvedi-mento è stato giudicato manchevole e minimale, mentre la Conferenza dei Rettori, Crui, ne ha ap-prezzato gli elementi di positività.
Sul merito del testo ricordo le disposizioni volte a colpire la fi-nanza allegra di università che spendono troppo e male, ma anche a premiare le università virtuose, quelle mirate a colpire i «baroni» che non producono lavori scientifici e quelle finalizzate ad aiutare gli studenti veramente meritevoli con borse di studio e alloggi più numerosi..
A parere della Gelmini – e non lo si può contestare – il sistema educativo di istruzione e di formazione si presenta mediocre nei risultati, un sistema in cui sembra tramontata la cultura del me-rito e che ha assunto sotto molto aspetti le caratteristiche di ammortizzatore sociale.
Due logiche perverse hanno alimentato questa situazione: per favorire gli studenti si è ritenuto opportuno abbas-sare il livello della qualità dei processi di apprendimento-insegnamento e si è creduto che una mag-giore sicurezza potesse consentire di pagare poco i docenti e potesse compensare lo scadimento del loro ruolo e dello loro status senza tenere presente che uno Stato che retribuisce malamente i suoi insegnanti, non può esigere molto da loro in termini di qualità dell’educazione offerta.
Come il Ministro ha affermato nelle dichiarazioni programmatiche, queste derive pericolose vanno ribaltate, puntando alla rivalutazione delle funzioni degli insegnanti, a iniziare dal completo riconoscimento della loro condizione professionale.
Questo tra l’altro richiede l’identificazione di nuove risorse attraverso uno sforzo di riqualificazione della spesa pubblica che, non bisogna dimen-ticarlo, si pone in un contesto di gravi difficoltà economiche e finanziarie.
Inevitabilmente il Ministro ha collegato i suoi interventi al piano triennale di contenimento delle spese promosso dal suo governo.
Non si può neppure ignorare che il rapporto insegnan-ti/alunni che si riscontra in Italia è uno dei più bassi in Europa, cioè è evidente l’eccedenza di do-centi rispetto al corpo studentesco: pertanto, dal punto di vista del Ministro la riduzione degli inse-gnanti deve essere considerata come un allineamento del rapporto docenti/studenti alle medie euro-pee in modo da salvare risorse da impiegare al servizio di una più elevata qualità educativa; al con-trario, dagli oppositori tale intervento è visto come una grave riduzione del corpo insegnante con pericolo per l’efficacia dell’azione della scuola.
Tuttavia l’entità della razionalizzazione della rete scolastica e del ridimensionamento del numero dei docenti, l’aver previsto il reinvestimento nell’istruzione solo di un 30% dei risparmi e non di tutto il risparmio e il non aver chiarito le finalità in positivo dei tagli hanno scatenato le contestazioni dei sindacati e della piazza.
Un’altra delle misure che ha trovato molta opposizione riguarda il ritorno alla figura del ma-estro unico nelle primarie, anche se sarà affiancato dai docenti di inglese e di religione.
Gli opposi-tori hanno fatto notare che nel contesto della crescita enorme del sapere una figura unica di docente sembra un vero impoverimento; inoltre, essendo le elementari italiane l’unico ordine e grado di scuole riconosciuto valido anche a livello internazionale, pare del tutto illogico abbandonare il si-stema di una pluralità di docenti, che sembra aver dato buoni risultati negli ultimi diciotto anni.
Per il Ministro, al contrario, il suo provvedimento favorirebbe l’unitarietà dell’insegnamento e le rela-zioni tra scuola e famiglia in quanto sia l’alunno sia la famiglia sentirebbero il bisogno di una figura unica di riferimento con cui instaurare un rapporto continuo e diretto.
A essere completi va pure precisato che l’attivazione di classi affidate a un unico docente e funzionanti per un orario di 24 ore settimanali non è la sola opzione organizzativa possibile, ma rimangono percorribili anche quella delle 27 ore con esclusione però delle attività opzionali facoltative, e quella delle 30 ore comprensi-va dell’orario opzionale facoltativo.
Probabilmente la questione «maestro unico o pluralità di mae-stri» poteva essere risolta facendo perno sull’autonomia delle scuole e stabilendo solo degli stan-dard minimi e massimi.
Le intenzioni del Ministro sono condivisibili quando si tratta di rafforzare la gestione delle scuole, di attribuire loro poteri, competenze e risorse adeguate e fare dell’autonomia il perno del si-stema di valutazione.
A sua volta, questa rinvia a una valutazione che attesti in maniera trasparente i modi in cui vengono utilizzate le risorse economiche di tutti e gli obiettivi che sono raggiunti.
La valutazione richiede la responsabilizzazione dell’istituto e dei vari attori: altrimenti i risultati non possono essere attribuiti in bene o in male a persone e a gruppi.
Come si sa, i «decreti Gelmini» hanno ripristinato la valutazione del comportamento com-plessivo tenuto durante l’anno scolastico da parte dello studente.
Tale disposizione potrebbe contri-buire a superare la logica della separazione tra l’aspetto conoscitivo e la complessiva maturazione della personalità.
Ma occorrerà pensare e trattare la cosa nella intrinseca connessione degli aspetti, magari nella linea di una teoria dell’apprendimento che coniuga in maniera valida ed efficace cono-scenza e azione, comportamenti e atteggiamenti, individualità e socialità, personalizzazione e colla-borazione; e in un quadro di scuola-comunità democratica dell’apprendimento, qual è prefigurata nello Statuto degli studenti.
Il medesimo provvedimento ha reintrodotto i voti numerici espressi in decimi.
In questo caso molto dipenderà dall’equilibrio che verrà raggiunto tra questo strumento di valutazione e il giudizio analitico sul livello globale di maturazione dell’alunno.
I dati mettono in evidenza che la mobilità sociale in Italia è limitata e che la scuola tende a svolgere una funzione riproduttiva delle diseguaglianze piuttosto che di lotta alle disparità sociali.
Una prima strategia per affrontare questo nodo problematico consiste nell’assicurare a tutti gli stu-denti i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali in tema di istruzione e di formazione.
Nella società della conoscenza questo non può che consistere nella elevazione della preparazione di base a livello di diritto-dovere di istruzione e di formazione e di obbligo di istruzio-ne; al tempo stesso è necessario evitare lo spezzettamento dei saperi.
Un’altra strategia fa capo alla personalizzazione del processo di insegnamento-apprendimento.
Quanto al nodo del secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e di formazione, la fi-nalità pienamente condivisibile del Ministro è di elevare tutta l’offerta alla «serie A».
Il dibattito tanto accesso sulla scelta precoce a 14 anni tra secondaria di 2° grado da una parte e istruzione e formazione professionale dall’altra dovrebbe evitare le contrapposizioni ideologiche e misurarsi in maniera convergente con la sfida di elaborare percorsi capaci di aiutare tutti gli studenti a trovare la strada più adeguata.
La soluzione del Ministro è di dare a ogni allievo la sua scuola in modo che ogni persona trovi nella sua scuola le ragioni per frequentarla con profitto perché l’indifferenziazione dei percorsi è la strada più sicura verso gli abbandoni e le ripetenze.
Tale orientamento del Ministro ha trovato da subito un’attuazione importante.
Uno dei suoi primi interventi è consistito nella conferma della presenza di un canale di istruzione e formazione professionale nel nuovo obbligo di istruzione elevato di due anni (fino cioè a 16).
Il problema è che a oggi non ci sono nella Legge Finanziaria le cifre necessarie per realizzare questa misura del tutto positiva.
Riguardo alla libertà di scelta educativa, il Ministro parte correttamente dalla legge n.
60/00 e richiama la novità fondamentale di una normativa che ha sancito il principio di un sistema nazio-nale di istruzione del quale sono parte integrante scuola statale e non statale e in cui le paritarie svolgono un servizio pubblico.
Da questi principi scaturiscono però solo degli impegni piuttosto vaghi e, anche se all’ultimo momento è stata evitata (ma mentre scrivo, non del tutto) l’illogicità della legge finanziaria per il 2009 che prevedeva tagli per 133,4 milioni di euro, pari al 25% in me-no rispetto al 2008 (534 milioni rispetto agli oltre 6 miliardi che le paritarie fanno risparmiare allo Stato con le loro scuole), tuttavia non si sono volute aumentare le risorse ferme ai livelli del 2000; inoltre, per i comportamenti negativi non solo del centro-destra, ma anche del centro-sinistra, si è trasformato un obbligo di finanziamento strutturale come quello previsto dalla 60/00 in una benevo-la concessione del governo di turno.
Guglielmo Malizia

Il vissuto dei ragazzini dai sette anni in poi sul web,

A raccontare i bambini nella rete, è un’indagine di Eurispes e Telefono Azzurro che verrà presentata oggi in occasione del Safer Day, la giornata per la sicurezza di Internet quest’anno dedicata ai social network.
Dati che illustrano il mondo vissuto dai ragazzini dai sette anni in poi sul web, con l’aiuto di esperti tra i quali Google, Microsoft, Facebook, E-bay.  Nel dettaglio i numeri spiegano che  il 33 % dei bambini tra i 7 e gli 11 anni che a casa hanno un computer parlano con gli amici via rete.
Il 24 partecipa a giochi di ruolo sul web, mentre il 56 fa videogiochi, il 49 scarica musica, film, video, il 22 legge dei blog e il 45 cerca nei vari siti materiale utile allo studio e il 78% guarda abitualmente Youtube.
A sette anni chattano in rete con amici e sconosciuti.
Non hanno ancora finito le elementari, eppure 33 bambini su cento già frequentano abitualmente Facebook, le communities e i blog.
Usano il web per giochi di ruolo, per minacciare coetanei come dei veri cyber bulli, pronti ad insultare, impaurire, escludere usando la rete.
Amicizie e incontri, violenze e soprusi corrono ormai più su internet che sul marciapiede sotto casa o ai giardini del quartiere.
Scontri e dissidi decisi con un semplice clic e passa la paura del confronto.
Perché a volte è più facile parlare e dichiararsi, deridere, accusare a chilometri di distanza, nascosti davanti ad un video che affrontare il “rivale” in carne e ossa.
Tra giochi casalinghi e sfide a portata di mouse, i giovanissimi vivono sempre di più in un mondo a parte dai genitori.
A raccontare i bambini nella rete, è un’indagine di Eurispes e Telefono Azzurro che verrà presentata oggi in occasione del Safer Day, la giornata per la sicurezza di Internet quest’anno dedicata ai social network.
Dati che illustrano il mondo vissuto dai ragazzini dai sette anni in poi sul web, con l’aiuto di esperti tra i quali Google, Microsoft, Facebook, E-bay.
E confrontando i numeri raccolti negli ultimi anni è impressionante come cresca vertiginosamente, l’universo di bambini e adolescenti che vive la sua vita di relazione soprattutto attraverso la rete.
Nel dettaglio i numeri spiegano che se nel 2005 era solo il 13 % dei bambini tra i 7 e gli 11 anni che comunicava tramite chat, ora è il 33 % di quelli che a casa hanno un computer a parlare con gli amici via rete.
Il 24 partecipa a giochi di ruolo sul web, mentre il 56 fa videogiochi, il 49 scarica musica, film, video, il 22 legge dei blog e il 45 cerca nei vari siti materiale utile allo studio e il 78% guarda abitualmente Youtube.
Non solo vita di relazione virtuale trascorsa sullo schermo tra emoticon e fotografie, ma anche piccole e grandi vendette, gelosie, ripicche e minacce su consumano tramite il computer per gli adolescenti dai 12 ai 19 anni.
Il 13,2 per cento infatti ammette di aver diffuso su internet false informazioni su coetanei, mentre l’11% ha molestano, infastidito, minacciato altri adolescenti usando il web.
E tornano alla memoria le tante le storie di questi mesi che raccontano di ragazzine ricattate da ex fidanzati pronti a mettere in rete, alla portata di tutti come una gogna mediatica, le loro foto ingenuamente osée scattate col telefonino quando le amavano ancora.
Mentre il 5 % racconta di aver diffuso messaggi foto e video minacciosi e quasi l’11 % ha utilizzato la rete per escludere volontariamente una persona dal gruppo.
E se usano Facebook soprattutto per contattare vecchi amici, e non tanto per trovarne di nuovi, gli adolescenti che subiscono molestie in rete sembrano capaci di gestirle.
Il 7,7 % ha detto di aver incrociato sul web dei molestatori ma di aver chiuso la faccenda troncando ogni rapporto, evitando di rispondere, 45%, evitando quella chat (13%) o semplicemente invitando il molestatore a non dare più fastidio.
Solo il 3% ne ha parlato con un adulto.
(10 febbraio 2009)

Giovani ed internet

L’aumentato utilizzo dei social network come Facebook porterebbe con sé molte opportunità di contatto tra i ragazzi, aiutati a superare le timidezze a coltivare i propri interessi insieme agli altri.
Il tempo dedicato a fare ricerche è però sempre meno.
E sale il rischio adescamento: dal 1998 ad oggi in Italia sono stati chiusi per pedofilia 177 siti.
Il Moige lancia una campagna informativa: esperti del movimento entreranno in 50 scuole per incontrare studenti, genitori e docenti.
Sembra ridursi sempre più il tempo che i giovani dedicano ad internet per realizzare ricerche o per trovare informazioni di supporto allo studio.
In calo sarebbe anche la recente abitudine intrapresa dai ragazzi di scaricare dal web file musicali o multimediali di ogni genere.
Sale invece l’utilizzo della rete per comunicare con gli altri o per fare nuove amicizie: un fenomeno che spiega il boom dei social network come Facebook, il luogo virtuale per eccellenza dove si possono facilmente conoscere nuovi amici, ma anche chiacchiere in chat, scambiarsi confidenze, raccontare la propria vita quotidiana a tutti, otre che inserire le proprie foto.
La moda del suo utilizzo starebbe però anche ampliando le possibilità di adescamento dei minori su internet: una triste escalation di ragazzi caduti in trappole tese da individui spietati che spesso celano la loro vera identità e i loro scopi per “colpire” al momento opportuno.
I dati provengono da un’indagine condotta da Swg per il Movimento italiano genitori (Moige).
In base allo studio risulta che l’utilizzo della rete porterebbe con sé molte opportunità di contatto tra i ragazzi, aiutati a superare le timidezze a coltivare i propri interessi insieme agli altri, ma anche diversi pericoli, primo fra tutti quello dell’adescamento dei pedofili.
Per mettere in guardia ragazzi e genitori, aiutandoli a riconoscere i pericoli e a utilizzare gli strumenti di sicurezza, il Moige lancia una campagna di informazione, che ha preso il via a fine gennaio per coinvolgere 50 scuole medie inferiori in due anni: 28 nel 2009 e le altre nel 2010.
Gli esperti del movimento dei genitori entreranno nelle aule insieme agli agenti della polizia postale nelle ore di lezione, mentre al pomeriggio incontreranno genitori e docenti, che spiegare loro come utilizzare gli strumenti di controllo per la verifica e la limitazione della navigazione.
Sei genitori su dieci, infatti, secondo la ricerca, non adottano alcun sistema di controllo sul computer, nonostante il fatto di essere preoccupati: l’83% dei 600 genitori con figli compresi tra gli 11 e i 15 anni che hanno partecipato all’indagine, ammette di avere il timore di pedofili o di un uso pericoloso di internet da parte dei propri figli.
“L’avvento dei nuovi social network con Facebook e My Space potrebbe incrementare il rischio di adescamento per i nostri ragazzi”, spiega Diego Busi, direttore della divisione investigativa della polizia postale.
“La nostra campagna – sottolinea Maria Rita Munizzi, presidente del Moige – nasce proprio per questo motivo: noi adulti, genitori e insegnanti, non possiamo più permetterci di restare nell’ignoranza ma dobbiamo iniziare a conoscere internet e gli strumenti a nostra disposizione per proteggere i ragazzi, insegnare loro a utilizzarlo e assicurare loro una navigazione sicura”.
Malgrado si operi in un ambito virtuale, i pericoli sono più che reali: secondo la polizia postale dal 1998 ad oggi in Italia sono stati chiusi per pedofilia 177 siti internet.
E poco meno di altri 11mila siti internet pedofili, scoperti durante l’attività investigativa, sono stati poi segnalati dagli agenti italiani alle forze di polizia di altri Paesi.
Negli ultimi dieci anni, grazie al lavoro di controllo, sono scattati 238 arresti e 4.465 denunce.
In tutto la polizia postale italiana ha controllato oltre 293mila siti internet.
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