Il no al crocifisso nelle scuole

L’intervista «Facendo lo stesso ragionamento la Corte di Strasburgo potrebbe chiedere agli inglesi di togliere la croce di San Giorgio dalla bandiera».
E perché? «Dice quella sentenza che la croce è un simbolo di parte.
E allora non dovrebbe stare non solo nelle aule ma nemmeno sul simbolo dell’unità nazionale.
Mi sembra francamente irragionevole».
Il professor Carlo Cardia insegna Diritto ecclesiastico all’Università di Roma Tre.
Negli anni si è occupato di tutte le questioni importanti nei rapporti fra Stato e Chiesa, dall’otto per mille alla revisione del Concordato, ed è stato autore della Carta dei valori, della cittadinanza e dell’immigrazione insieme al ministro Giuliano Amato.
L’ultimo nodo che ha affrontato è la sentenza con la quale la Corte europea dei diritti umani ha detto no al crocifisso nella aule scolastiche, perché lede la «libertà di religione degli alunni».
A questo tema il professor Cardia ha dedicato un libro «La questione del crocifisso e l’identità culturale e religiosa dell’Europa», che sarà presentato lunedì 26 aprile a Roma.
Professor Cardia, come considera quella sentenza? «Da rivedere anche per la sua forza espansiva nei confronti di altri Stati.
Non approfondisce la questione e la esamina da un punto di vista ideologico.
Così la Corte ha finito per rinnegare la sua stessa giurisprudenza, che aveva un orientamento consolidato».
Cosa diceva questo orientamento? «La Corte di Strasburgo è chiamata a pronunciarsi sulla base della Convenzione dei diritti umani del 1950.
Questo documento stabilisce che gli Stati europei sono “animati da uno stesso spirito e forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici”.
In questo patrimonio un posto preminente lo occupano la tradizione cristiana ed i suoi simboli, come il crocifisso.
Negli anni la Corte, giustamente, ha più volte ricordato questo principio».
E invece stavolta? «Ha inspiegabilmente cambiato direzione.
Ha scelto un approccio vetero illuminista secondo il quale la formazione si deve svolgere in un vuoto culturale dove non esiste un passato né un futuro da costruire.
Da questo punto di vista la Corte ha parlato di una scuola italiana che non esiste».
Cosa intende? «Se una ragazza, in Italia, vuole andare a scuola con il velo islamico lo può fare.
C’è un atteggiamento tollerante nei confronti di tutti i simboli religiosi.
Ma questo la Corte non l’ha preso in considerazione.
E così è stato svilito il ruolo del crocifisso come simbolo dell’identità europea, trasformandolo in un simbolo di parte».
Saranno queste le motivazioni che l’Italia farà valere nel ricorso contro la sentenza? «Non mi occupo direttamente del ricorso anche se questo libro è il frutto di uno studio che riflette le posizioni del governo italiano e che sarà utilizzato per sensibilizzare sulla questione anche altri governi europei.
Nel mio lavoro ho cercato di evidenziare alcuni carenze nella sentenza della Corte».
Quali carenze? «La sentenza fa discendere l’obbligo del crocifisso nelle aule dallo Statuto albertino che nel 1848 stabiliva come quella cattolica fosse la sola religione di Stato.
È stato considerato come frutto del confessionismo di Stato».
E invece? «È un errore tecnico, quello Statuto era flessibile e dopo poco tempo il principio della religione di Stato cadde in disuso.
In realtà, la norma sul crocifisso è successiva.
C’erano già state le cosiddette leggi eversive, che sopprimevano alcuni enti religiosi.
Altro che Stato confessionale.
Per questo mi auguro una revisione della sentenza che tenga conto del valore storico e religioso che la croce ha per tutti i cristiani, cattolici, ortodossi e protestanti».
in “Corriere della Sera” del 22 aprile 2010

«La Natura imprevedibile è più forte di noi»

CARLO RUBBIA – «L’uomo — dice per esempio Carlo Rubbia, premio Nobel per la Fisica nel 1984 — si sorprende davanti ai grandi eventi della natura, terremoti, eruzioni vulcaniche, cicloni, perché dimentichiamo che il nostro pianeta è in continuo movimento: l’Atlantico si allarga di 2,5 centimetri l’anno, allontanando l’Europa dall’America.
Ma tutto rientra nella storia e nell’evoluzione della terra: basti pensare che duecento milioni di anni fa tutti i continenti erano riuniti in un’unica terra emersa.
Bisogna rendersi conto che i fenomeni della natura coesistono con la vita dell’uomo, il quale deve esserne consapevole.
L’uomo e la natura sono due realtà parallele che convivono».
La nostra fragilità, dice ancora Rubbia, è resa ancora più palese dalle «conseguenze che questa eruzione vulcanica potrebbe avere per il cambiamento climatico: le polveri ridurranno la trasparenza dell’atmosfera e quindi la radiazione del sole riscalderà meno la terra su vaste aree, andando nella direzione contraria all’attuale cambiamento climatico».
PAOLO ROSSI – Una preoccupazione, quella di Rubbia, che si sposa perfettamente con la riflessione di Paolo Rossi, decano italiano dei filosofi della scienza e allievo di Eugenio Garin: «Questa vicenda smentisce due idee molto di moda nel mondo contemporaneo: dimostra innanzitutto che la natura non è affatto buona, e poi che non sappiamo come andrà a finire.
Nel primo caso mi riferisco alla fastidiosa propaganda sulla natura come dolce madre che arriva fino alla pubblicità (è un prodotto naturale: compralo), nel secondo al mito della prevedibilità dei fenomeni fisici ma anche del corso storico.
Le previsioni di lungo periodo si sono dimostrate sempre sbagliate: sia quelle catastrofiche di padre Lombardi quando vedeva i cavalli dei cosacchi abbeverarsi alle fontane di San Pietro, o di Alberto Asor Rosa che oggi predica l’apocalisse, sia quelle ottimistiche degli economisti che fino a un anno fa si illudevano di controllare l’andamento dei mercati».
GIULIO GIORELLO – Un titolo catastrofista, ma solo in funzione editoriale, è quello del libro del vulcanologo Bill McGuire, Guida alla fine del mondo, edito da Raffaello Cortina nella collana diretta da Giulio Giorello, filosofo della scienza alla Statale di Milano.
«Il libro di McGuire, studioso che in questi giorni lavora nel gruppo che gestisce l’emergenza in Gran Bretagna, ci parla delle catastrofi che possono mettere in crisi la nostra civiltà — spiega Giorello —.
Di alcune, come l’eruzione del vulcano islandese, non abbiamo colpa, ma siamo sempre responsabili delle risposte che diamo.
Per non finire come i dinosauri, secondo una teoria scomparsi all’impatto della terra con un gigantesco meteorite, non dobbiamo mai smettere di studiare il nostro pianeta, magari ricordandoci di applicare i risultati delle ricerche, perché per esempio in Italia abbiamo degli ottimi geologi ma non un atlante geologico completo.
E poi affinare le nostre capacità di risposta, attraverso l’elaborazione di modelli matematici sempre più sofisticati che se non prevedono quando un fenomeno si verifica almeno ci dicono come avviene, quindi ci mettono in grado di reagire».
MARGHERITA HACK – Convinta che la scienza possa comunque dare una mano è l’astrofisica Margherita Hack, tuttavia scettica di fronte alla prevedibilità di tutti i fenomeni.
«Non dico che la scienza sia impotente — argomenta la scienziata cui è stato intitolato l’asteroide 8558 — ma nei miei anni di studio e lavoro ho potuto constatare che sulla terra così come su molte stelle non tutto è prevedibile».
Quel che segue sembra un gioco di parole, ma Margherita Hack è convinta che «la scienza può servire anche quando prevede l’assoluta imprevedibilità di certi fatti.
Non sappiamo per esempio quando il Vesuvio andrà in eruzione ma di certo prima o poi accadrà».
NICOLA CABIBBO – Questa concreta preoccupazione per il Vesuvio accomuna la più laica tra gli scienziati al fisico Nicola Cabibbo, noto nel mondo per gli studi sulle interazioni delle particelle elementari e presidente della Pontificia accademia delle scienze.
«Il Vesuvio, vulcano molto pericoloso — sostiene Cabibbo — potrebbe fare disastri ben maggiori di quello islandese anche per la densità della popolazione che vive nell’area.
Viviamo in un mondo che può dare sorprese a tutti i livelli, dai fenomeni singolari come quello partito dall’Islanda, davanti al quale la scienza mi sembra possa ben poco, agli eventi come frane e terremoti, ben frequenti nel nostro Paese ma che ci colgono spesso impreparati.
L’eruzione di quel lontano vulcano che sta emettendo una quantità incredibile di polvere davanti alla quale nulla possono gli scienziati, mi sembra debba servire da monito per la nostra imprudenza».
Dino Messina Corriere della sera 18 aprile 2010 Davanti allo spettacolo terribile del terremoto di Lisbona, che il 1° novembre 1755 uccise dalle sessantamila alle novantamila persone, almeno un quarto degli abitanti di quella città, l’illuminista Voltaire arrivò a mettere in dubbio la provvidenza divina e il filosofo Immanuel Kant, il padre del razionalismo moderno, mise in guardia contro i peccati di orgoglio.
In maniera diversa, un richiamo all’umiltà dell’uomo di fronte agli sconvolgenti fenomeni naturali, come l’eruzione del vulcano islandese Eyjafjallajökul che da tre giorni sta bloccando il traffico aereo in Europa, viene anche oggi da filosofi e scienziati.

Tomás Spidlík, maestro della spiritualità orientale

Il novantenne cardinale gesuita moravo Tomás Spidlík, punto di riferimento della spiritualità orientale, è morto alle 21 di venerdì 16 aprile al centro Ezio Aletti di Roma da lui fondato e dove viveva dal 1991.
Nato il 17 dicembre 1919 a Boskovice, nella diocesi di Brno, nell’odierna Repubblica Ceca, era stato ordinato sacerdote il 22 agosto 1949.
Nel concistoro del 21 ottobre 2003, Giovanni Paolo II lo aveva creato e pubblicato cardinale diacono di Sant’Agata dei Goti.
Il 18 aprile 2005 aveva predicato ai cardinali riuniti nella cappella Sistina per il conclave che ha eletto Benedetto XVI.
Le esequie saranno celebrate nella basilica Vaticana martedì 20 aprile, alle ore 11.30, dal cardinale Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio.
Al termine della celebrazione eucaristica, Sua Santità Benedetto XVI scenderà in basilica per rivolgere la sua parola ai presenti e presiedere il rito dell’ Ultima Commendatio e della Valedictio.
La salma sarà esposta nella cappella del centro Aletti, in via Paolina 25, fino alla sera di lunedì 19 aprile.
Il cardinale Spidlík sarà poi sepolto a Velehrad in Moravia, luogo a lui particolarmente caro perché legato all’evangelizzazione dei santi Cirillo e Metodio e crocevia di popoli e culture.  “Per tutta la vita ho cercato il volto di Gesù e ora sono felice e sereno perché sto per andare a vederlo”.
C’è il senso di un’intera esistenza nelle ultime parole del cardinale Spidlík, morto a novant’anni e quattro mesi per un tumore che non gli aveva però impedito di continuare fino alla fine, con incontri e confronti, ad approfondire la tradizione dell’Oriente cristiano nella sua relazione con il mondo contemporaneo.
Le sue ultime uscite pubbliche sono state per un atto accademico in suo onore al Pontificio Istituto Orientale – dove ha insegnato per mezzo secolo – e per predicare gli esercizi spirituali quaresimali alla Gendarmeria vaticana.
Nel giorno del suo novantesimo compleanno, il 17 dicembre scorso, Benedetto XVI gli aveva fatto il grande regalo di celebrare con lui la Messa nella cappella Redemptoris Mater, opera d’arte nata proprio dal pensiero di Spidlík e dalle mani del suo primo discepolo padre Rupnik.
E il cardinale che amava gli scherzi disse, in una lunga intervista a “L’Osservatore Romano”, che, in quella occasione, la Provvidenza era stata “più brava” di lui “a fare gli scherzi”, facendogliene “uno sorprendente” per regalargli “il compleanno più bello” accanto al Papa.
 Tomás Spidlík è stato un maestro di spiritualità orientale, capace di fondare una vera e propria scuola radicata anche nell’arte, nella cultura e nella storia in Oriente come in Occidente.
La sua opera oggi non è vista semplicemente come un lavoro di storia della spiritualità, ma rappresenta una visione teologica organica.
“Cerco di propagare – ha detto di se stesso pochi giorni prima di morire – la bellezza che salva, una visione teologica dove prevale  un  approccio simbolico, liturgico, e dove  l’immagine visuale è uguale alle testimonianze di fede dette o scritte”.
Il “metodo Spidlík”, spiega padre Milan Zust, che gli è stato vicino fino all’ultimo, si è fondato sulla capacità di “vedere l’insieme delle cose”, di trattare “i diversi temi dal punto di vista storico, culturale e religioso, ma soprattutto in rapporto alla vita concreta, mettendo le Persone della Santissima Trinità e la persona creata, sua immagine, al centro di tutto.
Nel profondo del cuore padre Tomás ha avuto lo stesso atteggiamento come guida spirituale e come ricercatore e insegnante”.
Un padre, dunque, uno starec che ha insegnato con la sua stessa vita.
In ambito accademico, infatti, è rimasto sempre per tutti “padre Tomás”:  nessuno si rivolgeva a lui chiamandolo seriosamente “professore” o solennemente “eminenza”.
Per padre Richard Cemus, suo successore sulla cattedra di spiritualità orientale al Pontificio Istituto Orientale, la ragione è presto detta:  “Dove l’intelletto è unito al cuore la parola non solo comunica la scienza ma genera la vita”, dunque “professore si diventa per mezzo di una paternità”.
Infatti da Spidlík ci si attendeva “sempre una parola che genera la vita nello Spirito e non solo un’informazione che soddisfi una curiosità”.
In lui si cercava “un padre spirituale e non solo un professore, insomma quello che i tedeschi chiamano doktorvater.
E Spidlík lo è stato, innanzitutto per aver dato vita a una sua vera e propria scuola di pensiero”.
Una scuola sorretta da tre pilastri:  il primato della vita, il primato della persona, la vita spirituale come arte.
“Non le idee e i ragionamenti – dice padre Cemus per spiegare il pensiero di Spidlík – precedono la vita, ma è la vita stessa a rivelare le sue ragioni intrinseche a chi sa contemplarla”.
Spidlík ha impresso l’accelerazione decisiva per l’affermazione della spiritualità orientale, sulla scia del suo maestro padre Iréneé Hausherr.
Così l’opera di Spidlík rappresenta un unicum nella riflessione teologica della seconda metà del ventesimo secolo, aprendo definitivamente e sviluppando il nuovo campo di ricerca della spiritualità dei popoli slavi.
Secondo padre Edward Farrugia, decano della facoltà di scienze ecclesiastiche orientali del Pontificio Istituto Orientale, “il lavoro di Spidlík apre una finestra che come il laser raggiunge le cose in profondità” e mostra come “la dialettica orientale non vada avanti dritta come un carro armato, ma come una trottola che nel suo movimento circolare comprendere associazioni, paradossi e umorismo.
Il divertire attraverso enigmi e apoftegmi fa parte essenziale del corredo orientale.
Sarebbe inconcepibile parlare di Spidlík senza ricordare i suoi anedotti umoristici, specie di follia sana e contagiosa”.
E proprio nell’ultima intervista al nostro giornale, pubblicata il 16 dicembre 2009, Spidlík aveva suggerito che un filo di umorismo non guasta mai.
Considerava lo “scherzare utile in un’esperienza cristiana autentica, non serve solo per restare svegli.
E poi non si tratta solo di battute di spirito:  lo scherzo è davvero una cosa seria.
Il razionalismo e il tecnicismo assolutizzano ogni affermazione parziale.
Lo scherzo la relativizza.
Non nel senso che la verità come tale possa essere relativa, ma dobbiamo sempre tener conto della nostra conoscenza parziale dei misteri.
La parola eresia vuol dire prendere una parte per l’intero.
Lo scherzo è quindi un’arma efficace contro le eresie”.
E scherzava anche sui suoi novant’anni:  “Per sapere cosa vuol fare ancora la Provvidenza con me bisognerebbe fare l’intervista a Lei! Nella mia vita ho fatto cose che neppure immaginavo e solo dopo ho scoperto che le speravo inconsciamente nel cuore.
Per dirne una, mai avrei pensato di festeggiare i miei novant’anni con il Papa e vestito in porpora.
Di certo non lo immaginavo quando, all’inizio della seconda guerra mondiale, l’irruzione del nazismo in Moravia, oggi in Repubblica Ceca, ha brutalmente interrotto i miei studi di letteratura all’università di Brno sconvolgendo le prospettive della mia vita.
Già allora la Provvidenza ha avuto tanto lavoro con me”.
Aveva imparato fin da piccolo a fare sacrifici, non nascondeva di essersi “guadagnato da solo i soldi per studiare al liceo” a Boskovice dove era nato in una famiglia poverissima.
“Non ho però mai avvertito la sensazione dell’ingiustizia sociale paragonandomi con i ragazzi benestanti.
Anzi, ero orgoglioso della mia indipendenza.
Con la spensieratezza di un proletario mi sono iscritto all’università per studiare letteratura.
Ne ero affascinato.
Al secondo anno, all’improvviso, mi piombò addosso la vera prova:  la guerra”.
Nel 1939 aveva vent’anni e le sue “speranze erano sottozero, gli studi universitari spezzati e una sola possibilità per il futuro:  la deportazione”.
In chiesa ci andava “più per disperazione che per devozione” ma poi “ho fatto la grande scoperta che la Provvidenza ti salva e ti conduce, magari anche attraverso situazioni strane, mai pensate prima, eppure coerenti”.
Finito in un campo di concentramento nazista, “è avvenuto l’impensabile:  un agente della Gestapo si è trasformato in angelo visibile liberandomi dal campo, mentre l’angelo custode invisibile mi ha condotto nella compagnia di Gesù.
Poi, dal cielo, sant’Ignazio ha stabilito per me altre sorprese:  il noviziato a Benesov e poi a Velehrad, lo studio della filosofia durante lavori forzati, prima con i soldati tedeschi e poi con quelli russi e romeni”.
Sembra un paradosso:  uno dei più noti pensatori che ha iniziato a studiare filosofia ai lavori forzati.
La fine della guerra ha significato lo studio della teologia a Maastricht, nei Paesi Bassi, dove è stato ordinato sacerdote nel 1949.
Da prete, era pronto a tornare “con nuove idee in patria.
Il regime totalitario comunista non me lo ha permesso”.
Oltretutto la provincia dei gesuiti era stata dispersa.
Un’altra volta sembrava tutto perduto.
“Ma ecco, di nuovo, la Provvidenza all’opera:  stavolta si è servita di uno sbaglio amministrativo, un mio superiore si è dimenticato di scrivere una lettera così mi sono ritrovato esule a Roma.
Insomma la Provvidenza mi ha dato la possibilità di dedicarmi a ciò che di nascosto già desiderava il mio cuore:  lo studio della spiritualità orientale”.
Nel 1951, da esule, ha iniziato a lavorare alla Radio Vaticana e, fino alla morte, il venerdì pomeriggio è sempre andato in onda per commentare le letture della Messa domenicale.
“Ho sempre fatto trasmissioni attingendo alla mia preparazione spirituale centrata sullo studio degli antichi Padri della Chiesa.
La conclusione è che i Padri hanno ancora da dire “qualcosa” per l’oggi e non sono poi così “antichi””.
Con il suo programma ha cercato di aiutare i preti nella predicazione soprattutto nell’est europeo “e sotto il comunismo mi dicono fosse un servizio particolarmente utile:  non c’erano né libri né ritiri spirituali”.
Sosteneva che l’essenza del suo pensiero la si poteva “indovinare simbolicamente proprio nella cappella Redemptoris Mater, dove i mosaici cercano di respirare con due polmoni.
Non soltanto gli uomini, ma anche le nazioni hanno la loro propria vocazione, per offrire il loro contributo alla Chiesa universale.
Ho cercato di indovinare il messaggio cristiano dell’Oriente europeo e di prestargli voce in Occidente”.
Teneva molto anche ai suoi trentotto anni come padre spirituale del Pontificio Collegio Nepomuceno, grazie ai quali aveva “sperimentato la distinzione fra un moralista, che conosce le regole della vita spirituale, e un padre spirituale, che deve avere la conoscenza delle persone.
Il secondo senza il primo si espone al pericolo di un vago carismatismo.
Il primo senza il secondo rimane paralizzato”.
Come padre spirituale del Collegio aveva avuto anche l’opportunità di incontrare grandi figure.
Di Papa Pacelli, per esempio, ricordava “come fosse informato fin nei dettagli della triste realtà della Cecoslovacchia.
Saputo che ero il padre spirituale del Collegio, mi ha dato ottimi consigli pratici su come risolvere certi dubbi sulla vocazione dei candidati al sacerdozio”.
Nel Collegio Nepomuceno, Spidlík ha vissuto accanto al cardinale Beran, espulso da Praga nel 1965.
“Un’esperienza spirituale forte durata quattro anni”.
Era accanto anche a lui nel momento della morte, il 17 maggio 1969, quando Paolo VI accorse per l’ultimo saluto.
Nel 1991 aveva scelto di vivere al centro Aletti, vicino a Santa Maria Maggiore, con padre Rupnik e un gruppo di artisti del mosaico.
Negli anni, il centro è divenuto molto più di un luogo di studio della tradizione dell’Oriente cristiano in relazione ai problemi del mondo contemporaneo.
Un rapporto particolare lo ha avuto con Giovanni Paolo II, il primo Papa slavo.
“Mi ha persino creato cardinale – diceva – e credo che l’abbia fatto per dare più visibilità alla spiritualità orientale.
Da parte mia, già allora mi sentivo troppo vecchio per dare una mano al Papa nel guidare la Chiesa e ho chiesto anche la dispensa dall’ordinazione episcopale.
Ho conosciuto Giovanni Paolo II più da vicino nel 1995, durante gli esercizi spirituali quaresimali che mi ha chiesto di predicare in Vaticano”.
Tutta la vita e l’opera di Spidlík si è espressa naturalmente in una grande apertura di dialogo ecumenico.
Sono note le sue relazioni di amicizia nel mondo ortodosso, tanto che tra i suoi allievi c’è anche il Patriarca Ecumenico, Bartolomeo i Lunghissimo, infine, l’elenco dei riconoscimenti accademici internazionali.
Nel 1989 è stato scelto come “uomo dell’anno 1990″ dall'”American Bibliographical Institute of Raleigh” (North Carolina) e un anno dopo lo stesso istituto lo ha indicato come “la personalità più ammirata del decennio”.
Tante le cittadinanze onorarie e i dottorati honoris causa in Russia, in Romania, nella sua Repubblica Ceca e negli Stati Uniti d’America:  alla “Sacred Heart University” è stato istituito il “Cardinal Spidlík center for ecumenical understanding”, un centro teologico, spirituale e culturale di dialogo, ricerca, educazione, pubblicazione e collaborazione artistica tra i cristiani “per promuovere una più grande comprensione e cooperazione ecumenica”.
(©L’Osservatore Romano – 18 aprile 2010)

Una difesa laica del Papa

All’origine dell’aggressione cui sono sottoposti la Chiesa, e lo stesso papa Benedetto XVI, sul tema della pedofilia in ambito ecclesiale, ci sono un pregiudizio razionalista e una violenza giacobina: si pensi alla «peste pedofila » di cui parla Paolo Flores d’Arcais, che prefigura la dannazione per volontà popolare dell’«untore » di manzoniana memoria.
Sono toni cui dovrebbe essere estranea la stessa cultura laica.
Che non è negazione della religione, ma cavourriana separazione tra le leggi e i comandamenti, tra lo Stato e le istituzioni ecclesiastiche.
Il pregiudizio razionalista tende invece a cancellare la distinzione kantiana, e liberale, fra peccato e reato; pretende di assimilare, «omologare», i comportamenti della Chiesa a quelli della società civile, negandone la specificità spirituale, codificata nel diritto canonico, ben diverso da quello positivo dello Stato secolarizzato.
La Chiesa, che condanna il peccato e perdona il peccatore pentito, ha commesso in passato (anche con Papa Wojtyla) molti errori in materia di pedofilia ecclesiale.
I reati andavano denunciati con coraggio, mentre varie forme di reticenza hanno contribuito a peggiorare la situazione.
Tuttora gli atteggiamenti, spesso confusi e contraddittori, di alcuni rappresentanti del clero non aiutano a far chiarezza.
Quando risuonano paralleli impropri con le persecuzioni antisemite, o si stabiliscono arbitrarie correlazioni tra omosessualità e pedofilia, si ha l’impressione che papa Ratzinger vada tutelato anche dalle sortite incaute di alcuni alti prelati.
Resta il fatto che non si può chiedere alla Chiesa di rinunciare a uno spazio autonomo di analisi e di giudizio, che è tutt’altra cosa dalla pretesa di sottrarre i propri membri all’imperio della legge.
Lo Stato e la Chiesa hanno missioni diverse e la pretesa di cancellare questa feconda differenza danneggerebbe entrambi.
Si sta manifestando, inoltre, un vistoso paradosso.
A essere oggetto degli attacchi più aspri è proprio l’attuale Pontefice, che ha il merito indubbio di aver fatto opera di trasparenza all’interno della Chiesa, su un fenomeno troppo a lungo sottaciuto, e di aver cercato di definire, e distinguere, gli ambiti dei tribunali civili, riconoscendone le prerogative in tema di persecuzione del reato di pedofilia, secondo la legge civile, e quelli propri della Chiesa, rivendicandone l’autonomia nella condanna dei peccati e nella redenzione dei peccatori, secondo il diritto canonico e la propria predicazione (si chiama carità cristiana).
Nonostante questo, oggi Benedetto XVI rischia di passare come il Papa che ha coperto la pedofilia dei sacerdoti.
La distinzione fra peccato e reato è parte integrante della nostra cultura e della nostra civiltà, alla quale non possiamo rinunciare.
Essa sanziona la differenza, e la distanza, fra lo Stato democratico-liberale, fondato sui diritti e le garanzie individuali, e lo Stato teocratico: un ordinamento oppressivo che, come hanno tragicamente provato i totalitarismi anche di un recente passato, non s’identifica solo nel connubio fra trono e altare, ma, anche e soprattutto, nell’illusione razionalista e nel tentativo volontaristico di cambiare, con mezzi coercitivi, la natura dell’uomo.
Di fronte allo spettacolo inquietante cui stiamo assistendo, stupisce, infine, la grande quantità di spettatori che rimangono silenti in un’apparente indifferenza.
Come se la stessa nostra democrazia liberale non fosse debitrice del messaggio cristiano che ha posto al centro la sacralità e l’inviolabilità della persona.

Una difesa laica del Papa

All’origine dell’aggressione cui sono sottoposti la Chiesa, e lo stesso papa Benedetto XVI, sul tema della pedofilia in ambito ecclesiale, ci sono un pregiudizio razionalista e una violenza giacobina: si pensi alla «peste pedofila » di cui parla Paolo Flores d’Arcais, che prefigura la dannazione per volontà popolare dell’«untore » di manzoniana memoria.
Sono toni cui dovrebbe essere estranea la stessa cultura laica.
Che non è negazione della religione, ma cavourriana separazione tra le leggi e i comandamenti, tra lo Stato e le istituzioni ecclesiastiche.
Il pregiudizio razionalista tende invece a cancellare la distinzione kantiana, e liberale, fra peccato e reato; pretende di assimilare, «omologare», i comportamenti della Chiesa a quelli della società civile, negandone la specificità spirituale, codificata nel diritto canonico, ben diverso da quello positivo dello Stato secolarizzato.
La Chiesa, che condanna il peccato e perdona il peccatore pentito, ha commesso in passato (anche con Papa Wojtyla) molti errori in materia di pedofilia ecclesiale.
I reati andavano denunciati con coraggio, mentre varie forme di reticenza hanno contribuito a peggiorare la situazione.
Tuttora gli atteggiamenti, spesso confusi e contraddittori, di alcuni rappresentanti del clero non aiutano a far chiarezza.
Quando risuonano paralleli impropri con le persecuzioni antisemite, o si stabiliscono arbitrarie correlazioni tra omosessualità e pedofilia, si ha l’impressione che papa Ratzinger vada tutelato anche dalle sortite incaute di alcuni alti prelati.
Resta il fatto che non si può chiedere alla Chiesa di rinunciare a uno spazio autonomo di analisi e di giudizio, che è tutt’altra cosa dalla pretesa di sottrarre i propri membri all’imperio della legge.
Lo Stato e la Chiesa hanno missioni diverse e la pretesa di cancellare questa feconda differenza danneggerebbe entrambi.
Si sta manifestando, inoltre, un vistoso paradosso.
A essere oggetto degli attacchi più aspri è proprio l’attuale Pontefice, che ha il merito indubbio di aver fatto opera di trasparenza all’interno della Chiesa, su un fenomeno troppo a lungo sottaciuto, e di aver cercato di definire, e distinguere, gli ambiti dei tribunali civili, riconoscendone le prerogative in tema di persecuzione del reato di pedofilia, secondo la legge civile, e quelli propri della Chiesa, rivendicandone l’autonomia nella condanna dei peccati e nella redenzione dei peccatori, secondo il diritto canonico e la propria predicazione (si chiama carità cristiana).
Nonostante questo, oggi Benedetto XVI rischia di passare come il Papa che ha coperto la pedofilia dei sacerdoti.
La distinzione fra peccato e reato è parte integrante della nostra cultura e della nostra civiltà, alla quale non possiamo rinunciare.
Essa sanziona la differenza, e la distanza, fra lo Stato democratico-liberale, fondato sui diritti e le garanzie individuali, e lo Stato teocratico: un ordinamento oppressivo che, come hanno tragicamente provato i totalitarismi anche di un recente passato, non s’identifica solo nel connubio fra trono e altare, ma, anche e soprattutto, nell’illusione razionalista e nel tentativo volontaristico di cambiare, con mezzi coercitivi, la natura dell’uomo.
Di fronte allo spettacolo inquietante cui stiamo assistendo, stupisce, infine, la grande quantità di spettatori che rimangono silenti in un’apparente indifferenza.
Come se la stessa nostra democrazia liberale non fosse debitrice del messaggio cristiano che ha posto al centro la sacralità e l’inviolabilità della persona.

Finita l’era degli scandali nascosti

L’intervista Per Michael Novak, l’autore de «L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo» e di numerosi altri libri sulla religione e la politica, la lettera pastorale del Papa ai cattolici irlandesi dopo gli ultimi scandali che hanno scosso il Vaticano, «risponde alle istanze morali dei fedeli» in tutto il mondo.
«Benedetto XVI — sostiene — proclama che la Chiesa ha sbagliato, non solo che i colpevoli degli abusi sui minori ne rispondono a Dio e alla giustizia umana, e ammonisce che l’autorità ecclesiastica deve essere completamente onesta e aperta».
Troppo a lungo, sottolinea il filosofo cattolico conservatore, che negli Anni ottanta fu ambasciatore alla Commissione dei diritti umani all’Onu, gli scandali vennero nascosti o contenuti: «Rammento che nella mia adolescenza i preti pedofili erano giudicati malati che andavano curati, un errore a cui la Chiesa doveva porre subito riparo.
Il Pontefice ha dimostrato di avere capito la lezione».
Gli scandali sembrano danneggiare soprattutto i rapporti tra il Vaticano e il mondo anglosassone.
«Gli scandali sono gravi, e le vittime hanno diritto al risarcimento e alle scuse da parte della Chiesa, oltre che a una severa punizione dei colpevoli.
Ma l’ostilità di certi americani nei confronti del Vaticano è dovuta anche a certi avvocati e interessi finanziari che vedono negli scandali una fonte di guadagno.
La pedofilia non è un male solo cattolico, esiste in altre Chiese, in scuole pubbliche, nei boy scout: contro alcuni leader dei boy scout, anzi, inizierà a giorni un processo».
Qualcuno dice che il mondo anglosassone soffre di un antipapismo storico.
«E’ un tema che preferisco non toccare, solleverebbe un polverone inutile.
Il fatto fondamentale è che l’autorità morale della Chiesa cattolica, la più alta al mondo, è lesa da questi comportamenti inaccettabili.
Philips Jenkins, un teologo protestante, sostiene che la percentuale dei preti pedofili cattolici è inferiore a quella di altri ambienti.
Ma è una piaga che va eliminata ovunque».
Come è visto Benedetto XVI nel mondo anglosassone? «Distinguerei tra i cattolici e i media secolari.
In prevalenza i primi lo seguono.
I cattolici apprezzano molto i suoi richiami al ruolo cruciale della coscienza, alla tradizione americana di libertà religiosa, ai limiti della autorità dello stato.
E’ chiaro che ha studiato a fondo queste questioni.
I media secolari, invece, sono in genere critici, non perché sia un Papa tedesco, ma perché lo considerano dottrinario e controverso».
Inizialmente fu accusato di essere anti islamico.
«Per il suo riferimento a un passo del XIV secolo su una atrocità dell’Islam? Io penso che rievocando quell’episodio storico il Pontefice ottenne la reazione che sperava.
Portò a un chiarimento: nel mondo islamico furono e sono commesse atrocità ma non è affatto la tendenza prevalente.
L’accusa era infondata, il Papa vuole il dialogo tra le religioni, come il suo predecessore».
In America Giovanni Paolo II ebbe una popolarità senza precedenti.
«La ebbe in tutto il mondo grazie alla sua straordinaria personalità.
Giovanni Paolo II fu un Papa poetico, teatrale, carismatico, con una profonda fede e umanità, che attrasse le folle e i media.
Nessun leader religioso o politico resse al suo paragone».
E Benedetto XVI? «Forse è meno mediatico, solleva meno entusiasmi.
Ma lungo le strade dell’America io ho visto cartelloni con la sua immagine e la scritta: “Amo il mio pastore tedesco”, un significativo gioco di parole».
in “Corriere della Sera” del 21 marzo 2010

Pedofilia: Nessuna indulgenza

«Che cosa pensa dei casi di pedofilia tra sacerdoti e religiosi venuti alla luce solo in questi ultimi tempi?».
La domanda del giovane liceale era diretta e richiedeva la risposta leale che mi ero impegnato a dare a quelle diverse centinaia di ragazzi iniziando il mio dialogo con loro.
Non esitai a rispondere quello di cui sono convinto: che la pedofilia è un fenomeno mostruoso, di assoluta gravità morale, perché ferisce personalità indifese nella maniera più indegna e brutale.
Le si possono applicare senza esitazione le parole di Gesù: «Guai a colui a causa del quale avvengono scandali.
È meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli» (Luca 17,1-2).
Aggiunsi, però, quanto sia necessario stare attenti a non generalizzare: alcuni casi — in percentuale pochissimi, sebbene anche uno solo basterebbe a suscitare una rivolta morale — non devono far dimenticare l’immensa maggioranza che c’è fra il clero di persone fedeli alla loro vocazione, serie e generose con Dio e con gli altri.
Una maggioranza, questa, che ho potuto conoscere in ogni parte del mondo nel mio servizio di teologo e che ora da Vescovo di una Chiesa diocesana riconosco nella fede e nella carità dei preti e dei consacrati, miei collaboratori.
Proprio in nome di questa maggioranza silenziosa è giusto che il Papa e i Vescovi insieme con lui siano inflessibili nel condannare questi scandali, nel sostenere in ogni modo le vittime, nel correggere, punire e curare i colpevoli.
Il silenzio sarebbe connivenza.
L’indulgenza complicità.
Mai, però, bisogna perdere di vista la persona umana da salvare, tanto nella vittima, quanto nel carnefice.
La Chiesa crede nella parola del Signore: «La verità vi farà liberi» (Giovanni 8,32), e perciò non solo non ha paura della verità, ma ha fiducia nella sua forza liberante e sanante.
D’altra parte, il fatto che su tanti casi di pedofilia che stanno emergendo quelli che più colpiscono i media e l’opinione pubblica siano gli episodi che coinvolgono sacerdoti e consacrati, è un segno eloquente dell’esigenza con cui giustamente si guarda alla Chiesa, del suo dovere di stare in alto, cioè nella grazia e nella fedeltà dell’amore di Dio e del prossimo.
Solo a questo prezzo, la sua parola risuonerà libera e liberante e la fiducia che tanti — credenti e non credenti — ripongono negli uomini di Chiesa non sarà tradita.
E il celibato? Alcuni nel chiasso mediatico sviluppatosi intorno allo scandalo pedofilia hanno puntato il dito contro questa legge ecclesiastica, quasi che chiedere ai sacerdoti l’impegno di rimanere celibi per tutta la vita sia una fonte inevitabile di deviazioni.
Se così fosse, non si spiegherebbe quella stragrande maggioranza di cui ho parlato: nel suo senso più vero e profondo, il celibato non è una frustrazione imposta, ma una libera risposta d’amore a una vocazione che supera certamente le capacità umane e che tuttavia è possibile vivere con fedeltà se essa viene da Dio ed è continuamente confortata dal Suo aiuto e dalla Sua presenza.
Vissuto fedelmente, nella durata dei giorni e nel sempre nuovo sì della fede al Signore vicino, il celibato è un segno meraviglioso della verità di ciò in cui crede chi crede: che, cioè, Dio non è una proiezione dei nostri desideri, un frutto del nostro bisogno di rassicurazione e di consolazione, ma il Vivente, che ti sovrasta ed insieme ti accompagna, che è infinitamente sopra di te ed insieme è dentro il tuo cuore umile, aperto a Lui.
Chi ha esperienza di preghiera sa bene di che cosa sto parlando.
Proprio così, il celibato e la verginità consacrata, vissuti con serena convinzione come una risposta alla chiamata e al dono di Dio, sono come una freccia puntata verso il cielo: ci dicono che Dio c’è, che Lui solo basta al nostro cuore inquieto, che Lui è la speranza del mondo e la patria promessa del nostro comune cammino.
Così il Signore ha dato a me e a tanti la grazia di vivere la nostra consacrazione a Lui: e questo, lungi dal farci sentire meno umani, più fragili o vuoti di amore, ci fa sentire una grandissima gioia, lo slancio di donarci e di testimoniare con la vita l’amore che viene dall’alto e che ci fa liberi, la bellezza di Dio che supera ogni bellezza e dà senso alle opere e ai giorni.
Dico queste parole con umile fierezza: umilmente, perché tutto in questa esperienza è grazia immeritata; ma con fierezza, perché nessuno va ingannato, soprattutto i giovani, e ad essi la Chiesa può e deve continuare a dire a testa alta non solo che Cristo è la verità e il bene, ma anche che Lui è il pastore bello, e la bellezza del Suo amore crocifisso e risorto è la sola che salverà il mondo.
Con buona pace di quanti vorrebbero vedere nella triste e squallida infedeltà di qualche pedofilo, ahimè presente fra le file del clero, la smentita della buona novella, che è il Vangelo dell’amore più grande, speranza per tutti.
in “Corriere della Sera” del 23 marzo 2010

Sos alcol

Sos giovani e alcol: i ragazzi italiani consumano alcol per la prima volta ad un’età che è la più bassa in Europa, poco più di 12 anni, e al di sotto dei 13 anni consumano bevande alcoliche con una prevalenza tra le più alte dell’Ue.
Così, nel 2008 il 17,6% dei giovani di 11-15 anni ha consumato bevande alcoliche, in un’età al di sotto di quella legale per la somministrazione e per la quale il consumo consigliato è pari a zero.
L’INDAGINE – Il dato allarmante è contenuto nella Relazione al Parlamento sugli interventi realizzati da Ministero della Salute e Regioni in materia di alcol e problemi alcolcorrelati, anni 2007-2008.
Tra i giovani di 18-24 anni di entrambi i sessi, evidenza la Relazione, ha consumato bevande alcoliche il 70,7%, con una prevalenza superiore alla media nazionale.
Inoltre, afferma il ministero della Salute, «per quanto riguarda i giovani, la bassa età del primo contatto con le bevande alcoliche è l’aspetto di maggiore debolezza del nostro Paese nel confronto con l’Europa (in media 12,2 anni di età, contro i 14,6 della media europea)».
BINGE-DRINKING – Tra i comportamenti a rischio è sempre più diffuso il binge drinking (abbuffate d’alcol fino all’ubriacatura), soprattutto nella popolazione maschile di 18-24 anni (22,1%) e di 25-44 (16,9% ).
Altra tipologia di consumo a rischio prevalente tra i giovani è, inoltre, il consumo fuori pasto, che ha riguardato nel 2008 il 31,7% dei maschi e il 21,3% delle femmine di età compresa fra gli 11 e i 24 anni.
Nella stessa fascia di età, il 13,2% dei maschi e il 4,4% delle femmine ha praticato il binge drinking nel corso dell’anno.
PER IL 9,4% DEGLI ITALIANI CONSUMO SMODATO – Per quanto riguarda il consumo di alcol in generale nella popolazione, la relazione del Ministero dice che in Italia va meglio che in altri Paesi europei, ma il rischio resta alto: il consumo di bevande alcoliche tra gli italiani, pur registrando percentuali minori rispetto ad altre nazioni, rimane comunque sostenuto, tanto che il 9,4% della popolazione consuma quotidianamente alcol in quantità non moderate e il 15,9% non rispetta le indicazioni di consumo proposte dagli organi di tutela della salute.
Il quadro epidemiologico conferma la diffusione, in atto negli ultimi anni, di comportamenti a rischio lontani dalla tradizione nazionale, quali i consumi fuori pasto, le ubriacature e il binge drinking.
Nei confronti dell’Europa, rileva la Relazione, «l’Italia presenta una minore prevalenza di consumatori di bevande alcoliche e una minore diffusione del binge drinking; tuttavia, fra coloro che consumano alcol, ben il 26% lo fa quotidianamente (il doppio della media europea), il 14% lo fa da 4 a 5 volte a settimana (valore più alto in Europa) e il 34% pratica il binge drinking almeno una volta a settimana (contro il 28% della media europea)».
(Fonte Agenzia Ansa) 03 marzo 2010

Crocifisso in aula

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha accolto il ricorso presentato dall’Italia contro la sentenza che ha sostanzialmente bocciato, il 3 novembre scorso, la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche.
Immediata la soddisfazione del ministro degli Esteri Franco Frattini: “Apprendo con vivo compiacimento la notizia dell’accoglimento, da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, della domanda di rinvio davanti alla Grande Camera del caso Lautzi, sull’affissione del crocifisso nelle aule scolastiche.
E’ con soddisfazione che constato che sono stati accolti i numerosi e articolati motivi di appello che l’Italia aveva presentato alla Corte”.
Ora il caso sarà esaminato dalla Grande Camera europea.
Strasburgo, no al crocifisso in aula Il governo italiano presenta ricorso Dura reazione della Santa Sede: decisione “miope e sbagliata” La presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche è “una violazione della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni”.
E’ quanto ha stabilito oggi la Corte europea dei diritti dell’uomo su istanza presentata da una cittadina italiana.
Ma il governo italiano ha presentato ricorso e, in caso di accoglimento, il caso verrà ridiscusso nella Grande Camera.
Altrimenti la sentenza diventerà definitiva fra tre mesi.
Durissime le prime reazioni, soprattutto nel centrodestra tra i cattolici.
La Cei e il Vaticano attaccano.
Prudente Bersani.
Risarcimento per la donna che ha denunciato.
Il caso era stato sollevato da Soile Lautsi, cittadina italiana originaria della Finlandia e socia dell’Uaar (Unione atei e agnostici razionalisti).
L’Unione precisa di aver “promosso, sostenuto, curato tecnicamente l’iter giuridico, che era già passato da Tar del Veneto, Corte Costituzionale e Consiglio di Stato”.
Soile Lautsi, infatti, nel 2002 aveva chiesto all’istituto statale “Vittorino da Feltre” di Abano Terme, in provincia di Padova, frequentato dai suoi due figli, di togliere i crocifissi dalle aule.
A nulla erano valsi i suoi ricorsi davanti ai tribunali in Italia.
Ora i giudici di Strasburgo le hanno dato ragione, stabilendo inoltre che il governo italiano debba pagare alla donna un risarcimento di cinquemila euro per danni morali.
La sentenza è la prima in assoluto in materia di esposizione dei simboli religiosi nelle aule scolastiche.
La decisione della Corte europea.
I sette componenti della Corte europea hanno sentenziato che la presenza dei crocifissi nelle aule può facilmente essere interpretata dai ragazzi di ogni età come un evidente “segno religioso” e, dunque, potrebbe condizionarli.
E se questo condizionamento può essere di “incoraggiamento” per i bambini già cattolici, può invece “disturbare” quelli di altre religioni o gli atei.
Le reazioni della maggioranza.
In attesa che vengano depositate le motivazioni della sentenza, il governo italiano ha già presentato ricorso.
Per il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, “la presenza del crocifisso in classe non significa adesione al cattolicesimo, ma è un simbolo della nostra tradizione”.
Sulla stessa linea il ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli e quello della Giustizia Angelino Alfano.
E’ critico il presidente della Camera Gianfranco Fini: “Mi auguro che la sentenza non venga salutata come giusta affermazione della laicità delle istituzioni, che è valore ben diverso dalla negazione, propria del laicismo più deteriore, del ruolo del Cristianesimo nella società e nella identità italiana”.
L’opposizione.
E’ cauto il neosegretario del Pd Pier Luigi Bersani: “Un’antica tradizione come il crocifisso non può essere offensiva per nessuno.
Penso che su questioni delicate come questa, qualche volta il buonsenso finisce di essere vittima del diritto”.
E l’esponente Udc Rocco Buttiglione parla di “decisione aberrante”.
Il mondo cattolico.
Netta anche la reazione della Cei, che in una nota parla di “sopravvento di una visione parziale e ideologica”.
Per l’Osservatore Romano “tra tutti i simboli quotidianamente percepiti dai giovani la sentenza colpisce quello che più rappresenta una grande tradizione, non solo religiosa, del continente europeo”.
E in serata, a nome della Santa Sede, parla padre Federico Lombardi, secondo cui la decisione rivela un’ottica “miope e sbagliata”, “accolta in Vaticano con stupore e rammarico.
Stupisce che una Corte europea intervenga pesantemente in una materia molto profondamente legata all’identità storica, culturale, spirituale del popolo italiano”.
I precedenti in Italia e Spagna.
L’ultimo round dell’annosa polemica sui crocifissi a scuola si era chiuso a febbraio, quando una sentenza della Cassazione aveva annullato una condanna per interruzione di pubblico ufficio nei confronti del giudice Luigi Tosti, “colpevole” di aver rifiutato di celebrare udienze in un’aula dove era affisso un crocifisso.
Fino al precedente che fece clamore del presidente dell’Unione musulmani d’Italia Adel Smith, protagonista di un episodio analogo e che ora commenta: “Sentenza inevitabile”.
La questione non coinvolge solo il nostro Paese.
Duri scontri tra Stato e vescovi sono avvenuti anche in Spagna nel novembre dello scorso anno, in seguito a una decisione di un giudice di Valladolid di far rimuovere tutti i simboli cattolici da una scuola.
(3 novembre 2009)

Aborto in Europa

IL RAPPORTO: Spiega il saldo demografico negativo Nell’Unione Europea ogni anno si praticano oltre 1 milione e 200mila aborti, un numero equivalente al saldo negativo tra nascite e morti.
Vale a dire che il calo demografico in atto sarebbe azzerato se si lasciassero nascere tutti i bambini concepiti.
È questo forse il dato, contenuto nel Rapporto su «L’aborto in Europa e Spagna», che più dovrebbe far riflettere i governanti dell’Unione.
In effetti le statistiche dimostrano che l’aborto è una delle cause principali dei bassi tassi di natalità in Europa, dove nel 2008 si è registrata una contrazione di nascite del 12,5% rispetto al 1982.
E di conseguenza dell’invecchiamento della popolazione, visto che oggi si contano 6.5 milioni di ultrasessantacinquenni in più rispetto ai minori di 14 anni (85 milioni contro 78.5).
Non solo, l’aborto è la principale causa di mortalità in Europa, 30 volte più degli incidenti stradali (39mila morti nel 2008).
Un’Europa a tre velocità.
Il rapporto mette a confronto le tre diverse grandezze dell’Europa.
Considerando anche i Paesi europei al di fuori della Ue, il conto totale degli aborti, riferito al 2008, è di 2.863.649, in pratica un aborto ogni 11 secondi, quasi 7.500 aborti al giorno.
In pratica ogni anno la diffusione dell’aborto provoca l’eliminazione di un numero di persone equivalente alla somma della popolazione di 4 Paesi: Estonia (1.3 milioni di abitanti), Cipro (0.8 milioni), Lussemburgo (0.5 milioni) e Malta (0.4 milioni).
Gli aborti praticati nei 27 Paesi della Ue rappresentano il 42% (1.207.646) del totale, tenendo però conto che la popolazione residente nell’Unione è circa il 68% dell’intera popolazione europea.
All’interno dell’Europa comunitaria però ci sono notevoli differenze tra il gruppo Ue-15 (il nucleo storico dell’Unione Europea, che rappresenta l’83% della popolazione) e il resto dei Paesi.
Infatti mentre nei 12 Paesi dell’allargamento il decennio tra il 1998 e il 2008 ha visto un calo drastico nel numero degli aborti (-49%, da 550.587 a 281.060), nella Ue-15 si è registrato il fenomeno contrario: un aumento di circa 70mila aborti l’anno, da 855.645 a 926.586 (+8,3%).
I record di Romania e Spagna.
In entrambi i casi risultano decisivi due Paesi: tra i 15, è la Spagna che da sola rappresenta l’87% dell’aumento registrato negli ultimi dieci anni (vedi articolo a parte), mentre nei 12 di recente adesione il caso limite è quello della Romania, dove nel 1994 si praticavano 530.191 aborti, scesi nel 2008 a 127.907.
Da sola quindi la Romania ha registrato un calo assoluto maggiore di quello di tutti i 12 Paesi messi insieme.
Mentre considerando gli ultimi 15 anni la Romania è il Paese che ha registrato il più alto numero di aborti (4.065.904, contro i 3.082.816 della Francia, i 2.988.009 del Regno Unito e 1.998.225 dell’Italia), malgrado il nettissimo calo degli ultimi anni, essa rimane il terzo Paese europeo per numero di aborti, preceduta da Regno Unito (215.975) e Francia (209.913).
L’Italia è invece quarta con 121.406.
Rispetto agli altri tre Paesi (compresi tra i 60 e i 64 milioni di abitanti), la Romania però ha una popolazione complessiva nettamente inferiore (21.5 milioni).
Una gravidanza su 5 finisce in aborto.
Nel 2008 il 18.3% delle gravidanze nella Ue-27 è stato interrotto volontariamente.
Su 6.591.836 gravidanze, infatti, solo 5.384.190 sono state completate con la nascita di un bambino.
Il problema delle adolescenti.
Un aborto su 7 (il 14.2%) nella Ue-27 è stato praticato su ragazze minori di 20 anni, per un totale di 170.932.
Numero che sale a 338.217 se si considerano anche i Paesi europei extra-comunitari.
Rimanendo nell’ambito dei 27 è chiaro che il problema è più grave per il Regno Unito, dove nel 2008 hanno abortito 46.897 adolescenti, contro le 31.779 della Francia, le 14.939 della Spagna, le 14.316 della Romania e le 13.775 della Germania.
L’obiezione di coscienza non sempre rispettata.
Soltanto in due Paesi dell’Unione (Irlanda e Malta) l’aborto è illegale, mentre in 14 è ammesso in certe circostanze e in 11 è invece libero.
Nell’ambito della Ue-15, l’obiezione di coscienza è esplicitamente riconosciuta in undici Paesi: non è prevista invece in Grecia, Svezia e Finlandia.
Generalmente è previsto anche un periodo di riflessione intorno a una settimana.
Tale periodo è obbligatorio in Belgio, Francia, Lussemburgo, Italia, Olanda, Germania, Grecia e Portogallo.
Alcune proposte.
Le politiche di prevenzione dell’aborto finora applicate in Europa hanno mostrato chiaramente di non funzionare, per questo l’Istituto di Politica Familiare (Ipf) chiede un cambiamento radicale nell’approccio al problema, che ruota attorno a un obiettivo di fondo: «La promozione di politiche che garantiscano i diritti dei bambini non nati e il diritto delle donne alla maternità, eliminando gli ostacoli che impediscono la maternità e affermando esplicitamente che l’aborto è un atto di aggressione contro le donne».
Tra le proposte concrete avanzate dall’Ipf troviamo quella di un «Aiuto diretto universale» di 1.125 euro per ogni donna incinta (125 euro per nove mesi), una linea diretta di finanziamento per le associazioni che aiutano le donne durante la gravidanza, la riduzione del 50% dell’Iva sui prodotti basilari per l’infanzia.
Ma questo radicale cambiamento di approccio avrebbe tra gli obiettivi anche quello di rispondere alla drammatica crisi demografica dell’Europa.
E l’Ipf chiede perciò la preparazione di un Libro Verde sui tassi di natalità in Europa, per analizzare la situazione, le sue cause e le soluzioni da individuare.
Riccardo Cascioli  Gli appelli generici non bastano più La presentazione del Rapporto sull’aborto in Europa, elaborato dall’Istituto per le politiche familiari e presentato ieri a Bruxelles, piuttosto che assomigliare a un rigoroso resoconto statistico sulla popolazione continentale sembra un bollettino di guerra, l’impietosa fotografia di un massacro silenzioso.
Alcuni dati per capire: in Europa nel 2008 si è consumata la morte di 2,9 milioni di bambini non nati, uno ogni 11 secondi, 327 ogni ora, 7.468 al giorno.
Negli ultimi 15 anni solo nell’Europa comunitaria la cifra è di 20 milioni di bambini che non hanno visto la luce, e l’Italia, insieme alla Gran Bretagna, la Francia e la Romania fa parte del gruppo di testa di questa impressionante carneficina.
L’aborto ha così ormai perso l’immagine di una pratica eccezionale e dolorosa, compiuta per motivi gravi di salute della madre o del piccolo, per diventare in pochi decenni un metodo di controllo delle nascite, entrando nel costume sociale e nel sentire comune come una pratica “normale” che ha progressivamente condotto la coscienza collettiva a non considerarlo un “reato” contro la vita, quanto piuttosto come un “diritto” da parte della donna di autogestire la propria sessualità.
La successiva mistificante evoluzione linguistica, avviata nella Conferenza del Cairo su Popolazione e sviluppo, nel settembre 1994, che ha declinato l’aborto con il concetto di “diritto alla salute riproduttiva”, ha spalancato le porte alle legislazioni nazionali e internazionali, convinte ormai con l’ultima arrivata – la Spagna – che in pieno clima interculturale si debba favorire  la convivenza di un sano pluralismo etico.
Non si avverte però l’abissale differenza che separa la semplice accettazione di idee e di comportamenti diversi con l’ammissione devastante che compromette il diritto di esistere di altre persone.
Non si tratta infatti di manifestare opinioni culturali, prive di incidenze sociali, o di scelte etiche che coinvolgono la singolarità della coscienza personale, ma di opzioni che coinvolgono altri, come bambini non fatti nascere e che invece circostanze favorevoli avevano condotto alle soglie dell’esistenza.
Certo è che gli appelli generici non bastano più.
Va al contrario avviata una rivoluzione culturale che trovi un necessario supporto con decise politiche di garanzia e di sostegno per il figlio e la madre.
Lo ha capito bene l’Istituto estensore del Rapporto che alla fine della sua analisi sul desolante sviluppo zero della demografia europea indica alcune interessanti proposte, come quella di promuovere il diritto alla vita tramite la richiesta alla politica di condizioni sociali favorevoli, volte a supportare gli aiuti alla gravidanza intesa come bene sociale.
Interessante anche l’idea di monitorare la curva demografica all’interno dei singoli Paesi della Ue al fine di sostenere politiche comunitarie che risveglino la cultura dell’accoglienza e favoriscano la percezione sociale che la vita, prima ancora della libertà, è un diritto inalienabile che non può essere soffocato.
Oltre che potenziare centri di aiuto e di ascolto, si reclamano anche politiche finanziarie che, ad esempio riducano le spese dei prodotti per la prima infanzia, e che sostengano – tramite bonus – la preparazione nei nove mesi dell’attesa di quei supporti necessari per l’arrivo del bambino.
Piccoli segni, si dirà, ma indispensabili perché alla cultura dell’individualismo autocentrato e chiuso al futuro possa sostituirsi uno sguardo più aperto al domani, che vogliamo sia ospitale e promettente per quanti – si spera tanti – verranno dopo di noi.
Paola Ricci Sindoni  Con 2.863.649 aborti praticati e censiti ogni anno in Europa, di cui 1.207.646 nella sola Ue, nel Vecchio Continente l’aborto sta diventando la principale causa di morte.
Più del cancro, più dell’infarto, e in 12 giorni viene soppresso un numero di embrioni pari a quello dei morti in incidenti stradali lungo l’intero anno.
A sottolineare il peso che il fenomeno ha sulle società europee potrebbero bastare le nude cifre, che sono in aumento in numerosi Paesi, la Spagna in prima fila.
Ma dalle cifre dello studio «L’aborto in Europa e in Spagna» presentato ieri a Bruxelles dallo spagnolo Istituto di politica familiare (Ipf) si ricavano indicazioni che impressionano su vari piani: sulle tendenze in atto, sul loro impatto anche demografico per cui il numero degli aborti coincide con il deficit demografico dell’Ue, su quel che esse segnalano in termini di evoluzione complessiva nelle nostre società nei confronti di valori fondamentali.
E sulla cadenza incalzante degli aborti praticati nel nostro continente: uno ogni 11 secondi, 327 ogni ora, 7486 al giorno.
Il tema del rispetto dei valori nella società europea è stato al centro della conferenza stampa in cui, nella sede dell’Europarlamento, è stato illustrato lo studio dell’istituto spagnolo.
Aprendo la riunione Jaime Mayor Oreja, capo della delegazione spagnola nel gruppo parlamentare del Ppe, ha osservato che «la manifestazione più crudele della crisi dei valori è il diritto all’aborto».
Con questa espressione non aveva bisogno di chiarire quanto allarme abbia destato tra i Popolari il voto con cui il 10 febbraio scorso l’Europarlamento ha approvato su proposta di un socialista belga una risoluzione sulla parità di diritti tra uomini e donne in cui si legge che alle donne dovrebbe essere garantito «il controllo dei loro diritti sessuali e riproduttivi, attraverso un accesso agevole alla contraccezione e all’aborto», e che esse «devono godere di un accesso gratuito alla consultazione in tema di aborto», nel quadro di un generale impegno dei governi a «migliorare l’accesso delle donne ai servizi della salute sessuale e riproduttiva e a meglio informarle sui loro diritti e sui servizi disponibili».
Il vicepresidente del Parlamento europeo Mario Mauro ha approfondito il tema dei valori citando Benedetto XVI sui pericoli del fondamentalismo e del relativismo: e annoverando tra le sue conseguenze la diminuzione del numero dei matrimoni e delle nascite.
«Le cifre del relativismo – ha detto – sono le cifre della decadenza del nostro continente, del fallimento dei governi europei» che tra l’altro continuano a dedicare alla politica della famiglia solo una piccola parte delle spese sociali che nell’Ue assorbono un 28% del prodotto interno lordo.
«Il legame tra aiuti prestati alle famiglie e numero delle nascite è chiarissimo», ha insistito Mauro condannando le tendenze che puntano a «un nuovo concetto di famiglia, che non è famiglia», e a fare dello Stato di diritto una sorta di «supermercato dei diritti».
Il presidente dell’Ipf, Eduardo Hertfelder si è poi soffermato sulle preoccupazioni che si acuiscono per la tendenza sugli aborti nel suo Paese, la Spagna.
Franco Serra