Chiesa for Africa

“Africa, alzati e cammina!”.
L’esortazione lanciata dal messaggio finale del sinodo dei vescovi africani è eloquente: il continente deve trovare in sé le risorse per cambiare.
Il documento, che fa la sintesi dei lavori svolti in Vaticano dal 4 al 25 ottobre 2009, contiene numerosi appelli.
Ai cattolici impegnati nella vita pubblica i vescovi dicono che l’Africa ha bisogno di politici santi, in grado di combattere la corruzione e di lavorare per il bene comune.
Coloro che non hanno questo orientamento si convertano o abbandonino la scena pubblica, per non danneggiare la popolazione e la credibilità della Chiesa cattolica.
Alla comunità internazionale viene chiesto di trattare l’Africa con rispetto.
Occorre cambiare le regole del gioco economico, mettere fine al dramma del debito estero, fermare lo sfruttamento delle multinazionali che distruggono le risorse naturali africane, e non nascondere dietro agli aiuti intenzioni per niente nobili.
Ai maschi cattolici è chiesto di essere uomini veri, mariti e padri responsabili, capaci di difendere la vita fin dal concepimento e di educare i figli.
“La povertà – si legge – spesso rende i genitori incapaci di prendersi buona cura dei propri figli, con conseguenze disastrose”.
Ma le parole più accorate sono per le donne cattoliche, definite “la spina dorsale della nostra Chiesa locale”.
A loro i vescovi africani si rivolgono come alla risorsa più preziosa della società.
Il loro contributo “dovrebbe essere riconosciuto e promosso, non solo in casa come moglie e madri, ma più generalmente anche nella sfera sociale”, il che vale per la Chiesa stessa, chiamata a creare “strutture concrete per assicurare la reale partecipazione delle donne a livelli appropriati”.
Alle donne la Chiesa chiede di prendere parte ai progetti di sviluppo delle Nazioni Unite, tenendo ben desto però il senso critico: “Munite di una buona informazione e della dottrina sociale della Chiesa, dovreste fare in modo che le buone idee non vengano distorte dagli spacciatori di ideologie straniere moralmente velenose che riguardano il genere e la sessualità umana”.
Ricordando poi che in molti paesi africani più del sessanta per cento della popolazione ha meno di venticinque anni, i vescovi si rivolgono alle nuove generazioni chiedendo loro di essere “strumenti di pace” all’avanguardia nel cambiare la società.
“Voi giovani adulti – si legge – siete spesso trascurati, lasciati alla deriva come bersagli per ideologie e sette di ogni tipo.
Voi siete reclutati per pratiche violente.
Esortiamo tutte le Chiese locali a considerare l’apostolato verso i giovani come un’alta priorità”.
Circa il problema aids il sinodo ribadisce che la Chiesa non ritiene possibile una soluzione attraverso la distribuzione di profilattici.
Più importante è riconoscere “il successo già ottenuto dai programmi che consigliano l’astinenza tra i non sposati e la fedeltà tra gli sposati”.
I giovani non permettano a nessuno di dire che non è possibile autocontrollarsi.
Di fronte alla situazione politica del continente, se da un lato i vescovi si congratulano con i paesi che sono riusciti a introdurre la democrazia, dall’altro esprimono desolazione per le numerose situazioni di conflitto, sempre mescolate alla corruzione e alla bramosia di potere.
Anche in questo caso la denuncia è netta: qualunque sia l’incidenza degli interessi stranieri, dietro queste situazioni c’è sempre “la vergognosa e tragica collusione dei leader locali, politici che tradiscono e svendono le loro nazioni, uomini d’affari corrotti che sono in collusione con multinazionali rapaci, commercianti e trafficanti di armi, agenti locali di organizzazioni internazionali pagati per diffondere ideologie letali alle quali essi stessi non credono”.
“Che ne è – si chiedono i vescovi – del nostro tradizionale senso di vergogna?”.
E’ tempo di cambiare.
Infine la denuncia del fanatismo religioso, che si sta diffondendo ed è causa di rovina in molte parti dell’Africa.
“Dalla cultura religiosa tradizionale gli africani hanno assorbito un profondo senso di Dio creatore”, portandolo anche nella loro conversione al cristianesimo e all’islam.
Ma troppo spesso questo fervore religioso “è male indirizzato dai fanatici o manipolato dai politici”.
Ecco perché occorre tornare a una fede genuina, ben sapendo che nel rapporto tra le religioni dialogo e collaborazione sono possibili solo se c’è rispetto reciproco.
Ai paesi islamici i vescovi ricordano che “la libertà di religione comprende anche la libertà di condividere la propria fede, di proporla, di accettare e accogliere coloro che si convertono”.
Le nazioni che per legge impediscono tale libertà privano i loro cittadini di un diritto umano fondamentale.
“Poiché i cristiani che decidono di cambiare la loro religione sono ben accolti tra le fila musulmane, ci deve essere reciprocità in questo campo.
Nel nuovo mondo che sta nascendo abbiamo bisogno di dare spazio a ogni fede perché contribuisca pienamente al bene dell’umanità”.
in “Europa” del 24 ottobre 2009

«Ora di religione islamica»

Si parla molto di Islam ad Asolo e non potrebbe essere diver­samente, visto che qui si svol­ge il workshop «Le nuove po­litiche per l’immigrazione», seconda edizione dei «Dialo­ghi asolani», laboratorio di confronto bipartisan animato dalle Fondazioni FareFuturo e ItalianiEuropei e dai rispetti­vi politici di riferimento, Gianfranco Fini e Massimo D’Alema.«Eccoci qui ad Asolo, nel covo di congiurati», scherza Lucia Annunziata, riferendo­si ai timori di un patto tra­sversale che scardini l’attuale maggioranza e rivolgendosi all’intervistato Beppe Pisanu.
«Domani ne arrivano altri due», risponde a tono l’ex mi­nistro.
Che naturalmente ne­ga complotti: «Se il dialogo non viene praticato neanche nel buio di questa crisi, c’è davvero da temere per l’avve­nire del Paese».
PER ATTIRARE NELLE SCUOLE I RAGAZZI MUSULMANI E il dialogo parte, con il segretario gene­rale di FareFuturo Urso: «Po­trebbe essere utile, per attira­re nei nostri istituti i ragazzi musulmani, prevedere un’ora di storia della religio­ne islamica».
E gli insegnan­ti? Saranno imam? «Dovreb­bero essere docenti ricono­sciuti, italiani che parlano in italiano.
Al limite anche imam, a patto che abbiano i requisiti e che siano registrati in un apposito albo.
Stiamo parlando di insegnanti reclu­tati con criteri pubblici».
Nel documento di ItalianiEuro­pei, a cura di Marcella Lucidi, sul tema ci si tiene più sul va­go, auspicando «una riflessio­ne non occasionale» e chie­dendo un insegnamento che «promuova la conoscenza del­la cultura e della religione di appartenenza dei ragazzi e delle loro famiglie».
Urso ri­lancia anche l’idea di «classi miste temperate» e dice no al velo negli uffici pubblici.
NORME SULL’IMMIGRAZIONE  Ma è soprattutto sulle nor­me per l’immigrazione che si colgono grandi punti di con­vergenza.
A leggere il paper di FareFuturo, a cura di Valen­tina Cardinali, si coglie subi­to un dissenso netto dalle po­sizione leghiste: «No a scon­tri di civiltà e no alla strumen­talizzazione delle paure».
Ma si nota anche una divergenza con Silvio Berlusconi, che ha dichiarato di essere contrario a un Paese «multietnico»: «L’Italia già da alcuni decenni è senza dubbio un paese mul­tietnico » spiega il dossier.
Fa­reFuturo cita il progetto di legge bipartisan Granata-Sa­rubbi e lancia alcune propo­ste: cittadinanza dopo cinque anni, in cambio di esame di lingua e test di cultura, dirit­to di voto amministrativo, status giuridico a 10 anni per i figli di immigrati nati in Ita­lia, meno discrezionalità del­l’atto di concessione.
Non che FareFuturo rinneghi le politiche di contrasto del go­verno, a partire dal reato di clandestinità e dai respingi­menti: «Ma sono solo una fac­cia della medaglia – spiega Ur­so – .
Servono anche integra­zione e cittadinanza e dobbia­mo allargare le maglie sui flussi».Il dossier di ItalianiEuropei concorda in alcuni punti (cit­tadinanza, diritto di voto), in altri va oltre (cittadinanza su­bito ai figli degli stranieri na­ti in Italia) e lancia il concetto di «cittadinanza sociale», chiedendo di svincolare il per­messo di soggiorno dalla du­rata del contratto di lavoro.
Non è escluso che oggi, pre­senti D’Alema e Fini, si ponga­no le basi per arrivare a un do­cumento congiunto.
Alessandro Trocino 17 ottobre 2009 L’ora di religione? Cattolica, ma an­che islamica.
L’idea è del vice­ministro Adolfo Urso, che propone l’introduzione nelle scuole pubbliche e private di una nuova materia, facoltati­va e alternativa a quella catto­lica, per evitare di lasciare i piccoli musulmani «nei ghet­ti delle madrasse e delle scuo­le islamiche integraliste».
E anche il Vaticano è favorevole «Giusto consentire ai bimbi di un’altra religione di avere questa opzione»  Massimo D’Alema commenta positivamente la proposta del vice ministro Adolfo Urso, per programmare nelle scuole l’insegnamento della religione islamica in alternativa alla religione cristiana, almeno per gli alunni di fede islamica.
«Mi sembra una idea condivisibile – ha detto D’Alema ad Asolo – non capisco perché non si debba consentire a bimbi di religione islamica, come opzione alternativa, l’insegnamento della loro religione».
APERTURA ANCHE DEL VATICANO  Anche il Vaticano ha aperto all’ipotesi di una ora di religione musulmana a scuola e, per bocca del cardinale Renato Raffaele Martino, sottolinea che, assicurando i debiti “controlli”, si tratterebbe, oltre che di un “diritto”, di un meccanismo che permetterebbe di evitare che i giovani di religione islamica finiscano nel “radicalismo”.
«Se si ammettono gli immigrati, essi vengono con la loro cultura e la loro religione e devono inculturarsi nel paese dove arrivano», spiega il presidente del Pontificio consiglio Giustizia e pace.
«A meno che non scelgano di convertirsi al cristianesimo – perché la libertà di religione è un principio sancito da Dichiarazione dei diritti dell’uomo – se scelgono di conservare la loro religione hanno diritto ad istruirsi nella loro religione», ha affermato il cardinal Martino.
LA LEGA RIBADISCE IL SUO NO  «Con la Lega Nord in questa maggioranza non potrà realizzarsi in nessun modo la proposta di Urso per l’introduzione dell’ora di religione islamica.
Non lo permetteremo mai: noi le nostre radici cristiane le difenderemo fino in fondo».
Resta questa la linea della Lega, ribadita di nuovo da Federico Bricolo, presidente della Lega Nord al Senato, che aggiunge: «Urso, uno dei leader di An, ha voluto il posto come viceministro allo Sviluppo economico e quindi pensi a lavorare nel suo ministero, che di cose da fare a sostegno dei nostri imprenditori e lavoratori ce ne sono tante e la smetta di proporre le stesse cose di D’Alema e della sinistra».
IL CARDINAL TONINI: «TROPPO PRESSAPOCHISMO»  La proposta di introdurre un’ora di religione islamica nelle scuole italiane, pure nelle sue «buone intenzioni», non trova invece d’accordo il cardinale Ersilio Tonini che afferma: «capisco le intenzioni ma dietro queste proposte c’è pressapochismo.
Ci vuole massima prudenza nell’approccio con l’Islam».
Secondo il porporato, «si tratta di un’idea impraticabile, non attualizzabile nel nostro momento storico».
Il cardinale precisa il suo disappunto: «pensare che l’Islam sia un gruppo completo, esaustivo, è un errore.
L’Islam ha mille espressioni, collegamenti, imparentamenti.
Insomma, con i valori della nostra civiltà non ha nulla a che vedere».
17 ottobre 2009

Fao: «Più di un miliardo gli affamati nel mondo»

Rischio paesi ricchi.
Anzi: persino nei Paesi ricchi registriamo un aumento degli affamati del 15,4% rispetto allo scorso anno.
È il principale risultato contenuto nell’edizione 2009 dello Stato dell’insicurezza alimentare nel mondo (Sofi 2009) che lancia oggi alla vigilia della Giornata mondiale dell’alimentazione che si celebra domani.
Che segnala un’amara sorpresa: percentualmente sono i Paesi ricchi ad aver visto il numero delle persone che hanno fame crescere di più, registrando un aumento del 15,4% e raggiungendo la quota assoluta di 15 milioni di affamati.
Il record negativo di insicurezza alimentare lo mantiene la regione Asia-Pacifico con 642 milioni di persone che hanno fame (+10,5%), seguita dall’Africa Subsahariana con 265 milioni (+11,8%), dall’America Latina con 53 milioni (+12,8%) e infine dal Nord ed est Africa con 42 milioni (+13,5%).
100 milioni di persone affamate in più.
«Rispetto allo scorso anno oltre 100 milioni di donne, uomini e bambini in più, un sesto di tutta l’umanità hanno fame nel 2009 – scrivono nell’introduzione il direttore generale della FAO Jacques Diouf e la direttrice esecutiva del PAM Josette Sheeran, che per le Nazioni Unite -.
La crisi dei prezzi delle materie prime alimentari del 2006-2008 ha portato fuori dalla portata del reddito di queste persone tutti gli alimenti di base e nonostante i ribassi alla fine del 2008 erano in media ancora del 17% più alti di due anni prima della crisi.
Questo ha costretto molte famiglie povere a scegliere tra cure sanitarie, scuola e cibo».
L’importanza dell’agricoltura.
Il messaggio lanciato al nuovo Vertice per la sicurezza alimentare vedrà i Capi di Stato e di Governo nuovamente a Roma dal 16 al 18 novembre prossimi è molto chiaro: c’è bisogno di una strategia a due tempi: un intervento d’emergenza, con voucher alimentari, aiuti e reti di sicurezza e welfare immediato, e a medio termine un vero programma di sostegno all’agricoltura contadina.
«Nei tempi di crisi passati si è sempre assistito a una riduzione degli interventi pubblici a sostegno dell’agricoltura.
Ma l’unico strumento efficace per vincere la povertà – avvertono i due responsabili delle Nazioni Unite – è assicurarsi un settore agricolo in piena salute».
Avvenire 14 ottobre 2009 Nel mondo nel 2009 siamo arrivati ad avere 1.02 miliardi di persone affamate.
È la prima volta che accade dal 1970 e, mentre nel Vertice per la sicurezza alimentare di due anni fa i capi di Stato e di Governo avevano confermato l’obiettivo assunto con la Dichiarazione del Millennio di dimezzare il numero di chi ha fame entro il 2015, oggi l’obiettivo è definitivamente archiviato. 

Il paradosso dei cattolici

L’esistenza nella galassia cattolica di “cattolici democratici” è di per sé stessa la dimostrazione di una difficoltà non risolta nel rapporto tra democrazia e cattolicesimo.
Se la difficoltà non ci fosse, l’aggettivo specificativo sarebbe superfluo.
Il fatto che vi siano cattolici che si auto-definiscono democratici significa sì che il cattolicesimo è compatibile con la democrazia, ma anche che la democrazia non è coessenziale al cattolicesimo, perché esso contempla anche l’antidemocrazia.
Se poi consideriamo che i cattolici democratici, per loro stesso riconoscimento, nel loro mondo sono oggi minoranza, la conclusione preoccupante è che, dalla maggioranza, le regole della democrazia, se sono accettate, lo sono non per adesione, ma per sopportazione o per opportunità: se e finché non si prospettino convenienze migliori.
Queste affermazioni possono sembrare temerarie, considerando il contributo cattolico alla lotta di liberazione, all’elaborazione della Costituzione e alla partecipazione alla vita democratica nei decenni che ne sono seguiti.
Ma, per l’appunto, il mondo cattolico è una galassia dove c’è di tutto e quel contributo alla democrazia, che nessuno potrebbe negare o sminuire, si accompagna al permanere di atteggiamenti d’altro genere, riserve mentali e aperte contraddizioni.
Una frattura profonda ha separato, fin dalle origini, la democrazia moderna dal mondo cattolico e questa frattura, evidentemente, non è completamente sanata.
La ricorrente accusa di “relativismo” rispetto ai “valori” è solo una denuncia aggiornata dei “deliramenti” democratici d’un tempo (enciclica Diuturnum illud del 1881).
Nel contesto di questa diffidenza antica si sviluppa la testimonianza che Rosy Bindi, una delle voci più impegnate a difendere l’identità e l’eredità dei cattolici democratici, ha reso in un libro-intervista con Giovanna Casadio (Quel che è di Cesare, Laterza, pagg.
144, € 10).
È una testimonianza di quel che la fede cristiana può portare come contributo all’ethos democratico.
Ma è anche la prova della tensione che deriva non – come talora erroneamente si dice – dall’essere cittadino e credente al tempo stesso (come se la democrazia dovesse essere necessariamente atea o agnostica), ma dall’essere al tempo stesso cittadino e membro della Chiesa cattolica, quando essa – per così dire – si pone (in misura più o meno stringente, si è sempre posta) come organizzazione dell’obbedienza nelle cose temporali.
Non sono le fedi, laiche o religiose, a creare difficoltà.
Esse, in quanto vissute nella libertà e nella responsabilità, non impediscono la democrazia, anzi l’arricchiscono.
È nella duplice appartenenza allo Stato democratico e alla Chiesa come potere disciplinare, la radice della difficoltà.
Due lealtà possono entrare in conflitto; doveri diversi possono contrapporsi.
Il cittadino, per rispettare se stesso, dovrebbe negare il credente; il credente, per non contraddire il suo vincolo confessionale, dovrebbe negare il cittadino.
Non è vero, infatti, che le due appartenenze si completino a vicenda.
Il conflitto è in agguato.
La democrazia presuppone l’apertura al dialogo fecondo, cioè non per finta, in vista di accordi e, ove occorra, di compromessi.
Esige, in una parola, atteggiamenti non dogmatici ma laici.
L’appartenenza alla Chiesa può invece creare situazioni drammatiche di aut-aut: o dentro o fuori, o obbedienza o tradimento e scomunica.
Due logiche che, quando si scontrano radicalmente, creano difficoltà e sofferenze che possono risolversi solo con la capitolazione di una delle due parti.
Anche il famoso caso, citato anche nell’Intervista, di Alcide De Gasperi che resiste al Diktat politico del Papa minacciando le dimissioni da presidente del Consiglio, ne è la riprova.
Fu Pio XII a recedere, cioè a capitolare.
Non fosse stato così, le dimissioni di De Gasperi, dal punto di vista dei suoi doveri civili sarebbero state non una dimostrazione di laicità, ma a sua volta una capitolazione di fronte a una pretesa clericale.
Tra i doveri civili, non c’è infatti quello di lasciare il proprio posto, se la Chiesa si inalbera.
La riflessione di Rosy Bindi tocca molti problemi, di teoria e di pratica politica, e li tocca in modo tale da mostrare le possibilità d’integrazione del cattolicesimo democratico nella vita politica comune, al di là dello steccato confessionale.
E mostra altresì il contributo di umanità, giustizia e solidarietà ch’esso è in grado di dare, un contributo al quale i non cattolici non possono essere indifferenti.
Ma questa riflessione non tace le difficoltà che derivano dalla posizione politica che la Chiesa Cattolica è venuta assumendo negli ultimi anni, con l’allontanamento progressivo dallo spirito del Concilio Vaticano II.
È un regresso, le cui conseguenze sono denunciate a chiare e brucianti lettere, con espliciti riferimenti alla politica della CEI del cardinal Ruini: «Purtroppo, smarrita la memoria storica e rimossi i fondamenti della Costituzione e del Concilio Vaticano II, siamo finiti dentro la contraddizione strumentale che la destra sta facendo della religione.
C’è un ritorno al passato, abbiamo bruciato un secolo di storia».
C’è solo da aggiungere due cose: che “quest’uso blasfemo della fede” non è solo della “destra” e trova spesso la calda riconoscenza della gerarchia ecclesiastica.
Gli ambienti curiali, cattolici e atei, denigrano questo genere di considerazioni come trita lamentazione sul “concilio tradito”.
Non è così.
È invece la puntuale registrazione di una strategia fatta innanzitutto di irrigidimenti disciplinari nei confronti dei fedeli, frequentemente richiamati all’ordine gerarchico perfino in occasioni elettorali, e poi di accordi di potere tra vertici della Chiesa e vertici politici, dove l’obbedienza prestata dai cattolici alla gerarchia diventa strumento di pressione, se non di ricatto, nei confronti dell’autorità civile.
Tutto questo si è visto all’opera con i “non possumus”, i “richiami impegnativi”, l’appoggio o il ritiro dell’appoggio a questa o quella formazione politica, a questo o quel governo, fino a condizionarne l’esistenza o la sopravvivenza.
Una Chiesa così potrà pure richiamarsi, davanti al popolo dei suoi credenti, alla propria funzione di traghettatrice delle loro anime nel mondo che ha da venire; ma, per l’intanto nel mondo che c’è, essa è una struttura di potere (cioè di peccato), che divide gli animi e fa della fede religiosa, usata in quei modi, una ragione di conflitto.
Rosy Bindi cita un insegnamento di Pierre Claverie, il domenicano ucciso nel 1996 in Algeria, a causa del suo impegno alla comprensione tra i popoli, un insegnamento che contiene la chiave per comprendere come una fede religiosa può integrarsi nella democrazia, cioè in una “vita buona” per tutti: «Esiste solo un’umanità plurale e quando pretendiamo di possedere la verità o di parlare in nome della verità, cadiamo nel totalitarismo e nell’esclusione.
Nessuno possiede la verità, ognuno la cerca (…) spigolando nelle altre culture, negli altri tipi di umanità, ciò che anche gli altri hanno compreso, hanno cercato nel loro cammino, verso la verità: Sono credente, credo che c’è un Dio, ma non pretendo di possedere quel Dio.
Non si possiede Dio.
Non si possiede la verità e io ho bisogno della verità degli altri».
Questo è l’atteggiamento di umiltà e, al tempo stesso, di fiducia negli esseri umani e di disponibilità al lavoro comune che costituiva l’anima del Concilio Vaticano II, di cui la Gaudium et spes è l’espressione: la libertà dei credenti in re sociali, accanto agli uomini di buona volontà, la loro responsabilità di fronte a Dio e ai propri fratelli, il divieto di invocare l’autorità della Chiesa a sostegno delle loro posizioni, divieto che, simmetricamente, non poteva non implicare l’astensione della Chiesa stessa da interventi vincolanti la coscienza dei cattolici.
La presenza cattolica nelle società umane era concepita come lievito che opera dall’interno, dipendendo dalla forza persuasiva della testimonianza che può venire dalla vita cristiana, vissuta con coerenza.
C’è un’immagine, nell’enciclica Ecclesiam suam (1964) del papa Paolo VI che esprime bene quest’idea: i centri concentrici in cui si diffonde la testimonianza cristiana, fino a raggiungere l’intera umanità.
Nell’insegnamento del Concilio, quella che, legittimamente, per i credenti è verità si trasforma, nei confronti della società nel suo complesso, in esempio, carità.
È l’unico modo per porsi in posizione amichevole.
Invece, ora assistiamo, nell’insegnamento del papa Benedetto XVI, all’insistenza sempre più marcata sulla verità unita in binomio alla ragione: la verità della Chiesa è unica verità di ragione, e la ragione è universale.
Così, la verità cattolica pretende che non solo i credenti ma anche i non credenti pieghino il ginocchio.
Quest’audace operazione teologica si trasforma in una pretesa universalistica della Chiesa.
I non credenti, per così dire, impenitenti, diventano nemici non solo della verità, ma anche della ragione.
Un innegabile capovolgimento del Concilio.
In questo contesto si spiega l’invito che il papa Benedetto XVI rivolge ai non credenti affinché essi, per quanto privi di fede, si adattino ad agire veluti si Deus daretur, come se Dio (anche per loro) esistesse.
Non sarebbe la fede a esigerlo, ma la ragione.
A questo detto papale Bindi, nelle pagine finali, esprime la sua adesione.
Questo è forse l’unico mio punto di dissenso, tra le tante cose che l’intervista ci dice e che testimoniano dell’appassionata ricerca dell’Autrice circa il modo d’essere, senza contraddizione, cristiana e cittadina, insieme.
Gli inviti al come se sono inaccettabili.
L’agire come se Dio esistesse è una provocazione nei confronti dei non credenti.
Essi dovrebbero contraddire la loro coscienza e seguire non la loro ragione, ma quella proclamata dalla Chiesa come verità.
Il rispetto reciproco non è compatibile con questo genere di inviti.
in “la Repubblica” del 6 ottobre 2009

A Barack Obama il Nobel per la pace

È Barack Obama il premio Nobel per la pace 2009.
La commissione di Oslo ha deciso di assegnare il riconoscimento al presidente degli Stati Uniti, insediatosi alla Casa Bianca da meno di un anno.
La motivazione è legata agli sforzi per il dialogo mostrati dal presidente nel corso dei primi mesi del suo mandato: «per il suo straordinario impegno per rafforzare la diplomazia internazionale e la collaborazione tra i popoli».
Hanno pesato a favore della scelta gli appelli di Obama per la riduzione degli arsenali nucleari e il suo impegno per la pace globale MOTIVAZIONE).
Primo afro-americano a rivestire la carica più alta del paese, Obama ha chiesto il disarmo nucleare e sta lavorando dall’inizio del suo mandato per riavviare le trattative di pace in Medio Oriente.
Il riconoscimento di 10 milioni di corone svedesi (1,4 milioni di dollari) sarà consegnato a Oslo il 10 dicembre.
Il portavoce del presidente americano, Robert Gibbs, ha comunicato che Obama devolverà in beneficenza l’intera somma, senza però specificare a quale istituzione il denaro sarà consegnato.
DECISIONE ALL’UNANIMITA’ – La decisione è stata presa all’unanimità, ha detto il presidente della commissione norvegese per il Nobel, Thorbjoern Jagland.
La commissione ha riconosciuto gli sforzi del presidente statunitense per ridurre gli arsenali nucleari e lavorare per la pace nel mondo.
«Obama ha fatto molte cose» ha detto Jagland durante la conferenza stampa a Oslo, «ma è stato riconosciuto soprattutto il valore delle sue dichiarazioni e degli impegni che ha assunto nei confronti della riduzione degli armamenti, della ripresa del negoziati in Medio Oriente e la volontà degli Stati Uniti di lavorare con gli organismi internazionali».
Non deve invece avere pesato il fatto che Obama ha rifiutato nei giorni scorsi di incontrare un altro past-laureate per la pace, il Dalai Lama (che lo vinse nel 1989), leader del governo tibetano in esilio, per evitare di compromettere i rapporti con la Cina in vista della prossima visita ufficiale che il capo della Casa Bianca effettuerà a Pechino.
«SONO ONORATO» – La notizia è arrivata quando negli Usa era notte fonda e Obama è stato svegliato dai suoi collaboratori che gli hanno comunicato le decisioni dell’accademia norvegese del Nobel.
Il presidente si è detto «onorato» della decisione, anche «se non sono sicuro di meritarlo»: ricevo il premio «con umiltà», ha aggiunto, facendo poi sapere che andrà personalmente a Oslo per ritirare il riconoscimento.
Più tardi una breve conferenza del presidente Usa: «Sono sorpreso e profondamente commosso.
Non sono sicuro di meritare di essere al fianco delle persone straordinarie che hanno ispirato me ed il mondo intero.
Accetto questo premio come chiamata all’azione per tutte le nazioni di fronte alle sfide del ventunesimo secolo.
Un premio non per i risultati ma per gli ideali» I PRECEDENTI – Obama non è il primo inquilino (o ex inquilino) della Casa Bianca a ricevere il riconoscimento.
Nel 1906 toccò infatti a Theodor Roosevelt (e l’anno successivo sarebbe stato assegnato al primo e unico italiano a conquistare questo tipo di riconoscimento, il giornalista e scrittore pacifista brianzolo Ernesto Teodoro Moneta) e nel 2002 a Jimmy Carter.
Nel 2007 venne invece assegnato ad Al Gore, vicepresidente ai tempi di Clinton.
Altro esponente di primo piano dell’amministrazione usa insignito del premio è stato all’ex segretario di Stato Henry Kissinger nel 1973, assieme al vietnamita Le Duc Tho (quest’ultimo tuttavia, unico caso fino ad ora nella storia del premio per la pace declinò il riconoscimento per la difficile situazione che viveva allora il suo Paese).
I CASI CONTROVERSI – Attorno alle nomination per il Nobel per la pace, l’unico tra i premi in memoria dello scienziato svedese che viene assegnato a Oslo e non a Stoccolma (un retaggio di quando, ai tempi in cui visse Nobel, la Norvegia era ancora sotto la monarchia svedese), si scatenano spesso dubbi e polemiche.
Basti pensare che in passato tra i candidati a riceverlo ci fu anche Stalin (nominato due volte, nel 1945 e nel 1948, ufficialmente per l’impegno nel far finire la seconda guerra mondiale), che però non lo vinse mai.
E la candidatura l’ha mancata per poco Adolf Hitler: era stato nominato nel 1939 da un parlamentare svedese che poi però cambiò idea e ritirò la sua proposta.
E’ invece rimasta, ma senza seguito, la nomination di Benito Mussolini.
Per contro, tra coloro che non lo ottennero mai nonostante ne avesse chiaramente i requisiti, ci fu il mahatma Gandhi, che non a caso viene definito il «missing laureate»: di nomitanion ne ricevette diverse, in almeno cinque anni diversi, e probabilmente sarebbe stato anche insignito del premio.
Ma è morto assassinato nel 1948 prima che una decisione in tal senso potesse essere presa e per statuto il Nobel non può essere assegnato a persone decedute.
L’APPLAUSO DEL GOVERNO ITALIANO – La notizia dell’assegnazione del premio a Obama ha raggiunto anche il governo italiano, riunito in Consiglio dei ministri.
E lo stesso Silvio Berlusconi, nel corso di una conferenza stampa a Palazzo Chigi, ha rivelato che l’esecutivo ha tributato un applauso in onore del presidente usa.
Un presidente destinatario di tale premio, ha detto il premier, « È un investimento sul futuro, perchè è un presidente Nobel per la Pace sarà tenuto a un comportamento assolutamente ecumenico nei confronti di tutti».
Il Nobel a Obama, ha poi sottolineato il ministro degli Esteri, Franco Frattini, «non è una forzatura in nessun modo, ma è solo la testimonianza che la comunità internazionale è tutta accanto a lui per incoraggiarlo ad andare avanti con più forza, proprio contro i suoi detrattori».
Al.
S.
09 ottobre 2009 Corriere della Sera Grande è stato lo stupore e la meraviglia all’annuncio che il Premio Nobel per la pace per il 2009 è stato assegnato al giovane, semplice, religioso Presidente nero degli USA, quel Barak Obama che già tanta ammirazione ha suscitato per il suo comportamento spontaneo e le sue dichiarazioni politiche che si possono così sintetizzare: disarmo e non proliferazione, promozione della pace, preservazione del pianeta e un’economia che offra opportunità a tutti..
E’ presidente degli Stati Uniti dal novembre del 2008, dopo una clamorosa vittoria contro lo sfidante repubblicano, John McCain divenendo – così- il primo presidente afroamericano nella storia degli States.
La speranza e l’idealismo unificatore sono i grandi temi che hanno richiamato grandi folle ad ogni sua apparizione pubblica, evocando paragoni con Martin Luther King e John F.
Kennedy.
L’atmosfera intensa dei comizi di Obama, che spinge qualcuno ad ascoltare a mani giunte le sue parole, non è dovuta solo alla sua indubbia abilità oratoria, ma anche al contenuto del suo messaggio.
La promessa di “cambiare” le cose a Washington è per lui solo il primo passo verso il progetto ben più audace ed ambizioso di “cambiare l’America e poi il resto del mondo”.
A porlo sulla mappa politica degli Stati Uniti e nel cuore della gente fu uno straordinario discorso alla Convention Democratica del 2004, intitolato “L’Audacia della Speranza”, dove l’idealismo di impronta kennedyana era esaltato da una oratoria alla King(per forza, è stato un buon predicatore della sua chiesa cristiana) Senza dimenticare che la speranza per un mondo migliore è una “radice” molto profonda del Vangelo e Obama(= Benedetto)la sta mettendo in pratica.
Nulla lo spaventa o lo intimorisce e non ha paura di correre incontro ai “nemici”.
Proprio come suggerisce Gesù.
La sua infanzia è stata difficile, come grande è la sua carriera.
Nato il 4 agosto 1961 a Honolulu (Hawaii) da un padre di colore (giunto negli Usa dal Kenya con una borsa di studio) e da una madre bianca (nata in Kansas e poi trasferita nelle Hawaii con i genitori) Barack Hussein Obama ha avuto una infanzia instabile: a due anni ha perso la figura del padre (andato via da casa per studiare ad Harvard), a sei anni è finito in Indonesia (col nuovo marito della madre), a dieci anni è tornato da solo nelle Hawaii per vivere con i nonni materni.
Bravissimo negli studi, entra poi alla Columbia University a New York, lavora come assistente sociale a Chicago, viene accettato alla prestigiosa Harvard Law School.
Rifiuta le offerte d’impiego delle corporation di New York per tornare a Chicago per inseguire una missione sociale e anche l’amore: qui vive infatti Michelle Robinson, la ragazza che dopo un paio di anni diventerà sua moglie e la madre delle loro due bambine, Malia e Natasha.
A Chicago svolge opera di assistenza legale per i poveri ed insegna legge.
Ma i suoi obiettivi sono più ambiziosi.
Nel 1996 viene eletto al Senato dell’Illinois.
Nel 2000 si candida al Congresso Usa come deputato ma viene battuto.
Nel 2004 ci riprova, stavolta per il Senato Usa, e vince alla grande diventando il quinto senatore nero nella storia del Congresso americano.
Nel 2007 si candida alla Casa Bianca: l’annuncio ufficiale arriva il 10 febbraio dalla stessa piazza davanti al Campidoglio di Springfield (Illinois) dove Abramo Lincoln quasi 150 anni prima aveva pronunciato uno storico discorso sulla necessità di restare uniti.
Un simbolismo perfetto.
Il 4 novembre del 2008 la trionfale vittoria che lo conduce alla Casa Bianca, da dove, in pochi mesi, rilancia il dialogo con il mondo musulmano, affronta il delicato tema dei rapporti con l’Iran, avvia una intensa campagna contro la proliferazione nucleare, solo per citare i principali temi della sua azione in ambito internazionale.
Questo nostro mondo, così difficile e complicato, con immensi problemi, eppure con lui troverà la strada verso la pacificazione e – probabilmente, sebbene sia ancora un obiettivo tanto lontano- la fratellanza.

Una scomoda croce nel deserto

Il caso della croce della riserva naturale del Mojave è arrivato alla Corte Suprema degli Stati Uniti dopo otto anni di controversie, nate quando Frank Buono, già assistente alla soprintendenza del parco, ha avanzato richiesta formale al National Park Service (Nps) – cui la Riserva fa parte – di rimuovere la croce lì impiantata sin dal 1934.
Trovandosi su un terreno appartenente al Governo degli Stati Uniti – è la tesi di Buono – la sua esistenza costituisce una violazione del principio di imparzialità del Governo rispetto alle diverse fedi, violando così la establishment clause del primo emendamento della Costituzione.
L’intera vicenda giudiziaria è emblematica e ricca di spunti di riflessione.
Nel 1934 l’associazione Veterans of Foreign War, un’organizzazione privata, decise di onorare i caduti della prima guerra mondiale impiantando una croce di legno alta otto piedi in cima a un’altura rocciosa, Sunrise Rock, su un terreno pubblico che ora fa parte appunto della riserva naturale del Mojave.
Nel corso degli anni, altri gruppi privati e singoli individui hanno sostituito la vecchia croce di legno con altre più nuove, fino a quella corrente, eretta nel 1998 da Henry Sadoz, un privato cittadino.
Nel 1999, un residente dello Utah ha chiesto all’Nps, l’organo che sovrintende alla gestione dei parchi negli Stati Uniti, il permesso di erigere uno stupa, una sorta di memoriale buddista, vicino alla croce.
L’Nps ha respinto la richiesta, affermando che la legge proibisce ai privati di installare memoriali e altri impianti permanenti su proprietà federali senza autorizzazione delle autorità pubbliche.
Rifiutando il memoriale buddista, l’Nps ha inoltre annunciato l’intenzione di rimuovere la croce da Sunrise Rock, la quale, fra l’altro, non sarebbe mai stata formalmente autorizzata.
Le dichiarazioni dell’Nps hanno da subito innescato una serie di polemiche e accesi dibattiti.
Nel dicembre del 2000 è intervenuto il Congresso degli Stati Uniti, che, attraverso un provvedimento legislativo ha di fatto vietato di rimuovere la croce, proibendo l’uso di fondi federali a tale scopo.
La controversia però non si è esaurita.
Nel marzo del 2001, l’ex assistente alla soprintendenza Buono ha adito le vie legali presso la corte distrettuale del distretto centrale della California sostenendo che l’Nps dovesse rimuovere la croce.
Nel gennaio del 2002, mentre il caso Buono giaceva ancora presso la corte distrettuale, il Congresso degli Stati Uniti è intervenuto nuovamente, dichiarando la croce memoriale nazionale e inserendola in un ristretto gruppo formato da altri 45 memoriali nazionali, tra i quali i famosi Washington Monument e il Jefferson Memorial.
Poco dopo, nel luglio 2002, la corte distrettuale ha sentenziato che la croce del Mojave costituisce una violazione dell’establishment clause e ha ordinato all’Nps di rimuoverla.
Anche in questo caso il Congresso ha deciso di intervenire, con un altro provvedimento, proibendo la rimozione e, nel 2003, approvando un’altra legge con la quale si è stabilito di cedere la proprietà di cinque acri della riserva nazionale del Mojave, attorno alla croce in questione, alla Veterans of Foreign War.
Sandoz, a sua volta, ha poi donato alla stessa riserva cinque acri confinanti di sua proprietà.
La legge a ogni buon conto ha stabilito che se usati per finalità diverse da quelle del mantenimento del memoriale, i cinque acri tornino nella proprietà del Governo.
Nel giugno del 2004, la corte d’appello del nono circuito, in un’opinione informale scritta dal giudice Alex Kozinski, confermava la sentenza della corte distrettuale, in quanto la croce viola l’establishment clause.
Il Governo non ha presentato opposizione.
Ciononostante, l’Nps ha proseguito nei passi per il trasferimento della proprietà di Sunrise Rock all’associazione dei veterani, causando la reazione di Buono, che ha chiesto alla corte distrettuale un’ingiunzione, in seguito accordata, di rimozione della croce e di proibizione al trasferimento della proprietà.
Un nuovo ricorso alla Corte d’appello si è risolto con la conferma della decisione della corte distrettuale e quindi la vicenda è approdata, nel febbraio scorso, alla Corte Suprema degli Stati Uniti.
Essendo il National Park Service sotto la giurisdizione del Dipartimento degli interni, il cui segretario è Ken Salazar, la causa è appunto fascicolata con il titolo Salazar vs Buono.
Nella sua memoria presentata alla Corte Suprema, Salazar ha puntato soprattutto su due argomentazioni.
In primo luogo ha sollevato un’eccezione di competenza della corte distrettuale a seguito della mancanza di titolo giuridico da parte di Buono, il quale, secondo la legge, deve dimostrare di avere sofferto un qualche danno, cosa ardua, essendo fra l’altro, un cattolico praticante.
Riguardo al merito della questione, invece, Salazar afferma che, non essendo più su terreno governativo, a seguito della decisione del Congresso del 2003, la croce non costituisce un endorsement del Governo rispetto al messaggio religioso e quindi non viola più l’establishment clause.
La posizione di Buono è invece la seguente: il suo diritto a rivolgersi alla corte è affermato da precedenti disposizioni della Corte Suprema che riconoscevano tale diritto a chiunque avesse avuto “un diretto e non voluto contatto con un simbolo religioso in una proprietà pubblica”.
Nel suo caso, Buono si sarebbe sentito offeso nell’imbattersi nella croce come cittadino, perché la croce testimonia la preferenza del Governo per una fede a scapito delle altre.
Inoltre, Buono contesta la possibilità da parte della Corte Suprema di esprimere sentenza riguardo al fatto che la croce violi o no l’establishment clause, perché sul punto si è già espressa la Corte d’appello nel 2004, senza che il Governo abbia fatto ricorso.
Secondo Buono, la Corte Suprema può solo giudicare se il provvedimento del Congresso del 2007, con il quale veniva trasferita la proprietà di Sunrise Rock all’associazione di veterani ponga fine o meno a tale violazione.
Chiaramente, secondo Buono la violazione persiste, perché anzitutto il Governo ha consentito a creare un memoriale nazionale prevedendo come unico simbolo la croce e non anche altri simboli religiosi.
In secondo luogo perché in realtà tale proprietà non è pienamente trasferita, in quanto condizionata proprio al mantenimento del memoriale.
Il Governo dunque rimane, per così dire, complice del messaggio religioso.
Il caso, quale ne sia l’esito, avrà, come detto, conseguenze importanti.
Se la Corte Suprema deciderà a favore di Buono, tale decisione imporrà ai Governi locali, statali e federale di rimuovere molti simboli religiosi dai memoriali disseminati nel territorio degli Stati Uniti.
Al contrario, se l’Alta corte afferma che la croce non viola l’establishment clause, molti Governi potrebbero essere autorizzati a dare preferenza a un gruppo religioso rispetto a un altro in parchi ed edifici pubblici.
Se infine la Corte Suprema decidesse che Buono non ha titoli per adire le vie legali si avrebbero conseguenze evidenti sulla possibilità dei cittadini di presentare reclami su argomenti simili.
La decisione della Corte Suprema è importante poi, come accennato, anche per un altro motivo: consentirà di osservare qual è la posizione del nuovo giudice Sonia Sotomayor sul rapporto fra Stato e religione, dopo che questa ha preso il posto di David Souter, considerato un fervente partigiano dell’assoluta indipendenza dello Stato dalle confessioni religiose.
(©L’Osservatore Romano – 8 ottobre 2009) Sono previste per oggi, 7 ottobre, le audizioni, presso la Corte Suprema degli Stati Uniti, delle parti coinvolte nel procedimento Salazar vs Buono, un caso che, partendo dalle dispute attorno a una piccola croce posta all’interno della riserva naturale del Mojave – nella contea di san Bernardino, in California – è arrivato a coinvolgere il tema della libertà religiosa negli Stati Uniti.
La decisione della Corte sarà importante anche per verificare la condotta del nuovo giudice Sonia Sotomayor sui delicati temi religiosi e sul rapporto fra Stato e religione.

L’antisemitismo cristiano ha origini pagane

Ma alla fine del regno di Nerone le cose cambiarono.
Nel maggio del 66 con un banale pretesto— gli abitanti avevano rifiutato di andare in processione a salutare due coorti dell’imperatore — il procuratore romano della Giudea, Gessio Floro, scatenò le sue truppe contro il mercato superiore di Gerusalemme provocando in un solo giorno tremilaseicento morti, la maggior parte donne e bambini.
Energica fu la reazione giudaica, che portò alla costituzione di uno Stato indipendente; anche se gli abitanti di Gerusalemme restarono divisi tra coloro che volevano riprendere un percorso di pace e quelli intenzionati a insistere sul terreno delle armi.
La situazione, però, in quel momento era ancora recuperabile.
A provocare la rottura di questo equilibrio fu, nel giugno del 68, la morte di Nerone.
Quando l’imperatore fu ucciso dal liberto Epafrodito, Tito Flavio Vespasiano, un soldato assai capace (ma niente di più) che si era distinto vent’anni prima nella conquista della Britannia, colse l’occasione derivatagli dall’essere comandante in campo della guerra in Giudea per sfruttare la guerra stessa e con essa dare la scalata al potere nella capitale dell’impero sconvolta dalle divisioni per la successione tra Galba, Otone e Vitellio.
Vespasiano riuscì nel suo intento (69) grazie anche ai consigli di Giuseppe, un sacerdote gerosolimitano che, dopo aver comandato le truppe ribelli in Galilea, era stato catturato dai romani e si era messo a disposizione del futuro imperatore vaticinando per lui fin dal 67 (cioè ben prima della morte di Nerone) l’ascesa al sommo incarico.
Giuseppe avrebbe poi spiegato nei sette magnifici libri della Guerra giudaica di cui si è detto all’inizio — scritti nel 70 quando il figlio di Vespasiano, Tito, distrusse la città e il Tempio — come i suoi antichi correligionari si erano fatti sopraffare.
Nonostante le successive sollevazioni in Cirenaica e in Egitto (72) e l’ultimo tentativo di resistenza a Masada (73).
E qui si arriva alla parte più interessante del libro di Goodman, dove si approfondisce quel che rese per così dire definitiva la crisi del 70.
La Storia dell’antisemitismo scritta da Léon Poliakov a ridosso del processo di Norimberga e pubblicata poi negli Anni Cinquanta (in Italia da Sansoni) dedica un numero di pagine davvero limitato alla origine dei sentimenti di ostilità nei confronti degli ebrei che pure si registrano prima dell’età cristiana: «Non scopriamo nell’antichità pagana—scrisse Poliakov—quelle reazioni passionali collettive che in seguito renderanno la sorte degli ebrei così dura e precaria».
Riconosceva, Poliakov, che si deve fare un’eccezione per la città di Alessandria, dove esisteva una grande comunità ebraica e i conflitti tra gli ebrei e la popolazione greca erano «frequenti e acuti» così che dovettero registrare ripetute «esplosioni di collera popolare contro gli ebrei».
Ma, aggiungeva, «come regola generale l’Impero romano dell’epoca pagana non ha conosciuto l’antisemitismo di Stato».
E con questo ridimensionava del tutto le espressioni antiebraiche che troviamo in abbondanza negli scritti di Diodoro Siculo, Filostrato, Pompeo Trogo, Giovenale, Tacito, Orazio, Valerio Massimo e Seneca.
Qualche decennio dopo Peter Schäfer in Giudeofobia.
L’antisemitismo nel mondo antico (Carocci) si è soffermato—in base a un’ampia documentazione — su un’indicazione che il re greco di Siria Antioco VII ricevette dai suoi consiglieri all’epoca dell’assedio di Gerusalemme (135 a.C.) secondo cui non ci si doveva limitare a espugnare la città ma sarebbe stato opportuno «estirpare completamente la razza dei giudei ».
A partire da ciò Schäfer ha sostenuto che si può parlare di antisemitismo in pieno rigoglio «ben prima dell’avvento del cristianesimo ».
Ne è nato un dibattito dalle evidenti implicazioni.
E furono in molti a polemizzare — sia pure tra le righe — con Schäfer.
Uno per tutti lo studioso di Oxford Jasper Griffin il quale (recensendo Giudeofobia su «La Rivista dei libri», settembre 1999) riconobbe che sì, anche in età precristiana «ci furono casi in cui si proiettarono sugli ebrei fantasie di sacrifici umani e giuramenti ratificati con sangue umano» ma, aggiunse, «sono storie rare, che si narravano anche al riguardo di altri gruppi, druidi, cristiani, congiurati di Catilina e non erano dunque prerogativa esclusiva degli ebrei».
Adesso la discussione è destinata a riaprirsi per merito di un voluminoso saggio di Martin Goodman, la cui parte conclusiva prende in esame lo scontro che oppose Roma a Gerusalemme tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo dopo Cristo.
Una resa dei conti spietata che, secondo le stime contenute nella Guerra giudaica di Giuseppe Flavio, provocò oltre un milione e centomila morti.
Cifra sbalorditiva per l’epoca.
Era inevitabile, si chiede l’autore, l’urto tra romani e giudei che ebbe come esito, nel 70 d.C., quella carneficina e soprattutto la distruzione del Tempio di Gerusalemme? O quantomeno era inevitabile che quel conflitto assumesse un tratto per così dire definitivo? Assolutamente no.
Anzi, la tesi di tutta la prima parte del libro di Goodman Roma e Gerusalemme.
Lo scontro delle civiltà antiche, che Laterza sta per mandare in libreria nell’impeccabile traduzione di Michele Sampaolo, è che quei due mondi avrebbero potuto benissimo coesistere come avevano fin lì coesistito: fu la lotta per il potere a Roma che provocò la catastrofe.
In che senso? L’occupazione romana della regione si era protratta per oltre un secolo (dal 37 a.C.) senza che mai si dovessero affrontare crisi di quelle proporzioni.
Dapprima per effetto della repressione messa in atto da Erode; successivamente (dal 6 al 66 d.C.) non ci fu bisogno neanche di quella.

Dibattito sul Bullismo

Il ministro inglese dell’istruzione, il laburista Ed Balls, all’indomani del recente discorso tenuto dal primo ministro Gordon Brown ai membri del proprio partito, in occasione dell’avvio della campagna elettorale che porterà alle urne i cittadini britannici alla fine della prossima primavera, è tornato su uno dei punti cruciali del programma che i laburisti intendono proporre e che riguarda problematiche educative nelle scuole.
A fronte del fatto che una scuola inglese su 5 è stata al centro di episodi di comportamento antisociale da parte dei suoi studenti, l’amministrazione ha intenzione di lanciare una vera e propria sfida per ricondurre i comportamenti dei ragazzi a livelli accettabili.
All’associazione dei genitori che si rifà al partito laburista è stato ricordato il dovere di sostenere il lavoro della scuola, specialmente ora che si sta aprendo un nuovo, inquietante fronte legato alle attività di gruppi razzisti, in grado di influenzare pericolosamente i giovani.
Il prossimo gennaio è infatti attesa la presentazione di una relazione chiesta dal ministro per l’istruzione al responsabile del servizio ispettivo centrata su alcuni punti chiave: -se le misure di salvaguardia contro il diffondersi della mentalità razzista fra i giovani siano sufficienti, -se siano necessarie ulteriori misure per aumentare, nell’opinione pubblica, la fiducia negli insegnanti, al fine di proteggere i giovani dai rischi dell’indottrinamento e della discriminazione, in particolare tramite l’affiliazione ad associazioni di stampo razzista, -se le attuali misure di salvaguardia debbano essere più ampiamente diffuse nel paese attraverso i lavoratori della scuola.
Il problema appare tanto più pressante alla luce dei risultati di recenti inchieste in cui sembrano coinvolti un numero imprecisato di docenti, i cui nominativi non sono conosciuti, i quali sarebbero a loro volta affiliati ad organizzazioni razziste.
Al riguardo, l’amministrazione sta prendendo in considerazione l’opzione di sollevarli dall’insegnamento, non appena vengano identificati.

“Ma lui non si lascia tirare per la giacca”

L’intervista Andrea Riccardi (storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio), il Papa a Praga fa il «tagliando» all’Europa a vent’anni dalla caduta del Muro? «Benedetto XVI sente che la sua missione è parlare al cuore e alla ragione d’Europa.
La battaglia di Wojtyla era rivolta all’Est comunista, la sua è impedire che il vecchio continente perda il suo sapore cristiano ed esca dalla storia per irrilevanza.
Ratzinger non punta a un nuovo imperialismo, ma affida all’Europa una missione vitale di fede e umanesimo».
Il colloquio con Berlusconi alla partenza per Praga ha fatto discutere.
Franceschini lo definisce un semplice saluto (“gli incontri importanti non avvengono davanti alle telecamere”), Di Pietro una “furbata del premier”.
Qual è la sua opinione? «Il Papa non si fa strumentalizzare, né tirare da una parte o dall’altra.
Poi, certo, Ratzinger stringe la mano, ti fissa negli occhi, ma guarda lontano.
Sa parlare al mondo, e in questi colloqui tocca problemi generali.
Benedetto XVI non è l’uomo della cronaca, però non è avulso né estraneo alle persone che incontra.
Non sta sull’ultimo avvenimento ed è concentrato sulle correnti profonde della storia.
Come papa e come uomo, però, non è strumentalizzabile, non si fa coinvolgere in strategie altrui.
Non è prigioniero del momento, mira oltre la situazione contingente per spingere a quello che conta, difendere i principi non negoziabili e comunicare il Vangelo».
E’ un Papa che teme il progresso scientifico? «No.
Vuole unire la scienza e l’economia all’umanesimo e al valore dell’elemento umano che non si compra e vende sul mercato.
Il suo messaggio è un orizzonte unitario.
Per questo scrive libri su Gesù, la porta d’accesso a tutto è l’annuncio, la passione cristiana.
Sia parlando pubblicamente al mondo accademico sia conversando privatamente con un capo di governo, non lo preoccupa negoziare posizioni o fissare paletti, ma proporre la sua testimonianza.
Non è un crociato, sa di parlare a società fortemente secolarizzate.
Però è consapevole che a cercare di spingere Dio fuori dall’Europa sono stati il nazismo e il comunismo ieri e oggi la ricerca selvaggia del profitto.
Non a caso ha scelto Praga per lanciare il suo monito e non Cracovia o Budapest».
Perché? «Le contraddizioni dell’angolo più secolarizzato d’Europa consentono a Ratzinger di dimostrare quanto le questioni di fede e la dimensione spirituale incidano sulla qualità della vita.
Lui chiama alla responsabilità, alla cooperazione internazionale contro la crisi, avverte che i destini sono legati e pone istanze a nome della Chiesa.
Per questo ha voluto un incontro ecumenico a Praga: per dire che la costruzione del futuro non può riguardare solo l’economia e la politica».
E’ troppo teologo e poco pastore? «E’ un Papa teologo ma appassionato all’umano.
Dopo la caduta del Muro, anche Ratzinger come Wojtyla, si è subito preoccupato della giustizia sociale e non ha mai pensato che bastasse il mercato per garantire la democrazia, la libertà e lo sviluppo.
Non lo hanno mai sfiorato il provvidenzialismo mercatista e la cieca fiducia nell’accumulo della ricchezza che si autogoverna, come dimostrano i forti messaggi lanciati a Praga e l’enciclica sociale.
Benedetto XVI si appella all’amore, al rispetto per l’altro e guida la Chiesa sulla strada del dialogo per favorire l’intesa tra diverse culture, tradizioni e sapienze religiose».
Qual è il senso dell’incontro a Praga con le altre confessioni? «Confrontarsi con esponenti di diverse Chiese, comunità ecclesiali e religioni è già un gran segno di pace.
Serve a parlare con realismo, a guardarsi in faccia, a superare le distanze, a fronteggiare l’allontanamento di Dio dalla vita dell’uomo.
Incontrarsi non risolve miracolosamente i problemi, ma crea una prospettiva nuova per vederli.
Trent’anni fa si pensava che magicamente le secolari lacerazioni tra cristiani si sarebbero composte, adesso sappiamo che serve gradualità.
E Benedetto XVI punta su un comune sentire, rifiuta la religione come pretesto per la violenza e indica la via del vivere insieme».
in “La Stampa” del 28 settembre 2009