‘Italiano e Religione cattolica fanno identità e integrazione’

La scuola “ha sempre di più il compito di assolvere ad una funzione di integrazione, per questo stiamo puntando su insegnamento della lingua italiana ai bambini stranieri e sull’educazione alla cittadinanza”.
Lo afferma il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, intervenendo alla presentazione del rapporto curato dal comitato per il progetto culturale della Conferenza episcopale italiana, presieduto dal cardinale Camillo Ruini.
Ma la scuola “rappresenta anche un luogo in cui si difende l’identità del Paese”, continua Gelmini, “da qui deriva la mia difesa dell’ora di religione e della presenza del crocefisso”.
E si deve “difendere l’identità perchè  il rispetto dell’altro non significa un resa; su questo bisogna essere chiari, altrimenti non si garantisce l’integrazione nè si fornisce ai nostri ragazzi la possibilità di avere un patrimonio culturale che è quello del loro Paese”.

Lettera ai cercatori di Dio nella prospettiva della educazione religiosa scolastica

CEI – Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede, l’Annuncio e la catechesi, Lettera ai cercatori di Dio, ed.
San Paolo, Torino  2009 A modo di premessa, la presentazione della lettura analitica della Lettera ai cercatori di Dio, in tempi di declamata e controversa “emergenza educativa”, intende proporsi con discrezione e pacatezza per un servizio di informazione critica, al fine di favorire l’interesse generale sul rapporto tra cultura religiosa ed educazione-scuola, e specificamente a beneficio degli Insegnanti di Religione (IdR).
Molti degli IdR risultano coinvolti sul piano della ricerca teorica, della sperimentazione didattica e dell’innovazione dei linguaggi, oltre che impegnati in varie attività ed esperienze formative di tipo scolastico, comunitario o associativo, e troppo spesso si vedono paternalisticamente sollecitati ad iniziative continue dall’attivismo degli uffici scuola o investiti da facili ironie e discredito sulla presunta fase di “imborghesimento” e “demotivazione” dopo la immissione in ruolo della categoria.
 In profondità, oltre le ricorrenti polemiche giudiziarie e giornalistiche sull’Insegnamento della Religione Cattolica (IRC) in Italia, vengono chiamati in questione e vanno affrontati alle radici la fragilità della legittimazione giuridica concordataria, una certa indefinitezza epistemologica, la trasformazione in senso pluralistico e multireligioso della società europea, le incertezze della “via” italiana alla “laicità”, la indefinita dinamica tra l’educazione religiosa ecclesiale e del sistema scolastico civile, l’evoluzione del rapporto tra cultura religiosa con le sue scienze di riferimento e progetto educativo pubblico, il “sospetto” ancora gravante sul ruolo della teologia nei saperi e nelle istituzioni culturali pubbliche.
       Il collegamento estrinseco con l’attività dell’IRC emerge dichiaratamente nei “Suggerimenti per l’utilizzazione” forniti da mons.
Bruno Forte, curatore e firmatario nella qualità di Presidente della Commissione CEI, all’annuale Convegno Nazionale degli Uffici Catechistici Diocesani (“Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con il Cristo”, UCN, Reggio Calabria 15-18 giugno 2009), articolati in più direzioni: dove si individua l’IR tra gli interlocutori privilegiati; si sottolinea l’esigenza di “promuoverne la conoscenza tra Catechisti e Insegnanti di Religione”; se ne sottolineano le potenzialità dell’impiego come “strumento sussidiario” nella scuola.
L’utilizzo nell’ambito scolastico s’inquadra poi in orizzonti più ampi, che negli auspici degli estensori possono interessare ad es.
l’apostolato biblico per la riscoperta della Bibbia come “grande codice”; gli itinerari del Catecumenato degli adulti o di preparazione alla Cresima ed al Matrimonio, quali occasioni di nuova evangelizzazione ove si apportino le dovute mediazioni; la diffusione nel mondo universitario e della pastorale della cultura, per il dialogo e l’introduzione alla conoscenza basilare del cristianesimo; un’offerta credibile di strumento per la ricerca personale, da accompagnare con la elaborazione di qualche forma di ipertesto e di collegamento ad altre fonti ed ad altri linguaggi.
 Implicitamente l’Educazione Religiosa scolastica, richiamata più volte – ora positivamente ora criticamente –  dagli interventi in assemblea e nei gruppi di lavoro, viene chiamata in causa sullo sfondo della ricerca e della prassi del “progetto educativo ecclesiale” e del “progetto culturale”; mentre rimane, a parere di molti, da precisare e ridefinire in termini corretti e adeguati ai segni dei tempi nuovi, la natura della relazione (unità dell’oggetto, finalità, strumenti, ambiti, processo, soggetto, persona del destinatario, laicità e confessionalità…) tra “Catechesi” (“testimonianza”, educazione religiosa-cristiana ecclesiale, familiare, associativa…) e Ir (“disciplina”, pedagogia religiosa scolastica), evolutasi storicamente dalla confusione alla correlazione, alla complementarità nella distinzione, alla integrazione…                 Il piccolo Testo,  propedeutico ad ulteriori approfondimenti (ai quali rinvia la sintetica bibliografia in appendice) e non inteso ad esaurire l’integralità del discorso religioso-cristiano, ma a “suggerire, evocare, attrarre”, si indirizza sia ai credenti aperti a domande sempre nuove, che ai non credenti (“pensanti”) che continuano ad interrogarsi sulla fede, sia a “chi non si sente in ricerca” rispettandone con atteggiamento di “amicizia e simpatia” la libertà e la coscienza.
Accostandosi a tutti coloro che chiedono le “ragioni della speranza”,  con la “dolcezza e rispetto” raccomandati dall’Epistola di Pietro 3,15-16.
Volto perciò a provocare reazioni, suscitare nuove domande, integrazioni e critiche, si ispira dichiaratamente al dinamismo della comunicazione interattiva configurandosi, fin dalla intitolazione inconsueta ai “Cercatori”, nella tensione a nuovi approcci fin dalla scelta d’impronta antropologica della categoria culturale applicata ai destinatari, appartenenti ad un orizzonte molto vasto  tendenzialmente di adulti, rispetto alle formulazioni più classiche di “primo annuncio”, “un mondo che cambia”…   Concepito in tre sezioni:  a partire dal terreno umano-sociale comune del vissuto quotidiano-storico sui grandi perché “che ci uniscono”(p.
I);  per proseguire (p.
II) con la proposta (“testimonianza” e “ragioni della speranza”) essenziale del messaggio cristiano e della risposta di fede, imperniata nella chiave cristologica (volto umano del Mistero e della Presenza), di Dio Trinità e relazione d’amore, fino alla Chiesa quale comunità di fratelli e icona dell’amore trinitario, presentati con il ricorso al linguaggio narrativo; e concludere propositivamente (p.
III) con l’ipotesi di un itinerario sul dove e come, segnato dai “luoghi” (preghiera, ascolto della Parola, sacramenti e vita nuova, servizio e dono di sé, attesa della vita eterna, desiderio della bellezza divina…), per aiutare a passare dalla ricerca alla pienezza dell’incontro “vero” con il “Dio di Gesù Cristo”, in cui l’incontro si pone nel senso dell’ospitalità, dell’ascolto, dello stimolo alla reciprocità, della serietà dell’esperienza di una relazione tra persone.
  Nella sua genesi risulta prodotto da un lavoro collegiale svolto a livello di cooperazione tra episcopato, teologi, pastoralisti, catecheti, esperti della comunicazione,… (e perché non anche di IdR qualificati?).
Il sobrio corredo  delle immagini si presenta di un certo interesse educativo.
Tratto dalle opere artistiche di V.
Vitali, in copertina, S.
Di Stasio e M.
Paladino all’interno, già ricorrenti e sperimentati in altre pubblicazioni ufficiali della CEI (Nuovo Lezionario ecc.), rappresenta il tentativo di contribuire a rinnovare il genere espressivo delle miniature tipiche dei testi religiosi e magisteriali.  Nei capitoli si ripropongono unitamente a rappresentazioni pittoriche significative dell’esperienza umana-religiosa, delle “perle” costituite da brani  biblici, letterari e del pensiero tratte dalla sapienza di autori pure non cristiani (es.
G.
Marcel, E.
Montale, S.
Kierkegaard, insieme a S.
Francesco, S.
Agostino, T.
Bello…), presentati in funzione “ermeneutica” simile a quanto avvertono necessario per la comprensione  e comunicazione del discorso religioso, anche gli educatori religiosi attraverso il ricorso al “documento”.
  Rispetto ad altri Documenti magisteriali e pastorali che iniziano con una ricognizione sulla realtà storico-socio-culturale del nostro tempo, con qualche attenzione alla situazione, contesto, realtà, bisogni, istanze, la Lettera (genere di respiro biblico, originale ed efficace nella comunicazione religiosa e pastorale della Chiesa Italiana) più incisivamente dedica la Prima Parte (la più interessante ed intrigante per l’attività degli IdR) all’ascolto degli interrogativi che attraversano eventi e persone, esperienze di gioia e di limite riconoscibili nella vita di ognuno a livello individuale e collettivo, ed in particolare imperniate sull’esperienze vitali positive di felicità e speranza, apertura al futuro ed alla “Terra promessa” o negative di fragilità, problemi di convivenza giusta e pacifica con la natura e la società… Si viene così a recepire la categoria della “inquietudine”, di agostiniana memoria ed elemento caratterizzante di tanta antropologia e filosofia contemporanea, e dell’”invocazione” come cifra dell’esistenza e del cammino dell’uomo.
Confrontandosi da ultimo e con franchezza (oltre la cd.
“morte di Dio” e il “tramonto del sacro” da un lato e il bisogno di “segni ad ogni costo” e di “riti” di certa spiritualità dall’altro) con la questione capitale della trascendenza “presente nel cuore di molti”: “Dio chi sei per me? E io chi sono per Te?”.
L’importanza di sapere “ascoltare le domande” (tema del XLIII Convegno dell’UCN) che ci rendono tutti “pellegrini e cercatori dell’Altro”, manifestazioni della tensione e riflesso dell’alterità che definisce e costruisce l’identità della persona, fa da guida e da anima dell’intero  percorso del Documento della CEI, memore dell’assunto del pensatore ebraico E.
Jabès, rappresentante del “pensiero nomade” e citato da B.
Forte: “Il mio nome è una domanda, e la mia libertà è nella propensione alle domande”.
Così delineando un profilo essenziale dell’identità umana, che riguarda l’essere prima che l’agire, colto nella sua esistenza di “mendicante del cielo” e di “lottatore” per  riuscire a dare un senso ed una verità alle cose di ogni giorno e della storia.
L’impostazione dialogica, cerca di farsi carico di istanze diffuse nella mentalità corrente e nella cultura, ponendosi il problema di non cadere nel corto circuito dell’affermazione dottrinale e assertiva, nella logica delle risposte semplificatorie e preconfezionate, delle ricette spirituali rassicuranti, sempre incombenti.
Davanti alla problematicità ed al travaglio di coscienza su tante questioni “ultime”, matura la convinzione che la fede non sia “dare risposte già pronte, ma contagiare “l’inquietudine della ricerca”, non risolvere tante possibili oscurità ma aiutare a “portarle ad un Altro e insieme con lui”.
Pur presentandosi nello stile ancora troppo “ecclesiastico” e poco “laico”, da Chiesa “docente” piuttosto che compagna di strada, di certi passaggi ed affermazioni legate a concezioni dottrinali tradizionali, oggi messe a prova dalla discussione della ricerca teologica  (es.
p.
24: “Perché allora, permette il dolore, l’invecchiamento, la morte?”, laddove il verbo “permettere” – sulla questione della teodicea – risente di una concezione improntata ad un’idea assoluta di onnipotenza…), il Testo costituisce  un interessante, anche se incompiuto, paradigma Kerygmatico, in materia del cd.
“primo annuncio” e incontro tra fede e culture.
Mira infatti a farsi carico della interiorità profonda e della sensibilità spirituale di chi  attualmente in  maniera esplicita o implicita avverta l’importanza della ricerca di senso, “laicamente” non si chiuda aprioristicamente all’ipotesi della trascendenza ed all’esperienza del Mistero, rimanendo nella sostanza “cercatori di Dio” e desiderosi di vedere il Suo volto, pur percorrendo le vie religiose differenti offerte nella realtà del villaggio globale.
  Sulla problematica delle “domande”, l’impostazione della ricerca ermeneutica nell’educazione religiosa potrà misurarsi e confrontarsi utilmente, nell’ordine del metodo, del processo psico-pedagogico e della tipologia delle esperienze privilegiate (felicità e dolore, amore e fallimenti, lavoro e festa, sfide della fede), come più rispondenti alla radicale domanda religiosa e dell’orientamento umano verso il mistero, portando il discorso ancora “oltre la domanda di senso e di speranza” , verificando la “ragionevolezza” del “credere”  e le potenzialità della sua elaborazione culturale, pedagogica, didattica.
  A conclusione dell’excursus va ribadito che la Lettera si propone quindi non come punto d’arrivo ma stimolo e strumento per l’inizio di cammini auspicabilmente plurimi, a servizio della vita spirituale nascente (sorta di “aurora”dell’anima) di coloro che sanno aprirsi all’oltre e al nuovo di Dio; o di chi si pone alla ricerca, anche se credente che riconosce di sentirsi “un povero ateo, che ogni giorno si sforza di cominciare a credere”.
Consapevoli tutti, pastori ed educatori o comunità ecclesiale e civile, che oggi le vere questioni di senso della vita e della storia o di fede non contrappongono “ideologie” né dividono gli uomini in “laici e cattolici” nel modo tradizionale e standard, ma segnano il crinale tra “pensanti e non pensanti”, tra uomini e donne con il coraggio di vivere la fragilità e continuare a cercare per credere, sperare ed amare, e uomini e donne rinunciatari a lottare, rinchiusi nell’”orizzonte penultimo”, incapaci di accendersi di desiderio, speranza e nostalgia dell’Altro.
Verso questi nostri contemporanei, di tutte le età della vita e specie nei confronti delle nuove generazioni, in superficie apparentemente indifferenti, nelle quali suscitare per potere educare la maturazione della “domanda”, l’Educazione Religiosa deve sentirsi empaticamente debitrice di “verità” intesa come significatività umana della fede e nella prospettiva di“carità intellettuale” a servizio della libertà, non come detentrice di “risposte”,  sapendosi fare compagna di viaggio discreta e paziente.
  Giorgio Bellieni

La religione ha un ruolo centrale e unico nella società e per il suo sviluppo

L’INTERVISTA  Partiamo dal suo recente ingresso nella Chiesa cattolica.
Due anni fa, dopo la visita al Papa in giugno, il mondo cominciò a parlare apertamente della sua conversione al cattolicesimo.
Ci può raccontare come nacque questa decisione? Il mio viaggio spirituale è cominciato quando ho iniziato ad andare a messa con mia moglie.
Poi, quando abbiamo deciso di battezzare i nostri figli nella fede cattolica.
È un cammino che è proseguito per 25 anni, e forse anche di più.
Nel tempo, emotivamente, intellettualmente e razionalmente mi è sembrato che quella cattolica fosse la casa giusta per me.
Ma è successo durante un lungo intervallo di tempo.
Quando ho lasciato l’incarico politico, e attorno non avevo più tutto il contesto legato all’essere primo ministro, è stato qualcosa che ho voluto davvero fare.
La sua era una famiglia religiosa? In realtà non molto.
Mia madre, una protestante proveniente dall’Irlanda, andava occasionalmente in chiesa.
Mio padre, invece, era un ateo militante.
Ma, a Durham, sono andato a scuola alla Chorister School, adiacente alla cattedrale, quindi la religione è stata parte integrante della mia educazione scolastica.
La vera svolta, però, l’ho vissuta all’università, quando ho iniziato a pensare seriamente alla mia fede cristiana, a pensarvi in modo più profondo.
È stato allora che ho realizzato che era un aspetto non solo importante, ma assolutamente centrale della mia vita.
Come è noto, da sempre Cherie Booth è una cattolica praticante.
Che significato ha avuto la religione nel vostro matrimonio? La religione è stata qualcosa che ci ha fatto avvicinare.
Non ci siamo conosciuti a motivo della religione, ma è stato molto interessante scoprire che la mia futura moglie era estremamente attiva nella organizzazione studentesca cattolica e in altre organizzazioni giovanili.
Per dei giovani di 23 o 24 anni – come noi eravamo quando ci siamo conosciuti – era piuttosto inusuale scoprire di condividere questo interesse per la religione.
Durante la sua ultima visita da primo ministro, lei ha donato a Benedetto XVI tre foto di John Henry Newman.
La scelta è stata motivata dal fatto che la figura del cardinale Newman aveva avuto un ruolo nel suo cammino di conversione? Oppure vi sono state altre figure che vi hanno contribuito? In realtà no, non è stata questa la ragione.
Anche se ovviamente conoscevo la storia del cardinale Newman, e avevo letto i suoi scritti.
Le foto erano semplicemente un regalo appropriato.
Riguardo ad altre figure, ho avuto la fortuna di partecipare nel 2003 con la mia famiglia, a una messa che Giovanni Paolo II celebrò nella sua cappella privata:  è un ricordo ancora molto vivido, un episodio che mi ha estremamente colpito.
Certo, molto probabilmente sarei giunto comunque alla conversione, ma indubbiamente si è trattato di una tappa importante che ha ulteriormente rafforzato la mia decisione.
Una delle cose che mi ha più attratto della Chiesa cattolica è la sua natura universale.
Se sei un cattolico, puoi andare ovunque nel mondo e partecipare alla messa in ogni Paese.
Sono stato a messa a Kigali, a Pechino, a Singapore.
Ricordo la volta in cui seguii una funzione a Tokyo:  ero entrato in incognito, senza farmi notare, ma al termine della celebrazione una signora invitò i numerosi visitatori a presentarsi, alzandosi in piedi.
Lo feci:  sono Tony da Londra.
È stata una bella sorpresa! (ride).
Ecco, il fatto che, ovunque tu sia nel mondo, sei in comunione con gli altri, è veramente formidabile.
È qualcosa che mi affascina.
La Chiesa universale è essa stessa un importante modello di istituzione globale.  La società e la politica inglesi sono molto diverse da quelle statunitensi:  in Gran Bretagna è raro parlare ad alta voce della propria fede e gli inglesi si sorprendono dinnanzi a quanti raccontano apertamente il loro credo.
Pensa che vi siano motivi culturali per questa differenza? Personalmente credo che questo sia un problema dei media, piuttosto che della gente comune.
Non ho mai fatto una gran questione attorno alla mia fede, nonostante fosse assolutamente evidente il fatto che l’avessi:  per anni sono andato a messa ogni settimana, quindi non stavo certo nascondendo nulla.
E debbo dire che non ho mai avuto problemi con la gente.
Anzi, forse, è vero il contrario.
Penso però che, a causa della nostra cultura mediatica, se inizi a parlare pubblicamente di fede come leader politico, la prima reazione della gente è di sospetto, piuttosto che di interesse.
Invece, negli Stati Uniti parlarne è semplicemente dato per scontato.
È un peccato che sia così, ma questa è la realtà.
Posso però dire che per la gente comune, a differenza di quanti parlano in televisione o scrivono sui giornali, non c’è mai stato problema.
Sono sempre stato consapevole del fatto che se avessi cominciato a parlare troppo di fede, mi sarebbero state richieste tante spiegazioni.
Questo sicuramente non sarebbe successo negli Stati Uniti.
Non saprei dire se vi siano differenze culturali dietro questi diversi atteggiamenti.
Forse in America andare in chiesa fa parte della vita quotidiana molto più di quanto non avvenga oggi in Europa.
Inclusa la Gran Bretagna.
Resta comunque il fatto che io ho affrontato temi politici con le comunità religiose più di quanto mi risulta abbia mai fatto nessun altro.
Per un europeo, è impossibile non notare quanto la politica americana parli di Dio, quanto lo citi.
È vero.
A essere onesti, però, penso che ciò che preoccupa gli inglesi è il fatto che il politico possa voler prendere in prestito Dio per la campagna elettorale.
Gli americani, al contrario, non la pensano affatto così, e lo ritengono del tutto naturale.
Personalmente credo che sia importante aprirsi alla fede e che le persone si sentano libere di farlo.
Non possiamo ignorare che nei Paesi anglosassoni – ma non solo! – esiste un forte pregiudizio verso i cattolici che fanno politica.
L’idea è che il politico cattolico non sia libero e che le sue decisioni vengano prese in Vaticano.
È verissimo.
In realtà non ero esattamente cosciente di questo pregiudizio prima della conversione, e debbo dire che sono rimasto scioccato nel prenderne atto.
È interessante che una delle cene a cui partecipai subito dopo aver lasciato l’incarico di primo ministro fu l’Alfred E.
Smith Memorial Foundation Dinner a New York, una cena annuale organizzata dalla comunità cattolica (precisamente dall’omonima fondazione insieme all’arcidiocesi di New York).
Al Smith, che per quattro volte venne eletto governatore di New York battendosi per la giustizia sociale – sconfiggere la povertà e aiutare la causa  del  progresso – era cattolico.
È stato il  primo  cattolico a candidarsi alla Casa Bianca nel 1928.
Per scrivere il mio discorso,  mi  sono  documentato sul personaggio, ed è stato sorprendente scoprire  che il  suo  essere cattolico fu il vero tema della campagna elettorale.
La preoccupazione  che  emergeva dalla stampa era che, se Al Smith avesse vinto le elezioni, il Papa si sarebbe trasferito dal Vaticano alla Casa Bianca! (ride).
L’incubo era che il Paese sarebbe stato governato dalla Chiesa cattolica.
Questo spiega la celebre dottrina Kennedy secondo cui il credo religioso del presidente non dovrebbe giocare alcun ruolo nelle scelte degli elettori.
Già.
Kennedy finalmente infranse il mito.
Certo, sapevo del pregiudizio, anche perché la famiglia di mia madre era protestante e fortemente anticattolica.
Ma, pur sapendolo, non ne avevo del tutto compreso la reale portata finché non sono stato “educato” meglio.
Bede Griffiths, che si convertì nel 1931, era consapevole che la sua decisione di aderire alla Chiesa cattolica avrebbe causato sofferenza ai suoi cari, e specialmente a sua madre.
La preoccupazione di chi lo circondava era che egli avrebbe finito per perdere le sue radici.
In uno dei rari momenti di lucidità durante la malattia, la mia bisnonna, una donna per molti versi fantastica, mi disse:  fai quel che vuoi, ma non sposare una cattolica.
Esattamente ciò che poi ho fatto, temo (ride).
Più in generale, crede che nelle moderne democrazie, un politico abbia il diritto di parlare in nome della sua fede – dichiarandosi, ad esempio, contro l’aborto perché viola il quinto comandamento – o abbia invece il dovere di tacere sul suo credo personale?  Ho sempre sostenuto che le persone hanno il diritto di parlare.
Ho insistito molto su questo in Gran Bretagna.
Anche perché si tratta di temi che le persone sentono molto, che sono importanti per loro.
La gente la pensa diversamente su questi argomenti, e se una persona crede qualcosa che è assolutamente centrale per lui, ha il diritto di parlarne.
Tornando a lei, è mutato qualcosa dopo la conversione nella sua vita personale (ad esempio, come padre), nella sua attività politica in Gran Bretagna e, infine, nel suo nuovo ruolo sullo scenario internazionale? Come padre, c’è stata solo una continuazione.
I miei tre figli maggiori, ormai cresciuti, sono cattolici praticanti (e lo sono ancora, fortunatamente!).
Li abbiamo battezzati, hanno studiato in scuole cattoliche – anche Leo oggi studia in una scuola cattolica – e continuano a essere cattolici.
La fede è sempre stata una parte importante nella nostra vita come famiglia.
In questo senso, dunque, la mia conversione non ha cambiato le cose.
Quanto alla politica inglese, personalmente ho cercato di chiamarmene fuori da quando ho lasciato Downing Street.
Infine, circa il mio impegno internazionale, ovviamente la fede mi rende particolarmente sensibile e attento rispetto ad alcune tematiche specifiche.
Pensiamo al Medio Oriente.
Il fatto di essere lì, per un credente è emozionante e oltremodo stimolante.
Visitare i luoghi santi è stato meraviglioso:  andare in posti come Gerico, la riva del Giordano dove avvenne il battesimo di Gesù, e ovviamente a Gerusalemme, dov’è il mio ufficio.
Il fatto di essere una persona di fede dà a questo impegno un significato speciale.
In Africa la mia fondazione per il dialogo fra le religioni è molto attiva:  ad esempio, abbiamo un programma che vede le diverse religioni unite per sconfiggere la malaria, che ogni anno uccide nel continente un milione di persone, prevalentemente bambini.
Ci occupiamo anche del cambiamento climatico:  sono convinto che il rispetto dell’ambiente per le generazioni future rientri nella nostra responsabilità di cristiani.
Insomma, sono tutti temi dominati dalla mia fede.
La Tony Blair Faith Foundation intende promuovere il rispetto e la conoscenza delle maggiori religioni – cristiana, musulmana, hindu, buddista, sikh ed ebraica – e dimostrare come la fede sia per il mondo moderno una forza potente che spinge verso il bene.
Ricordo che la presentai alla cattedrale di Westminster, dinnanzi a un uditorio cattolico.
Crede che il suo essere cattolico sia un vantaggio o uno svantaggio per la sua attività in Medio Oriente? Onestamente non l’ho mai trovato un problema.
Mai.
Anzi, penso spesso che, nel mondo moderno, il fatto di essere una persona di fede incrementi la capacità di mettersi in relazione con persone di un altro credo.
Certo, a volte è vero anche il contrario, per cui ci si trova in forte opposizione.
Ma giacché oggi fattori di secolarizzazione sottopongono la fede a un duro e aggressivo attacco, finisce che persone di fedi diverse a volte si alleino.
Nella “Caritas in veritate” il Papa scrive che “la religione Cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica” (n.
56).
Lei crede che il mondo di oggi abbia desiderio di ascoltare la religione, oppure voglia ignorarla? Trovo che vi sia un conflitto.
Personalmente, condivido totalmente quello che scrive il Papa nell’enciclica, un testo brillante che deve essere letto e riletto.
Ritengo che la religione abbia un ruolo centrale, unico all’interno della società e per il suo sviluppo.
Pensiamo, ad esempio, al modo in cui utilizziamo la tecnologia.
Ma è anche vero che c’è un conflitto, perché molte persone vogliono tenere la religione fuori dalla sfera pubblica.
Sostenere, come sostengo, che la religione abbia un ruolo importante, non significa ritenere che finiranno i dibattiti e le contrapposizioni.
Questi, al contrario, proseguiranno su molti temi rispetto ai quali, probabilmente, la Chiesa starà da una parte e i leader politici dall’altra.
Ma non credo sia questo il punto:  il punto è che la fede ha pieno diritto di entrare in questo spazio e di parlare.
Non deve tacere.
Non è quindi solo importante che le cose si risolvano nel modo giusto, ma anche che la voce della fede non sia assente dal dibattito pubblico (pensiamo a temi come la giustizia e la solidarietà tra i popoli e le nazioni).
Sono appena tornato dalla Cina, dove ora passo molto tempo, ed è affascinante vedere il modo in cui questo Paese si sta impegnando per trovare la sua strada verso il futuro.
Non è solo un impegno sul versante del progresso economico e sociale, ma qualcosa che riguarda anche la riscoperta delle loro fedi e tradizioni.
Ho ascoltato molte relazioni in Cina:  si parla moltissimo di confucianesimo, taoismo e buddismo.
E perfino la comunità cristiana oggi in Cina si sta aprendo di più.
Per molti aspetti, la Cina si trova a un grado diverso di sviluppo rispetto alle nostre società, quindi si potrebbe pensare che nel Paese prevalga la tendenza a dire:  se vogliamo essere veramente avanzati, moderni e sviluppati dobbiamo mettere la religione da parte.
Invece è interessante scoprire che, sebbene vi siano persone che si augurano esattamente questo, oggi si odono anche voci del tutto opposte.
Voci che ricordano come la Cina sia una civiltà antica con forti tradizioni religiose e filosofiche le quali non si occupano solo dello Stato e dell’individuo, ma anche della sfera religiosa.
Credo che questa sia per noi una lezione davvero importante.  Personalmente ritengo che la recente entrata in scena dell’islam abbia stravolto il ruolo, lo spazio che oggi diamo alla religione in politica, il modo in cui pensiamo alla loro interrelazione.
Sono assolutamente d’accordo.
Per certi versi, è il punto nodale della mia fondazione.
Anche se una persona non è credente, può comunque capire l’importanza della fede, può comprendere che la fede conta.
Abbiamo visto ciò che è accaduto nel mondo islamico:  ci sono persone che sostengono che è qualcosa che non ha nulla a che fare con la religione.
È una completa assurdità.
Certo che ha a che fare con la religione.
Sempre nell’enciclica, Benedetto XVI scrive che “volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità” (n.
7).
Lei cosa ne pensa come cattolico, come ex primo ministro inglese, come protagonista attuale della politica internazionale e come probabile futuro Presidente europeo? Concordo (sorride).
Credo che un leader politico sia soggetto ad alcuni vincoli, e debba lavorare per raccogliere voti.
Perché questa è la democrazia.
Ma è proprio qui che trovo che la fede abbia un ruolo unico.
La Chiesa cattolica segue la verità di Dio, e credo che ciò su cui il Papa si impegna tanto è cercare di far comprendere che questo è un obbligo cristiano.
Certo, a volte ciò può entrare in conflitto con il mondo politico, e io l’ho sperimentato come leader politico.
Eppure è estremamente importante che vi sia l’aspetto religioso:  non a caso il Papa scrive che un umanesimo senza Dio è disumano.
E credo che egli intenda con questo che le azioni umane e la ragione umana sono sempre limitate se non sono pervase dalla fede.
A volte, possono essere addirittura pericolose.
Certo, difficilmente si potrà realizzare la politica  che  il  Papa  tratteggia  nell’enciclica.
La gente spesso fraintende la politica.
La politica è l’interazione tra idealismo e realismo:  solitamente, non è il trionfo dell’uno sull’altro.
Quando, nel 2005, abbiamo deciso di mettere la povertà in Africa al centro del G8 a Gleneagles, questo era fortemente sostenuto dalla Chiesa cattolica e da Giovanni Paolo II.
E fu cruciale.
Si creano difficili nodi politici quando si arriva a dover decidere quanti soldi si daranno, se si deve fare di più, se si può fare di più.
Nodi che possono portare anche a forti contrapposizioni.
Ma il fatto che se ne parli, e che la posizione venga fortemente sostenuta dalla Chiesa, può effettivamente aiutare il politico a fare la scelta giusta.
Certo, non elimina il problema, ma aiuta.
Quando ho detto agli inglesi che dovevamo incrementare sostanzialmente il nostro aiuto all’Africa, mi aiutò moltissimo il fatto che la Chiesa dicesse pubblicamente che era la scelta giusta da fare, che era una cosa moralmente buona.
Certo, ciò non toglie che vi sia sempre chi critica il fatto di usare i nostri soldi per aiutare gente diversa da noi.
In effetti in Gran Bretagna avete seri nodi sociali:  non deve essere stato facile.
È vero, li abbiamo.
Ma li hanno tutti.
Sì, ma è più facile vedere quelli degli altri, piuttosto che i propri! Già! (ride).
Come padre di quattro figli, cosa pensa del ruolo paterno? Come vede il futuro della paternità nel mondo di oggi? In primo luogo, penso che la paternità sia un ruolo da affrontare con responsabilità e senza arroganza.
Per quanto bravo o intelligente pensassi di essere, ho sempre trovato che essere padre fosse qualcosa di estremamente difficile.
E lo penso tuttora.
Secondo, ovviamente ritengo che anche il padre sia una figura cruciale nella famiglia, che anch’egli sia fondamentale per la crescita e la formazione del bambino.
In terzo luogo, credo che, per certi versi, si stia recuperando l’idea di famiglia.
Anche in questo campo ritengo che le comunità religiose e la Chiesa abbiano un ruolo da giocare.
Certo, le famiglie hanno i loro problemi, le famiglie si sfasciano, cosa che temo continuerà ad accadere.
Ma ho sempre pensato che le indicazioni della Chiesa in materia di famiglia fossero utili.
Sia chiaro, far funzionare un matrimonio richiede impegno.
E credo che lo richieda anche la paternità.
Ma penso davvero che, tra i grandi cambiamenti che stanno avvenendo anche sul versante sociale, sia necessario riscoprire che la paternità è una responsabilità e una necessità.
Che impressione Le fa sapere che i suoi pronipoti studieranno il suo lavoro nei loro libri di scuola? Qualcuno me lo ha fatto notare l’altro giorno, ed è stata la prima volta che ci ho pensato.
So che suona strano, ma è davvero così! Non penso mai a me stesso in questi termini.
E poi, certo, dipende molto da quello che leggeranno! (ride).
Beh, lei di cose ne ha fatte parecchie…
Sì.
Però la mia personale inclinazione è quella di concentrarmi sempre sul futuro.
Non perché io non rifletta sul passato – vi sono ovviamente molte questioni sulle quali rifletto e ritorno – ma sento di avere ancora qualcosa da dare.
Sento che ho ancora una vita davanti a me, oltre che dietro di me.
Chissà poi quali saranno i giudizi storici sulle diverse imprese in cui sono stato coinvolto, in particolare i tanti conflitti bellici come l’Iraq, l’Afghanistan, il Kosovo, Sarajevo.
Semplicemente, non avendo idea di quali giudizi verranno dati, trovo che non abbia assolutamente senso l’ossessione di pensarci.
Mi colpisce questa sua enfasi sul futuro.
Certo, Lei, che è arrivato alla guida del governo a 44 anni, oggi è ancora giovane:  ha finito il suo lavoro come primo ministro avendo ancora tantissimo tempo davanti a sé.
Invece, per esempio, l’Italia ha una classe politica tradizionalmente molto più avanti con gli anni:  è perciò inusuale un politico che, al termine di un decennio di governo, sia così proiettato sul suo futuro professionale.
Sì, ma ritengo che, in realtà, sia una cosa buona.
Devo dire che credo di aver imparato tantissime cose negli anni.
Il fatto di avere politici che terminano il loro incarico quando sono ancora giovani, può tornare veramente utile.
Penso a politici come Bill Clinton o Aznar:  hanno davvero molta esperienza da far fruttare.
E sua moglie non scenderà in politica, come è capitato in altri Paesi? No, non credo proprio che le interessi! (ride).
Eppure abbiamo davvero bisogno delle donne in politica.  È vero:  abbiamo bisogno delle donne in politica.
Bisogna insistere! Del resto il suo Paese è stato a lungo guidato da una donna che, tra l’altro, è stata un esempio interessante di donna politica.
Certamente.
Credo, però, che i pregiudizi contro le donne siano in realtà molto meno diffusi di quanto generalmente si creda.
Ricordo che mio padre mi diceva sempre – era un uomo della vecchia guardia – che gli inglesi non avrebbero mai eletto una donna primo ministro.
E invece l’hanno fatto per ben tre volte! Quale era il sogno di Tony Blair quando era bambino? Le mie ambizioni? Temo proprio che fossero estremamente ordinarie e banali:  volevo diventare un calciatore o una rock-star! (ride).
Non ha mai pensato che le sarebbe piaciuto diventare primo ministro? No! Sarei assolutamente inorridito se qualcuno mi avesse detto che sarei diventato  un politico.
E questo fino all’età di 20 o 21 anni.
I miei primi due anni  all’università  sono  stati  più  a base di feste e rock and roll che di politica.
Eppure si ricorderà della prima volta in cui ha votato? Ricordo che io quel giorno mi sono sentita importante:  sentivo che il mio Paese aveva bisogno di me.
Sì che mi ricordo! Erano le elezioni del 1974, e io ero all’università.
Direi, però, che il voto che ha segnato una netta differenza nella mia vita, è stato quello al referendum sull’Europa del 1975.
Ricordo perfettamente di aver votato sì:  e fu un voto estremamente consapevole.
Ero convinto che fosse una  scelta importante per il futuro della Gran Bretagna.
Lo ricordo bene:  è stato un momento davvero interessante.
E così, terminiamo con l’Europa.
Un involontario ponte verso il futuro.
Ancora strette di mano, e sorrisi.
Quando lo saluto, non so più se sto salutando il politico che ha abitato per un decennio al 10 di Downing Street riformulando la politica inglese, il credente che ha camminato a lungo verso la Chiesa cattolica, o lo statista di cui ancora si parlerà.
In effetti, forse non è nemmeno un gran problema:  beneath all, questo è Mister Tony Blair, come lo definisce il suo assistente Matthew Doyle.
All’ultimo momento salendo le scale verso la sua stanza, ero stata presa da un brivido di terrore su come avrei dovuto chiamarlo.
Ma il problema non s’è posto.
(©L’Osservatore Romano – 14-15 settembre 2009)

Ora di religione, in arrivo il voto

Anche il giudizio dei prof di religione potrebbe essere presto trasformato in un voto vero, dall’1 al 10.
L’intenzione del governo è stata oggi confermata nella sostanza dal ministro Maristella Gelmini: “Credo che l’ora di religione debba avere la stessa dignità delle altre materie, e credo anche che l’Italia non possa non riconoscere l’importanza della religione cattolica nella nostra storia e nella nostra tradizione”.
Secondo il ministro, va “garantita agli insegnanti della religione cattolica la stessa situazione, le stesse condizioni degli altri insegnanti”.
Alla fattibilità dell’intera operazione starebbe lavorando da circa tre mesi una commissione voluta dal ministro.
Sulla composizione della stessa vige il più stretto riserbo e le riunioni si sono finora svolte in gran segreto, ma si sa che il gruppo di lavoro è presieduto dal direttore generale per gli Ordinamenti, Mario Dutto.
Il passo ulteriore è di pochi giorni fa: da viale Trastevere è partita la richiesta di parere di fattibilità al Consiglio di stato.
Se la cosa dovesse andare in porto, si riaccenderebbe la guerra tra laici e cattolici scoppiata un paio di settimane fa, quando il Tar Lazio ha estromesso dall’attribuzione dei crediti scolastici alle superiori proprio i prof di Religione.
Contro quella decisione, Gelmini prima ha annunciato un ricorso al Consiglio di stato, ma poi ha pubblicato il Regolamento sulla valutazione degli alunni che, di fatto, ha sospeso il provvedimento del tribunale amministrativo.
Attualmente, in tutti i gradi della scuola italiana (dalle elementari alle superiori), nei confronti degli alunni che hanno optato per l’ora di religione cattolica l’insegnante esprime un giudizio sintetico: sufficiente, discreto, buono, ottimo.
Niente voto, insomma.
Neppure dall’anno scorso, quando ad ottobre è stata approvata la legge 169 che ripristinava i voti in decimi al posto dei giudizi sintetici alla scuola primaria (l’ex elementare) ed alla media.
“Per l’insegnamento della religione cattolica – recita il testo unico in materia di istruzione – , in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.
Ma nel regolamento sulla valutazione, pubblicato il 19 agosto scorso, a proposito dei voti in decimi si legge che “la valutazione dell’insegnamento della religione cattolica (…) è comunque espressa senza attribuzione di voto numerico, fatte salve eventuali modifiche” al Concordato stato-chiesa.
A cosa porterebbe una eventuale trasformazione del giudizio in voto numerico? Darebbe alla Religione pari dignità rispetto a tutte le altre discipline.
Perché rientrerebbe nella media dei voti per l’attribuzione del credito scolastico alle superiori e contribuirebbe all’ammissione alla maturità così come agli esami di terza media.
Il provvedimento sarebbe certamente accolto positivamente dai quasi 26mila insegnanti di Religione in servizio nelle scuole italiane perché avrebbe il significato di una promozione a tutti gli effetti.
Dal punto di vista politico, invece, servirebbe a ricucire i rapporti tra governo e Vaticano dopo le tensioni nate sui respingimenti dei migranti e in seguito al caso Boffo.
da Repubblica 14 settembre 2009

Dialogo tra chiesa e governo Italiano

L’INTERVISTA Cosa vede, professor de Rita, dal suo osservatorio? Cosa sta accadendo nei rapporti tra politica e Chiesa in Italia? «Penso semplicemente, per dirla col mio amico Antonio Polito, che non sono i giornali a dettare l’agenda politica.
E per fortuna.
Soprattutto quando si tratta di giornalismo spesso militante».
Quindi, pensando al caso Boffo e alle sue dimissioni? «Quindi non è Vittorio Feltri a dettare l’agenda a Silvio Berlusconi così come non è Dino Boffo, né il suo caso, a dettarla al cardinal Bertone.
La politica ecclesiale proseguirà, così come sempre: si riparlerà di scuole cattoliche, di questioni etiche.
Si tratta di rapporti tra due poteri forti.
Andranno inevitabilmente avanti.
Magari Gianni Letta getterà molta acqua sul fuoco.
E lo stesso farà il cardinal Bertone.
Ma parliamo di contingenza.
Di immediatezza.
Il vero problema riguarderà un futuro non lontano…» Di quale problema si tratta, professor De Rita? «Lo chiamerei del ‘policentrismo parallelo’».
Urge una spiegazione per una formula che già appare molto complessa…
«La spiegazione arriva e non è complessa.
Da una parte c’è la dimensione dello Stato italiano unitario che non c’è più, così come l’abbiamo conosciuto, e non ci sarà per molto tempo: il centralismo, l’amministrazione, l’élite.
Stiamo assistendo a un progressivo policentrismo che non è solo localismo politico ma anche riscoperta di culture articolate, del dialetto, di un diverso modo di interpretare, nelle singole città, avvenimenti come l’Expò a Milano o le Olimpiadi a Torino».
E lo stesso, lei dice, starebbe avvenendo nella Chiesa? «Il mio vecchio e buon amico Francesco Cossiga si infuria quando assiste alle tante dichiarazioni di vescovi italiani.
Ma deve darsi pace.
Perché anche la Chiesa, fatalmente come lo Stato italiano, si sta avviando al policentrismo.
L’allora cardinale Ratzinger richiamò la Chiesa, prima di essere eletto Pontefice, alla sua ‘verticalità’, ricordando che le conferenze episcopali nazionali non hanno una base teologica.
In effetti non potrà mai perdere questa sua ‘verticalità’…
Ma bisognerà insieme fare i conti con la realtà che vive ora la Chiesa nel quotidiano: i parroci, i vescovi attivi nelle diocesi, le associazioni.
E i vescovi parlano, hanno opinioni diversificate, lo abbiamo visto e sentito in questi giorni.
Anche qui, con buona pace di padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede, la ‘vera’ Chiesa italiana sono quei cento vescovi che intervengono e dicono la loro, ben più di un comunicato ufficiale.
Comunque basta leggere certi testi del professor Paolo Prodi per capire quanto la Chiesa, storicamente, abbia rispettato il localismo.» Quindi in prospettiva questa Chiesa policentrica dovrà dialogare con un potere italiano sempre più «locale»….
«La Chiesa non rinuncerà mai alla Curia né alle conferenze episcopali locali, altrimenti sarà impossibile governare un miliardo di cattolici.
Però si assisterà sempre di più a due concezioni della Chiesa: il centralismo e le realtà locali, spesso effervescenti e vitalissime.
È un problema che riguarda il destino stesso del cattolicesimo » In questa prospettiva come si colloca per esempio una realtà politica come la Lega di Umberto Bossi? «Tra vent’anni e in quest’ottica, una realtà come la Lega avrà più facilità a dialogare con la Chiesa, da localismo a localismo.
Nessuno negherà l’autorità teologica del Papa.
Ma se si vorrà ragionare in termini di territorio, un movimento come la Lega non avrà più bisogno di un Letta che media tra Berlusconi e la Chiesa o di un Pecchioli ‘ambasciatore’ del Pci presso la Santa Sede».
Allora le mosse di Umberto Bossi di questi giorni…
«No, no.
Insisto.
Non parlo dell’oggi.
Ma penso in prospettiva».
.in “Corriere della Sera” dell’8 settembre 2009 «Tra i vescovi idee diverse Per la Lega dialogo più facile» La frattura tra governo italiano e vertici della Santa Sede si ricomporrà presto.
Così come presto riprenderà il confronto su questioni etiche e scuole confessionali.
Parola di Giuseppe de Rita, sociologo cattolico, attento osservatore di ciò che accade nella Chiesa italiana, soprattutto nella sua base.

Il posto della Chiesa in tempi pagani

In effetti, occorre distinguere.
I rapporti con la Lega sono sempre stati conflittuali.
Basti pensare al periodo intorno alla metà degli anni Novanta, quando la Chiesa si oppose alla strategia secessionista della Lega.
Allora Bossi si scagliò contro il Papa polacco e i “vescovoni romani arruolati nell’esercito di Franceschiello, l’esercito del partito-Stato”.
In altri termini: contro la Chiesa, ritenuta (non senza ragione) il collante, forse più denso, dell’unità nazionale.
Oggi, invece, il problema è prodotto dalle critiche del mondo cattolico – le associazioni, i media, le gerarchie – contro le politiche del governo sulla sicurezza e l’immigrazione.
Cioè: il vero marchio della Lega (degli uomini spaventati).
Più ancora del federalismo.
D’altronde, il mondo cattolico, su questi temi, esprime un progetto fondato sull’accoglienza, sulla carità, sull’integrazione.
Concretamente praticato attraverso associazioni e istituzioni diffuse sul territorio.
Dalla Caritas, ai gruppi di volontariato, alle parrocchie.
Assai più della sinistra, è il mondo cattolico l’alternativa alla cultura e al linguaggio leghista.
Non solo sui temi della sicurezza e degli immigrati.
Perché il mondo cattolico è presente e attivo soprattutto dove è forte la Lega.
Cioè: nella provincia del Nord.
Dove i campanili costituiscono ancora un centro della vita sociale.
Da ciò un conflitto inevitabile.
Che è, in parte, competizione.
Anche perché la Lega si propone come una sorta di “Chiesa del Nord”.
Con i suoi riti, i suoi simboli, i suoi valori, le sue reti di appartenenza locale.
Ronde comprese.
Della tradizione cattolica accetta gli aspetti, appunto, più tradizionali e tradizionalisti.
Le “radici cristiane” rivendicate dalla Lega coincidono, in effetti, con la “religione del senso comune”.
Diverso – e meno prevedibile – è invece il contrasto diretto con il premier e il PdL.
Innescato dalla velenosa inchiesta dedicata dal “Giornale” al direttore dell'”Avvenire”.
Definito un “lapidatore che non ha le carte in regola per lapidare alcuno”.
In particolare il premier.
Immaginare Dino Boffo – prudente per natura (e incarico) – impegnato a scagliare parole dure come le “pietre” risulta (a noi, almeno) davvero difficile.
Per questo, la reazione del “Giornale” appare sproporzionata rispetto al contenuto e al tono delle critiche apparse su “Avvenire”.
Era difficile, d’altronde, che i vescovi italiani tacessero di fronte al disagio emerso in molti settori del clero e in molti esponenti del mondo cattolico.
Tanto più al tempo di Papa Ratzinger, che ha fatto del contrasto al relativismo etico un marchio e un programma.
Tuttavia, nonostante le smentite di questi giorni, ci riesce altrettanto difficile pensare che Vittorio Feltri abbia lanciato il suo attacco “senza preavviso”.
Senza, cioè, avvertire almeno il premier.
Il che suggerisce una ulteriore spiegazione della singolare (op) posizione assunta dalla Chiesa in questa fase.
Vi sarebbe stata spinta, più che per propria scelta, dallo stesso premier e dalla Lega.
Per diverse ragioni.
(a) Intimidire l’unico soggetto capace, nell’Italia d’oggi, di esercitare un effettivo controllo morale, istituzionale e sociale.
(b) Dividere la Chiesa stessa, al proprio interno; isolando gli ambienti accusati di simpatie per la “sinistra”; e ponendola in contrasto con il suo stesso popolo.
In larga parte vicino alle posizioni della Lega, in tema di sicurezza e immigrazione.
E indulgente verso i comportamenti e gli stili di vita esibiti dal premier.
(c) C’è, infine e al fondo di tutto, la crisi del modello, proposto e imposto da Ruini alla fine della prima Repubblica.
La “Chiesa extraparlamentare” (come la definisce Sandro Magister), che agisce ora come movimento, ora come gruppo di pressione.
A sostegno dei propri riferimenti di valore e di interesse.
Senza partiti cattolici né “di” cattolici.
Oggi sembra suscitare molti dubbi.
E in alcuni settori della Chiesa e del mondo cattolico emerge la nostalgia di un polo alternativo: a una destra amica ma pagana.
E a una sinistra laicista e comunque inaffidabile.
Da ciò l’idea (post-ruiniana) di un soggetto politico che metta insieme Casini, Tabacci, Pezzotta.
Rutelli e Montezemolo.
Magari Letta (Gianni).
D’altra parte, 4 cattolici praticanti su 10 non hanno un partito di riferimento.
Sono patologicamente incerti.
Anche così si spiega la reazione di Berlusconi – e l’azione di Feltri.
Volta a scoraggiare la costruzione di un nuovo partito collaterale alla Chiesa.
Mentre al premier – e alla Lega – piace di più l’idea di una Chiesa collaterale o, comunque, affiancata al PdL.
In grado – non da ultimo – di santificare un modello di vita che – come ha ammesso il premier – santo non è.
Ma, anzi, piuttosto pagano.
(31 agosto 2009) È SINGOLARE vedere la Chiesa all’opposizione.
Soprattutto oggi, che governa il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi, particolarmente attento e disponibile nei confronti delle richieste della Chiesa: sulla bioetica, sulla scuola e sull’educazione, sulla famiglia.
Mentre le incomprensioni con il precedente governo di centrosinistra erano comprensibili.
Eppure mai, nella contrastata (per quanto breve) stagione dei rapporti con il governo Prodi, si era assistito ad attacchi tanto violenti, nei confronti della Chiesa, come quelli lanciati negli ultimi giorni dal centrodestra.
Prima: le reazioni della Lega alle critiche espresse dal mondo cattolico in merito alle politiche sulla sicurezza e sull’immigrazione.
Culminate nella minaccia – apertamente evocata dal quotidiano “La Padania” – di rivedere il Concordato.
Poi l’attacco rivolto dal “Giornale” al direttore di “Avvenire”, Dino Boffo (il quale ha parlato di “killeraggio”).
Accusato di non avere titolo per esprimere giudizi “morali” sugli stili di vita del premier.
Troppi e troppo ravvicinati, troppo violenti, questi interventi per apparire casuali.
Come si spiega l’esplodere di queste tensioni? E, in particolare, cosa ha spinto all’opposizione la Chiesa, fino a ieri interlocutore affidabile del governo?

Ricominciamo dai laboratori

Luigi Berlinguer, parlamentare europeo del Pd, ex ministro dell’Istruzione, ed ex professore.
Che ne pensa dell’analisi del professor Ricolfi? «La trovo piuttosto cupa.
Anche se il suo è un testo di grande interesse».
Non le piace questa idea di una scuola che recuperi un suo rigore? «Io credo che il vero rigore sia dato da un codice condiviso».
Che invece non c’è? «A me pare che la scuola non sia più in grado di sollecitare l’interesse dei ragazzi».
E come si recupera questo rapporto? «Intanto col porre l’accento sull’apprendere invece che sull’insegnare.
Dobbiamo, cioè, puntare a che l’allievo si interessi, studi e impari in profondità, non solo teoricamente».
Si fa presto a dirlo.
La via quale sarebbe? «Iniziare dall’esperienza.
Non dalla lezione, non dalla teoria.
Ma semmai dal laboratorio, dal fare.
Utilizzando in questo quanto di positivo può venire dalle nuove tecnologie.
Mentre qui siamo rimasti alla scuola dell’Ottocento con la cattedra e i banchi, la lezione frontale, il docente e il discente.
Allora si andava sul calesse e si comunicava gridando da una collina all’altra.
Ora ci sono i jet e si comunica via Skype.
Immutati sono rimasti solo la cattedra e i banchi».
E’ sicuro che l’esperienza generi interesse? «Certamente ed è anche dimostrato dal vissuto della scuola elementare italiana, dove si svolgono molte attività creative.
Poi dopo, alle superiori, tutto questo scompare, perché ci portiamo ancora appresso l’impostazione idealista per cui si deve iniziare dalla teoria e non dall’osservazione della realtà».
Occorre rivedere la gerarchia dei saperi? «Assolutamente sì.
Ma quando si parla della scuola si parla di tutto – l’aggiornamento, l’organizzazione, la valutazione, i nuovi esami e quant’altro – ma mai di questo».
Faccia un esempio.
«Non possiamo fare finta che non esistano nuove fonti di informazione e di formazione.
Le tecnologie sono entrate nella vita dei ragazzi, introducendo anche nuovi metodi e nuovi approcci al sapere».
Più pratica, quindi, più laboratori? «La conoscenza deve cominciare dal contatto con la realtà e non con la lezione teorica.
E’ importante saper parlare prima di sapere cosa sia il dittongo.
Questo può stimolare nei ragazzi un desiderio di conoscere, che poi approderà anche ad un inquadramento teorico, beninteso, ma come punto di arrivo e non come inizio».
Siamo sicuri che funziona, professore? «Abbiamo di fronte l’esperienza della scuola finlandese, che l’Ocse considera la migliore scuola del mondo: questo tipo di metodo funziona».
Una proposta finale, prego.
«Due.
Centralità della conoscenza sperimentale.
E che si introduca la pratica della musica in tutte le scuole».
_________________ http://www.edscuola.it

La rivoluzione Gelmini del sistema di istruzione

L’approvazione dello schema di regolamento per la riforma dei licei consegna al sistema nazionale di istruzione sei licei, riordinati completamente nei piani di studio, negli orari e nella struttura.
I licei nuovi in assoluto sono il musicale-coreutico e il linguistico.
Nei commenti delle prime ore è stato ritenuto nuovo liceo quello delle scienze umane, ma non è proprio così, perché l’ex-liceo socio pedagogico cambia nome, come l’aveva già cambiato in va sperimentale quando era istituto magistrale.
La vera novità nel sistema statale è il linguistico, assente completamente dall’attuale “vecchio” ordinamento.
Il linguistico aveva fatto la sua apparizione per la prima volta nell’ambito di istituti non statali e aveva poi trovato accoglienza in istituti statali soltanto in via sperimentale, ad esempio, all’interno degli ex-istituti magistrali che, dopo la loro cessazione nel 2001 si erano ristrutturati in diversi rami sperimentali (liceo socio-pedagogico, scienze sociali, linguistico, ecc.).
Dal 2010-11, all’avvio della riforma della secondaria superiore, avranno finalmente piena legittimazione ordinamentale con significativa presenza anche nelle scuole statali.
Per il musicale-coreutico, invece, sarà il 2010 l’anno zero con un avvio graduale che interesserà un sessantina di istituti in tutta Italia.
Tutto da scoprire.
tuttoscuola.com Gelmini: ”Quella dei licei è riforma epocale” Primi commenti all’insegna della soddisfazione da parte del ministro dell’Istruzione Mariastella, circa la riforma dei licei approvata oggi dal Consiglio dei ministri.
Per il titolare dell’Istruzione si tratta di “una riforma epocale”: non se ne faceva una dal “1923, eravamo fermi a Gentile”.
Nella consueta conferenza stampa successiva alla riunione a Palazzo Chigi, il ministro ha chiarito che la riforma partirà dal 2010, “per dare alle scuole il tempo di adeguarsi alle novità’ e per avviare un dialogo con le famiglie e un periodo di 5-6 mesi di orientamento che consenta a genitori e ragazzi di fare scelte consapevoli”.
La Gelmini ha anche chiarito come “la ratio del regolamento sta nel tentativo di coniugare la tradizione con l’innovazione privilegiando la qualità” per avere “una scuola che guardi al futuro, recuperando al meglio la tradizione ma senza essere autoreferenziale e comunque legata al mondo del lavoro”.
Il ministro ha infine ricordato che questa “è solo un’approvazione in prima lettura.
Seguirà una concertazione e una seconda lettura”.
Aprea e Meloni: scuola più moderna, rispettando la tradizione “Il Ministro Gelmini con l’approvazione della riforma dei licei dà il via alle innovazioni più significative emerse dal dibattito politico istituzionale degli ultimi anni, attraverso un calendario certo di attuazione”.
E’ la valutazione del presidente della Commissione Cultura della Camera, Valentina Aprea (Pdl), a cui giudizio “le scuole avranno così la possibilità di inaugurare una nuova stagione di opportunità di studio e di formazione degli studenti potendo contare su piani di studio più moderni ed europei, valorizzando le sperimentazioni più riuscite in questi anni, ma senza perdere di vista la tradizione.
Su questo punto insiste anche il ministro della gioventù, Giorgia Meloni, a cui parere la riforma Gelmini “consegna alla storia il 1968, poiché incrocia la grande tradizione scolastica italiana con gli strumenti didattici e gli obiettivi che definiscono la modernità.
Affronta la sfida educativa della nostra epoca senza accantonare quanto di buono è stato fatto negli anni precedenti, ma facendo giustizia delle molte aberrazioni che hanno affossato la scuola in Italia”.
Tra le aberrazioni la Meloni colloca le “innumerevoli sperimentazioni, figlie della cultura sessantottina, introdotte all’interno del sistema educativo a discapito di nozioni basilari per la crescita culturale e civile degli studenti italiani”.
Per il Pd, la riforma dei licei è ritorno al passato, a ”insegnamento classista” Tra le prime reazioni critiche alla riforma dei licei, giunge quello della responsabile Scuola del Partito Democratico senatrice Mariangela Bastico, che ironizza sulla “epocalità” vantata dal ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini per il provvedimento approvato stamattina in prima lettura dal Consiglio dei Ministri.
“La ‘riforma’ Gelmini per i licei – spiega la Bastico – non è altro che un ritorno al passato e ad un’idea che credevamo superata, quella dell’insegnamento classista voluto da Gentile nel 1923 e basato solo sugli apprendimenti teorici”.
La senatrice del Pd articola il proprio giudizio, trovando “condivisibile la riduzione, per i licei come per gli istituti tecnici e professionali, della frammentazione degli indirizzi e delle specializzazioni.
Ma – continua la parlamentare – è profondamente sbagliato che questo determini la cancellazione delle buone sperimentazioni e delle innovazioni che sono state realizzate in questi anni nelle scuole e che al contrario avrebbero dovuto costituire il fondamento della riforma”.
E quindi domanda: “Ma il ministro Gelmini ha idea di quante elaborazioni e quanto lavoro di ricerca e di applicazione ci sia in queste esperienze? Come può il ministro cestinarle con tanta indifferenza?” Per la Bastico, le scelte operate dalla Gelmini sono nel segno del classismo, con la valorizzazione, come unica vera scuola di qualità, di quella liceale, a discapito de gli istituti superiori, e del risparmio a tutti i costi: “Per risparmiare, le nuove norme si applicheranno nelle prime e seconde classi, così gli studenti che salgono sul treno dell’istruzione liceale quest’anno ne dovranno scendere il prossimo, un fatto assolutamente scorretto e che infrange il patto educativo tra scuola, studenti e famiglie”.
La possibile subalternità dell’istruzione tecnica si ritrova nell’ambiguità del rapporto di questa con il liceo tecnologico.
Su tutti questi punti, l’ex viceministro del governo Prodi promette il Partito Democratico sarà in prima fila nel dibattito parlamentare e nel Paese.
Per i sindacati della scuola   Scrima (Cisl): la riforma dà più certezze I sindacati confederali della scuola danno giudizi diversi sulla riforma dei licei presentata dal ministro Gelmini.
Nettamente negativo quello della Flc-Cgil, articolato quella della Uil scuola, come abbiamo già riferito, complessivamente positivo invece quello della Cisl scuola.
Per il segretario di quest’ultimo sindacato, Francesco Scrima,”la filiera liceale era quella che richiedeva interventi meno incisivi rispetto ai tecnici e professionali: è stato però fatto un lavoro di chiarezza e, nello stesso tempo, sono state elevate ad ordinamento le diverse sperimentazioni in atto”.
Le vere novità, prosegue Scrima, “sono i due licei Musicale-coreutico e delle Scienze umane ed il mantenimento del tecnologico tramite l’opzione.
Il riordino che c’è stato in questo senso fa un po’ di chiarezza e dà più certezze”.
Per la Cisl quindi “il giudizio è sufficentemente positivo, fermo restando che non condividiamo il fatto che si parta in prima e seconda: i processi devono essere graduali, bisogna partire dalla prima, altrimenti il buon lavoro fatto rischia di essere disperso”.
Su quest’ultimo punto i tre sindacati confederali hanno la stessa posizione.
Non sarà facile, per il ministro Gelmini, tener duro su una decisione – quella di applicare la riforma anche nelle classi successive alla prima – che non ha precedenti nella scuola italiana.
 Flc Cgil e Uil Scuola: ”Almeno la riforma dei licei parta dalle sole classi prime” Sono queste le preoccupazioni maggiormente riprese da due dei principali sindacati della scuola, Flc Cgil e Uil scuola, che ipotizzano il rischio “caos” connesso all’idea di far partire la riforma nel 2010 sia per la prima che per la seconda classe.
Le due organizzazioni fanno gli esempi di chi si iscrive quest’anno all’istituto d’arte, e in seconda, l’anno prossimo, dovrà sostanzialmente cambiare scuola, dato che l’istituto confluirà nel liceo artistico, e di coloro che si iscrivono in percorsi sperimentali molti dei quali saranno cancellati per confluire nei sei indirizzi decisi dal Ministero.
Mimmo Pantaleo, segretario della Flc Cgil, spiega che “far partire la riforma in prima e in seconda significa costringere gli alunni di prima del 2009 a cambiare indirizzo e percorso di studi nel 2010; questo perché cambieranno molti indirizzi, percorsi e materie con la riforma”.
Anche Massimo di Menna, segretario generale della Uil Scuola invita il ministro Mariastella Gelmini a ripensarci: “L’unico motivo di questa operazione é di carattere economico: la riforma riduce materie, indirizzi e organico.
Ma per i ragazzi sarà il caos.
Ormai quasi tutti scelgono le sperimentazioni, chi parte quest’anno con un programma rischia di vederselo cambiato l’anno dopo.
Va bene la razionalizzazione delle sperimentazioni, ma é meglio partire solo con le prime”.
      tuttoscuola.com               Oltre al provvedimento sulla riforma dei licei e sulle classi di concorso degli insegnanti, è stato approvato anche un terzo provvedimento, relativo alla riorganizzazione dei centri territoriali permanenti e dei corsi serali.
Si tratta di uno schema di regolamento, finalizzato ad ottimizzare le risorse disponibili, ad assicurare una maggiore qualità del servizio per innalzare i livelli di istruzione della popolazione adulta, potenziarne le competenze, favorire l’inclusione sociale, anche degli immigrati, e contribuire al recupero della dispersione scolastica dei giovani con più di 16 anni che non hanno assolto l’obbligo di istruzione.
tuttoscuola.com    Assieme al provvedimento sulla riforma dei licei il Consiglio dei ministri ha approvato anche il regolamento che rivede le classi di concorso degli insegnanti.
Il provvedimento non era all’ordine del giorno, ma fonti ministeriali spiegano che è stato portato fuori sacco al Consiglio di oggi perché la prossima settimana non ci sarà il Cdm.
“Un regolamento – ha spiegato il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini – improntato  a criteri di flessibilità e che consentirà anche un risparmio”.
L’amministrazione scolastica aveva già da tempo previsto di razionalizzare le classi di concorso, e il provvedimento si è reso urgente perché direttamente collegato alla riforma del sistema scolastico che la Gelmini sta mettendo in atto, soprattutto alla riforma dei licei dove si passa da 400 sperimentazioni a 6 indirizzi.
Per effetto del provvedimento, alcune classi di concorso saranno soppresse, e altre accorpate.
Le fusioni riguarderanno soprattutto le discipline del settore artistico vista la confluenza degli istituti d’arte, con la riforma, nei licei artistici.
Verranno anche istituite nuove classi di concorso come quella di storia della danza o di laboratorio musicale, connesse alla nascita del liceo musicale e coreutico.
tuttoscuola.com Il governo approva la riforma dei licei Due new entry e latino obbligatorio Oltre a classico, scientifico, artistico e linguistico, ci saranno il liceo musicale e quello delle scienze umane  Via libera alla riforma dei licei.
Il consiglio dei ministri ha approvato, in prima lettura, il riordino di questo ramo della scuola secondaria superiore.
Da 400 indirizzi si passa a 6 licei con 10 opzioni per gli studenti.
Due le new entry: il liceo musicale e coreutico e il liceo delle scienze umane.
Il latino sarò presente come insegnamento obbligatorio nel liceo classico, scientifico, linguistico e delle scienze umane.
Il nuovo modello partirà gradualmente, coinvolgendo dall’anno scolastico 2010-2011 le prime e le seconde classi; entrerà a regime nel 2013.
Soddisfatta Mariastella Gelmini, ministro dell’Istruzione: il tentativo ha spiegato, è quello di «coniugare la tradizione con l’innovazione privilegiando la qualità».
«È una riforma epocale – ha aggiunto la Gelmini – che modifica un impianto che risale alla legge Gentile del ’23» SEI LICEI – La riforma spazza via gli attuali 396 indirizzi sperimentali, i 51 progetti assistiti dal ministero e le tantissime sperimentazioni attivate e propone sei licei: il liceo artistico, articolato in tre indirizzi (arti figurative, architettura-design-ambiente, audiovisivo-multimedia-scenografia); il liceo classico (sarà introdotto l’insegnamento di una lingua straniera per l’intero quinquennio); il liceo scientifico (oltre al normale indirizzo le scuole potranno attivare l’opzione scientifico-tecnologica, dove salta il latino); il liceo linguistico (tre lingue straniere, dalla terza liceo un insegnamento non linguistico sarà impartito in lingua straniera e dalla quarta liceo un secondo insegnamento sarà impartito in lingua straniera); il liceo musicale e coreutico, articolato appunto nelle due sezioni musicale e coreutica (inizialmente saranno istituite 40 sezioni musicali e 10 coreutiche); infine, il liceo delle scienze umane che sostituisce il liceo sociopsicopedagogico portando a regime le sperimentazioni avviate negli anni scorsi (le scuole potranno attivare un’opzione sezione economico-sociale, dove non è previsto lo studio del latino).
IL LATINO – Il latino è presente come insegnamento obbligatorio nel liceo classico, scientifico, linguistico e delle scienze umane e come opzione negli altri licei.
È previsto un incremento orario della matematica, della fisica e delle scienze «per irrobustire – spiega il ministero – la componente scientifica nella preparazione liceale» degli studenti (gli insegnamenti di fisica e scienze possono essere attivati dalle istituzioni scolastiche anche nel biennio del liceo classico).
C’è un potenziamento delle lingue straniere con la presenza obbligatoria dell’insegnamento di una lingua straniera nei cinque anni ed eventualmente di una seconda lingua straniera usando la quota di autonomia.
Le discipline giuridiche ed economiche si studieranno sia nel liceo scientifico (opzione tecnologica), sia nel liceo delle scienze sociali (opzione economico-sociale) mentre negli altri licei potranno essere introdotte attraverso la quota di autonomia.
Infine, «per essere al passo con l’Europa», è previsto l’insegnamento, nel quinto anno, di una disciplina non linguistica in lingua straniera.
Tutti i licei prevedranno 27 ore settimanali nel primo biennio e 30 nel secondo biennio e nel 5ø anno, ad eccezione del classico (31 ore negli ultimi tre anni), dell’artistico (massimo 35), musicale e coreutico (32).
Corriere della sera 12 giugno 200 La Gelmini ridisegna i licei Meno ore e meno indirizzi Per poter tagliare il numero dei professori le sperimentazioni verranno ridimensionate.
Al biennio solo 27 ore settimanali, alle medie se ne fanno 30 di Salvo Intravaia Ecco i nuovi licei.
Questa mattina il Consiglio dei ministri ha approvato, in prima lettura, il Regolamento che ridisegna “l’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico dei licei”.
Meno ore di lezione per buona parte degli studenti, meno indirizzi e qualche novità all’orizzonte.
Ma quella più interessante riguarda senz’altro l’entrata in vigore della riforma che partirà dal 2010/2011con le prime e le seconde classi.
E varrà quindi anche per coloro che hanno scelto quest’anno come proseguire gli studi dopo la secondaria di primo grado.
In sostanza, i 500 mila ragazzini che si accingono quest’anno a sostenere gli esami di terza media frequenteranno a settembre il primo anno della scuola superiore secondo il vecchio sistema (licei e relative sperimentazioni, ma anche istituti tecnici e professionali vecchio stile) per ritrovarsi l’anno successivo con orari, materie e organizzazione nuovi.
I nuovi licei saranno sei: classico, scientifico, delle scienze umane, artistico, linguistico, musicale e coreutico.
Gli ultimi due rappresentano per la scuola statale delle autentiche new entry.
Saranno tre gli indirizzi per il liceo artistico, due le opzioni per il liceo scientifico e per il liceo delle scienze umane.
In tutto tra, indirizzi e opzioni, i ragazzini della terza media potranno scegliere tra 10 differenti “strade”.
Tutte le sperimentazioni del liceo classico e scientifico (oltre 400 tra sperimentazioni e progetti assistiti) subiranno un calo di ore, a volte drastico.
Un effetto che colpirà la maggior parte degli studenti, visto che i corsi sperimentali oggi sono i più gettonati.
Per avere un’idea del calo dell’offerta formativa basta spendere qualche cifra.
Del resto, che si tratti di un provvedimento volto al taglio di un consistente numero di cattedre non è un segreto.
I nuovi licei sono ispirati “a una maggiore razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse umane e strumentali disponibili, tali da conferire efficacia ed efficienza al sistema scolastico”, recita l’articolo 1 del provvedimento.
Oggi, il 70 per cento dei ragazzi iscritti al liceo classico e il 60 per cento di quelli in forza allo scientifico seguono un corso sperimentale.
La sperimentazione più seguita al classico è quella in Lingua straniera che da 4.983 ore di studio nei cinque anni passerà a 4.851.
Stesso discorso per il Piano nazionale informatica (ad indirizzo matematico) dallo scientifico: 5.049 ore contro le 4.752 della riforma Gelmini.
Per contro i corsi di ordinamento, frequentati da una minoranza di studenti, vedranno incrementate le ore di lezione.
Tutti i licei, eccetto l’artistico e il musicale, prevedono 27 ore settimanali al biennio.
Meno, cioè, che in terza media, dove si studia per 30 ore settimanali.
Al triennio le ore aumentano: 30 allo scientifico, al liceo delle scienze umane e al linguistico, 31 al classico.
Meno Latino, rispetto ai corsi di ordinamento, e più Matematica allo scientifico che perde anche alcune ora di Lingua straniera.
Più Matematica e Lingua straniera al classico.
Le scuole potranno modificare il piano di studi ministeriale, ritagliando al massimo il 20 per cento del monte ore annuo al biennio e all’ultimo anno e per il 30 per cento nel secondo biennio.
Ma nessuna disciplina potrà subire un taglio di ore superiore al 30 per cento.
Inoltre, le scuole potranno attivare insegnamenti opzionali ma soltanto nei limiti di organico assegnato dal ministero.
Insomma: autonomia sì ma nei limiti delle risorse disponibili.
Tra gli insegnamenti opzionali figurano Diritto ed economia, Informatica, Storia dell’arte, Latino, Greco, Musica e Legislazione sociale, Psicologia, Pedagogia.
All’ultimo anno è anche previsto l’insegnamento di una disciplina in lingua straniera.
Novità in vista anche per gli organismi che governano la scuola.
Il collegio dei docenti potrà essere articolato in Dipartimenti alla progettazione formativa.
Gli istituti costituiranno un Comitato tecnico-scientifico in cui saranno presenti esperti esterni del mondo del lavoro, delle professioni, della ricerca e dell’università.
Repubblica (12 giugno 2009) Un anno fa, quando con le prime dichiarazioni il neo-ministro Gelmini lasciava intendere che il suo sarebbe stato un incarico di messa a punto dell’esistente, quasi in continuità con il metodo “cacciavite” del suo predecessore per l’assestamento del sistema, nulla faceva certamente presagire che vi sarebbe stata invece quasi una rivoluzione del sistema di istruzione.
Si tratta di un cambiamento sostanziale che si può sintetizzare in un numero: nove.
Nove sono infatti i regolamenti di riordino del sistema che il Consiglio dei Ministri, con quelli di ieri, ha messo in cantiere su proposta del ministro Gelmini in qeusti mesi.
Due regolamenti, approvati in via definitiva e firmati dal Capo dello Stato, sono al vaglio della Corte dei Conti per la registrazione finale e la successiva pubblicazione in Gazzetta ufficiale: sono quello del riordino del primo ciclo e l’altro della rete scolastica.
Due altri regolamenti sono stati approvati definitivamente dal Consiglio dei ministri e attendono la firma del Capo dello Stato, la registrazione della Corte dei Conti e la pubblicazione in Gazzetta: sono il regolamento sulla valutazione degli alunni e quello sugli organici del personale Ata.
Altri due regolamenti,varati due settimane fa, (istruzione tecnica e istruzione professionale) sono stati approvati soltanto in prima lettura dal Consiglio dei ministri e devono percorrere l’intera procedura consultiva che richiederà diversi mesi.
Analogamente, i tre schemi di regolamento approvati ieri (nuovi licei, revisione delle classi di concorso ed istruzione degli adulti) cominciano ora il loro non breve percorso consultivo.
Nessuno regolamento, come si vede, ha concluso l’intera procedura di approvazione con la definitiva entrata in vigore, ma tutti sono stati approvati entro i dodici mesi di tempo richiesti dall’articolo 64 decreto legge 112 del 25 giugno 2008.
tuttoscuola.com

Droga e minori

RELAZIONE 2008 La droga continua ad uccidere, nonostante l’impegno delle forze dell’ordine.
E l’Italia resta tra i principali poli europei sia come area di transito che di consumo.
Il nostro è un Paese dove domanda e offerta restano elevate e dove operano le mafie che non solo controllano i traffici internazionali, ma hanno cominciato a produrre la droga in proprio.
È l’allarme che arriva dalla la Direzione centrale dei servizi antidroga (Dcsa) del Viminale, nella sua relazione annuale.
Dal 1973, quasi 22mila vittime.
Nel 2008 è morta per droga più di una persona al giorno.
Vittime che si vanno a sommare ai quasi 22mila morti dal 1973 (l’anno in cui cominciarono le rilevazioni) ad oggi.
Le vittime, 502 nel 2008, sono comunque meno rispetto alle 606 del 2007, con un calo del 17%.
La droga che uccide di più resta l’eroina: 209 vittime contro le 37 attribuite alla cocaina.
I più colpiti sono gli uomini (450, l’89% del totale) a partire dai 25 anni per raggiungere i picchi massimi nella fascia superiore ai 40.
Nella relazione si segnala però che anche tra i giovanissimi si sono registrate vittime: 14 ragazzi tra i 15 e i 19 anni e un adolescente sotto i 15.
Aumentano i minori coinvolti.
E proprio quello sui i minori è uno dei dati che preoccupa di più gli investigatori: nel 2008, infatti, è salito il numero di quelli coinvolti nei traffici di droga.
L’anno scorso ne sono stati denunciati 1.124 (76 arrestati), con un incremento rispetto al 2007 dell’8%.
Quanto alle donne, ne sono state denunciate 3.054, con un calo del 4% dal 2007.
Oltre 28mila le persone arrestateIl contrasto messo in atto dalle forze di polizia ha comunque prodotto risultati importanti.
Delle 35.097 segnalazioni all’autorità giudiziaria, che hanno portato a 28.522 arresti (il 3,18% in più rispetto al 2007), la maggioranza riguarda cittadini italiani (23.691 persone, pari al 67%).
Vi è anche un consistente numero di stranieri: 11.406, il 32% del totale con un incremento del 6% rispetto al 2007.
Boom dei sequestri di hashish.
Nel complesso sono stati sequestrati nel 2008 42.196 chili di droga e le operazioni antidroga sono state 22.470 (+ 1,63 rispetto al 2007).
A fronte di un calo dei sequestri di eroina (-30,22%) e marijuana (-47,69%) si è però registrato un forte aumento di quelli di hashish (70,24%).
Anche i sequestri di cocaina crescono, anche se in misura meno rilevante (4,66%).
Le mafie ora producono in proprio.
È la novità accertata dalle inchieste: la coltivazione diretta «garantisce guadagni maggiori e meno rischi per il trasporto» tanto che, dice la relazione, la produzione di cannabis sta diventando «l’oro verde del capitalismo criminale».
Per il resto la ’Ndrangheta si conferma «una delle grandi holding della droga», capace di far diventare l’Italia negli ultimi 20 anni «il centro strategico del mercato globale della cocaina, instaurando contatti diretti con i narcos della Colombia e detenendo il monopolio del traffico in Europa».

Quei ragazzi privi di educatori

Isabella Bossi Fedrigotti, editorialista del Corriere e nota scrittrice, traccia un quadro preoccupante dei ragazzi d’oggi e, in particolare, di quella parte di loro (e non sono pochi) che con freddezza, cinismo e indifferenza salgono quotidianamente agli onori delle cronache per fatti criminosi, segnati da incredibile violenza.
Di loro, dei ragazzi, quando li arrestano, – osserva la giornalista – si co­glie per lo più la freddez­za e l’indifferenza, non so­lo per le vittime ma an­che per i propri cari e il proprio destino, quasi che qualsiasi cosa – com­preso il carcere – fosse preferibile all’insopporta­bile noia che li affligge.
La giornalista svolge una lunga analisi sui comportamenti di tanti giovani, sul loro ambiguo conformismo, sulla loro vita priva di progetti e di speranze per il futuro; poi si chiede: Ma da dove vengono e chi sono questi alieni crudeli e indifferenti? La risposta è disarmante: Da case normali per lo più; anche dal degrado, dalla miseria e dall’emargina­zione, ma altrettanto, da case belle, quartieri buo­ni e famiglie per bene.
Po­trebbero essere figli di tut­ti noi, incappati per insi­curezza, per solitudine, per noia nell’amico più forte, nel gruppo sbaglia­to; e si sa che il gruppo or­mai conta più della fami­glia, per il semplice fatto che la famiglia, nonostan­te il gran parlare che se ne fa, è oggi più debole che mai.
I ragazzi sono privi della costante ed equilibrante presenza di entrambi i genitori, la famiglia non è più come un tempo affiancata e sostenuta nel suo magistero dagli inse­gnanti e da altre figure di educatori come, per esempio, i parroci.
Poveri ragazzi – conclude l’editorialista – però è questo il piatto che abbiamo preparato per loro, gli esempi che abbiamo fornito, i modelli che abbiamo fabbricato.
Ed è un serpente che si morde la coda perché se famiglia, scuola e istituzioni varie oggi si rivelano così deboli, così inascoltate e incapaci di educare è anche perché per prime sembrano aver smarrito nel tempo le ragioni forti del loro essere.
I maestri, insomma, i tanto invocati maestri grandemente scarseggiano perché non credono più al loro magistero.
I RAGAZZI E I SILENZI DEGLI ADULTI I nostri figli senza maestri di Isabella Bossi Fedrigotti Della politica, di ogni suo minimo sussulto, controversia o screzio, si discute per giorni, si ragiona, si polemizza.
Dei giovani e giovanissimi, dei loro problemi, dei loro allarmi, della loro violenza, dei terrificanti crimini che riescono a commettere quando ancora, almeno in teoria, devono rispettare l’orario di rientro dettato dai genitori, dopo un momentaneo commento incredulo e sbigottito, si tende, invece, a tacere.
E così gli accoltellamenti, le rapine, le aggressioni, gli stupri di gruppo, gli assassini per opera di adolescenti o poco più transitano veloci, giorno dopo giorno, negli spazi delle cronache nere senza che ci prendiamo la briga di riflettere davvero su cosa sta succedendo nella nostra società.
Di loro, dei ragazzi, quando li arrestano, si coglie per lo più la freddezza e l’indifferenza, non solo per le vittime ma anche per i propri cari e il proprio destino, quasi che qualsiasi cosa—compreso il carcere — fosse preferibile all’insopportabile noia che li affligge.
E sembra specchiarsi, quest’indifferenza, nel loro abbigliamento, sempre uguale, jeans, scarpe sportive e felpa, del tutto indifferente a diversi luoghi e occasioni: casa, scuola, lavoro, pub, sport oppure discoteca.
Vanno e rubano, vanno e accoltellano, vanno e dan fuoco a un barbone, vanno e uccidono un compagno di scorribande, quasi sempre in gruppo, per farsi forza, naturalmente, perché da soli forse non oserebbero; e noi ce la sbrighiamo parlando di «fenomeno delle baby gang», come se il termine straniero minimizzasse la tragicità dei fatti.
Ma da dove vengono e chi sono questi alieni crudeli e indifferenti? Da case normali per lo più; anche dal degrado, dalla miseria e dall’emarginazione, ma altrettanto, da case belle, quartieri buoni e famiglie per bene.
Potrebbero essere figli di tutti noi, incappati per insicurezza, per solitudine, per noia nell’amico più forte, nel gruppo sbagliato; e si sa che il gruppo ormai conta più della famiglia, per il semplice fatto che la famiglia, nonostante il gran parlare che se ne fa, è oggi più debole che mai.
Oltre a essere spesso dimezzata, per cui i ragazzi sono privi della costante ed equilibrante presenza di entrambi i genitori, non è più come un tempo affiancata e sostenuta nel suo magistero dagli insegnanti e da altre figure di educatori come, per esempio, i parroci, per ragioni che a volte risalgono paradossalmente proprio alla famiglia.
Se, infatti, padri e madri—come spesso succede — prendono sistematicamente le parti dei figli contro maestri e professori, è difficile che si crei quell’alleanza di intenti preziosa per l’educazione.
E rinunciare a qualsiasi forma di istruzione religiosa è, ovviamente, una scelta rispettabilissima che però priva la famiglia di un supporto non indifferente.
Moltissimi sono naturalmente i padri e le madri forti abbastanza per farcela da soli a insegnare ai figli cos’è bene e cos’è male, ma molti sono anche quelli che, invece, non ce la fanno.
Ma c’è dell’altro, ed è la profondissima infelicità dei giovani.
Perché è certo che sono infelici, lo gridano dietro i loro indecifrabili silenzi, che non sempre riflettono soltanto il comodo, rilassante oppure stanco silenzio degli adulti.
È un’infelicità chiusa e senza desideri, peraltro, secondo il geniale titolo del romanzo di Peter Handke, perché non può esserci desiderio dove non c’è speranza.
Ecco, quel che atterra i nostri figli, quel che toglie loro qualsiasi energia positiva, quel che li rende tetri e annoiati e, dunque, disponibili alle trasgressioni più atroci, è la mancanza di speranze condivise.
Speranze che molto prima di essere di natura economica sono di natura ideale, nutrimento e carburante indispensabile per i giovani.
Anche per noi adulti, ovviamente, perché l’uomo non può vivere senza aspettarsi per domani una sia pur minuscola luce, ma in modo molto meno assoluto e radicale, perché abbiamo ormai imparato bene a difenderci dal vuoto.
Speranze —condivise — che una volta riguardavano la politica, per esempio, oppure la religione o la cultura e che adesso, mediamente, s’innalzano fino ai successi della squadra di calcio del cuore o al sogno di finire in tv oppure alla conquista di un certo tipo di abbigliamento firmato e uniforme.
Poveri ragazzi, viene da dire, però è questo il piatto che abbiamo preparato per loro, gli esempi che abbiamo fornito, i modelli che abbiamo fabbricato.
Ed è un serpente che si morde la coda perché se famiglia, scuola e istituzioni varie oggi si rivelano così deboli, così inascoltate e incapaci di educare è anche perché per prime sembrano aver smarrito nel tempo le ragioni forti del loro essere.
I maestri, insomma, i tanto invocati maestri grandemente scarseggiano perché non credono più al loro magistero.
Corriere  della sera 30 aprile 2009