Torna anche quest’anno, ancora una volta, la polemica sul presepe a scuola.
Di scuole, classi e docenti che non festeggiano il Natale o non si curano di allestire il presepe in Italia ce ne sono a centinaia (o forse a migliaia), ma non arrivano quasi mai agli onori delle cronache.
L’ultimo caso riportato dai giornali e di cui si è occupato lo stesso ministro Gelmini viene da Cremona, dove in una scuola elementare, per iniziativa a quanto sembra di un maestro, la festa del Natale è stata abolita e sostituita da una generica e pacifista “festa delle luci”.
Secondo la Gelmini “non si crea integrazione e non la si aiuta eliminando la nostra storia e la nostra identità.
In particolare il Natale contiene un messaggio di fratellanza universale.
Quindi è un simbolo che non divide ma unisce”.
Commentando la decisione della scuola ha precisato che essa “non è da me condivisa e non la trovo utile, pur nel rispetto dell’autonomia di ogni singola scuola”.
“La Festa delle luci” ha sostituito da qualche anno quella di Natale.
E non solo a Cremona, ma in altre scuole italiane.
La decisione sarebbe stata assunta d’intesa con i genitori e senza mai che ci fossero rimostranze, secondo una particolare idea di ospitalità, nel presupposto che si tratterebbe di una scuola interculturale.
Per il ministro leghista delle Politiche Agricole, Luca Zaia, si tratta di “un altro harakiri culturale perpetrato da un finto educatore sulla pelle dei nostri bambini”.
Negli ambienti della curia cremonese si fa notare che “non è però azzerando la propria identità che si può onorare il dialogo interculturale e religioso.
Questo atteggiamento in termini psicologici si chiama perdita dell’autostima.
Ed è una malattia da curare”.
Se in Italia c’è chi lascia la tradizione del presepe e la festa del natale in nome dell’integrazione culturale e del rispetto degli altri, in Olanda, più o meno per le stesse ragioni, c’è chi decide di eliminare anche l’albero di natale.
È accaduto all’Aja in un istituto scolastico dove la dirigenza ha deciso di non innalzare il tradizionale albero di Natale che per consuetudine ogni anno faceva bella mostra di sé nell’androne dell’istituto.
La direzione della scuola ha motivato la decisione con il carattere internazionale dell’istituto, frequentato per circa il 40% da studenti e docenti di diverse nazionalità, perché questi non si identificherebbero “in un simbolo, prettamente cristiano, come l’albero di natale”.
Ma l’iniziativa non ha trovato d’accordo molti dei ragazzi che frequentano l’istituto che si sono mobilitati, portando l’accaduto all’attenzione dei giornali e di alcuni politici e sostenendo che “chi arriva da altri paesi per studiare in Olanda lo fa anche per entrare in contatto e sperimentare una diversa cultura”.
Dopo aver preso posizione contro, gli studenti hanno rimesso l’albero al suo posto; la direzione della scuola ha accettato la decisione degli studenti, ribaltando la precedente decisione, lasciando l’albero al suo posto anche in seguito alle numerose reazioni che si sono succedute sull’argomento.
Per alcuni politici della destra ciò che è accaduto è l’ulteriore dimostrazione di quanto i Paesi Bassi stiano vivendo un vero e proprio “dramma” a causa di una “società multiculturale”.
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Svolta verde del Vaticano
Il Vaticano diventerebbe così il primo Stato a ottemperare completamente al protocollo di Kyoto, azzerando le sue emissioni di gas serra.
E ottenendo un notevole risparmio per l’acquisto di energia elettrica, di carburante o per «pagare» le multe previste da Kyoto se si sforano i tetti assegnati.
Per il momento è ancora un’idea, non sono stati sviluppati dei piani operativi, cioè non c’è ancora un progetto esecutivo, ma vista l’ottima esperienza che la Santa Sede ha fatto con la copertura a pannelli solari della Sala Nervi, quella delle udienze papali del mercoledì, che da oltre un anno fornisce una quota importante del fabbisogno della Sala e dei palazzi limitrofi, al Governatorato dello Stato della Città del Vaticano hanno pensato di estendere l’esperimento.
I pannelli fotovoltaici che ricoprono l’Aula intitolata a Paolo VI assicurano già una produzione annua di 300 megawattora pari a 25mila tonnellate di anidrite carbonica non emessa da consumi termici ed elettrici, consumi più o meno fissi, esclusi quindi dal calcolo quelli da mobilità.
Energia pulita prodotta dal generatore solare e immessa nella rete elettrica vaticana.
Il che equivale ogni anno a 80 tonnellate di petrolio non consumato grazie alla «conversione» (in Vaticano usano proprio questo nome) dei malandati pannelli di calcestruzzo e le migliaia di tegolini originali dell’Aula progettata da Pier Luigi Nervi, usurati dal tempo e anche tecnologicamente obsoleti, con 2400 moduli fotovoltaici donati al Vaticano e al Papa tedesco, dalla tedesca SolarWorld Ag e dal suo presidente Franz Asbeck.
Era il 2006.
Nel frattempo si è pensato anche ad utilizzare il «solar cooling» per climatizzare una mensa che fornisce pasti a tre, quattrocento persone al giorno.
L’impianto è in cantiere e alla fine sarà fatto di 300 metri quadrati di collettori solari a tubi sottovuoto.
E saranno altre 30 le tonnellate di petrolio annue non consumate.
Mentre i consumi energetici della villa papale di Castelgandolfo ai Castelli romani potrebbero essere sostenuti utilizzando le biomasse, cioè le linee cellulosiche e le deiezioni animali.
C’è infine il progetto di ammettere nella città pontificia solo auto elettriche.
E l’idea alimentare le strutture di San Giovanni Rotondo, centro della devozione a San Pio da Pietralcina, (la Basilica appartiene alla Santa Sede) con tecnologie fotovoltaiche.
Ma, naturalmente è il progetto di Santa Maria di Galeria, quello più importante e decisivo.
Nella «missione impatto zero».
C’è naturalmente un profilo tecnico ed economico che spinge in questo senso, per far quadrare i bilanci el piccolo Stato, ma c’è ne è un altro simbolico e spirituale: il rispetto del Creato cui tanto spesso ci hanno richiamato gli ultimi due Papi e Benedetto XVI in particolare, anche oggi.
Missione: «impatto zero».
Il Vaticano intende creare a Santa Maria Galeria, alle porte di Roma, la più grande centrale solare d’Europa.
Attraverso l’energia prodotta dai pannelli che saranno stesi su buona parte dei 300 ettari «extraterritoriali» che appartengono allo Stato della Chiesa in quella località, finora nota solo per le antenne della Radio vaticana e per una brutta storia di inquinamento elettromagnetico, con denunce e anche un tormentato processo penale.
Ebbene, Santa Maria di Galeria potrebbe diventare il segno più evidente della «opzione verde» del Vaticano.
Perchè si compenserebbero a regime (tre o al massimo cinque anni) le oltre 91 mila tonnellate di anitride carbonica (Co2) che lo Stato più piccolo al mondo rilascia annualmente.
“I nostri sono valori non negoziabili”
«L´uomo non è un semplice prodotto della natura.
E´ questa la base su cui poggiano tutte quelle tematiche che Benedetto XVI riassume, per cattolici, credenti, non credenti e uomini di buona volontà, quando parla di “valori non negoziabili”».
Valori che – ricorda il Papa – hanno come fine ultimo la difesa della vita dal concepimento fino alla fine naturale.
Di valori non negoziabili – ma non solo – si parlerà a Roma al convegno «Dio oggi.
Con Lui o senza di Lui cambia tutto», organizzato dal cardinale Camillo Ruini, presidente del Progetto Culturale Cei.
Un confronto sullo stato di “salute” della fede, anche per ribadire la strada maestra che i cattolici doc devono seguire nelle scelte sociali.
Cardinale Ruini, perché un convegno dedicato a Dio oggi? «Per due ragioni.
La prima è il nostro compito di sempre: annunciare e rendere testimonianza a Dio è infatti la missione essenziale della Chiesa.
La seconda ragione riguarda l´attuale contesto culturale, nel quale è forte la negazione di Dio, o almeno la convinzione che di Dio la ragione umana non possa sapere nulla, ed eventualmente solo la fede, come fatto soggettivo, possa aprire una strada verso Dio».
Dio discusso come un qualsiasi altro argomento culturale: non c´è il rischio di banalizzarlo? «Promuovere un confronto culturale riguardo a Dio significa cercare di adempiere al mandato contenuto nella prima lettera di Pietro: “Rendere ragione della speranza che è in noi”.
Non significa però pensare che Dio possa essere “padroneggiato” dai nostri discorsi e neppure significa dimenticare che quella di Dio non è soltanto una questione dell´intelligenza: è una questione di tutto l´uomo, che mette in gioco la nostra libertà, sensibilità, il senso e l´orientamento della nostra vita».
Con questo convegno spera di poter fermare, almeno in parte, l´attuale processo di scristianizzazione? «Non penso di poterlo fermare, ma di poter in piccola misura dare un contributo per orientare il divenire della cultura italiana in una direzione più aperta alle piene dimensioni dell´intelligenza e della libertà dell´uomo che, come dicono i teologi, è “capace di Dio”, e rimane tale anche nell´Italia e nell´Occidente di oggi».
Anche la Chiesa ha colpe per questa scristianizzazione? «Tra gli uomini e le donne che formano la Chiesa, accanto a molti santi e autentici testimoni di Dio, vi sono, e temo vi saranno sempre, anche dei testimoni meno attendibili, tra i quali penso purtroppo di rientrare anch´io.
Dio stesso, però, ci chiama tutti a una testimonianza più generosa e più coerente: questo è anzitutto un dono di Dio, per il quale personalmente prego ogni giorno».
La sentenza del Tribunale di Strasburgo che impone di togliere i crocifissi dalle scuole italiane non è in parte figlia di questo processo di scristianizzazione? «Lo è certamente, e mostra l´ambiguità di questo processo.
Infatti, pensando di tutelare al massimo la libertà del singolo, il Tribunale ha trascurato di salvaguardare la libertà di espressione di un popolo, le sue tradizioni, la sua cultura, il sentimento profondo che lo lega alla croce di Cristo».
Rilanciare Dio nella società di oggi significa anche rilanciare temi morali cattolici come la difesa della vita, la condanna dell´aborto, il no all´eutanasia, la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna che Benedetto XVI ha più volte definito “non negoziabili”? «Obiettivo dell´evento internazionale su Dio è affrontare quel grande tema che è Dio stesso, la sua esistenza, il suo vero volto, il suo significato per noi.
Di per sé, non entreremo dunque negli argomenti da lei indicati.
E´ vero però che soltanto se Dio esiste, l´uomo, ogni essere umano, può essere qualcosa di più e di diverso da un semplice prodotto della natura, può essere un fine in se stesso.
Questa è la base comune di tutti i temi che Benedetto XVI ha definito “non negoziabili”: una base che può rimanere anche soltanto implicita, perché il valore dell´uomo ha una sua immediata evidenza».
A chi è destinato il messaggio legato a Dio oggi? Politici, gente comune, uomini di Chiesa? «E´ destinato a tutti, non in particolare all´una o all´altra categoria, anche se il tipo di trattazione di un incontro di questo genere è più facilmente accessibile per chi ha una certa preparazione culturale».
Ma preti, vescovi, cardinali e papi hanno sufficiente attenzione verso Dio? «Benedetto XVI ha scritto, nella sua lettera ai vescovi del 10 marzo scorso, che per lui e per la Chiesa tutta rendere Dio presente in questo mondo e aprire agli uomini l´accesso a Dio è la priorità che sta al di sopra di tutte le altre.
E´ una parola che ci interpella tutti e dalla quale mi sento personalmente interpellato nel profondo».
in “la Repubblica” del 10 dicembre 2009
Con gli artisti papa Benedetto fa da cicerone
Gli artisti dal Papa.
Mi dispiace per gli assenti di Ferdinando Camon in “La Stampa” del 24 novembre 2009 Domenica, su questo giornale, ho raccontato l’incontro del Papa con gli artisti.
Lunedì è uscita una lettera-commento di Alain Elkann: sostanzialmente la scrittura di un altro articolo.
Elkann mi rimprovera di aver avuto con l’incontro un approccio leggero.
Io ho detto che noi tutti, cattolici e non, lo aspettavamo da una vita: dire che lo aspettavamo da prima della nascita mi risultava difficile.
Elkann si sofferma sulla quantità di arte, altissima, che circondava l’evento.
E’ vero, era una cornice grandiosa.
Ma se l’incontro fosse consistito in quella musica e quella pittura, pochi di noi ci sarebbero andati.
Siamo andati per sentire il discorso.
Dopo 45 anni, un Papa parlava di arte agli artisti: l’evento stava qui.
Per me come per tutti, visto che tutti gli articoli parlano solo del discorso.
Un discorso alto e complesso, ma anche rischioso.
Non tutto mi lascia tranquillo.
Sul Giudizio Universale di Michelangelo chiedo a Elkann di comprendermi: nessun artista cattolico lo può contemplare con libera gioia, come fa Elkann, per una ragione grave, anche ai fini del tema che il Papa trattava: su quell’opera di Michelangelo la Chiesa cattolica sbagliò.
Quando Michelangelo aprì le porte e invitò il Papa e i cardinali a venire a vedere il lavoro finito, nel Papa e nei cardinali si diffuse la costernazione.
Un cardinale sussurrò: «Un inutile sfoggio di sapienza anatomica», e un altro: «Non è una sala papale, è una sala termale».
Ogni volta che vedo la Cappella Sistina questo giudizio mi affiora nel cervello, doloroso e insopprimibile.
Il rapporto della Chiesa con gli artisti, fino a Fellini, fino a Pasolini, a Testori, a Tondelli, è un problemaccio.
Sul discorso del Papa, e sui problemi arte-morale, mi sarebbe piaciuto restare un giorno di più, e parlarne tra di noi ospiti.
Se il Papa, come ha annunciato con quell’«Arrivederci», ripeterà l’incontro, ci terrei a che questo avvenisse.
Tra noi chi? Ho detto: di area cristiana.
Fin dove arriva l’area cristiana? Fin là dove la parola del Papa trova attenzione.
Lo ha detto il Papa stesso.
Fra tutti coloro che se il Papa chiama e li invita a venire, gli riconoscono autorità e vengono.
Elkann è tra i primi.
Ma i maggiori scrittori d’Israele, Yehoshua, Oz e Grossman, han rifiutato in blocco.
Hanno ritenuto che il tema o l’oratore non meritassero ascolto? Con pieno diritto, se è così.
Elkann glissa sul fatto, come se non importasse.
A me ha dato delusione e dispiacere.
Ma non facciamone una guerra di religione.
Ci è stato detto: «Arrivederci», rispondiamo: «A presto».
Una carezza del pontefice alla cultura di Lorenzo Mondo in “La Stampa” del 24 novembre 2009 La sera prima dell’udienza papale nella Cappella Sistina, Ferdinando Camon, che si trovava in vena di ombrosità teologiche, mi trascinò con un gruppo di amici a parlare di crisi della cristianità, della difficoltà che prova spesso la Chiesa a farsi comprendere dagli stessi credenti, si tratti di Trinità o di giudizio finale.
Di qui, il suggerimento di un auspicabile incontro con il Papa, seguito da un convegno di intellettuali di area cristiana, per dibattere intra moenia su certi problemi.
Era una chiacchierata nei Musei Vaticani, davanti a due tartine e un calice di vino.
Troppo poco per lasciar presumere – come ha fatto Camon in un suo articolo – la contrarietà mia e di altri a quello che sarebbe occorso l’indomani; per segnalare in particolare una avversione all’invito rivolto da Benedetto XVI (tramite monsignor Ravasi) ad agnostici e cultori di altre fedi religiose.
Non si possono davvero confondere tempi, contesti e discorsi diversi.
Per quanto mi riguarda, sono invece profondamente grato per essere stato accolto tra tante persone di talento in quella Cappella Sistina che – come ha rimarcato Alain Elkann – è «patrimonio comune dell’umanità al di sopra di qualsiasi razza o religione».
Ed ho apprezzato il discorso del Papa, limpido ed elevato, tale da mettere in imbarazzo molti suoi critici.
Benedetto XVI ha voluto esprimere, con tratti di affettuosa gentilezza, l’amicizia della Chiesa – testimoniata da una storia millenaria e dal possente Giudizio michelangiolesco – per chi si applica a creare e scandagliare la bellezza.
E questa, al di là di ogni superficiale appagamento o estetistica bellurie, deve essere intesa nella sua proiezione verticale, come finestra aperta sull’assoluto, sul mistero dell’uomo, sulla sua originaria nobiltà.
Ed era suggestiva l’analogia che, appoggiandosi ai nomi di Simone Weil, Dostoevskij, Hermann Hesse, Von Balthasar, ha saputo istituire tra l’ispirazione artistica e quella religiosa: «Una funzione essenziale della vera bellezza, già evidenziata da Platone, consiste nel comunicare all’uomo una salutare “scossa”, che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo “risveglia”…”.
Come ha detto con epigrafica efficacia il regista Tornatore, si è avvertita, in quelle parole, rivolte senza esclusione a tutti i presenti, “una carezza del Papa alla cultura”».
Il bello non ha etichette né religione di Alain Elkann in “La Stampa” del 23 novembre 2009 Caro direttore, ho letto l’articolo «Noi artisti davanti al Pontefice» pubblicato da La Stampa domenica 22 novembre 2009 a firma Ferdinando Camon.
Vorrei dire all’autore che ho trovato nel racconto della cerimonia in certi punti una licenza poetica scherzosa e ironica che faceva assomigliare la solenne giornata di ieri a una sfilata di moda.
Io non mi sarei mai permesso di scrivere tali cose data la solennità e la simbologia di tale giornata viste le personalità presenti e la sacralità del luogo prescelto da Benedetto XVI: la Cappella Sistina.
Avrei scritto che ringraziavo Monsignor Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, per aver organizzato con i suoi collaboratori un evento così significativo.
Voglio ringraziare il Santo Padre per aver scelto un luogo così importante, un’icona così unica per coniugare la bellezza – su cui era incentrato il discorso del Pontefice -, la religione, la spiritualità, il talento e la Chiesa, visto che nella medesima Cappella Sistina, come ha ricordato Benedetto XVI con commozione, si tengono i conclavi e proprio lì in quel luogo Lui è stato eletto al Soglio di Pietro.
Devo dire che pareva strano vedere arrivare in quella Cappella così famosa architetti, poeti, pensatori, cantanti, cantautori, registi, romanzieri che si stupivano di vedersi lì laici, cristiani, buddisti, ebrei e musulmani credenti e non credenti ma tutti in attesa del Papa.
Tutti curiosi di sapere o di provare a capire con quali criteri il Vaticano avesse scelto proprio loro per presentare il mondo dell’arte e della cultura.
Il regista Maselli parlando del Papa e del perché era venuto e del perché aveva accettato quell’invito, ha detto: «Comunque non capita ogni giorno di essere invitato da un Capo di Stato».
A un certo punto ci è stato chiesto in italiano e in inglese di spegnere i nostri cellulari, di stare in silenzio, in raccoglimento ad attendere il Padre.
Quel silenzio rispettoso dell’attesa era bello perché metteva tutti ad un livello di parità e di rispetto verso il Papa e il suo atteso discorso, poi quando è arrivato c’è stato un applauso e quando ha finito di parlare ce n’è stato un altro lunghissimo che confermava l’ampio consenso verso le parole del Pontefice ma soprattutto verso quell’iniziativa.
Nell’ultima parte dell’articolo di Camon ho letto, a dir poco con stupore, certi propositi tra l’altro accomunando nomi di persone che conosco bene e che so avere pensieri ben diversi, mi riferisco all’amico Lorenzo Mondo, biografo di Pavese e all’amico Ernesto Ferrero, biografo di Primo Levi.
C’era scritto: «Sarebbe bello che gli artisti del mondo si ritrovassero ogni 10 anni qui nella Cappella Sistina, ma due giorni, uno ad ascoltare il Papa e uno a confrontarsi tra loro».
Sarebbe meglio se fossero solo artisti cristiani (Mondo corregge di area cristiana).
Non credo che persone quali Zaha Hadid, Arnoldo Foà, Daniel Libeskind (architetto che ha realizzato il Museo dell’Olocausto di Berlino) o altri siano stati invitati lì per caso e se ricordo bene nel discorso il Papa si è rivolto a «Cari e illustri artisti, appartenenti a Paesi, culture e religione diverse, forse anche lontani da esperienze religiose, ma desiderosi di mantenere viva una comunicazione con la Chiesa Cattolica…».
Io credo di essere stato invitato in quella giornata in quanto scrittore di lingua italiana, ebreo che ha sempre lavorato per il dialogo interreligioso.
Allora quando si legge «solo artisti cristiani» mi viene un brivido «non piacevole» e mi accorgo con tutto il rispetto che abbiamo interpretato in modo assai diverso una grande giornata alla quale sono grato e orgoglioso di aver partecipato con tanti uomini e donne di talento, tutti accomunati, dovunque fossero seduti, innanzitutto uguali, assolutamente uguali, in quella Cappella Sistina che Michelangelo e altri grandi maestri come Perugino, il Ghirlandaio, il Botticelli hanno saputo elevare a capolavoro assoluto dell’arte e patrimonio comune dell’umanità al di sopra di qualsiasi razza o religione.
Ieri nella Cappella Sistina e poi nei lunghi corridoi e nei saloni di Palazzo Vaticano ho sentito che si respirava un clima di soddisfazione, di consenso.
La Chiesa aveva deciso in modo solenne dicendo: noi abbiamo bisogno di voi, di gratificare l’arte e gli artisti e questo dal Papa ai Cardinali ai Vescovi fino alle Guardie Svizzere che battevano i tacchi e facevano il saluto al poeta Conte, al poeta Rondoni, all’architetto Botta, allo scrittore Raffaele La Capria e molti altri.
L’arte in quel sabato 21 novembre in Vaticano ha ritrovato il suo posto e anche il rispetto dovuto.
Si capiva bene che tre grandi Pontefici quali Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI in un filo rosso sottile che li univa sentivano che gli artisti nella storia spirituale della Chiesa avevano un ruolo centrale.
Del resto l’ispirazione di un artista e la fede sono cose tra loro molto molto vicine.
Ma la vera lezione che ho tratto dalla giornata di ieri nella Cappella Sistina è che il bello non ha etichette perché è soltanto bello.
“Noi artisti davanti al pontefice” di Ferdinando Camon in “La stampa” del 22 novembre 2009 Dovevamo essere 250, ma siamo certamente di più, nella Cappella Sistina, invitati dal Papa.
Scrittori, registi, pittori, scultori…: artisti di tutto il mondo.
Tutti, cattolici e non, aspettavamo da una vita d’incontrarlo.
Ed ecco, l’incontro avviene.
E non su richiesta nostra, ma sua.
Una gentile email è piovuta nel nostro computer, c’informava che era «desiderio del Santo Padre incontrarci» per parlarci del nostro lavoro, di come molta arte oggi si chiude in se stessa e non si preoccupa di raggiungere un fine etico: che è ciò di cui l’umanità ha più bisogno.
Leggo l’e-mail, e mi sembra eufemistica: in realtà le cose stanno anche peggio.
La distinzione non è fra arte autoreferenziale e arte morale.
Tantissima arte oggi, specie nel campo dello spettacolo, soprattutto cinema, punta al denaro: se vuoi fare un film, dev’essere un affare.
E l’affare lo fai (anche in tv, anche nel libro, anche nel teatro…) se cedi agli istinti del pubblico, lo compiaci o lo peggiori.
Benedetto XVI vuol parlarci di questo? Vuol parlarci del bisogno dell’umanità di avere un’arte che la migliori, un’arte in cui la bellezza rimandi alla trascendenza? Grande tema.
Non sono d’accordo con gli invitati che han rifiutato: approvavo in pieno Yehoshua, Oz e Grossman, ma visto che non sono venuti, ora ho qualche riserva.
Ognuno di noi ha un vistoso «passi» penzoloni sul petto, con nome e cognome.
Sul retro è stampato un numero, che indica il nostro posto a sedere nella Cappella.
Infinite curiosità e malignità sui numeri.
Impossibile che siano casuali.
Rispondono certamente a una gerarchia.
Siamo stati valutati e pesati, chi merita la prima fila e chi l’ultima.
C’è di peggio: un buon terzo dei presenti finisce dietro la transenna, da dove non vede nemmeno il Papa.
Viviane Lamarque viene da me a lamentarsi.
Ma tutti ci domandiamo: che graduatoria è? di artisticità, di cattolicità? Nanni Moretti sta tre file davanti a me, come Carlo Lizzani, Andrea Bocelli sta davanti a tutti, la Pamela Villoresi viene due numeri dopo di me: io ho il 123.
Mondo e Parazzoli e Doninelli stanno dietro.
Tornatore è tra i primi, come i fratelli Taviani.
Qualcuno maligna: dev’essere il nostro ordine di salvezza eterna, chi si salva facile e chi fa fatica.
Ma pochi minuti dopo scopriremo quant’è vero il detto evangelico «beati gli ultimi».
Alle 11 esatte tutti i faretti si accendono, la luce raddoppia, e tutti si voltano indietro.
Il Papa avanza dalle nostre spalle.
Sorride con mitezza, ora a destra ora a sinistra, parimenti.
Si guarda bene dal concedere privilegi.
Ma improvvisamente fa un gesto inspiegabile: vede due file avanti alla mia, sul lato che dà sul corridoio centrale, il faccione da luna piena di Lino Banfi, il Papa devia con uno scatto improvviso, s’illumina e stende la mano.
Banfi s’inchina con flessuosità e gliela bacia.
A quel punto ho un sospetto: la graduatoria rispetta la mediaticità.
Il Papa sale verso il Giudizio Universale.
Un dolcissimo coro di bambini si alza dalla nostra destra, poi l’arcivescono Ravasi saluta il Papa, che dunque può parlare.
Ecco dove scatta il «beati gli ultimi»: noi delle file anteriori, i prediletti, non sentiamo niente.
Alla fine mi farò dare il testo scritto.
Il Papa ha una visione manzoniana dell’arte: l’artista che fa arte ha una forza, ma l’artista che fa arte etica ha una doppia forza.
Lui incoraggia verso questa doppia forza.
L’artista lavora sul mistero, dice, ma il mistero è il regno del divino, artistico e divino si toccano.
Nel sistema del Papa gira il concetto che le scale dei valori non possono restar separate, alla fine devono per forza toccarsi, e il valore del bene morale prevale su tutti.
E’ stretta la relazione tra arte e trascendenza, tra arte e mistero, fede e arte scavano nel mistero, dunque sono sorelle.
La bellezza salva dalla disperazione.
Definisce «ipocrita» la bellezza che assume i volti dell’oscenità, della trasgressione e della provocazione.
La vera arte, «anche quando scruta gli aspetti più sconvolgenti del male, si fa voce dell’universale attesa di redenzione».
Vorrei sapere se c’è qui la possibilità di una riabilitazione di scrittori cosiddetti immorali (Moravia, Pasolini…) in moralisti: si può orientare alla speranza descrivendo la disperazione.
E allora, la sofferenza dell’artista, poiché ogni opera richiede sofferenza (a volte fino alla morte), può diventare redenzione: è possibile che l’artista si salvi perché è un artista.
Su «Civiltà Cattolica» ci fu chi scrisse che Moravia e Pasolini sono certamente in Paradiso.
Mi pare che il Papa passi vicino a questi concetti, dal suo discorso si possano ricavare.
Finisce con dolcezza, chiude il foglio.
Da noi, seduti, lunghi applausi.
Lui per ringraziare si alza in piedi.
L’arcivescovo Ravasi ci ferma nel corridoio, dà a ciascuno una medaglia-ricordo coniata per l’occasione.
Sul retro c’è il Cristo che piomba su san Paolo, nella via di Damasco, opera di Michelangelo, nella Cappella Paolina.
Una conversione traumatica.
Avrei preferito qualcosa di diverso, e visto che tutto il discorso era d’impronta manzoniana, poteva incidere per noi il monito manzoniano: «Non profferir mai verbo – che plauda al vizio o la virtù derida».
Che vuol dire: Non mettere la tua genialità al servizio dei soldi.
O dei partiti.
Il precedente incontro di un Papa con gli artisti risale a 45 anni fa.
Troppi.
Penso (ne parlo con Lorenzo Mondo, Ernesto Ferrero, Giuseppe Parazzoli, Maurizio Cucchi): sarebbe bello che gli artisti del mondo si ritrovassero ogni dieci anni qui nella Cappella Sistina, ma due giorni, uno ad ascoltare il Papa e uno a confrontarsi tra loro.
Sarebbe meglio che fossero solo artisti cristiani (Mondo corregge: di area cristiana).
Un minimo di pre-intesa, di problemi in comune.
Treni e alberghi ce li paghiamo noi (come stavolta), i rinfreschi li offre la Martini&Rossi: al Vaticano non costa niente.
Sento l’obiezione: un sinodo cattolico-laico? Rispondo: e perché CODICE RATZINGER Sacro e profano in Vaticano di Federico Mello in “il Fatto Quotidiano” del 22 novembre 2009 Questa volta non ci sono ragazzine urlanti per i loro divi, né flash di fotografi.
E il red carpet non è a Cannes, o a Venezia, né tanto meno a Hollywood, ma a Roma, in piazza San Pietro, sotto il colonnato del Bernini.
Alle nove e mezzo, alla spicciolata, si fanno vedere i primi artisti.
Nanni Moretti e Paolo Veronesi arrivano da soli, a piedi.
Antonello Venditti parcheggia la sua Smart in piazza.
I Pooh, manco fossero i Beatles, attraversano via della Conciliazione tra gli applausi.
L’occasione è solenne.
A dieci anni dalla lettera che Giovanni Paolo II inviò agli artisti, anche Benedetto XVI ha chiamato a raccolta artisti di tutto il mondo e di tutte le fedi.
Tra di loro, 260 in tutto, gli italiani la fanno da padroni: ci sono Baglioni, Vecchioni, Venditti, Castellitto e Margaret Mazzantini; Carla Fracci, Raoul Bova, Claudio Amendola e Terence Hill; Franco Nero, Angelo Branduardi (in camicia di lino e sabot), Tornatore, e Nanni Moretti; Carla Fracci, Cocciante, Bocelli, i fratelli Taviani e Morricone.
Tra gli internazionali spiccano le archistar Zaha Hadid e Santiago Calatrava e lo scrittore iraniano Kader Abdolah, che sfoggia una sgargiante sciarpa verde “in solidarietà al mio popolo”.
I giornalisti, con un accredito stampa che necessita di un obolo di 5 euro (con tanto di ricevuta) arrivano in pullmino dentro i Musei Vaticani, a due passi dall’incredibile volta della Cappella Sistina dove gli artisti attendono il Papa.
Alle undici in punto il Pontefice entra tra gli applausi.
Scende il silenzio e parte il coro della Cappella Musicale Pontificia Sistina.
Tocca quindi a Sergio Castellitto leggere alcuni brani della lettera che Giovanni Paolo II inviò agli artisti nel 1999.
Quindi il saluto di monsignor Ravasi: “L’arte si è spesso dedicata solo all’effimero e a esercizi stilistici sempre più provocatori e autoreferenziali”.
E’ il momento del Santo Padre.
Il Papa ricorda come fu Paolo VI per primo, il 7 maggio 1964, a voler incontrare gli artisti per “riaffermare l’amicizia tra la Chiesa e le arti”.
Ma è alla “Bellezza” che Benedetto XVI dedica il suo discorso.
Bellezza “che richiama l’uomo al suo destino ultimo” anche se “troppo spesso la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia”.
Questa bellezza “mendace”, continua il Santo Padre, “si trasforma ben presto nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa”.
La sala, assorta, annuisce.
Alla fine del discorso “arrivederci” è il saluto.
Uno scroscio di applausi saluta il Pontefice che, annuncia una voce al microfono, “va a ritirarsi nelle sue stanze” .
Monsignor Ravasi consegna ai presenti una medaglia ricordo.
Ha una parola per tutti: “Ciao Don Matteo” rivolto a Terence Hill, poi abbraccia calorosamente Roberto Vecchioni.
A questa punto l’arte, deve scendere dalle altezze dell’assoluto e confrontarsi con la stampa.
I giornalisti aspettano nella straordinaria Galleria Lapidaria, che collega la Cappella Sistina ai Musei Vaticani.
Sulle pareti sono affisse incisioni di epoca romana: “Sono i manifesti murari dell’Antica Roma – ci spiega una guida – annunci di ogni tipo, a partire da quelli funebri”.
Avanzano gli artisti, gentili e disponibili.
Claudio Baglioni è con il figlio Giovanni (“Sono un vostro lettore” ci dice); Andrea Bocelli posa per i fotografi con moglie e figli.
Susanna Tamaro è braccata dalla corrispondente della Bbc: “Cosa ne pensa della censura della Chiesa, come quella della mostra in cui era esposta una rana crocifissa?”.
“Basta non andare a vedere le cose che non piacciono – risponde la Tamaro – e poi, nei paesi musulmani avrebbero permesso un’offesa del genere alla religione?”.
Risposta da riciclare, nel caso, per “Porta a Porta”.
Castellitto e Mazzantini attraversano la sala di corsa, mano nella mano.
Nanni Moretti, il più atteso – nel nuovo film interpreta lo psicologo di un Papa depresso – non si ferma con nessuno.
Paolo Sorrentino dice che è venuto “per curiosità”; mentre Raoul Bova, evidentemente emozionato, attacca a rilasciare interviste e non la smette neanche quando gli altri sono già al “gnam-gnam” come scriverebbe Dagospia.
Effettivamente Umberto Pizzi, il fotografo del sito di D’Agostino, scatterebbe capolavori sotto queste volte sacre.
Il banchetto, riservato solo agli artisti, è offerto dalla Martini, che distribuisce un comunicato: “La presenza di Martini come sponsor unico dell’incontro in Vaticano, ecc.
ecc.”; e peccato se il marchio dell’aperitivo fa tanto “mercanti del tempio” tra le mura vaticane.
Arriva anche Lino Banfi, il nonno d’Italia.
E’ quasi commosso, racconta che il Papa, entrando nella Cappella, con un cenno del capo ha salutato solo lui.
“Probabilmente si è ricordato quando due anni fa, a Valencia, dissi che se io sono ‘L’abuelo d’Italia’, il nonno d’Italia, allora lui è ‘L’abuelo del mundo’”.
Sembra quasi un’amicizia.
Forse è questo il messaggio più bello della giornata: se anche un ex attore comico interprete di memorabili pellicole scollacciate, può diventare amico del Papa, allora c’è speranza per tutti i peccatori.
Artisti e no.
La bellezza salverà il mondo di Davide Rondoni in “Il Sole-24 Ore” del 22 novembre 2009 Il Papa è entrato nella sala della Cappella Sistina rapido e sorridente.
Al seguito poche persone, uno con una borsa di pelle un poco sdrucita.
Ho pensato: forse un medico, o uno con degli attrezzi.
Ma di attrezzi strani non ha avuto bisogno il Papa per parlare a noi cinquecento artisti invitati da tutto il mondo.
È stato semplice e diretto.
Ha detto, in sintesi: l’arte è una finestra sul mistero, sulla bellezza.
Vi offro la mia amicizia, l’amicizia della Chiesa, di questo posto dove l’arte parla da millenni, perché la fede e l’arte hanno qualcosa di simile.
Ad ascoltarlo grandi artisti internazionali, come Bill Viola, famosi architetti come Mario Botta, e nomi e volti italicamente noti, da Moretti a Cocciante, da Sorrentino a Lino Banfi, da Ranieri al simpaticissimo Giacomo del trio di Aldo e Giovanni.
E poi scrittori come Tamaro, Bevilacqua, Parazzoli, Mondo, Doninelli, Elkan, poeti come Cucchi, Conte, Lamarque, Mussapi.
Tutti un po’ in gita e un po’ emozionati.
Gente di molta fede, e gente di fede così così o di nessuna.
O di altra fede.
L’occasione dell’invito, curato da Monsignor Gianfranco Ravasi, è stato dato dal decennale della importante Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II per il Giubileo.
E nel 1964 anche Paolo VI aveva fatto un incontro simile.
Un po’ smarriti e curiosi ci siamo aggirati per le sale dei Musei vaticani.
Gente che si rivedeva dopo trent’anni, o compagni di avventure frequenti.
Venerdì sera il ricevimento, dopo la visita alla parte moderna e contemporanea della collezione d’arte.
La forza del crocefisso di Sutherland.
O le due figure di Previati, Bacon, Boccioni…
E poi nella magnifica Sistina ieri l’incontro con Benedetto.
Che è andato dritto al problema.
Il problema che si chiama: la bellezza.
Che ferisce e attrae, che non ci sta a essere irrisa dal sorrisetto cinico di tanti maestri del pensiero contemporaneo che la trattano come una invenzione del passato.
Che non ci sta a essere solo una specie di esca per mettere in moto brame di possesso.
La bellezza che, insomma, non lascia in pace l’uomo, e dà tormento e visione agli artisti.
Il Papa ha detto che la Chiesa è amica di tutto questo.
Lo è stata lungo i secoli, e se pure qualcuno vorrebbe rompere questa amicizia, se pure tra clericali e gretti laicisti in molti ce la mettono tutta a far fuggire la bellezza dalle stanze del cuore e o delle stanze delle nostre città dove si pronuncia il nome di Dio, questa amicizia non si rompe.
Il Papa l’ha riaffermata.
Lo fa non in nome di una “teoria” cattolica dell’arte, ma di una storia spaventosa di bellezza e di fervore.
E grazie alla forza di pensiero, di testimonianza d’arte e di amicizia che si esprimono in tante figure del nostro tempo.
Non a caso ha citato Simon Weil, Von Balthasar e altri.
La grande scrittrice americana Flannery O’Connor quando le obiettavano che una cattolica non poteva essere una artista nel 900, rispondeva serafica e tagliente che lei proprio perché era cattolica non poteva che essere un’artista nel 900.
Come dire: chi ha un senso vivo del mistero nella vita, chi non accetta la riduzione del cuore a pompa provvisoriamente funzionante, chi conosce l’arte come “ragione in atto”, cioè ragione non ridotta a razionalismo e non bisognosa di fughe irrazionalistiche per toccare il mistero abissale del vivente, ecco, costui nel nostro tempo comprende la attualità dell’amicizia proposta nuovamente ieri da Benedetto.
La storia dell’arte senza la Chiesa semplicemente non ci sarebbe.
Ma quel che la può alimentare non è la resistenza di musei, o un dispiegamento istituzionale di mezzi.
So che al dicastero della cultura pensano di firmare un padiglione di arte vaticana alla Biennale di Venezia.
Mi pare un’azione ambigua.
Quel che alimenterà arte ferita e attratta dalla bellezza come feriva e attraeva Michelangelo sarà l’amicizia nella vita tra uomini di fede e uomini dell’arte.
Così che nella vita degli uni l’arte non sarà una faccenda estranea -come troppe volte ora accade, anche ai più alti livelli di gerarchie e di istituti formativi – e nella vita di noi artisti il volto del mistero che tutto crea anche nelle nostre stesse mani s’incarni nei giorni e nelle ore consuete, e non solo come un profilo sfuggente nella bellezza e nelle ombre.
«Fede e genio siano alleati» di Carlo Marroni in “Il Sole-24 Ore” del 22 novembre 2009 «La fede non toglie nulla al genio».
Ai 260 artisti affluiti ieri nella Cappella Sistina, Benedetto XVI ha lanciato un appello di coesione e riconciliazione, un’esortazione a marciare insieme verso la «Bellezza infinita».
L’evento, a 45 anni dall’incontro con il mondo dell’arte che volle Paolo VI, ha rimarcato l’obiettivo di riaprire il dialogo tra la Chiesa e l’arte, tema che sta a cuore al Papa teologo e musicista.
«Custodi della bellezza», grazie al loro talento, gli artisti hanno «la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano» ha detto nel discorso Benedetto XVI.
«Siate perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza.
Siate anche voi, attraverso la vostra arte, annunciatori e testimoni di speranza per l’umanità.
E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita».
Per Raztinger «l’umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo.
Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui.
Troppo spesso la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sè e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia.
Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa».
E alla fine dell’incontro saluta gli artisti con un «arrivederci».
Tra i 260 artisti che il Papa ha incontrato anche Antonello Venditti che, parlando di una «giornata memorabile», non ha nascosto un piccolo rammarico: «Mi trovavo nelle prime file e l’acustica non era delle migliori perciò ho perso le bellissime parole che ha pronunciato il Pontefice.
Tutti ci guardavamo ma nessuno ha avuto il coraggio di dire che non si sentiva».
Poi una sorpresa per gli invitati: un tour nei musei vaticani organizzato dal ministro della cultura del Vaticano, monsignor Gianfranco Ravasi, ideatore dell’evento.
«Una carezza alla cultura in un periodo in cui riceve solo schiaffi» è stato, per Giuseppe Tornatore, il discorso del papa rivolto agli esponenti del mondo della cultura: dal cinema all’architettura, passando per poesia, danza, musica, teatro e fotografia.
Tra i tanti presenti i fratelli Taviani, Nanni Moretti, Paolo Sorrentino, Matteo Garrone, Francesca lo Schiavo e Gabriella Pescucci, Maria Luisa Spaziani, Liliana Cavani, Ugo Nespolo, Claudio Baglioni con il figlio Giovanni, Terence Hill («Don Matteo»), i Pooh nella nuova formazione a tre (applauditissimi in Piazza San Pietro), Sergio Castellitto (che ha letto un brano della lettera di Giovanni Paolo II) con la moglie Margaret Mazzantini, la soprano Daniela Dessì, Riccardo Cocciante, Antonello Venditti, Peter Greenaway, Monica Guerritore, Raul Bova (uno dei pochi con meno di 40 anni), Carla Fracci a Andrea Bocelli con i figli.
Moretti, tra l’altro, sta lavorando proprio in questi mesi ad una commedia ambientata in Vaticano, il cui titolo dovrebbe essere Habemus Papam.
Dopo aver descritto, nelle precedenti catechesi, fatti e personaggi della teologia medievale, papa Joseph Ratzinger ha scelto di illustrare – tre giorni prima dell’incontro con gli artisti – quei capolavori di arte e di fede che sono le cattedrali romaniche e gotiche, quelle che dopo l’anno 1000 coprirono l’Europa “della bianca veste di nuove chiese”.
La prima lezione che Benedetto XVI ne ha tratto è che l’arte e la fede cristiana si chiamano l’un l’altra, “perché entrambe possono e vogliono parlare di Dio, rendendo visibile l’Invisibile”.
La seconda lezione è che la bellezza è “la via più attraente ed affascinante per giungere ad incontrare ed amare Dio”.
Sono temi ai quali Ratzinger, come teologo e pastore, è da sempre sensibilissimo.
Più sotto è riprodotta integralmente la sua riflessione di mercoledì 18 novembre.
Ma per cogliere il suo pensiero più dal vivo è utile riandare a ciò che egli disse, parlando a braccio, ai preti della diocesi di Bressanone da lui incontrati nell’estate del 2008.
Si è abituati a pensare a Benedetto XVI come al papa del “Logos”.
I suoi critici lo accusano di razionalismo.
Ma in realtà egli è convinto che “la prova di verità” del cristianesimo non si dà per sola via razionale.
Per lui “sono l’arte e i santi la più grande apologia della nostra fede”.
Ecco infatti che cosa disse a questo proposito quel 6 di agosto, festa della Trasfigurazione di Gesù, ai preti di Bressanone: “Gli argomenti portati dalla ragione sono assolutamente importanti ed irrinunciabili, ma poi da qualche parte rimane sempre il dissenso.
Invece, se guardiamo i santi, questa grande scia luminosa con la quale Iddio ha attraversato la storia, vediamo che lì veramente c’è una forza del bene che resiste ai millenni, lì c’è veramente la luce dalla luce.
“E nello stesso modo, se contempliamo le bellezze create dalla fede, ecco, sono semplicemente, direi, la prova vivente della fede.
[…] Tutte le grandi opere d’arte, le cattedrali – le cattedrali gotiche e le splendide chiese barocche – tutte sono un segno luminoso di Dio e quindi veramente una manifestazione, un’epifania di Dio.
[…] “Abbiamo appena ascoltato il suono dell’organo in tutto il suo splendore e io penso che la grande musica nata nella Chiesa sia un rendere udibile e percepibile la verità della nostra fede: dal gregoriano alla musica delle cattedrali fino a Palestrina e alla sua epoca, fino a Bach e quindi a Mozart e Bruckner e così via…
Ascoltando tutte queste opere – le Passioni di Bach, la sua Messa in si minore e le grandi composizioni spirituali della polifonia del XVI secolo, della scuola viennese, di tutta la musica, anche quella di compositori minori – improvvisamente sentiamo: è vero! Dove nascono cose del genere, c’è la Verità.
[…] “L’arte cristiana è un’arte razionale – pensiamo all’arte del gotico o alla grande musica o anche, appunto, alla nostra arte barocca – ma è espressione artistica di una ragione molto più ampia, nella quale cuore e ragione si incontrano.
Questo è il punto.
Questo, penso, è in qualche modo la prova della verità del cristianesimo: cuore e ragione si incontrano, bellezza e verità si toccano.
E quanto più noi stessi riusciamo a vivere nella bellezza della verità, tanto più la fede potrà tornare ad essere creativa anche nel nostro tempo e ad esprimersi in una forma artistica convincente”.
Qui di seguito, la sua catechesi di due giorni fa sulle cattedrali romaniche e gotiche: Quando l’Europa si coprì “della bianca veste di nuove chiese” di Benedetto XVI Roma, udienza generale di mercoledì 18 novembre 2009 Cari fratelli e sorelle, nelle catechesi delle scorse settimane ho presentato alcuni aspetti della teologia medievale.
Ma la fede cristiana, profondamente radicata negli uomini e nelle donne di quei secoli, non diede origine soltanto a capolavori della letteratura teologica, del pensiero e della fede.
Essa ispirò anche una delle creazioni artistiche più elevate della civiltà universale: le cattedrali, vera gloria del Medioevo cristiano.
Infatti, per circa tre secoli, a partire dal principio del secolo XI si assistette in Europa a un fervore artistico straordinario.
Un antico cronista descrive così l’entusiasmo e la laboriosità di quel tempo: “Accadde che in tutto il mondo, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, si incominciasse a ricostruire le chiese, sebbene molte, per essere ancora in buone condizioni, non avessero bisogno di tale restaurazione.
Era come una gara tra un popolo e l’altro; si sarebbe creduto che il mondo, scuotendosi di dosso i vecchi cenci, volesse rivestirsi dappertutto della bianca veste di nuove chiese.
Insomma, quasi tutte le chiese cattedrali, un gran numero di chiese monastiche, e perfino oratori di villaggio, furono allora restaurati dai fedeli” (Rodolfo il Glabro, Historiarum 3, 4).
Vari fattori contribuirono a questa rinascita dell’architettura religiosa.
Anzitutto, condizioni storiche più favorevoli, come una maggiore sicurezza politica, accompagnata da un costante aumento della popolazione e dal progressivo sviluppo delle città, degli scambi e della ricchezza.
Inoltre, gli architetti individuavano soluzioni tecniche sempre più elaborate per aumentare le dimensioni degli edifici, assicurandone allo stesso tempo la saldezza e la maestosità.
Fu però principalmente grazie all’ardore e allo zelo spirituale del monachesimo in piena espansione che vennero innalzate chiese abbaziali, dove la liturgia poteva essere celebrata con dignità e solennità, e i fedeli potevano sostare in preghiera, attratti dalla venerazione delle reliquie dei santi, mèta di incessanti pellegrinaggi.
Nacquero così le chiese e le cattedrali romaniche, caratterizzate dallo sviluppo longitudinale, in lunghezza, delle navate per accogliere numerosi fedeli; chiese molto solide, con muri spessi, volte in pietra e linee semplici ed essenziali.
Una novità è rappresentata dall’introduzione delle sculture.
Essendo le chiese romaniche il luogo della preghiera monastica e del culto dei fedeli, gli scultori, più che preoccuparsi della perfezione tecnica, curarono soprattutto la finalità educativa.
Poiché bisognava suscitare nelle anime impressioni forti, sentimenti che potessero incitare a fuggire il vizio, il male, e a praticare la virtù, il bene, il tema ricorrente era la rappresentazione di Cristo come giudice universale, circondato dai personaggi dell’Apocalisse.
Sono in genere i portali delle chiese romaniche a offrire questa raffigurazione, per sottolineare che Cristo è la Porta che conduce al Cielo.
I fedeli, oltrepassando la soglia dell’edificio sacro, entrano in un tempo e in uno spazio differenti da quelli della vita ordinaria.
Oltre il portale della chiesa, i credenti in Cristo, sovrano, giusto e misericordioso, nell’intenzione degli artisti potevano gustare un anticipo della beatitudine eterna nella celebrazione della liturgia e negli atti di pietà svolti all’interno dell’edificio sacro.
Nei secoli XII e XIII, a partire dal nord della Francia, si diffuse un altro tipo di architettura nella costruzione degli edifici sacri, quella gotica, con due caratteristiche nuove rispetto al romanico, e cioè lo slancio verticale e la luminosità.
Le cattedrali gotiche mostravano una sintesi di fede e di arte armoniosamente espressa attraverso il linguaggio universale e affascinante della bellezza, che ancor oggi suscita stupore.
Grazie all’introduzione delle volte a sesto acuto, che poggiavano su robusti pilastri, fu possibile innalzarne notevolmente l’altezza.
Lo slancio verso l’alto voleva invitare alla preghiera ed era esso stesso una preghiera.
La cattedrale gotica intendeva tradurre così, nelle sue linee architettoniche, l’anelito delle anime verso Dio.
Inoltre, con le nuove soluzioni tecniche adottate, i muri perimetrali potevano essere traforati e abbelliti da vetrate policrome.
In altre parole, le finestre diventavano grandi immagini luminose, molto adatte ad istruire il popolo nella fede.
In esse – scena per scena – venivano narrati la vita di un santo, una parabola, o altri eventi biblici.
Dalle vetrate dipinte una cascata di luce si riversava sui fedeli per narrare loro la storia della salvezza e coinvolgerli in questa storia.
Un altro pregio delle cattedrali gotiche è costituito dal fatto che alla loro costruzione e alla loro decorazione, in modo differente ma corale, partecipava tutta la comunità cristiana e civile; partecipavano gli umili e i potenti, gli analfabeti e i dotti, perché in questa casa comune tutti i credenti erano istruiti nella fede.
La scultura gotica ha fatto delle cattedrali una “Bibbia di pietra”, rappresentando gli episodi del Vangelo e illustrando i contenuti dell’anno liturgico, dalla Natività alla Glorificazione del Signore.
In quei secoli, inoltre, si diffondeva sempre di più la percezione dell’umanità del Signore, e i patimenti della sua Passione venivano rappresentati in modo realistico: il Cristo sofferente, il “Christus patiens”, divenne un’immagine amata da tutti, ed atta a ispirare pietà e pentimento per i peccati.
Né mancavano i personaggi dell’Antico Testamento, la cui storia divenne in tal modo familiare ai fedeli che frequentavano le cattedrali come parte dell’unica, comune storia di salvezza.
Con i suoi volti pieni di bellezza, di dolcezza, di intelligenza, la scultura gotica del secolo XIII rivela una pietà felice e serena, che si compiace di effondere una devozione sentita e filiale verso la Madre di Dio, vista a volte come una giovane donna, sorridente e materna, e principalmente rappresentata come la sovrana del cielo e della terra, potente e misericordiosa.
I fedeli che affollavano le cattedrali gotiche amavano trovarvi anche espressioni artistiche che ricordassero i santi, modelli di vita cristiana e intercessori presso Dio.
E non mancarono le manifestazioni “laiche” dell’esistenza; ecco allora apparire, qua e là, rappresentazioni del lavoro dei campi, delle scienze e delle arti.
Tutto era orientato e offerto a Dio nel luogo in cui si celebrava la liturgia.
Possiamo comprendere meglio il senso che veniva attribuito a una cattedrale gotica, considerando il testo dell’iscrizione incisa sul portale centrale di Saint-Denis, a Parigi: “Passante, che vuoi lodare la bellezza di queste porte, non lasciarti abbagliare né dall’oro, né dalla magnificenza, ma piuttosto dal faticoso lavoro.
Qui brilla un’opera famosa, ma voglia il cielo che quest’opera famosa che brilla faccia splendere gli spiriti, affinché con le verità luminose s’incamminino verso la vera luce, dove il Cristo è la vera porta”.
Cari fratelli e sorelle, mi piace ora sottolineare due elementi dell’arte romanica e gotica utili anche per noi.
Il primo: i capolavori artistici nati in Europa nei secoli passati sono incomprensibili se non si tiene conto dell’anima religiosa che li ha ispirati.
Un artista, che ha testimoniato sempre l’incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, ha scritto che “i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia”.
Quando la fede, in modo particolare celebrata nella liturgia, incontra l’arte, si crea una sintonia profonda, perché entrambe possono e vogliono parlare di Dio, rendendo visibile l’Invisibile.
Vorrei condividere questo nell’incontro con gli artisti del 21 novembre, rinnovando ad essi quella proposta di amicizia tra la spiritualità cristiana e l’arte, auspicata dai miei venerati predecessori, in particolare dai servi di Dio Paolo VI e Giovanni Paolo II.
Il secondo elemento: la forza dello stile romanico e lo splendore delle cattedrali gotiche ci rammentano che la “via pulchritudinis”, la via della bellezza, è un percorso privilegiato e affascinante per avvicinarsi al Mistero di Dio.
Che cos’è la bellezza, che scrittori, poeti, musicisti, artisti contemplano e traducono nel loro linguaggio, se non il riflesso dello splendore del Verbo eterno fatto carne? Afferma sant’Agostino: “Interroga la bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza dell’aria diffusa e soffusa.
Interroga la bellezza del cielo, interroga l’ordine delle stelle, interroga il sole, che col suo splendore rischiara il giorno; interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della notte.
Interroga le fiere che si muovono nell’acqua, che camminano sulla terra, che volano nell’aria: anime che si nascondono, corpi che si mostrano; visibile che si fa guidare, invisibile che guida.
Interrogali! Tutti ti risponderanno: Guardaci: siamo belli! La loro bellezza li fa conoscere.
Questa bellezza mutevole chi l’ha creata, se non la Bellezza Immutabile?” (Sermo CCXLI, 2: PL 38, 1134).
Cari fratelli e sorelle, ci aiuti il Signore a riscoprire la via della bellezza come uno degli itinerari, forse il più attraente ed affascinante, per giungere ad incontrare ed amare Dio.
Dire Dio in contesto multiculturale e plurireligioso.
in questi ultimi anni abbiamo riflettuto su alcuni orientamenti culturali significativi per l’educazione religiosa, analizzando in particolare l’apprendimento, l’ermeneutica, il linguaggio religioso … Quest’anno vorremmo verificarne l’elaborazione attorno ad un tema fondamentale: Dire Dio in contesto multiculturale e plurireligioso.
Vorremmo raccogliere le indicazioni più significative, a partire dalle molteplici competenze dei partecipanti.
Definiamo quindi in termini orientativi le dimensioni che vorremmo esplorare, lasciando a ciascuno la scelta della propria collocazione, con uno specifico contributo, che ci vorrà far pervenire per tempo.
I nuclei di riflessione potrebbero essere i seguenti: 1. Riferimenti da privilegiare nelle fonti bibliche; 2. Dire Dio secondo l’approccio psicologico e psicanalitico; 3. Dire Dio secondo le narrazioni più largamente divulgate; 4. Dire Dio nell’orizzonte ermeneutico; 5. Dire Dio secondo le Grandi Religioni; Lo svolgimento quindi della giornata: 1.
Ciascuno, nel limite del possibile, è invitato ad esporre l’argomento sulla base di un breve contributo (15-20 minuti con 5-6 cartelle al massimo); 2.
L’ordine dell’esposizione segue la successione dei nuclei sopra elencati; 3.
Una breve presentazione iniziale e una essenziale sintesi conclusiva fanno da cornice al dialogo, che vede l’apporto di tutti i partecipanti.
L’incontro è previsto per il 21 novembre p.v.
presso l’Università Salesiana.
Ci auguriamo che l’argomento Ti interessi vivamente e contiamo sulla Tua preziosa presenza e partecipazione.
Ti preghiamo di farci pervenire per tempo il tuo intervento scritto (non oltre il 15 novembre p.v.) in modo da consentirci una organizzazione di massima della giornata.
Un cordialissimo arrivederci.
E un fervido augurio per l’anno scolastico che riprende! Ubaldo Montisci (Direttore dell’Istituto di Catechetica) Introduzione 1.
Dire Dio: Legittimo? Giobbe finalmente si arrende a Dio: “ Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi Ti vedono.” (Giobbe, 42, 59) Non c’è uomo che non lo conosca, almeno per sentito dire; perché se ne parla: non c’è lingua che non lo nomini.
(Spaemann, 2008).
Legittimamente? Per garantirsi, la ragione ha percorso piste rigorose ed ha tentato di vegliarne la fidabilità.
Con esito incerto: una tradizione secolare e autorevole lo ha riconosciuto all’origine della realtà, causa e fondamento del mondo.
Ma la stessa tradizione trova resistenze tenaci, magari proprio sul versante di chi fa del riferimento a Dio l’orizzonte di significato definitivo per la propria esistenza.
Pascal e Kierkegaard rappresentano solo gli esponenti più illustri fra i credenti che hanno avanzato dubbi e perplessità sulla dimostrazione razionale, sulla via rationis.
In epoca moderna scuole filosofiche di impatto straordinariamente vasto e accreditato hanno negato alla ragione umana il diritto di parlare di Dio (Kant); hanno screditato l’intera compagine tradizionale che ne esigeva la presenza (Nietzsche); hanno denunciato il riferimento a Dio come evasivo di un impegno umano responsabile (Feuerbach, Marx, Bloch).
Insomma la compagine della credibilità appare scossa.
E tuttavia il tema di Dio non è di quelli che si possano sottacere; ha tutta la provocazione di un confronto che mette in gioco o addirittura a repentaglio l’esistenza.
Vale la pena ascoltare e decifrare il contributo che la riflessione è oggi in grado di offrire, portando liberamente il confronto sui diversi versanti della ricerca religiosa, soprattutto dove è in grado di esplorare istanze da cui l’esistenza è attanagliata.
2.
Dire Dio: ha senso? Dove la trascendenza è pensata rigorosamente, dire-Dio, chiamarlo per nome, sembra presunzione.
Una presunzione che attraversa comunque l’intera ricerca umana: i primi inni – i reg-veda – che conosciamo s’interrogano su Dio, su chi sia, con quale nome lo si debba invocare…[1] Soprattutto una provocazione che attanaglia il cuore dell’uomo.
Il nostro cuore è senza pace fino a che non riposa in Te, avverte un genio che ha segnato il nostro modo di capirci.
E suscita domande conturbanti su un’opzione che s’impone e appare obbligata:“Se l’uomo è fatto per Dio, perché così contrario a Dio; e se non è fatto per Dio perché così infelice senza Dio?” (Pascal, 367) si domanda uno dei credenti singolarmente lucido.
Domanda pertinente: vorremmo porla a filo conduttore della nostra riflessione.Tanto più che la ricerca religiosa recente ha concentrato sull’esperienza umana la propria attenzione.
Anche il discorso su Dio sembra dover attraversare obbligatoriamente il versante dell’esperienza.
Nel caso nostro dunque portarci sulla ricerca religiosa, con attenzione a quelle scienze che la esplorano.
Donde l’interesse anche di questa giornata, allargato ai diversi settori di ricerca.
3. In chi… crede colui che crede? Quasi un secolo fa un pensatore credente J.
Rivière, s’interrogava sulla resistenza dell’a-teo di fronte a tante verità di cui la fede è depositaria.
Mettendosi nei panni dell’interlocutore, ripeteva a se stesso: – com’è possibile che un uomo intelligente, di buona cultura ammetta… E faceva un elenco discreto di affermazioni cui il credente dà normalmente la sua adesione (Rivière, 1925, 32).
Per cui si era proposto un compito singolare: spiegargli il suo punto di vista, dipanargli la logica e la coerenza del proprio modo di pensare, con la… presunzione di metterlo a parte di un’esperienza singolarmente illuminante Qualche anno fa il cardinal Martini, allora arcivescovo di Milano, aveva avviato una interessante iniziativa: la cattedra dei non credenti.
In un dibattito assai vivace aveva chiamato in causa il non credente e l’aveva sollecitato a spiegare la propria posizione.
Uno di loro, che si riconosce in questa schiera, riprende oggi le fila (Savater, 85).
“In che cosa crede chi non crede?” era la domanda.
“Crediamo, risponde F.
Savater, nella constatazione dei fenomeni naturali stabiliti dalla scienza, in quel che è verificato da studi storici e sociali, nell’opportunità di alcuni valori morali, eccetera.” ( Savater, 2007, 85).
Considerazioni piuttosto evasiva.
E che? Forse che il credente non dà la sua adesione, piena e serena, a tutte queste cose e a tutte le altre che… l’illustre studioso va elencando.
Ma il credente sa che la fede è un’altra cosa.
Più incalzante è invece la domanda che a sua volta Savater propone: – In cosa credono coloro che credono… – Perché ci credono una volta che riescono a chiarire in cosa credono.
… – Non si tratta di pretendere da chi crede in ‘Dio’ che chiarisca il contenuto della sua fede e le ragioni che lo portano ad adottarla…” ( Savater, 2007, 86).
Invece noi pensiamo che proprio di questo si tratti: che chi crede in Dio sia in dovere di mettere a punto la risposta e dire con chiarezza in che cosa e in Chi crede e le ragioni per cui ci crede! Appunto perché vive in un contesto in cui ‘credere in Dio’ non è affatto ovvio.
Nel trecento l’amico di Dante, Guido Cavalcanti, è passato alla storia perché, secondo il suo biografo, ‘passò la vita a cercar se trovar si potesse che Dio non fusse…’ Savater sembra essersi proposto lo stesso compito; ma data la situazione culturale odierna non passerà alla storia per questo.
Fa parte di quella schiera piuttosto numerosa che Sartre ha già lucidamente identificata una cinquantina di anni fa.
Il nostro problema, scriveva Sartre, non è l’esistenza di Dio, ma che “l’uomo ritrovi se stesso e si persuada che nulla può salvarlo da se stesso, fosse pure una prova valida dell’esistenza di Dio.” (Sartre, 1968, 93).
Riferimenti bibliografici.
ACHARUPARAMBIL D., La spiritualità dell’ induismo, Roma, Studium, 1986.
MAINO G., “Vivere come se Dio ci fosse”, Padova, Messaggero, 2009 RIVIERE J, A’ la trace de Dieu, Paris, Gallimard, 1952.
SAVATER S., La vita eterna, Roma-Bari, Laterza, 2007.
SARTRE J.P., L’esistenzialismo è un umanesimo, Milano, Mursia, 1968 Trenti [1] “ Qual germe d’oro (…) sorse nel principio ; appena nato fu l’unico signore di ciò che esiste.Egli sostenne la terra e il cielo: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l’oblazione? (Acharuparambil, 1986, 55).
Sulla parificazione degli insegnanti di religione
Oltre alla bocciatura di tutti gli emendamenti presentati dall’opposizione al decreto legge precari, si è registrata oggi anche quella dell’ordine del giorno presentato dalla senatrice radicale Donatella Poretti al Senato, che puntava a “parificare l’assunzione, l’immissione in ruolo e le competenze salariali degli insegnanti di religione cattolica alle condizioni previste per gli insegnanti delle altre materie, nonché a svincolarne l’assunzione dal pronunciamento di idoneità da parte delle curie diocesane”.
La parlamentare eletta nelle liste del Pd ha commentato causticamente il voto sfavorevole: “Tecnicamente si chiama improponibilità perché materia concordataria, politicamente si spiega come impossibilità di ridiscutere i privilegi della Chiesa.
E’ quello che è avvenuto oggi in Senato con il nostro ordine del giorno che chiedeva di parificare i diritti degli insegnanti della scuola pubblica a prescindere dalla materia insegnata, a prescindere dalla fede professata e dal gradimento del vescovo”.
Per questa ragione, secondo la Poretti, “viene da chiedersi se la scuola pubblica sia ancora territorio italiano!”.
La senatrice radicale ha spiegato le motivazioni alla base dell’ordine del giorno presentato: “La nomina dell’insegnante di religione era su segnalazione della curia e prevedeva un contratto annuale, dopo la legge 186 del 2003 è stata prevista la loro messa in ruolo.
Oggi i circa 25 mila insegnanti sono formati e indicati dall’autorità religiosa, ma retribuiti da quella statale.
Discriminati anche in contrasto a direttive europee sulla parità dell’accesso al lavoro sono coloro che non professano la religione cattolica o che non sono graditi alla curia.
Privilegiati anche per retribuzione economica gli insegnanti di religione.
Il nostro ordine del giorno chiedeva al governo di parificare i diritti e di porre fine ai privilegi.
Impossibile anche solo discutere tale ragionevole proposta”.
«Il crocifisso resterà nelle aule»
Il Governo italiano presenterà ricorso contro la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha disposto la rimozione del crocifisso nelle aule scolastiche.
Lo ha deciso il Consiglio dei ministri, riunito oggi a palazzo Chigi, confermando quanto riferito dal giudice Nicola Lettieri, che difende l’Italia davanti alla Corte di Strasburgo.
Lo si apprende da fonti governative secondo le quali a occuparsi della questione sarà il ministro degli Affari Esteri, Franco Frattini.
(©L’Osservatore Romano – 7 novembre 2009) Oggi sono state distribuite quattromila croci francescane ai ragazzi fuori da alcuni licei di Roma.
L’iniziativa è stata voluta da Aldo Di Biagio, responsabile Italiani nel mondo del Pdl, per protestare contro la sentenza della Corte europea per i Diritti dell’uomo sui crocifissi nelle aule delle scuole.
“Distribuire la croce francescana tra i giovani ha rappresentato per me un sincero invito alla riflessione – ha detto – e soprattutto un segnale di apertura al confronto ed al dialogo interreligioso che proprio questo simbolo vuole evidenziare.
Qualcosa di profondamente lontano dall’immagine quasi oppressiva e provinciale che una certa Europa ha voluto definire in questi giorni”.
La singolare protesta si è svolta davanti ad alcuni istituti del centro della Capitale, in particolare al liceo Visconti in piazza del Collegio Romano, dove era presente lo stesso Di Biagio.
“I giovani hanno apprezzato – ha commentato – molti si sono fermati a parlare con me e con i miei collaboratori per capire, chiedere e dare il pieno sostegno all’iniziativa.
Molti di loro dimostrano di comprendere che parte della cultura italiana ed europea trae origine proprio da quel pezzetto di legno, e che questa ricchezza identitaria e culturale si colloca ben oltre le posizioni e le ortodossie confessionali”.
“Questo è lo spirito dell’interrogazione presentata a Frattini e a Ronchi a firma mia e di molti colleghi del Pdl – ha spiegato poi – in cui chiediamo quali provvedimenti intendono predisporre al fine di garantire il mantenimento di un simbolo culturale e valoriale come il crocifisso nell’ambito degli spazi pubblici e quali iniziative intendono valorizzare e sostenere al fine di aprire un confronto con le istituzioni europee finalizzato al chiarimento della posizione italiana a sostegno della piena valorizzazione del simbolo come espressione dell’identità cristiana dell’Italia e dell’Europa intera”.
“Rappresenta la laicità di Gesù” intervista a Massimo Cacciari a cura di Carlo Brambilla in la Repubblica del 5 novembre 2009 “Massimo Cacciari è irritato dalle polemiche di questi giorni sui crocifissi nelle scuole.
Fosse per lui non andrebbero tolti da nessuna parte.
Al contrario «andrebbero piuttosto messi dappertutto, se qualcuno sapesse davvero cosa vuol dire il crocifisso…» «…è un segno di straordinaria accoglienza, di straordinaria donazione di sé».” Il crocifisso, il suo potere unisce destra e sinistra di Pippo Delbono in l’Unità del 6 novembre 2009 “Non sarebbe forse meglio, al posto dei crocifissi scrivere sui muri, citando altre parole del Cristo, «Ama il prossimo tuo come te stesso»?” (ndr.: è incredibile che il crocifisso non indichi più, per molti, l’amore del prossimo) Meno bugie più Vangelo di Enzo Mazzi in il manifesto del 6 novembre 2009 “Non risulta per niente vero che è consentito vedere nella croce il simbolo della prevalenza dell’amore sul potere, come sostiene un teologo alla moda come Vito Mancuso (la Repubblica di ieri 4 novembre).
Tutti i movimenti popolari rivoluzionari animati dal Vangelo che hanno visto nella croce il segno della liberazione storica e non solo della redenzione sacrificale trascendente sono stati repressi spesso nel sangue.” “«meno croce e più Vangelo» valeva anche nella scuola di Barbiana da dove don Milani aveva tolto il crocifisso” Il Concordato crocifisso di Massimo Faggioli in Europa del 6 novembre 2009 “A chi vuole argomentare la difesa del crocifisso col Concordato, non si può non richiamare un immortale aforisma di Carl Schmitt, ripubblicato nel 2005 in Un giurista davanti a se stesso: «Nel Vangelo il Cristo muore per la sua pena; oggi stipulerebbe invece un Concordato con i suoi aguzzini».
Ai teologi di corte e (per parafrasare Franz Overbeck) ai «friseur della parrucca teologica» dell’Italia berlusconiana non resta che scegliere tra il Crocifisso e il Concordato.
Il crocifisso? Non lo ricordo di Aldo Maria Valli in Europa del 6 novembre 2009 “Sinceramente non ricordo se nelle aule scolastiche che ho frequentato, tutte di scuole statali, ci fosse o meno il crocifisso.,,,” Quei cattolici in fila alle primarie di Angelo Bertani in Europa del 6 novembre 2009 “chi sono i cattolici e che cosa sta loro a cuore? (…) Quelli che difendono il crocifisso come simbolo della tradizione occidentale contro gli invasori islamici, o quelli che lo considerano l’esempio di Colui che ha dato la vita per gli altri? Anche per il Pd si pone una domanda: di quali cattolici cercare il consenso? I cattolici credenti e coerenti sono molto più numerosi di quanto si creda, anche se più umili e meno chiassosi….” Crocefisso, non tutto è diritto di Raniero La Valle in Liberazione del 5 novembre 2009 “La sentenza è ineccepibile: una volta investita del caso, la Corte non poteva che decidere così…
Ma mi dispiace che…
ci sia una gara per dire che il crocefisso andrebbe mantenuto perché avrebbe cessato di essere un simbolo religioso, e sarebbe invece “un simbolo della storia e della cultura italiane”, “dell’identità italiana”…
Questa posizione è infatti atea, ma è devota, e tende a lucrare i benefici della religione come religione civile.
E io dico la verità: se il Crocefisso diventasse la bandiera di un’identità, di un nazionalismo, di un razzismo, di una lotta religiosa…
e cessasse di essere la memoria di un Dio che si è fatto uomo…
e che “avendo amato i suoi fino alla fine” ha accettato dai suoi carnefici la sorte delle vittime, e continua a salire su tutti i patiboli innalzati dal potere, dal danaro e dalla guerra, allora io non vorrei più vedere un crocefisso in vita mia.” Il patto del crocifisso Il Vaticano «apprezza» il governo italiano di Fulvio Fania in Liberazione del 5 novembre 2009 “la gerarchia preferisce mettere in secondo piano il carattere religioso di quel simbolo, anteponendone il “valore culturale” o di identità italiana ed europea.
Un’operazione che viene duramente contestata dalle altre comunità cristiane…
«Grande spazio all’inquietudine dei cattolici – denunciano gli evangelici – nessuna attenzione invece al plauso dei protestanti» per una sentenza che è giudicata positivamente dalla moderatora valdese Maria Bonafede, dalla presidente dell’Unione battista Anna Maffei e dall’Alleanza evangelica italiana.” No, laicità non significa togliere il crocefisso, simbolo d’amore di Aurelio Mancuso in gli Altri del 5 novembre 2009 “So che mi attirerò le ire di tante e di tanti, ma trovo la polemica sul crocefisso inutile, sopra le righe e soprattutto ipocrita…
Mi permetto di rilevare che la sottrazione di quel simbolo non sarebbe oggi una vittoria della libertà sulle visioni autoritarie, ma sarebbe interpretato dai più come un protervo gesto di violenza culturale…
Strappare il crocefisso da quei muri…
significa offendere non Dio, ma l’amore che milioni di italiani hanno nei confronti di questo simbolo di genuina pietas.” Crocifisso, “Noi Siamo Chiesa”: La fede si vive nelle coscienze di Vittorio Bellavite in www.noisiamochiesa.org del 5 novembre 2009 “Non ci si rassegna al superamento di una cultura della cristianità.
L’ostilità alla sentenza della Corte di Strasburgo è la conseguenza di questo atteggiamento generale…
Il crocefisso è un simbolo religioso…
Come simbolo (improprio) dell’identità e della cultura nazionale esso viene usato strumentalmente da tutta la destra miscredente (quella degli atei devoti e di quelli che adorano il Dio Po) e da quella cristiana fondamentalista.
Il Vaticano e la CEI non riescono ad avere una posizione più equilibrata…
anzi, contribuiscono ad alimentare rivendicazioni e acide polemiche.” Le Comunità Cristiane di base: Meno croce e più Vangelo di Comunità Cristiane di base in MicroMega-online del 4 novembre 2009 “Sappiamo di essere controcorrente perché la maturazione della società, della realtà religiosa e della politica sul tema della laicità è un percorso lungo e conflittuale.
Ma non siamo affatto soli.
“Meno croce e più Vangelo” valeva nella scuola di Barbiana da dove don Milani aveva tolto il crocifisso.
Meno croce e più Vangelo valeva per un cattolico come Mario Gozzini, il senatore della legge sulla umanizzazione del carcere” La scuola del crocefisso di Lidia Ravera in l’Unità del 5 novembre 2009 “Insomma, sgombriamo il cuore e la mente dal cumulo di gravi problemi che ci attanagliano e discutiamo, alla radio, in tivù, su tutti i giornali del tema più urgente, scottante, ammaliante: bisogna staccare il crocefisso dal muro dietro la cattedra oppure no? …
Stacchiamolo e facciamola finita.
Abbiamo ben altro per la testa!” Il crocifisso, i giudici e Natalia Ginzburg di Giuseppe Fiorentino e Francesco M.
Valiante in L’Osservatore Romano del 5 novembre 2009 “la sentenza della Corte di Strasburgo, con l’intento di voler tutelare i diritti dell’uomo, finisce per mettere in discussione le radici sulle quali quegli stessi diritti si fondano, disconoscendo l’importanza del ruolo della religione – e in particolare del cristianesimo – nella costruzione dell’identità europea e nell’affermazione della centralità dell’uomo nella società.” Crocifisso braccio di ferro inutile di Gian Enrico Rusconi in La Stampa del 5 novembre 2009 “Questo conflitto investe in profondità convinzioni ed emozioni…
Va respinta con energia l’accusa che chi…
vorrebbe rimuovere dallo spazio pubblico scolastico il segno della fede cristiana è una persona intollerante…
Lo stesso vale per l’accusa di rinnegare la tradizione popolare nazionale…
Il fondo della contraddizione è toccato dai leghisti che da una parte contestano e sbeffeggiano l’identità nazionale, e dall’altro difendono il crocifisso nelle scuole come simbolo intoccabile di tale identità…
La vera novità è non eludere il problema, parlarne in modo responsabile e pacato…” Quel richiamo all’amore vale per l’intera umanità di Vito Mancuso in la Repubblica del 5 novembre 2009 “Dietro la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo vi è la preoccupazione in sé legittima di tutelare la libertà, in particolare la libertà religiosa dei bambini che potrebbe venir minacciata dalla presenza di un crocifisso nelle aule scolastiche.
In realtà vi sono precisi motivi che rivelano l’infondatezza di tale preoccupazione, e mostrano al contrario che dal crocifisso scaturisce uno sprone all’esercizio della libertà in modo giusto e coraggioso.” “Rappresenta la laicità di Gesù” intervista a Massimo Cacciari a cura di Carlo Brambilla in la Repubblica del 5 novembre 2009 “Massimo Cacciari è irritato dalle polemiche di questi giorni sui crocifissi nelle scuole.
Fosse per lui non andrebbero tolti da nessuna parte.
Al contrario «andrebbero piuttosto messi dappertutto, se qualcuno sapesse davvero cosa vuol dire il crocifisso…» «…è un segno di straordinaria accoglienza, di straordinaria donazione di sé».” Bertone: l’Europa lascia solo le zucche di Halloween di Orazio La Rocca in la Repubblica del 5 novembre 2009 “Sulla sentenza della Corte di Strasburgo, che condanna l’Italia a togliere i crocifissi dalle scuole pubbliche, spira aria di rivolta anti europea.” La carica dei sindaci-crociati “E noi li distribuiamo in piazza” di Paolo Griseri in la Repubblica del 5 novembre 2009 “L’epicentro dello scontro è Abano Terme, dove risiede la famiglia italo-finlandese che con la sua protesta ha causato il pronunciamento di Strasburgo…
il sindaco leghista del vicino paese di Cittadella: «Suggerisco al sindaco di Abano di revocare la residenza alla famiglia italo finlandese…».
In tutto questo frastuono di minacce e spacconate a difesa dei simboli, stona l’invito di don Antonio, parroco di Abano che indica nello stile di vita e nell’esempio il fondamento del cristianesimo e sintetizza: «Protesta chi il Crocifisso non lo ha dentro».
Ma nell’Italia che sembra la Vandea, la sua è una voce che grida nel deserto.” In croce di Agostino Paravicini Bagliani in la Repubblica del 5 novembre 2009 “La croce è un simbolo conosciuto da molte civiltà, dalla Cina all’Egitto, dall’Asia all’Africa.
Perché è un simbolo dell’asse del mondo…
Se nell’arte cristiana la rappresentazione della croce occupa un posto preminente, la sua storia non fu affatto lineare…
fu a lungo simbolo di potenza e di gloria e come tale accompagnò l’affermazione storica del Cristianesimo a Roma…
diventerà anche l’elemento centrale della rappresentazione iconografica dell’opposizione…
tra la chiesa cristiana e il giudaismo…
servì anche ad accompagnare la riconquista della Spagna araba, le crociate e ben altre lotte anche di natura politica…
Il segno della croce fu però anche usato per superstizione…” «Non è una sentenza coercitiva, non c’è nessuna possibilità di coercizione che ci impedisca di tenere i crocefissi nelle aule».
In una conferenza stampa a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi torna a parlare della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sui crocifissi nelle aule scolastiche.
Il premier ha ribadito tutte le sue perplessità nei confronti di questa decisione spiegando che qualunque sia l’esito del ricorso presentato dal governo italiano «non ci sarà capacità coercitiva».
DECISIONE NON RISPETTOSA DELLA REALTA’ – Berlusconi ha poi aggiunto che la decisione della Corte dei diritti dell’uomo «Non è rispettosa della realtà: l’Europa tutta e in particolare l’Italia non può non dirsi cristiana.
Quando sono stato presidente del Consiglio Europeo – ha ricordato ancora il premier -condussi una battaglia per introdurre nella Costituzione le radici giudaico-cristiane, ma Paesi laici e laicisti come la Francia di Chirac si opposero e siccome serviva l’unanimità non riuscimmo a introdurle».
Comunque, «Se c’è una cosa su cui anche un ateo può convenire è che questa è la nostra storia.
Ci sono 8 paesi d’Europa che hanno la croce nella loro bandiera…
Cosa dovrebbero fare cambiare la loro bandiera?».
CEI – La conferenza episcopale italiana ha espresso apprezzamento per le parole del premier, che ritiene «non vincolante» la decisione della Corte di Strasburgo sul crocifisso.
«Non posso che confermare quanto finora detto dalla stragande maggioranza degli italiani, governo compreso – dice monsignor Vincenzo Paglia, vescovo di Amelia-Terni e responsabile della Cei per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso -.
C’è un tale consenso contro la sentenza di Strasburgo che mostra quanto essa tenga poco conto della realtà di un Paese».
06 novembre 2009
Livelli di eccellenza nelle scuole cattoliche inglesi
Nei rapporti degli ispettori dell’Isi sulle scuole cattoliche vengono anche evidenziati i rapporti eccellenti che le scuole indipendenti cattoliche sono in grado di sviluppare con le comunità locali.
In molti casi gli ispettori hanno notato che i giovani studenti di questi istituti partecipano anche ad azioni di solidarietà verso i più bisognosi nell’ambito delle iniziative intraprese dal Catholic Fund for Overseas Development (Cafod) o dalla società di san Vincenzo de’ Paoli.
Gli ispettori dell’Isi hanno anche sottolineato che le scuole indipendenti cattoliche vengono frequentate anche da giovani le cui famiglie appartengono a una diversa confessione.
Questa apertura ai ragazzi di fedi diverse, e il rispetto con cui essi vengono trattati nell’ambito scolastico, ha maggiormente convinto i membri dell’Isi ad assegnare una valutazione di eccellenza agli istituti d’istruzione cattolici.
Nel comunicato congiunto, firmato dalla responsabile del Cesew, Oona Stannard, e dal presidente del Cisc, Joseph Peake, si sottolinea che quando l’insegnamento riguarda temi che possono avere diverse interpretazioni, gli insegnanti delle scuole cattoliche enfatizzano l’importanza del rispetto di ciascuna opinione ed esortano gli allievi ad ascoltare le posizioni divergenti e a formare il proprio giudizio dopo una seria riflessione.
Nel documento si sottolinea l’importanza della formazione degli insegnanti che nelle scuole cattoliche hanno la libertà di scegliere tra diversi metodi d’insegnamento purché questi siano rispettosi della dignità umana di ciascuna persona e riconoscano il ruolo essenziale della comunità d’appartenenza.
Sempre in tema di educazione, si è tenuto a Londra il congresso “Keeping Faith in the System”, a cui hanno partecipato oltre duecento rappresentanti di scuole gestite da organizzazioni religiose.
L’incontro era stato inaugurato dal deputato Ed Balls, Secretary State of Department for Children, Schools and Families che nel 2007 aveva pubblicato un rapporto sull’importanza del ruolo delle scuole gestite da organizzazioni religiose nel sistema scolastico dell’Inghilterra e del Galles.
Nel suo intervento, Ed Balls ha sottolineato che “l’entusiasmo, il dinamismo e il successo delle scuole gestite da religiosi non sono mai stati così forti come ora.
Ho constatato personalmente come questi istituti usano il proprio carisma per formare giovani che hanno un forte sentimento per la comunità e un indiscutibile rispetto per gli altri, anche per quelli che appartengono ad altre fedi e si sono formati in diversi contesti culturali”.
Per Ed Balls, le scuole gestite dai religiosi “sono tra i migliori esempi che abbiamo di promozione della coesione sociale perché offrono una formazione migliore di quella che spesso viene offerta in scuole d’altro tipo.
Le scuole gestite da religiosi hanno quindi un ruolo fondamentale per il nostro sistema educativo”.
Il deputato inglese aveva evidenziato che il rendimento scolastico degli studenti delle scuole gestite da religiosi è in media del 10 per cento migliore rispetto agli alunni che frequentano altre scuole.
Nel corso del convegno, ha preso la parola Oona Stannard secondo cui nelle scuole gestite da organizzazioni cattoliche “l’insegnamento ai giovani è nel contesto della nostra tradizione religiosa ma si moltiplicano le forme di collaborazione anche con altri istituti scolastici gestiti da religiosi appartenenti a diverse Chiese cristiane”.
(©L’Osservatore Romano – 29 ottobre 2009) L’educazione impartita agli studenti nelle scuole cattoliche in Inghilterra e nel Galles corrisponde ai massimi parametri di qualità richiesti dalle due più note organizzazioni d’ispezione scolastica: questo è quanto viene sottolineato in un recente comunicato congiunto diffuso dal Catholic Education Service for England and Wales (Cesew) e dal Catholic Indipendent Schools’ Conference (Cisc).
Nel documento si fa riferimento agli eccellenti risultati delle ispezioni effettuate, nel corso dell’ultimo anno scolastico, dall’Indipendent School Inspectorate (Isi) e dall’Office for Standards in Education, Children’s Services and Skills (Ofsted).
Per gli ispettori dell’Ofsted, nelle scuole cattoliche si raggiungono i massimi standard di qualità per quanto riguarda gli insegnamenti di temi a carattere spirituale, morale, sociale e culturale.
“Vi è una forte evidenza – affermano gli ispettori nel loro rapporto – dell’impatto positivo che le scuole indipendenti a gestione religiosa hanno sullo sviluppo sociale, morale spirituale e culturale dei loro giovani studenti che vengono formati per divenire dei buoni cittadini”.
Sezione in revisione
La redazione quanto prima publicherà la nuova rubrica
Insegnare religione islamica a scuola
Frattini: serve un concordato con l’islam Prima l’intesa tra Stato e Islam, poi l’ora di Corano nelle scuole».
A una settimana dalla proposta con cui la fondazione «FareFuturo» ha spaccato tra «pro» e «contro» il mondo politico e la Chiesa, il ministro degli Esteri, Franco Frattini fissa le condizioni per arrivare alle lezioni di religione musulmana negli istituti pubblici.
Qual è la sua proposta per l’ora d’Islam? «L’integrazione degli immigrati richiede solidarietà e legalità, senza prescindere dalla nostra identità e storia.
Servono regole e principi per diventare un buon italiano, prima che un buon musulmano.
E’ fondamentale che si costituisca un Islam italiano prima di portare il Corano nell’istruzione pubblica, altrimenti l’ora d’Islam diventa davvero una corsia privilegiata, una scorciatoia come dice Bagnasco.
E’ funzione della scuola dare un inquadramento ai figli di immigrati nati in Italia, fare di loro buoni cittadini nel corso degli studi.
A questo punto i ragazzi hanno diritto ad approfondire le radici musulmane della loro famiglia.
Quindi è la formazione scolastica nel suo insieme ad essere un antidoto alla radicalizzazione dell’Islam.
Ma prima di dire sì al Corano in classe serve capire chi lo insegnerà».
Prevede un albo dei docenti di Corano? «Con la Chiesa l’ordinamento lo prevede già.
In base al concordato il sacerdote che insegna religione a scuola deve essere autorizzato dall’autorità ecclesiastica.
Solo così siamo garantiti che vengono rispettate le regole, cioè che agli studenti arrivino messaggi accettati dall’accordo con la Chiesa.
Per introdurre l’ora di religione islamica, abbiamo bisogno della stessa garanzia dall’Islam, perciò prima serve un accordo con la confessione islamica analogo a quello che lo Stato ha con il Vaticano.
Senza ciò non possiamo distinguere tra i predicatori di una dottrina ortodossa rigida e i fautori di un Islam dialogante, favorevole all’integrazione, all’uguaglianza di diritti e alla moderazione.
Perciò partiamo dall’educazione italiana per arrivare a quella musulmana».
In una cornice giuridica certa, l’ora d’Islam può servire all’integrazione? «In Italia la Costituzione assicura libertà di religione.
Il punto qui è la cittadinanza, Se un figlio di extracomunitari nato in Italia è maturo per essere un buon cittadino italiano, non gli si può precludere di voler approfondire la propria fede islamica.
L’educazione alla cittadinanza italiana precede quella alla religione musulmana.
L’ora d’Islam proposta da Fini, Urso e altri va accolta come un’accelerazione all’intesa con l’Islam che è ferma da vent’anni.
A Palazzo Chigi ci sta provando la commissione per i culti acattolici.
Per essere riconosciuti in Italia come portatori di un messaggio che può essere insegnato i musulmani devono sottostare ai principi generali del nostro ordinamento che, per esempio, vieta la dottrina wahaabita sulla sottomissione della donna e la possibilità per l’uomo di avere quattro mogli.
Ma le organizzazioni islamiche presenti in Italia non si riconoscono a vicenda la legittimazione a rappresentare il senso giusto, corretto della religione musulmana».
Perché con la Chiesa c’è un’intesa e con l’Islam no? «I cattolici hanno un Papa e una gerarchia che stabilisce l’esatta interpretazione della dottrina, nell’Islam ogni predicatore può stabilire quale sia l’autentico modo di applicare il Corano senza che nessuno abbia la forza gerarchica per smentirlo.
Oggi lo Stato non ha il potere di attribuire una legittimazione esclusiva per differenziare gli estremisti della moschea di viale Jenner a Milano dal riformismo europeo e tollerante dell’imam di Roma.
Non è solo un ostacolo burocratico e istituzionale ma politico.
A causa della struttura della predicazione islamica manca ancora l’intesa con lo Stato.
Quando ci sarà, sarà fissata la linea».
E nel frattempo? «Il modello da seguire è il Concordato firmato da Craxi con la Santa Sede un quarto di secolo fa.
Formare un buon musulmano è una questione religiosa, noi vogliamo arrivare alla cittadinanza.
Il governo è contrario a visioni esagerate che negano questa possibilità.
Un buon italiano può essere cristiano, ebreo o musulmano, però deve condividere i valori e i principi dell’ordinamento nazionale.
L’istruzione è la chiave per centrare questo obiettivo.
Chi nasce in Italia da genitori marocchini o filippini diventa italiano attraverso il percorso di educazione negli istituti italiani, studiando la lingua, l’educazione civica».
intervista a Franco Frattini, a cura di Giacomo Galeazzi in “La Stampa” del 26 ottobre 2009 Ad una settimana dalla proposta dell’ora di religione islamica fatta dal viceministro di An Adolfo Urso e appoggiata dal presidente della Camera Gianfranco Fini, il ministro degli Esteri Franco Frattini, in un’intervista a ”La Stampa”, rilancia, spiegando così la propria proposta: in base al concordato con la Chiesa, spiega, il sacerdote che insegna religione ”deve essere autorizzato dall’autorità ecclesiastica.
Solo così siamo garantiti che si rispettino le regole”.
Per introdurre l’ora di religione islamica, il titolare degli esteri dichiara che occorre la “garanzia dall’Islam” e “perciò prima serve un accordo con la confessione islamica analogo a quello che lo stato ha con il Vaticano”.
La proposta di Fini e Urso, per Frattini, va dunque accolta come ”un’accelerazione all’intesa con l’Islam che è ferma da vent’anni.
A palazzo Chigi ci sta provando la commissione per i culti acattolici”.
Ma non è semplice: ”Per essere riconosciuti in Italia come portatori di un messaggio che può essere insegnato – spiega il ministro – i musulmani devono sottostare ai principi generali del nostro ordinamento” che vieta, per esempio, la sottomissione della donna e la possibilità per l’uomo di avere quattro mogli.
Ma le organizzazioni islamiche in Italia ”non si riconoscono a vicenda la legittimazione a rappresentare il senso giusto” e nell’Islam ”ogni predicatore può’stabilire quale sia l’autentico modo di applicare il corano”, a differenza dei cattolici che ”hanno un papa e una gerarchia che stabilisce l’esatta interpretazione della dottrina”.
Il modello più adatto, per Frattini, sarebbe ”il concordato firmato da Craxi con la santa sede un quarto di secolo fa”, ma “a causa della struttura della predicazione islamica, manca ancora l’intesa con lo stato”.
Andrebbe inoltre osservato, a giudizio di Tuttoscuola, che i costi di un’operazione di questo genere sarebbero assai elevati, così come le difficoltà organizzative: gli studenti di religione musulmana nelle nostre scuole sono relativamente pochi (il 2,5%), ma se tutti chiedessero di avvalersi dell’ora di religione islamica…
L’Ucoii, Unione delle Comunità islamiche in Italia, concorda con la proposta del ministro Frattini di pervenire ad una intesa tra Stato italiano ed Islam per poi considerare l’ora di religione coranica nelle scuole italiane.
Il portavoce dell’Unione delle Comunità islamiche in Italia, Ezzedin Elzir, ha dichiarato che l’Ucoii è pronta a stipulare anche da sola un’intesa con lo Stato italiano.
“Credo che l’intesa si debba fare – osserva Elzir – con la parte della comunità che la chiede.
Noi cerchiamo con tutta le forze di avere una rappresentanza unica, ma se ciò non avviene non possiamo lasciare la nostra comunità ad aspettare”.
Il portavoce dell’Ucoii si è detto d’accordo con il ministro Frattini anche sulla necessità che la scuola insegni in primo luogo ad essere dei buoni cittadini italiani, e che vi sia un albo di insegnanti concordato con lo Stato.
Quanto alla distinzione fatta dal ministro, tra “gli estremisti della moschea di viale Jenner a Milano” e “il riformismo europeo e tollerante dell’imam di Roma” il portavoce dell’Ucooi, che è anche imam a Firenze, ha precisato che, da parte sua, il compito è “portare un messaggio e non giudicare”.
Per il mondo musulmano l’appartenenza religiosa viene prima dell’appartenenza nazionale.
Naturalmente, bisogna dire che vi sono più modi di praticare l’islam, si può essere più liberali e tolleranti come può succedere in Italia.
Ma costoro sono al corrente della diversità delle norme e delle usanze del nostro Paese, rispetto a quelle islamiche? Non credo proprio.
Difatti, non è stato ancora stilata alcuna Intesa tra lo Stato italiano e le comunità islamiche circa il rispetto delle nostre leggi e della nostra Costituzione.
Un esempio: quante coppie musulmane si sono sposate civilmente e- di conseguenza- si impegnano a rispettare il dettato costituzionale? Benché costituiscano il secondo gruppo religioso in Italia per numero, le comunità islamiche non dispongono ancora di un accordo giuridico con lo Stato.
In assenza di tale accordo, l’esercizio dei loro diritti religiosi é di fatto limitato.
La creazione di nuove moschee e istituzioni scolastiche e l’osservanza di feste religiose e altri riti si scontrano con notevoli difficoltà.
Inoltre, la stragrande maggioranza dei musulmani che vive in Italia non ha la cittadinanza e, quindi, non partecipa alla vita politica del paese.
Così i rapporti con l’Islam da un punto di vista giuridico è operazione non agevole, data la diversità dei sistemi giuridici, tra di loro difficilmente comparabili, e perché il mondo arabo prescinde da qualsiasi riferimento al diritto romano o ai diritti confessionali come quello canonico.
Inoltre, l’Italia da sempre persegue la strada dell’interculturalità, che prevede la contaminazione delle diverse culture, tenendo come punto fermo la Costituzione.
Il fatto che il nostro stato ha subìto negli ultimi anni un possente flusso migratorio proveniente da paesi a prevalenza islamica, tanto che la comunità musulmana è diventata la seconda comunità religiosa, dopo quella cattolica, presente nel nostro Paese, induce alcuni politici a proporre un’ ora di religione islamica a scuola di ogni ordine e grado.
Ma secondo chi?.
La maggioranza di questa comunità si riconosce in tre associazioni islamiche: l’Associazione Musulmani Italiani (A.M.I.), la Comunità Religiosa Islamica (CO.RE.IS.) e l’Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche Italiane (U.C.O.I.I.).
Ciascuna di queste ha, separatamente, presentato al Governo italiano una propria bozza d’intesa, allo scopo di ottenere il riconoscimento dell’esistenza della comunità islamica nel nostro Paese e quindi di regolare alcuni aspetti della vita che sono strettamente collegati alla religione.
Le richieste delle tre Associazioni, si concentrano particolarmente sul tema della famiglia, del lavoro e dell’istruzione.
Da tenere ben presente che i musulmani provengono da una moltitudine di paesi diversi, e quindi ciascun gruppo nazionale riproduce le divisioni esistenti in patria intersecandole con quelle degli altri gruppi.
Il panorama risulta quindi molto variegato, e nessuna istituzione islamica o federazione associativa può presentarsi per ora come rappresentante dei musulmani all’interno di uno stato, perché non è in grado di raccogliere i consensi di tutti i gruppi, e in mancanza di questo la sua rappresentatività è sempre contestabile da altri.
L’immigrazione in Italia è infatti ancora troppo recente, e la maggior parte degli immigrati è alle prese con problemi più concreti di natura economica e familiare.
D’altra parte la maggior parte dei musulmani non conosce il contesto italiano, quale rapporto intende stabilire con esso, le modalità con cui sintetizzare la propria appartenenza all’islam con l’adesione ai valori fondamentali della società italiana.
La stessa scarsa frequenza alle moschee dimostra che gli stessi organismi islamici esistenti non rappresentano la maggioranza della popolazione.
La distanza che si manifesta tra gli enti dell’associazionismo islamico e la maggioranza della popolazione musulmana residente in Italia, è un dato di fatto da considerare, nella prospettiva d’iniziative sul piano politico.
Probabilmente la via migliore da seguire non è quella di legittimare istituzionalmente organismi la cui rappresentatività reale è dubbia – magari stipulando un’intesa prematura tra lo Stato italiano e una “confessione musulmana” rappresentata da enti scarsamente rappresentativi – , ma lasciare spazio e tempo al confronto e al dibattito all’interno delle varie correnti e organismi musulmani e nel più vasto ambito della popolazione musulmana di origine immigrata, perché possa emergere gradualmente una rappresentanza reale, che esprima realisticamente le esigenze dei musulmani nel contesto italiano.
Prima di giungere a un’Intesa, di per sé difficilmente modificabile una volta stipulata, sembra indispensabile un maggiore radicamento dei musulmani in Italia, tenendo conto che il diritto comune italiano garantisce già, indipendentemente da qualsiasi Intesa, la libertà di religione, di espressione, di associazione per i musulmani come per gli altri residenti e cittadini.
Precorrere i tempi significherebbe non consentire che emergano tutti gli interlocutori musulmani con i loro tratti specifici e che neppure vengano espresse in modo compiuto le esigenze religiose sentite dalla base.
D’altra parte sarebbe come minimo imprudente non valutare i rischi di interlocutori legittimi per lo stato italiano che potrebbero favorire un’evoluzione dell’islam italiano in senso conflittuale rispetto ai valori fondamentali della società e della cultura italiana ed europea.
I nostri politici in cerca di sensazionalismo, si informassero meglio su che cosa è “islam” e si occupassero più seriamente dei veri problemi della scuola.
Di: Maria de falco Marotta